|
|
Appunti per una introduzione al "Genjokoan" di Eihei Dogen Zenji (Massimo Beggio)
(Il testo che segue riprende gli appunti utilizzati per la presentazione del libro di Doghen al Centro Zen di Monza, tra il mese di Marzo e di Aprile 2006. Il testo, per comodità di esposizione, è stato presentato “a blocchi”, evidenziandone poi volta per volta alcuni passi. Per questo lavoro è stato utilizzato il volume “Divenire l’Essere”, pubblicato dalle Edizione Dehoniane con la traduzione ed i commenti a cura del M° Koho Watanabe, di Jiso Giuseppe Forzani e di Padre Luciano Mazzocchi. )
Doghen Zenji scrive il Genjokoan nel 1233, cioè circa sei anni dopo il suo ritorno dalla Cina. Genjokoan (che è il titolo originale del testo di Doghen) è un termine piuttosto complesso. Il Koan (conosciuto in Occidente anche come una sorta di “rompicapo” zen) anticamente era una disposizione governativa, quindi qualcosa come una “legge universale” per tutti i sudditi dell’impero, qualcosa che enuncia una disposizione dall’alto e che, pertanto, enuncia anche una realtà di fatto. (In un certo senso anche il rompicapo zen di cui abbiamo qualche idea non fa altro che enunciare una realtà di fatto). Mentre Gen ha il significato di mostrare, rendere evidente e Jo ha il significato di essere diventato o essere. Secondo Jiso Forzani, che ha curato per le Edizioni Dehoniane, con il M° Koho Watanabe e con Padre Luciano Mazzocchi, il testo che utilizziamo, una traduzione abbastanza letterale del titolo può rendersi con “La legge universale insondabile dell’essere presente che diviene ciò che è”. Il titolo nelle edizioni Dehoniane è poi “Divenire l’essere”, accompagnato da un sottotitolo: “La profondità evidente del presente che si fa presente”. Tutte queste traduzioni del termine Genjokoan sono forse un pò ermetiche ad una prima lettura, ma prendendo in esame il testo di Doghen ci potranno apparire più chiare. (Concludiamo segnalando che abbiamo trovato, in altra edizione, una traduzione più letterale resa con “Legge universale così come realizzata”). Doghen, poco tempo prima di morire, assegna a questo suo breve scritto il compito di aprire l’opera che raccoglierà tutto il suo pensiero filosofico/religioso, lo Shobogenzo (La custodia della visione della realtà autentica). In sostanza decide che il primo capitolo di quest’opera (lo Shobogenzo), che contiene l’essenza di tutto il suo insegnamento, debba essere proprio il Genjokoan. Questa decisione ci porta naturalmente a ritenere che questo scritto abbia un’importanza fondamentale all’interno di tutta l’opera di Doghen.”In questo testo – commenta Forzani – è senz’altro contenuto il compendio del suo insegnamento essenziale”. Il libro si apre con tre importanti affermazioni. Con queste affermazioni Doghen entra immediatamente nel cuore di quella che potremmo chiamare la sensibilità del buddhismo Zen circa la conoscenza profonda della realtà del nostro esistere. Le tre affermazioni di apertura sono le seguenti: “Ecco, in quanto tutte le cose sono contemporaneamente cose autentiche: allora esistono l’illusione e il risveglio, esiste la pratica della Via, esiste il nascere, esiste il morire, esistono le persone della Via, esistono le persone del mondo. Ecco, in quanto tutte le cose contemporaneamente non sono (definite) in base a me, non esiste lo smarrimento (a causa dell’ illusione), non esiste il risveglio, non esistono le persone della Via, non esistono le persone del mondo, non esiste il nascere, non esiste l’estinguersi. Ecco, per il fatto che la Via originariamente balza al di là delle contraddizioni, esistono il nascere e l’estinguersi, esistono l’illudersi e il risvegliarsi, esistono le persone del mondo e le persone della Via.” Il tutto si chiude poi con un finale che, oltre ad essere fortemente suggestivo e di grande effetto poetico, è parte