in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Giuseppe Tucci, Lo zen e il carattere del popolo giapponese


 

Fra tutte le nazioni dell’Oriente, il Giappone ha una ricchezza spirituale che supera la potenza materiale. Lo spirito che li guida e sorregge nella vita e li fa uno dei popoli più forti della terra, i Giapponesi hanno educato e temprato per tre vie diverse le quali, portando ciascuna il contributo di particolari esperienze, sfociarono in quella sintesi da cui nasce la storia: religione, arte e guerra. Così si formò quel carattere composito e a prima vista contraddittorio del popolo giapponese: ora trasognato in esaltazioni mistiche, ora rude e quasi spietato, ora dimentico di sé nella contemplazione del bello ed ingentilito da rare raffinatezze di gusto. Naturalmente queste propensioni e tendenze il popolo giapponese le conteneva in sé fin dagli albori del suo vivere civile: ma per venire alla luce esse dovevano essere fecondate, acquistare coscienza di se medesime e diventare operanti nella vita.

Fra tutte le correnti spirituali che contribuirono a foggiare il carattere giapponese e a svegliare la coscienza delle sue possibilità nessuna forse fu più efficace dello Zen. Questa è la tesi che un profondo conoscitore dello Zen ha sostenuto in uno dei suoi ultimi libri.

Lo Zen è una scuola buddhistica che prende il nome dalla trascrizione cinese della parola sanscrita dhyana che vuol dire meditazione. Dunque è una scuola esoterica, che trapiantata dall’India nella Cina per opera di un missionario semi-leggendario conosciuto col nome di Bodhidharma assorbì molte dottrine del Taoismo e così tramutata ed arricchita varcò il mare e si stanziò in Giappone. Ciò avvenne all’inizio del periodo Kamakura, durante il governo di Hojo dopo che Tokiyori (1227-1263) ebbe abbracciato ufficialmente lo Zen. Fu allora che il monaco Bukko educò ai principi di quelle dottrine Tokimune cui spetta il vanto di aver ricacciato l’invasione mongola, salvando così l’integrità nazionale del Giappone. Fu un glorioso periodo durante il quale lo Zen s’alleò alla classe guerriera e influì grandemente sulla vita politica e sociale, lasciando incancellabili tracce sull’animo del Giappone.

Ma come ho detto sopra, il suo stesso prosperare sul nuovo terreno dimostra tuttavia che lo Zen aveva trovato nel Giappone orientamenti spirituali affini: come seme che gettato su terre sterili non dà frutto, nessuna scuola religiosa né dottrina filosofica possono attecchire in una civiltà non preparata ad intenderle.

Già prima dello Zen, il Giappone aveva rivelato la sua sensibilità estetica in opere d’arte che forse non creerà mai più così nobili e significative: le contese secolari fra le famiglie rivali di Gengi e degli Heike, dei Taira e dei Minamoto, avevano già temprato le sue virtù guerriere. Ma l’arte ispirata dalle scuole Tendai e Shingon e nata fra i nobili all’ombra della corte, subiva l’influsso della teologia della prima o delle complicate liturgie della seconda: in un certo senso aulica quella, esoterica questa.

Le maestose immagini dei Buddha e dei Bodhisattva di Kyoto e Horiugi sono simboli plastici di beatitudini celestiali, remote dalla vita: barlumi di un mondo così lontano e transumanato che per giungervi bisogna dimenticarsi della terra e annullarsi in una primordiale essenza che trascende ogni moto di vita. Neppure gli dèi che partecipano alle vicende umane, come misericordiosi soccorritori di chi soffre, o come pugnaci nemici del male, sono perfettamente incarnati; queste teofanie non si distaccano mai dal loro piano divino e non s’avvicinano completamente all’uomo, sicché questo si abbandoni alla loro pietà con slancio affettuoso e fiducioso. Piuttosto che incarnazione della misericordia o delle forze divine, essi sono la misericordia e quelle forze stesse nella loro trascendente o terrifica maestà. La nobiltà guerriera d’altro canto non aveva saputo dimenticare i suoi privilegi né sentire quei vincoli di cameratismo che avrebbero dovuto unirla alla classe guerriera. Con l’avvento dello Zen le cose cambiano: l’arte avvicina gli dèi all’uomo: ai cieli lontani succede la vita nella sua armoniosa varietà, i paradisi, ove l’anima resta immota in una fissità contemplante, cedono il posto a quel mutevole gioco di forme, di colori, di luce con cui la natura sembra confortarci della disperata inutilità del vivere.

