La qualità delle cose (Elémire Zolla, da Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia)

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La qualità delle cose (Elémire Zolla, da Le meraviglie della natura. Introduzione all'alchimia)


 

Aristotele fu, senza ostentarlo, un maestro ottimo dell'arte di percepire in ogni cosa una gradazione o maschera della luce. Sulla sua scorta s'apprende a cogliere fiutando, palpando, gustando, scrutando le cose, ogni loro qualità: molle o duro, sottile o spesso, vischioso o friabile, umido o secco. Questi differenti modi che hanno gli oggetti di confidare la loro natura, Aristotele insegnava a ricondurli a due: umido e secco, poiché il molle e vischioso, il sottile e il penetrante dipendono dall'umidità, mentre viceversa durezza, friabilità e spessore provengono dalla secchezza. Aristotele definisce umido ciò che, non avendo un limite proprio, si dilata; secco ciò che viceversa ha un suo limite. Dove più alta è la tensione a dilatarsi, vedremo, toccheremo acqua; dove maggiore la tensione opposta, a restringersi, toccheremo viceversa terra (la secca, l'assetata: "terra" proviene dalla stessa radice di "torrefazione" e di parole che significano sete: Durst, thirst). Di terra e d'acqua in varia proporzione è composta ogni materia; anzi, dalle loro più o meno condensate esalazioni, di fumo dunque o di vapore. Fumo e vapore – più o meno densi – è la gran compagine, il gran teatro del mondo ovvero il caos (su "caos" si formò "gas") . Ma quando s'è ripetuto coi poeti che tutto è "aereo tessuto", non si è enunciata l'intera verità, poiché questo caos assume volti, forme che non sono mera evanescenza. Quando si sia esclamato che fumo e vapore è il tutto, si sono individuate soltanto le qualità passive, materiali dell'essere, non già l'energia immateriale che plasma, la mano che coagula o scioglie. Aristotele insegna che questa energia si sente come calore e il calore è una conseguenza della luce. Tutto ha forma e consistenza mercé il calore o il gelo, che è soltanto diminuzione di calore, fino al limite dell'assenza. Il calore coagula il fumo facendone evaporare gli umori; l'assenza di calore coagula viceversa i vapori, perché il calore interno, da cui erano debolmente, fluidamente stretti, il gelo lo risucchia e strappa via, sicché essi si stringono su se stessi, premuti dall'aria fredda che li fascia. Certi corpi, essendo fervidi e intrisi di scarsissima acqua, il calore non li può coagulare oltre, come il miele e il mosto; altri il calore ingrossa soltanto perché sono saturi più d'aria che d'acqua, come l'argento vivo, l'olio, la pece, lo sterco d'uccelli. Le terre, ovvero le cose fredde e aride, mercé il calore sono rese malleabili, come si vede nei legni e nei metalli. Sicché la materia delle cose tangibili è acqua e terra, cioè gelo, ma la loro forma o essenza energetica e plastica è il calore. Ma che cos'è l'essenza di calore, l'essenza dell'essenza? Un'altra stupenda definizione porge Aristotele: calore è l'energia che congiunge ciò che è congenere, gelo è ciò che unisce l'eterogeneo. Quello pone un limite, questo lo annulla, perciò il calore è la forma ovvero il profilo delle cose, mentre il gelo è assenza: bisogno: fame di forma.

Le formule aristoteliche illuminano, chiara lanterna, le arcaiche cosmogonie; ecco, investite di nitida luce ellenica le metafore d'ogni genesi:

All'inizio fu la Fame, il Tempo che divora ogni forma... fu il Gelo, il Nulla... furono le Acque tenebrose... ("la creatura in quanto viene dal nulla è tenebra", scrisse san Tommaso nelle Qaestiones disputatae de veritate).