significativa e integrante di quanto è appena stato affermato: “Tuttavia, pure stando così le cose, i fiori cadono proprio mentre per affetto li vorremmo trattenere, le erbe (le erbacce) crescono proprio mentre noi con disgusto le rifiutiamo.” La lettura di queste tre battute iniziali riporta con il pensiero ad altri detti dello Zen. A memoria ricordo che qualcosa di simile diceva più o meno in questo modo: “Prima di accostarmi allo Zen pensavo che le montagne fossero montagne e che i mari fossero mari. Dopo aver studiato lo Zen per circa 10 anni mi sono accorto che le montagne non sono davvero montagne e che i mari non sono davvero mari. Dopo circa 20 anni di studio ho capito che le montagne sono davvero montagne e che i mari sono davvero mari”. Queste ed altre cose del genere che possiamo trovare su alcuni libri che parlano dello Zen, riecheggiano in qualche modo il pensiero di Doghen in queste tre espressioni di apertura del Ghenjokoan. Queste espressioni iniziali di Doghen rappresentano il primo nodo, direi il nodo fondamentale dal quale partire. Senza troppi giri di parole, con queste tre affermazioni così lapidarie, ci invita subito a confrontarci con la natura profonda della realtà nella quale siamo immersi. E il primo passo che ci propone, per comprendere questa realtà così naturalmente contraddittoria che ci troviamo a vivere, sta proprio nello sciogliere questo primo nodo. Dobbiamo scioglierlo per poster proseguire. In questo scritto, come abbiamo già detto, c’è tutto il pensiero religioso di Doghen, c’è tutta la sensibilità acquisita nella sua esperienza religiosa dentro il cammino dello Zen. Jiso Forzani ci aiuta con il suo commento al testo invitandoci ad affrontare e comprendere le tre espressioni iniziali utilizzando come chiave di lettura i tre avverbi che accompagnano (e che caratterizzano in modo inequivocabile) le parole di Doghen. - Ecco, in quanto tutte le cose sono contemporaneamente cose autentiche…… - Ecco, in quanto tutte le cose contemporaneamente non sono in base a me…… - Ecco, per il fatto che la Via autentica originariamente balza al di là…… Sono tre “indicazioni temporali”, suggerisce Jiso. Cosa significa? Significa che, con la prima espressione, viene detto che tutte le cose presentano nello stesso tempo, cioè nello stesso momento, un aspetto, un modo d’essere: sono cose autentiche, per cui esiste il nascere, il morire ecc. Detto questo, nella seconda espressione ci viene però anche detto che, sempre nello stesso tempo, e cioè ancora nello stesso momento, presentano anche un altro aspetto, un altro modo d’essere: non sono definite in base a me per cui non esiste il nascere né il morire ecc. La terza espressione definisce ulteriormente e a mio avviso rafforza ancora le prime due affermando che la Via autentica, da sempre, è oltre ogni principio di contraddizione, nel senso che si muove (ancora, e sempre contemporaneamente, verrebbe da dire) all’interno di questa duplice condizione (esiste/non esiste). E “…originariamente balza al di là delle contraddizioni…” Questo “originariamente” significa da sempre e, proprio per via di questo significato, vuol dire anche proprio in questo momento qui, proprio anche adesso. Cioè da sempre, ora e per sempre. In queste tre battute iniziali tutta la realtà della nostra esistenza. E’ importante sottolineare che l’atteggiamento di Doghen non è, diciamo così, semplicemente “filosofico”. Non è l’atteggiamento di chi intende comunicare “…il proprio pensiero sulla realtà”, piuttosto è quello di “…trovare le espressioni più adatte per comunicare l’esperienza universale della realtà che sconfina oltre i limiti del pensiero umano” (J. Forzani). L’invito di Doghen, che viene poi interamente espresso in tutto il testo (dirà molte cose nelle poche pagine del Ghenjokoan), è quello di non considerarci come degli