L’uomo poi acquista un nuovo valore: il mestiere o la condizione sociale sono accidenti e contingenze; ciò che ha valore è soltanto il nostro essere uomini.

Quando l’uomo non rinunci a questa sua naturale nobiltà e sotto il giogo delle passioni non s’invilisca, ha il diritto di esser rispettato per questa sua intima umanità in maniera assoluta e non in relazione con la potenza o la fortuna di cui il capriccio del caso o le imperscrutabili leggi del Karma possono averlo fatto partecipe. Le regole dell’etichetta fissano i rapporti che passano fra uomo e uomo, non come persone, ma come individui rivestiti di una particolare funzione: insomma disciplinano i rapporti fra funzioni non fra uomini: qualche volta le due cose si identificano e debbono identificarsi: ma perché una civiltà prosperi è necessario che finito il momento del dovere, l’uomo deponga le pompose vesti del suo ufficio e ritorni uomo fra uomini, soldato di uno stesso esercito fatalmente in marcia verso un destino che tutti quanti attende ed uguaglia.

Queste rivoluzioni artistiche e spirituali derivano in gran parte, secondo il Suzuki, dallo Zen. Ma che cosa è dunque lo Zen? Se un novizio fosse andato da un maestro e gli avesse posto questa domanda avrebbe sicuramente ricevuto una serie di legnate, perché nessuna scuola ha fatto tanto uso del bastone quanto lo Zen.

I più benevoli dei maestri restavano silenziosi: i condiscendenti arrivavano fino ad alzare un dito. Il più chiaro di tutti fu Tosu del quale la tradizione racconta questo famoso dialogo ch’egli ebbe con un discepolo desideroso di lume. Costui domanda: Che cosa è il Buddha? e Tosu risponde: il Buddha. – E che cosa è lo Zen? Lo Zen.

Lo Zen dunque non è un sistema: un sistema si spiega, si definisce, si discute. Lo Zen no, lo Zen si vive. E questo non è molto dire: perché tutti quanti i sistemi di mistica si vivono: non sono basati su un convincimento logico, ma su un’esperienza interiore la quale misteriosamente sorgendo nelle tenebre della nostra vita, fa della notte giorno così che appena tocchi della sua grazia ci sentiamo rinati in altri piani ove tutto è nuovo, luminoso e beatifico. Ma il maggior numero dei sistemi di mistica, partendo da questo mondo, in cui gioca il monotono arbitrio della vita, puntano lo sguardo verso quell’elementare principio di tutte le cose, che tutto condiziona e tutto trascende. Lo Zen non è su questa strada. Non si tratta di trascendere il mondo, ma di trovare l’eterno nel mondo: le scuole mistiche hanno troppo violentemente negato questo corpo nel quale e traverso il quale Dio si manifesta. Eppure le cose più belle invano intomo a noi sarebbero spiegate se non fossimo noi a goderne, se con tutti i nostri sensi non ne aspirassimo quasi il divino significato e se il nostro corpo non ci guidasse per gradi alla loro beatificante contemplazione. Un’arcana armonia regna fra tutte le cose che un misterioso impulso interiore trae a nascimento: dai mari alle gocce d’acqua che stillano sul rugiadoso tremolìo dei fiori, dalle montagne alle nubi che con volubile quasi umano capriccio contendono la vista del cielo, dappertutto è vita e dappertutto è Dio.

