OLTRE LA PROFEZIA. Studioso di religioni, miti e mistica, Elémire Zolla
  è nato a Torino nel 1926. Narratore (con «Minuetto all’inferno», Einaudi,
  vinse lo Strega nel ’56) e saggista, ha pubblicato «Eclissi
  dell’intellettuale» (Bompiani), «Uscite dal mondo» e «Lo stupore
  infantile» (entrambi Adelphi) e «La nube del telaio» (Mondadori). «Non ho
  alcuna simpatia per l’idea apocalittica» dice Zolla «e non mi piace
  nemmeno il testo dell’Apocalisse neotestamentaria. Anzi, come Eusebio di
  Cesarea, vorrei escluderla dai testi canonici».
  
  
  «L’Apocalisse? È solo una fantasia morbosa»: così un intellettuale
  mistico, ma scettico, liquida le angosce per il futuro  E getta un
  anatema. Prendendolo dal Talmud.
  Intervista con ELÉMIRE ZOLLA
  
  di ELISABETTA RASY
  
    
  
  
  Mi è capitato spesso di
  essere invitato a parlare dell’apocalisse da gente che credeva che mi sarei
  messo a raccogliere indizi nel presente per profetizzare disastri futuri. Cosa
  che, invece, non rientra affatto nelle mie abitudini». Eppure da quando
  esiste, inventata da Umberto Eco nel 1964, la distinzione tra «apocalittici»
  e «integrati», per molti Elémire Zolla, studioso di religioni, miti e
  mistica, è la perfetta incarnazione del pensatore apocalittico del nostro
  tempo. Come mai? «Un equivoco, dovuto in generale all’uso improprio della
  parola, e per quanto mi riguarda, credo, semplicemente al fatto che ritengo il
  principio del progresso un principio insensato. Invece, non ho alcuna simpatia
  per l’idea apocalittica e non mi piace neanche il testo dell’Apocalisse
  neotestamentaria. Anzi, sono d’accordo con Eusebio di Cesarea che nel IV
  secolo voleva escluderla dai testi canonici».
  
  Domanda. Perché?
  Risposta. L’Apocalisse attribuita a San Giovanni non è che uno dei
  tanti libelli, veri e propri pamphlet politici, nati nel mondo ebraico contro
  l’impero romano, naturalmente nello stile fantasioso e profetico di allora.
  Che poi diventò una spina nel fianco per la Chiesa, quando, dopo Costantino,
  i cristiani aderirono alla burocrazia romana trovandosi addosso un’invettiva
  contro l’impero.
  
  Da allora, però, l’apocalisse è diventata un’idea ricorrente, fino al
  nostro mondo moderno, da «Apocalipse now» di Francis Ford Coppola al filone
  dei film catastrofici, a espressioni come «apocalisse nucleare» o «apocalisse
  ambientale».
  Ma certo, l’idea dell’apocalisse non tramonterà mai. È una delle
  malattie dell’umanità, una fantasia centrale della mente umana, ma una
  fantasia morbosa. È un sintomo della schizofrenia latente in buona parte
  dell’umanità indugiare su immagini di disastri, augurandosi in un certo
  senso che si realizzino, e spacciando certi eventi per prove sicure della
  catastrofe incombente: inondazione finale, incendio universale, pene fisiche
  tremende destinate a espandersi e a portare all’estinzione dell’umanità.
  A PROPOSITO DI DISTRUZIONE.. Una scena di The day after. Girato nel
  1983, il film di Nicholas Meyer seppe interpretare il grande incubo collettivo
  del disastro atomico. «Di fronte a invenzioni come la bomba atomica» dice
  Zolla «nessuno può ancora credere all’equazione innovazione uguale
  progresso. Ma opporsi a queste invenzioni non è apocalittico».
  