spettatori di questa realtà. In questo senso, come giustamente annota Forzani, il suo è un atteggiamento religioso poiché non ci prospetta semplicemente un punto di vista originale ma ci parla della nostra vita e ci propone una Via per affrontare la nostra esistenza (una via di salvezza potremmo dire utilizzando parole più vicine alla nostra sensibilità religiosa). Non ci sta in qualche modo parlando di una visione un po’ ristretta (un primo punto di vista: nascita e morte, illusione e risveglio ecc. ecc.) che può anche essere pensata diversamente (un altro punto di vista: non esistono nascita e morte ecc.) per poi concludere con un altro punto di vista ancora (un balzo del pensiero che ci porti al di là di non si sa bene che cosa). Doghen afferma che c’è un modo di essere costitutivo di tutte le cose, un modo di essere che è la loro realtà più profonda, Questo modo è: contemporaneamente…, contemporaneamente…, originariamente. All’interno di questa realtà profonda noi siamo dentro fino al collo, anzi, siamo esattamente questa realtà e lo siamo nello stesso modo (e nello stesso tempo), quindi anche per noi contemporaneamente…, contemporaneamente…, originariamente. Questa è la Via autentica nella quale siamo immersi ed è una Via che non sta da nessuna parte se non sotto i nostri piedi, nel nostro cammino di ogni giorno. Come sottolinea anche Jiso Forzani: “La Via autentica non è qualcosa che si manifesta dopo che abbiamo visto le cose in un modo o nell’altro: la Via autentica è qui da sempre, da sempre al di là delle contraddizioni, che pure ne fanno parte. Proprio per questo è universale ed eterna: perché è sempre qui, ovunque io sia.” Rileggendo queste prime frasi con le quali si apre il Genjokoan non si può fare a meno di ripensare al commento del Dalai Lama (al Sutra del Cuore) a quella famosa espressione che afferma che “La forma è vacuità e la vacuità è forma; la vacuità non è altro che forma e, a sua volta, la forma non è altro che vacuità.” Scrive il Dalai Lama: “E’ importante evitare di cadere nella tentazione di ritenere la vacuità una realtà assoluta o una verità indipendente. Essa va compresa come l’autentica natura di cose ed eventi…..L’affermazione suggerisce che la vacuità della forma non sia altro che la sua natura ultima. La forma manca di un’esistenza intrinseca o indipendente, quindi la sua vera natura è la vacuità. Ma questa natura, lungi dall’essere indipendente dalla forma, ne costituisce piuttosto una caratteristica. La vacuità è (anche e contemporaneamente, aggiungerei) il modo di essere della forma. E successivamente aggiunge: “…Tutto ciò fa parte di uno scenario complesso…possiamo anche affermare che la vacuità costituisce la base per l’esistenza della forma. In un certo senso possiamo perfino dire che la vacuità “crei” la forma.” Ecco, credo che si stia parlando delle stesse cose e cioè che si stia cercando di definire (o meglio di intuire) la natura ultima della realtà. La nostra prima e più naturale comprensione della realtà si muove all’interno del limite della nostra esperienza umana, nella dimensione del rapporto concreto con “tutte le cose autentiche” (“…fin dove arriva il proprio occhio” dirà Doghen più avanti) ed è sicuramente molto limitata e parziale. Un passo successivo può portarci a fare i conti con la cosiddetta “vacuità (ad “affacciarci sul vuoto”). Più che un passo è un autentico passaggio quello che ci può portare ad una visione che possiamo definire più “disincantata”. Scrive Jiso nel suo commento: “Se guardiamo ogni cosa per quello che è davvero, spogliandola di tutte le forme passeggere che la costituiscono, alla ricerca di qualcosa che resti da afferrare o a cui aggrapparci, non ci ritroviamo forse con le mani vuote, a meno di accontentarci di qualche vaga speranza?”