Si vede anche dall’arte, di cui in appresso diremo, quanto sia diversa la visione mistica dell’India da quella del Giappone: là per aver negato la natura e il suo divenire o i corpi e le cose, l’arte si trasumana a tal punto che vagamente riflette per simboli solo ciò che è divino e trascendente: qua invece la natura e l’uomo, come parte necessaria della natura, sono la vivente ispirazione dell’opera d’arte.

Non dunque trascendimento e neppure contemplazione – perché contemplare presuppone già uno sdoppiamento – ma piuttosto una immersione in sé e traverso sé nel tutto. Non bisogna discutere né filosofare: la ragione non coglie la vita nel suo infinito crearsi: ne fissa dei momenti staccati e con questi frammenti non può ricostituire l’impulso elementare nel quale sprofondandoci possiamo sentire, partecipandovi, il ritmo del gran respiro cosmico. La ragione definisce: ma la vita non si definisce, perché un istante dopo non è più quello ch’era un istante prima. Lascia stare la ragione, ma immergiti pienamente nella tua vita, che è la vita universa, dal cielo al filo d’erba. Quindi lo Zen porta necessariamente nelle sue forme estreme un rovesciamento di valori, come han fatto tutte le scuole mistiche, le quali hanno visto le cose con altri occhi che non la comune della gente, e sono state d’accordo nel negare alla ragione quel privilegio che lei stessa si è arrogato.

Tuttavia anche per lo Zen un adattamento ai limiti dell’umano ingegno fu necessario: non potendo abolire la ragione cercò per lo meno di contenerne le richieste.

Al ragionamento ha sostituito la contemplazione: ma una contemplazione attiva. Ci sono due modi di contemplare le cose e gli uomini: dal di fuori e dal di dentro.

Contemplandole dal di fuori non si potrà mai ottenere una fusione con quelle: la nostra personalità, quando tutti ci concentriamo su un oggetto, s’irrigidisce e s’addormenta come in un sonno ipnotico: la contemplazione attiva è un lento inserirsi nella vita degli oggetti contemplati sicché, come nell’amore, le due cose ne formino una sola in cui fluisca lo stesso pulsante mistero. Su questo principio lo Zen basò l’arte della scherma che servì non tanto a perfezionare una tecnica, quanto a disciplinare le anime.

«La mente quintessenziale – dice il monaco Takuan in una sua lettera a Yagyu Tajima-no-Kami sui rapporti fra lo Zen e la scherma – la mente quintessenziale pervade tutto quanto il corpo; quando tu la fermi in qualche parte, essa perde la sua fluidità e diventa mente superficiale. Quando la mente quintessenziale è perduta, il corpo trova mille impedimenti. La mente quintessenziale è come l’acqua e scorre dappertutto, mentre la mente superficiale è come il ghiaccio che tu non ci puoi lavare neppure la faccia. Se vogliamo applicare questi principi all’arte della scherma, la più alta perfezione l’avrai raggiunta quando la tua mente non sarà turbata dal pensiero di come colpire il rivale e tuttavia saprai come usare la spada, quando tu gli stai di fronte. Tu colpiscilo dimenticando di avere una spada nella tua mano e che c’è qualcuno contro di te. Nessuna idea di personalità ci deve essere: tutto è vuoto: il rivale, la spada che colpisce, le mani che impugnano la spada; anche l’idea stessa del vuoto deve essere eliminata. E da questo vuoto assoluto nascono le più meravigliose operazioni».

Lo Zen non prometteva rinascite paradisiache come premio del bene: ma eguagliando morte e vita, sopprimeva quel cieco desiderio di vivere che tiene l’uomo abbarbicato alla terra e tanto spesso lo fa timoroso del grande mistero che s’apre con la morte. Vincere la morte non si può, ma si deve vincere la paura della morte, accettando quella come un fatto naturale. Lo Zen abitua a questa serenità di fronte alla morte della quale non fa più caso che del trapasso da una stagione dell’anno in un’altra.