  
  
  
  Ci sono però davvero nel nostro mondo scenari apocalittici:
  dall’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl all’immagine, vera o
  falsa che fosse, del cormorano completamente inzuppato di petrolio durante la
  guerra del Golfo. Senza parlare del passato: Auschwitz, Hiroshima...
  Quella di Chernobyl, tanto più ora che sappiamo come in una vasta area
  intorno al reattore i tumori e le malformazioni si siano tremendamente
  diffusi, è una perfetta immagine apocalittica. Ma il punto non è questo.
  
  E qual è?
  È che l’apocalisse è una fantasia morbosa perché pretende di prevedere il
  futuro, che è invece imprevedibile, perché il mondo è caotico. D’altra
  parte è una fantasia così insistente nella mente umana che tutte le
  religioni hanno dovuto assumersela. Persino l’induismo prevede un certo
  decorso dei cicli, per cui l’ultimo, il Kali-yuga, sarà un’epoca di
  disastri.
  
  Oggi, però, ad annunciare esiti apocalittici in questa fine di millennio,
  non sono i religiosi, ma i laici, gli ecologisti o certi scienziati profeti di
  epidemie terribili, dal virus Ebola a quello della mucca pazza.
  Sì, perché sono i laici che hanno ereditato la conduzione della società,
  quindi anche il peso dell’apocalisse.
  
  E agitare immagini apocalittiche ha ancora una finalità politica, come ai
  tempi degli ebrei contro i romani? In altri termini, l’immaginario
  apocalittico è socialmente provocatorio?
  Sicuramente lo è stato, non solo ai tempi dei vari libelli apocalittici
  ebraici. Nel mondo cristiano i predicatori si appellavano a immagini
  dell’apocalisse per attizzare la folla. Come fantasia personale
  l’apocalisse può servire paradossalmente a sedare l’angoscia del futuro.
  Se è condivisa, però, può scatenare una rivolta. E così è stato dopo la
  Riforma di Lutero: ci fu una grande predicazione apocalittica nel mondo
  protestante, che poi esplose nella rivolta dei contadini e nei disordini in
  Olanda e in tutta la Germania settentrionale. Oggi, però, è più frequente
  che l’immaginazione apocalittica porti a comportamenti criminali piuttosto
  che a sommosse politiche.
  
  A che cosa si riferisce?
  Prendiamo il caso di Asa Hara, il capo della setta che ha diffuso il gas
  nervino nella metropolitana di Tokyo. La sua storia comincia dal momento in
  cui fu bocciato all’esame di ammissione all’università di Tokyo, il che
  significa per un giapponese dover abbandonare grandi speranze per il futuro.
  Di fronte a questa sconfitta cominciò a studiare scienze strane, finché
  approdò al buddismo tibetano, imparò lo yoga per quanto è possibile
  impararlo, e praticando la meditazione ebbe delle visioni apocalittiche sul
  futuro, un tipo di visioni che a mio parere sono una forma di depravazione.
  Previde la fine del mondo per il 2004 e cominciò a organizzarsi e a
  organizzare i suoi seguaci, molti dei quali ex sovietici esperti in esplosivi
  e gas letali, per affrontare il disastro. Quando si sentì spiato da sette
  rivali e dalla polizia giapponese, diede l’ordine di lanciare il gas
  nervino. E non è un caso isolato.
  
  A che cos’altro pensa?
  Agli eserciti di volontari che si costituiscono in molte regioni degli Stati
  Uniti per mantenere un ipotetico stato originario dell’Unione contro le
  intromissioni dell’Onu, e non esitano neanche di fronte al delitto.
  
  Quindi, secondo lei, gli apocalittici del nostro tempo sono dei criminali
  in pectore?
  Non è escluso che lo diventino.
  