. Per capirci, quale senso potremmo dare al volo della famosa farfalla che va a posarsi indifferentemente sulla vittima e sul suo carnefice? O alla famosa pioggia che cade anch’essa indifferentemente sui giusti e sugli ingiusti? Scrive ancora Forzani: “A seconda dell’atteggiamento con cui guardiamo, a seconda del nostro stato d’animo o del nostro carattere, questo passaggio nel vuoto può apparirci sconvolgente o liberatorio. Ma queste reazioni derivano entrambe ancora una volta da un errore di prospettiva: noi non siamo gli spettatori di questa realtà, noi siamo la realtà.” La pratica fondamentale del cammino religioso che conosciamo con il nome di buddismo Zen fissa la sua attenzione esattamente su questa condizione del vuoto. Quello che Jiso chiama “azzeramento” (intendendo proprio, credo, anche la seconda delle tre espressioni iniziali del Genjokoan) “…non è eluso o esorcizzato ma praticato come fondamento stesso della via religiosa.” E’ la pratica dello zazen. Da qui, da queste due prime considerazioni e dal momento della comprensione profonda di questa realtà, si apre quella Via autentica che “…originariamente balza al di là delle contraddizioni”. Possiamo orientare la nostra vita nel senso di questa Via autentica solo se riusciremo a compiere questo balzo, che è un balzo di corpo e spirito, non dello spirito soltanto. Non si tratta quindi semplicemente di procedere con una nuova operazione intellettuale che ci riporti in una prospettiva ancora diversa rispetto alle due precedenti. Anche perché “Balzare al di là delle contraddizioni non vuol dire andare altrove…” (J. Forzani). La Via autentica non si manifesta né in un altro luogo e neppure in un altro tempo. E’ interamente presente in tutta la sua complessa autenticità esattamente proprio sotto i nostri piedi, ed esattamente proprio in questo momento (qui ed ora si diceva un tempo). Da sempre e per sempre. Questo andare oltre, questo balzo che ci porta al di là di ogni contraddizione (vera o presunta, non saprei come definirla) è ciò che ci permette di assaporare quel “…presente che si fa presente in tutta la sua evidente profondità.”. E’ proprio all’interno di questa comprensione che possiamo cogliere come l’essere e il divenire condividono il medesimo istante nell’esistenza di ciascuno di noi. E dentro questo medesimo istante convivono con tutta la grande naturalezza che è loro propria. Di fatto l’invito che Doghen rivolge a ciascuno di noi è di rendere attuale nella propria vita l’esperienza fondante del cammino religioso buddista. Quella stessa esperienza che ha permesso al Buddha storico di affermare che “Tutto, esseri senzienti e cose insensibili, diviene la Via vera in questo medesimo istante”. Dirà, più avanti nel testo: “Inverare le cose mettendo avanti se stesso: questa è l’illusione; partendo dalle cose inverare se stesso: questo è il risveglio…” Con quella straordinaria semplicità che viene dall’aver fatto esperienza e compreso fino in fondo la realtà dell’esistere, Doghen conclude in un modo geniale (non so trovare un termine più adatto) ed estremamente poetico le tre espressioni con cui ha aperto il suo scritto: “Tuttavia, pure stando così le cose, i fiori cadono proprio mentre per affetto li vorremmo trattenere, le erbe crescono proprio mentre noi con disgusto le rifiutiamo.” Commenta Jiso: “Balzare al di là delle contraddizioni non vuol dire non chiamare più le cose con il loro nome e fare come se tutto fosse la stessa cosa.”