Questa iniziale tenebra o materia o come altrimenti si voglia mai dire, è ciò di cui ogni cosa è fatta. In India si dice che tutto è fatto di maya, inganno e arte del Creatore. La forma o idea delle cose è viceversa ciò che esse sono a parte ciò di cui son fatte, è il lume che ce le fa riconoscere già soltanto a scorgerne il profilo; è il fuoco clic le ha modellate e le sta modellando nella forma che hanno e che le fa riconoscere, appunto, in un baleno. Si potrebbe perfino immaginare che "forma" abbia la stessa radice di formus, "caldo". Gli antichi sentivano infatti che era il mobile, lingueggiante fuoco a formare e cesellare i colpi: artifex ad fornanda corpora e effigiesque coelandas mobilitas ignea. E quando la mano dell'uomo, sostituendosi a quella che invisibilmente dà forma al cosmo, foggi nuovi corpi, lo fa in fornaci dove plasma pani, mattoni, ceramiche, leghe metalliche grazie al calore del fuoco.

Dire calore è come dire la forma formante, ovvero l'energia che restringe le cose all'omogeneità, al loro limite proprio, e che si numera in frazioni: la serie 1/1, 1/2, 1/3, ... 1/ - 0. La serie tende allo zero, un simbolo complesso, che in certo modo è il nulla, in certo modo è anche il segno dello scatto da un ordine di quantità a un altro (alle decine, alle centinaia e via contando), perciò la tensione allo zero è una tensione al salto qualitativo o, come disse Dante nel Convivio, è il moto di alterazione.

Viceversa dire gelo, tenebra, acque, è come dire materia materiante, e questa opposta tensione si numera con la serie degl'interi: 1/1, 2/1, 3/1‑ /1, essendo la materia, al limite, semplicemente l'indefinito: .