  In realtà, però, nell’attuale linguaggio comune il termine apocalittico
  sta a indicare uno che ha in odio la modernità, o in altri termini un
  aggressivo reazionario. Che cosa ne pensa?
  Penso che ci sia un diffuso uso improprio, labile e pericoloso, delle parole
  che può avere successo ed essere efficace anche se provoca disastri. Per
  esempio, in epoca maccartista il termine comunista in America smise di
  significare uno che s’ispira al marxismo per cambiare la società e cominciò
  invece a designare uno che comprava certi giornali o telefonava a certe
  persone. Così è successo al termine apocalittico, che era usato come un
  epiteto spregiativo per chi non condivideva il pensiero progressista, un modo
  per eliminare quel pensiero.
  
  Cioè una forma di delegittimazione dell’avversario?
  Certo. E in quel caso anche un grande equivoco culturale.
  
  Perché?
  La prima grande critica al progresso è quella di Lao-Tse, contrario a
  qualsiasi innovazione tecnica nel campo dell’agricoltura, perché non voleva
  che il popolo fosse turbato e strappato alla sua pace. Dunque niente di più
  lontano dall’apocalisse. L’idea che il progresso non porti solo bene, ma
  anche male, non ha niente di apocalittico. E man mano che i progressi tecnici
  si sono fatti più veloci gli interrogativi si sono fatti più intensi. Per
  esempio, quando cominciarono a svilupparsi, le ferrovie trovarono molti
  oppositori, che non capivano che vantaggio ci fosse ad accelerare i trasporti.
  O meglio, vedevano il vantaggio economico, ma non quello morale. Non erano
  apocalittici, semplicemente si rifiutavano di lasciarsi accecare dal successo
  economico di un’invenzione. Stessa logica nel mondo comunista, che
  considerava apocalittici i verdi, in quanto agenti dell’imperialismo che
  volevano ostacolare i loro piani economici. Naturalmente oggi non è più così.
  
  In che senso?
  Di fronte a certe invenzioni, come la bomba atomica o le armi chimiche,
  nessuno può ancora credere che l’equazione innovazione uguale progresso
  funzioni. Nell’opporsi a questo tipo di invenzioni non c’è alcuna
  tensione apocalittica.
  
  Ma il cerchio apocalittico si chiude, o si riapre, perché sono proprio
  queste invenzioni e i loro esiti a scatenare di nuovo l’immagine
  dell’apocalisse. Tanto più che la televisione ce le porta in casa a pranzo
  e a cena, in una sorta di serial apocalittico continuo, per cui sembra che il
  nostro secolo sia davvero il secolo dell’orrore.
  Questo non lo credo proprio; si pensi, per fare un esempio, agli effetti di
  terribile distruzione e devastazione dell’invasione dei mongoli. La
  televisione comunque non ci porta mai in casa il cuore dell’orrore, perché
  il vero obbrobrio è segreto. Anche se fosse esistita e se fosse stata diffusa
  come oggi, la televisione non sarebbe mai penetrata nel lager e nel gulag.
  
  Molti parlano di un’apocalisse culturale del nostro tempo collegandola
  alla società di massa: per esempio, ne vedono un segno nella fine
  profetizzata della civiltà del libro, nel predominio di quella delle immagini
  e dello spettacolo a tutti i costi e in tutti i campi, anche in quello del
  dolore. Neanche su questo è d’accordo?
  Penso che sia la solita angoscia morbosa del futuro. Come si fa a dire che la
  televisione durerà per sempre? Tra trenta o cinquant’anni forse sarà
  sostituita dalle offerte della realtà virtuale, e sarà messa da parte com’è
  successo alla radio quando la tv si è affermata. Nessun bene, comunque, è
  mai venuto dalle fantasie sulla fine. Bisogna imparare a fare a meno delle
  previsioni. Il Talmud, vale a dire uno dei libri sacri del popolo ebraico, tra
  cui l’idea dell’apocalisse è nata, è molto chiarificatore al riguardo.
  Dice: «Scoppino le ossa a coloro che calcolano la fine del mondo».
  
  
  20.12.1996
  
   
  
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