. Queste espressioni finali di Doghen, oltre che estremamente belle e poetiche sono davvero “geniali” perché riassumono tutto quanto ha detto in precedenza con un tocco da vero maestro. Tutto il nostro attaccamento alle cose, tutte le nostre preferenze ci accompagnano in continuazione nel cammino della nostra vita. E tutto quanto fa parte dell’unica realtà autentica. All’interno di questa realtà fiori ed erbe non crescono né per il nostro piacere né per il nostro dispiacere ma crescono in quanto fiori e in quanto erbe: “Questa frase indica dunque sia la visione ingannevole per cui ogni cosa tende ad essere valutata a nostra misura, sia la visione autentica per cui ogni cosa è ciò che è, compresa la nostra sensibilità umana. Tutto manifesta la Via autentica.” (J. Forzani) Successivamente il testo di Doghen procede prendendo in esame altre questioni ed altri argomenti. Abbiamo detto che queste prime battute costituiscono un nodo importante. Vorrei sottolineare, a conferma di quanto ho appena detto, che su queste prime battute si soffermano con particolare meticolosità e con particolare insistenza tutti coloro che si sono adoperati in un commento al Genjokoan. Le parti che seguono le tre prime battute di apertura sono in qualche modo conseguenti alle affermazioni iniziali. E’ un po’ come se Doghen entrasse nel dettaglio del pensiero religioso che gli appartiene, per andare a “specificare” meglio questo suo pensiero. “Inverare le cose mettendo avanti se stesso: questo è illusione; partendo dalle cose inverare se stesso: questo è il risveglio. Coloro che fanno dell’illusione un grande risveglio, queste sono le persone della Via; coloro che fanno del risveglio una grande illusione, queste sono le persone del mondo. Per di più vi è la persona che nel risveglio ricava risveglio, vi è la persona che nell’illusione ricava ulteriore illusione. Ogni persona della Via quando è davvero persona della Via non porta con sé la consapevolezza che “io sono persona della Via”. Tuttavia manifesta il modo d’essere originario, procede rendendo testimonianza del modo di essere originario.” Quando, guardando la forma, la vediamo con tutto il corpo e spirito, quando, ascoltando il suono lo udiamo con tutto il corpo e spirito, allora io e la cosa siamo un incontro profondo. Questo non è come l’accogliere l’ombra da parte dello specchio, non è come la luna e l’acqua. Quando si mette in evidenza un lato, l’altro lato è all’oscuro. Apprendere la via autentica (di Budda) è apprendere se stesso. Apprendere se stesso è dimenticare se stesso. Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose. Essere inverato da tutte le cose è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso e corpo e spirito altrui. E’ risveglio che riposa da ogni traccia di se stesso, è risveglio che perpetua il non lasciare traccia di se stesso. L’uomo quando inizia a cercare la norma della Via, si ritira molto lontano dalla norma della Via. Quando si è attuata in me la retta trasmissione della Via, allora subito divento il vero me stesso. L’uomo, quando sale su una nave e salpa, se guardandosi attorno fissa la riva, ha l’illusione che sia la riva a muoversi. Se riporta con attenzione gli occhi sulla nave, sa che è la nave ad avanzare; così quando affermiamo giudizi verso le cose mentre il corpo e spirito è in disordine, ci si illude come se la propria natura fosse permanente. Se attraverso la pratica fatta col cuore si fa ritorno “qui”, allora si fa evidente la verità che le cose non consistono in me. Pensare e credere che la realtà profonda coincida esattamente con il modo come noi vediamo le cose (inverare le cose mettendo avanti se stesso) è fonte di illusione e di inganno avverte Doghen. Mentre il risveglio, nel senso di una autentica comprensione della realtà profonda, può essere esperienza viva solo per chi ha uno sguardo così ampio da poter comprendere anche se stesso partendo proprio dalle cose (partendo dalle cose inverare se stesso). La cosa non è però così semplice, sembra dire ancora Doghen nelle affermazioni che seguono. Il modo, che possiamo anche definire “comune”, di interpretare la realtà è sicuramente illusorio, in quanto limitato, ma è solo da qui che noi possiamo partire. La nostra condizione umana “poggia” proprio su