Le due serie divergenti e opposte hanno un punto di partenza e di genesi comune: 1/1, l'unità dove entrambe sono contenute, in germe. L'unità manifesta la potenza del tutto, dallo zero all'indefinito, dei quali è l'incrocio. Inesauribile oggetto di meditazione fu l'unità. Gli Egizi la designarono con il geroglifico, e i pitagorici la chiamarono frontiera tra gl'interi e le frazioni, medietà degli opposti; nell'antichità tutta una serie di immagini si evocavano per suscitarne l'idea, l'esperienza nell'uomo, chiamandola compimento e quiete profonda, punto inesteso della creatività, focolare del tutto, bilancia, patibolo, croce, altari cosmici, TAU o prima e ultima connessione armonica, trono di Dio, stella del Tutto, o del Pleroma. Nel Convivio Dante la paragona al Sole che non è dato di fissare con lo sguardo, perché del pari con l'occhio dell'intelletto non è concesso di intendere l'infinità del numerabile, tutta in potenza racchiusa nell'unità ("raia/dall'un, se si conosce, il cinque e il sei", dirà Cacciaguida). L'unità esprime anche la fondamentale dualità; se ne dipartono infatti le due serie antagonistiche e complementari del crescere e del diminuire, le quali altresì in essa si incrociano, e la definiscono: incontrandosi in essa. Si vuole percepire questa unità? Basterà contemplare una corda vibrante: l'occhio vedrà che dalla lunghezza della parte in vibrazione dipende l'altezza del suono che l'orecchio ode: la lunghezza, cioè lo spazio è in ragione opposta all'altezza sonora o qualità che scandisce il tempo. Il fenomeno sonoro nella sua unità - visiva e acustica insieme - è la connessione fra due numeri situati rispettivamente sull'una o sull'altra serie (- 0 e - ). Questa scoperta inebriava i pitagorici. Sarà possibile, convitare a questa estasi ancor oggi? Far intendere che ogni rapporto di equilibrio, di armonia qui si svela agli occhi e alle orecchie e all'intelletto insieme, contemporaneamente? Che a questo modo l'uomo diventa divino, cioè partecipa con tutto se stesso al mistero dell'Unità? Per accrescere questa estatica consapevolezza di essere alle radici ovvero alla sommità di tutto, gli antichi evocavano una vasta serie di similitudini, di metafore intorno a questo incrocio delle serie opposte e reciproche, che combinandosi e scombinandosi foggiano o disciolgono le cose. L'una, dicevano, è l'autosufficienza, la calda luce, mentre l'altra è la dipendenza, la gelida tenebra. Sono i due fili del reale, il bianco e il nero, il diurno e il notturno, il fervido sole e la fresca luna, il cielo e la terra (figlia o madre della luna), la vita e la morte, lo zolfo e il mercurio: tutte queste diadi eccole nel rapporto tra la lunghezza della corda vibrante e l'altezza del suono emesso, che stanno in ragione inversa l'una rispetto all'altra. Similitudine comunissima, specie in alchimia, è quella con l'uomo e la donna. Ma non va presa alla leggera, perché l'uno sta all'altra in modo alternante, come i due serpenti del caduceo, le cui spire sono ora a destra ora a sinistra rispettivamente. Nell'amplesso è attivo l'uomo, passiva la donna, l'uomo simboleggiando ciò che è caldo, sacrificale, prodigo, la donna ciò che è freddo, avido: e il maschio le è - sul piano sottile - succube e si vedrà infatti, nel gioco delle correnti psichiche, la debolezza, l'infermità dell'uomo ispirare forza e quindi volontà d'assistenza alla donna. Ma fuor del gioco dei mulinelli psichici di Venere o di Igea, i rapporti sono inversi: la simbologia inscritta nei corpi rovescia i rapporti, l'uomo custodisce fuor di sé, nel freddo esteriore, il suo seme, mentre la donna cova il suo nel segreto di un'intera, acida febbre. Quanto al gioco intellettuale fra i sessi, la mente dell'uomo è una matrice-misuratrice materiante, lunare, rassomigliabile a una fredda tessitrice, mentre la mente femminile è una fervida, fulminante, feconda, generosa fonte d'ispirazione che offre all'uomo lo stame che solo lui, avido, prensile, freddo, contratto com'è, saprà ordire. Questa dualità è la nozione centrale dell'alchimia e i trattati insegnano a farne proliferare al massimo le metafore. Il gran trattato settecentesco Aurea Catena Homeri sciorina una coppia dopo l'altra: lo spirito e il corpo, il padre e la madre, il nitro (o zolfo-mercurio) e il sale, cielo-aria e terra-acqua, l'acciaio e il magnete, il martello e l'incudine, e a dir tutto in breve: il Verbo sciolto o coagulato. Si può riprendere: il superiore e l'inferiore, l'uno composto di fuoco e aria, l'altro di acqua e terra, quello di seminale, potentissima sottigliezza, questo di mestruo odi fissazione ovvero di terra liquida, ovvero di acqua densa, ovvero di fuoco coagulato. Il superiore è fuoco o divina onnipotenza e aria o divina sapienza: volontà e intelletto; l'inferiore si può chiamare acqua di vita o amore o terra dei viventi o immortalità. Il superiore si potrà anche denominare Caos da cui tutto procede. Non va smarrita l'esattezza soltanto perché la similitudine svaria per mille metamorfosi, diventando sempre più bizzarra, favolosa e selvaggia. Anzi. Soltanto questo incessante e infine frastornante lampeggiare d'arguzie, di fiabe in un guscio di noce, di proposte per racconti allegorici, fa sì che sensi e fantasia entrino in gioco, allenandosi a configurare sensibilmente le invisibili energie formatrici del cosmo. Goethe disse che ogni attento guardare è un connettere, dunque un teorizzare e che teorizzare conviene con ironia, perché soltanto così si evita l'insensibilità, l'astrattezza: si cessa d'essere seccanti, terra terra.

 

 

Da: http://www.montesion.it/_montesion/Montesion.html

 

 

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