Nell’animo del Samurai – diceva Daidoji Yuzan nel suo manuale di Bushido, riecheggiando in oriente il celebre motto di Michelangelo – non ci deve essere pensiero in cui non sia quello della morte sculto -; e il Hagakure aggiungeva: Bushido significa determinata volontà di morire. Quando puoi scegliere fra la vita e la morte, non esitare a scegliere la morte. Abbi ogni mattina ed ogni sera l’idea della morte scolpita nella tua mente. I Samurai che facevano mestiere d’armi s’alleavano dunque naturalmente alla nuova dottrina che non rendeva incompatibile la virtù militare con la vita contemplativa, né l’arte della guerra con la via della salvazione. Così una scuola buddhista trasportata in Giappone foggiava il carattere marziale ed educava le migliori qualità civili del popolo nipponico.

Quel dispregio poi dello Zen per la cultura libresca e per le sottigliezze logiche doveva pure lasciare le sue tracce: in fondo, fra tutti i popoli dell’Oriente, i giapponesi sono meno portati alle idee astratte: la loro filosofia è in gran parte derivata da quella dell’India e della Cina: anche oggi essi sembrano più inclini all’osservazione che alla speculazione: amano vedere le cose piuttosto che discuterle, perché la visione è un contatto immediato e vivo, mentre il discorso è una mediazione traverso la quale l’oggetto tanto più perde di sé quanto più acquista dei nostri schemi logici. Troppe idee poi abituano al dubbio; per aver volontà e fede bisogna averne poche e viverle: lo Zen combattendo l’abito al troppo ragionare, eliminava le radici del dubbio, dell’esitazione e dell’incertezza che si nutrono di sottili discussioni ed educano velleità piuttosto che volontà. Lo Zen si proponeva invece non di ispirare idee, ma di aguzzare la volontà con una disciplina durissima e nei monasteri e sui campi di battaglia. Il giapponese una volta presa una decisione va in fondo senza compromessi ed esitazioni, con una implacabile fermezza che ha quasi l’ineluttabilità del fato. Per scegliere la strada lento, una volta che l’ha scelta non torna indietro. Questa fedeltà alle proprie idee, tenace fino allo scrupolo, ha costituito la religione dei Samurai: religione nobilissima che riconosce un solo culto, quello dell’onore, e non chiede premio né in questa né in un’altra vita. L’uomo vive per affermare in sé il supremo principio dell’onore: togliete questo privilegio all’uomo ed egli non ha più nessuna ragione di vivere.

I monaci Zen furono i primi a insegnare che bisognava far tutto sul serio, con un’ostinazione eroica che la vita subordinava ad un principio.

Una delle pitture più celebri di Sesshu rappresenta il monaco Eka il quale per attirare l’attenzione di Bodhidharma che s’ostinava a non prestargli ascolto, alla fine, per distogliere il maestro dalla sua indifferenza, si recide un braccio. Eka aveva risolto di scoprire la via della redenzione alla scuola di Bodhidharma e non voleva tornare indietro. Bodhidharma d’altro canto non sapeva se Eka fosse veramente fermo nel suo proposito: il sacrificio è il suggello della sincerità, non la parola.

Dai conventi partì l’esempio dell’eroismo.

Kwaisen, abate di Yerin, aveva ospitato nel suo convento alcuni seguaci del suo diletto discepolo Shingen dopo che questi era stato sconfitto ed ucciso da Oda Nobunaga. Nobunaga nell’aprile 1582, assediò il monastero e fece sapere che l’avrebbe dato alle fiamme se non gli fossero stati consegnati i rivali che in quello avevano trovato rifugio. Il maestro Zen si ritirò con i suoi monaci nella sala della preghiera e affrontò sereno la morte piuttosto che tradire la parola e gli amici.

«Per meditare – furono le sue ultime parole – non c’è bisogno d’andare sui monti o vicino ai fiumi; quando la mente è calma, anche il fuoco non brucia più».

La storia giapponese è tutta tessuta di questi episodi; ma su tutti primeggia il sacrificio dei quarantasette Ronin voluto e preparato come un’opera d’arte, nel quale pare abbia trovato la sua più matura espressione l’anima del Samurai.