questa grande illusione, su questa rappresentazione limitata che abbiamo della realtà. E’ da questa base di partenza che possiamo muovere i nostri passi e che possiamo entrare nel cammino della Via autentica. Diventiamo persone della Via proprio nel momento in cui riusciamo a fare un balzo oltre le nostre illusioni trasformandole. Però attenzione: entriamo nella Via autentica (e ci restiamo ben saldi) solo se non mettiamo avanti noi stessi (aspettative, bisogni, idee ecc.). La Via autentica non ha bisogno di essere “inverata” (nel senso che non è fatta vivere e resa autentica) dai nostri pensieri, neanche dai nostri pensieri più nobili: finiremmo per fare, ci viene detto, anche del risveglio un altro grande momento di illusione. In questo senso possiamo anche aggiungere che, nelle cose di religione, abbiamo assistito a drammi (non solo personali ma spesso e volentieri collettivi: scontri e guerre e ogni altro ben di dio), che sono discesi direttamente da questi “risvegli” che hanno generato ogni sorta di illusioni, per dirla con Doghen. Queste affermazioni di Doghen, e le considerazioni che possiamo fare nel merito, ricordano un detto Zen ormai molto noto anche da noi: “Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Ecco, anche questo è un atteggiamento per cui si finisce con il ricavare un’ulteriore illusione proprio da un’ipotesi di risveglio. Fare del risveglio un’ulteriore fonte di illusione. Commenta il M° Watanabe: “…l’essere umano ristagna nella convinzione che satori, il modo d’essere che è fondamento, sia situato all’interno del proprio modo di pensare e così lo insegue con zelo….Vi è chi si attacca rigidamente al proprio modo di pensare e lo va stratificando sempre più”. Questo mettere avanti se stessi nel proprio pensiero e nel proprio modo di vedere le cose credendo così di “inverarle” cioè di renderle autentiche ci porta da illusione in (ulteriore) illusione. Addirittura, aggiunge Doghen, è la non consapevolezza (di essere persone della Via) che ci può mantenere ben stabili dentro la Via autentica. Infatti, ci ricorda Forzani nel suo commento, lo stesso Shakyamuni, nel momento del suo risveglio alla Via non dice “Io sono diventato Budda (ho ottenuto il risveglio)” ma afferma che “…tutto, esseri senzienti e cose insensibili, diviene la Via vera nel medesimo istante”. In quel preciso momento, sotto il famoso albero dove aveva praticato per molti giorni e molte notti, “avviene” quell’incontro profondo di cui parla Doghen (quando, guardando la forma, la vediamo con tutto il corpo e spirito, quando ascoltando il suono, lo udiamo con tutto il corpo e spirito, allora io e la cosa siamo un incontro profondo…). “Soggetto, azione e oggetto non sono elementi separati: sono un’inscindibile unità. Non c’è spazio per guardarsi guardare, per osservarsi nell’atto di guardare.” (J. Forzani) Ed è esattamente proprio ancora in questo preciso istante che il presente può farsi presente in tutta la sua evidente profondità. “Apprendere la via di Budda è apprendere se stesso. Apprendere se stesso è dimenticare se stesso…” Doghen entra sempre più in profondità. Sembra proprio che voglia indicarci con sempre maggior chiarezza il cammino che dobbiamo percorrere, in modo che questo suo insegnamento possa trasformarsi per noi in esperienza reale e concreta. “Il testo di Doghen – scrive Jiso Forzani – procede per cerchi concentrici, come il volo del falco che plana verso terra”. Le parole che usa ora hanno a che vedere con quella che possiamo chiamare la condizione necessaria attraverso la quale questa trasformazione in esperienza reale di vita può diventare finalmente concretamente. E’ la pratica, la necessità della pratica. Nella via dello Zen di Doghen è la pratica dello Zazen, che permette di abbandonare corpo e spirito (in giapponese, nel testo, shinjin: corpo/spirito inteso come inscindibile unità) semplicemente sedendo in completa immobilità: “…stando così le cose – dice Doghen in un altro testo – se siedi solamente con tutto te stesso, la Via è intimamente raggiunta”. “Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose…è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso…E’ risveglio che riposa da ogni traccia di se stesso”. Scrive Watanabe: “Mettere in pratica così se stesso è davvero ed unicamente il semplice compiere la pratica, dimenticandosi persino del fatto che ‘io sto praticando’. Dimenticare se stesso è essere fatto vivere dal modo d’essere originale del tutto”. Infine Doghen conclude questa parte del suo discorso mettendoci ancora una volta in guardia dai pericoli che possiamo incontrare. Bisogna fare molta attenzione, poichè “L’uomo, quando inizia a cercare la norma della Via, si ritira molto lontano dalla norma della Via…”. Non c’è “un’altra sponda” rispetto a me e alla mia vita. Doghen ci vuole riportare di nuovo al punto di partenza. Non ci sono le cose della vita che mi stanno di fronte, non c’è una vita autentica diversa e separata da me che vivo. Devo riportare sempre ”…con attenzione gli occhi sulla nave…”, nel senso che devo osservare “…dal di dentro il me stesso reale che sta vivendo…” (Watanabe). Solo così posso evitare l’errore e “…tenere lontano ogni suggestione che capovolge”, come recita il Sutra del Cuore. E finisce questo suo pensiero proprio con questo invito: “Se attraverso la pratica fatta col cuore si fa ritorno ‘qui’, allora si fa evidente la verità che le cose non consistono in me”. La legna diventa cenere e non torna ad essere legna. Ciononostante non si deve pensare che la cenere sia il dopo e la legna sia il prima. Bisogna conoscere che la legna, proprio in quanto legna, ha un prima e un dopo. Diciamo che ha un prima e un dopo, però il prima e il dopo sono separati. La cenere, proiprio in quanto cenere, ha un dopo e ha un prima. Come la legna dopo che è diventata cenere non diventa di nuovo legna, così anche l’uomo, dopo che è morto, non diventa di nuovo vivo. Per questo è insegnamento della Via del risveglio non dire che la vita diventa morte. Perciò i dice ‘non nascita’. Per questo, il fatto che la morte non diventa vita è principio di verità che scorre evidente. Perciò i dice ‘non estinzione’. E la vita è il posto del suo momento, e la morte è il posto del suo momento: come l’inverno e la primavera. Non è da pensare che l’inverno diventa primavera, non è da dire che la primavera diventa estate. L’uomo che mette in atto il risveglio è come la luna che alloggia nell’acqua. La luna non si bagna, l’acqua non è lacerata. Anche se è una luce grande e vasta alloggia in poca acqua, persino tutta la luna, persino tutto il cielo alloggia anche nella rugiada dell’erba, alloggia anche in una goccia d’acqua. Come la luna non buca l’acqua, altrettanto non c’è lacerazione nell’uomo del risveglio. Come la goccia di rugiada non riduce la luna e il cielo, così l’uomo non condiziona il risveglio (satori). La misura dell’altezza si evidenzia nella profondità. Far questione di tempo lungo o tempo breve: è come valutare l’ampiezza o la piccolezza del cielo e della luna sondando la molta o poca acqua. Quando il vero modo d’essere non ha ancora permeato il proprio corpo e spirito, si ritiene che esso già sovrabbondi. Quando invece il vero modo d’essere riempie il proprio corpo e spirito, allora si comprende che non ha fine. Per esempio, se saliamo su una barca e salpiamo in mare aperto dove non si vedono montagne, guardando intorno vediamo il mare circolare e non ci è possibile vedere altra forma del mare. Eppure questo grande mare non è né rotondo né quadrato: le qualità del restante mare non possono essere raggiunte. E’ come un palazzo, è come un gioiello. Soltanto a seconda di dove arriva il proprio