Questo sacrificio nacque da un’atmosfera eroica nella quale la maschia rudezza dell’uomo d’armi si ingentilisce di delicatezze sentimentali e la morte si predispone con la stessa cura amorosa con cui l’artista vagheggia e modella l’opera sua; sicché chi è intorno non pianga ma ammiri, non si dolga, ma s’entusiasmi, trascinato come dal ritmo di una danza, in quel fuoco di sacrificio che brucia il corpo per eternare lo spirito; come fu allora che molte madri di quegli stessi eroi, perché la pietà filiale non li trattenesse o facesse dubitosi, cominciarono esse medesime col commettere suicidio.

Con questa virile determinazione congiunta a una certa asprezza di carattere nella quale pare si rifletta il taglio duro delle loro montagne rocciose, fa contrasto la squisita sensibilità artistica.

L’arte in Giappone non è privilegio delle classi colte, ma comune virtù di tutto il popolo: il valore delle opere d’arte non è determinato dall’esser strano ed insolito, ma semplice e modesto: l’arte giapponese si fonda tutta quanta su un canone starei per dire monacale, quello che essi chiamano wabi, o sabi.

Wabi è il contrario di vistoso, sgargiante o appariscente: è piuttosto quella bellezza reticente che non si mostra d’un tratto ma si svela per gradi come fanciulla pudica e restìa – una cosa sabi non sarà mai lustra e fiammante, perché le cose lustre e fiammanti sanno di fabbrica, ma non si trovano nella natura. Il sabi porta la traccia dell’uso e la patina degli anni.

Una volta Rikyu ordinò a suo figlio di pulire bene il giardino perché aspettava degli ospiti di riguardo: il figlio si dette gran da fare, strappò le erbacce, rimise a livello la ghiaia dei viali, spruzzò d’acqua le aiuole. Quando mostrò al padre il lavoro compiuto invece di lodi n’ebbe un rimbrotto: un giardino così agghindato tradisce la cura dell’uomo: vera arte è quella di chi imita – senza che l’imitazione appaia – l’elegante trasandatezza della natura.

Rikyu scosse un albero di acero: una pioggia di foglie che l’autunno colorava di riflessi d’oro e di porpora cadde sui viali lasciando per terra la traccia multivaga dei sinuosi capricci del vento.

Ecco, disse Rikyu, come bisogna spazzare il giardino. E Rikyu s’intendeva di sabi: maestro non più superato nell’arte del cha noyu, come si chiama la cerimonia del tè, egli pensa che il maggior godimento si tragga non dallo sfoggio delle cose belle, ma piuttosto dal loro uso parsimonioso, dal quasi trascurato buttarle lì fra un’armoniosa semplicità così che la loro vaghezza trovi risalto in questa solitudine: troppe cose belle stancano e pesano, una sola tutti ci prende facendoci obliosi di ogni altra contemplazione. Rikyu aveva coltivato nel suo giardino molte piante di convolvolo che erano ai suoi tempi rare in Giappone: la fama ne era giunta a Hideyoshi che volle Rikyu gli mostrasse queste sue meraviglie: felice fu il maestro di accogliere nella sua casa il potente signore. Ma quando Hideyoshi arrivò, invano egli cercava i convolvoli: il giardino sembrava desolato; anzi lo era perché Rikyu ne aveva strappato tutte le piante.

 

Incerto fra la maraviglia e lo sdegno egli entrò nella modesta stanza ove il tè era servito; e lì nell’angolo dell’alcova, su un vecchio vaso di bronzo, un solo ramo fiorito riempiva della sua tremula grazia la stanza vuota nella quale portava il soffio della primavera e la nostalgia dello spazio infinito.

La sensibilità estetica del giapponese così si educava sotto la guida dello Zen: ne derivava quell’arte che non ama mai il completo ed il perfetto, ma cerca piuttosto di secondare e quasi aiutare il movimento della natura: più intenta a ritrarne lo slancio verso la forma che la forma compiuta: un’arte irrequieta fatta d’accenni e di tocchi, fluida come la vita nella quale la perfezione è effimero punto d’arrivo cui segue la morte: nella pittura e nel disegno, il paesaggio e le figure sono tracciate dall’artista con pochi tratti, agili e nervosi, come se l’ispirazione gli fuggisse. L’uomo non è più spettatore, ma attore: attore tuttavia che non ha nessuna parte privilegiata. L’uomo è una delle infinite manifestazioni della vita cosmica ed a torto s’arroga supremazie inesistenti.

 

Anche la loro pittura – tuttavia così grande – è fatta di cose semplici, spesso d’inezie, e trae ispirazione dai motivi che sembrerebbero banali e comuni, e tuttavia li trasfigura e ne fa simboli della vita universa. Certo questa pittura decadde con quell’ondata di barocco che per una strana legge di contemporaneità degli stili, invase il Giappone di Tokugawa, nel XVII secolo, e a poco a poco si appesantì e si gonfiò; ma nella prima epoca piuttosto che dipingere le cose e le persone sembrò quasi dipingere lo spazio: che quel ramo d’albero o quella barchetta sperduta nel freddo grigiore d’un lago autunnale, o quegli uccelli solitari sembrano scelti apposta per dar risalto allo spazio ed al vuoto, quasi che questo i pittori volessero riprodurre piuttosto che le cose che sono in quello. Ed è naturale che così fosse per pittori abituati alle dottrine dello Zen le quali ponevano il vuoto come principio delle cose: e queste a quello subordinavano. Una stessa concezione filosofica ispirava dunque la maniera d’arte e formava insieme la vita: dalla quale voleva eliminare tutto ciò che fosse artificioso, non necessario, alambiccato e vi sostituiva lo spontaneo ed il semplice. Ne è derivato quell’abito della parsimonia e della modestia connaturato ormai nel popolo giapponese e che non si potrebbe veder meglio che nelle loro case, ove non c’è nulla o solo quel poco che serva quasi a dar risalto al nulla, o la nostra attenzione tutta su lui attirando quel nulla faccia dimenticare.

Questa sensibilità artistica preesisteva almeno come propensione nel popolo giapponese, ma a così squisite delicatezze la portò lo Zen, il quale ingentilì anche quel senso della natura che alita sull’arte e le imprime un particolarissimo fascino. Educato dallo Zen, il Giappone apprese a vivere questa natura, a sentirne in una simpatia fraterna i moti, gli slanci, le tragedie. La materia inerte diventa creatura che vive. Nessun popolo ha saputo più profondamente scoprire negli aspetti della natura anche i più umili e più trascurati, segrete ed ineffabili bellezze: dagli insetti alle pietre.

La mirabile architettura dei giardini che sembrano sintesi dell’universo contenuta in breve spazio di terra e sono tanto più pregiati quanto più l’arte dell’uomo non appaia come artificio, ma imiti l’irregolare e volubile capriccio della natura, trae il suo fascino maggiore dall’uso sapiente delle pietre: i sassi sono per i giapponesi mondi in miniatura nei quali l’uso del tempo e il gioco dell’acqua copiano le cicatrici che i cataclismi hanno solcato sulla terra. Come le forze elementari creano le montagne, quasi diadema gemmato che corona la terra, così i giapponesi scelgono con cura diligente sui greti dei fiumi o nelle forre alpestri le pietre che ricordano i loro colli e le loro cime sacre. Così può solo fare un popolo abituato non solo a guardare gli spazi infiniti, le brumose distese d’acqua, le montagne su cui s’adagia lenta la nebbia o scende composta la capigliatura delle foreste di pini ma trova la stessa bellezza nelle cose più umili e più dispregiate: quasi che ‘universo all’infinito moltiplicasse i suoi aspetti e riproducesse le sue forme, variandone solo le proporzioni.

Lo Zen fatalmente così s’avvicina alla primitiva intuizione religiosa del Giappone, voglio dire allo Shinto, che deificava la terra e stabiliva arcani legami fra l’uomo e la patria, ma alla venerazione religiosa esso congiungeva affettuosa partecipazione e solidarietà e contemplante ammirazione.

 

Da: thule-italia.com/wordpress/