occhio, semplicemente per un tratto lo si vede rotondo. Così è anche per tutte le cose. Sia che uno vive nella polvere del mondo, sia che abbia lasciato la casa per la vita monastica, imbattendosi nelle varie situazioni vede e coglie soltanto fin dove arriva l’occhio aperto del suo cammino. Per percepire il modo d’essere intimo di tutte le cose, bisogna conoscere che oltre agli aspetti che noi vediamo come quadrati e rotondi, i restanti aspetti del mare e del monte sono molti e senza limite di forma; bisogna conoscere che il mondo si espande nelle quattro direzioni. Non è così soltanto intorno a noi, ma anche in ciò che è qui alla nostra portata e in una goccia d’acqua. Non c’è contraddizione nelle affermazioni di Doghen. Meglio ancora: non c’è contraddizione nella realtà profonda della vita. Il tempo scorre e non possiamo negare questa modalità d’essere del tempo, cioè il fatto che scorra. Cioè il fatto che, nella nostra esistenza, facciamo l’esperienza di un tempo passato, di un tempo presente e di un tempo futuro, di un tempo che deve ancora venire. Con l’esempio della legna che bruciando diventa cenere, esempio che vuole proprio parlarci del senso del tempo, sia lo scorrere del tempo che il senso della trasformazione (che è anche il rapporto di causa/effetto) non viene ad essere negato. (Allo stesso modo, potremmo aggiungere, come nelle tre affermazioni di partenza non veniva negato che “…in quanto tutte le cose sono contemporaneamente cose autentiche…esiste il nascere, esiste il morire ecc. ecc.”). Ma Doghen ci vuole ricordare ancora che questo fatto, ovvio e innegabile, di per sé non spiega (non “esaurisce”) tutta la realtà. Il tempo che scorre, così come possiamo osservarlo, “…non è l’unico modo di essere del tempo. Il tempo - commenta Jiso Forzani - non è solo divenire: il tempo è contemporaneamente (anche qui contemporaneamente) essere eterno ora”. Il momento della legna ed il momento della cenere, nell’esempio di Doghen, sono assolutamente separati perché ogni momento ha una sua realtà nel tempo assoluto ed eterno “Ogni momento ha realtà assoluta, con il proprio passato presente e futuro. La realtà di ogni momento è la realtà di tutto il tempo. (J. Forzani). Anche questa è “la profondità evidente del presente che si fa presente”. Non è un discorso da poco questo che viene introdotto con l’esempio della legna e della cenere. Ci porta fino a confrontarci con un aspetto fondamentale della nostra esistenza, un aspetto che ci tocca in un modo del tutto particolare: il nostro rapporto con la vita e con la morte, con la nostra vita e con la nostra morte. E’ vero che la vita scorre. E’ innegabile che quello che io sono in questo momento è in qualche modo anche il frutto del mio passato, di come l’ho vissuto, e di questo mio presente. E’ altrettanto vero che ho un tempo futuro davanti a me, un tempo ancora tutto da vivere. Ciascuno di noi fa esperienza di questa realtà. E’ però anche vero che in questo preciso momento esprimo completamente la mia realtà di questo momento, in un modo, direi, del tutto originale. Ogni attimo della nostra vita esprime completamente tutto il tempo, e quindi l’eternità di quell’unico attimo, che comprende passato presente futuro. Allora non possiamo pensare la nostra vita come un tempo che scorre fino a portarci verso la nostra morte. Perché “…la vita è il posto del suo momento, e la morte è il posto del suo momento”. L’esempio della legna è un esempio del tutto particolare e particolarmente indovinato. Infatti la legna brucia in quanto legna, non brucia certo per diventare cenere. Il fine (se così possiamo dire) della legna da ardere non è certo quello di diventare un mucchietto di cenere. Non è quello il compito a cui, diciamo così, è chiamata nella sua esistenza come legna da ardere: il suo compito è di bruciare completamente. “Brucia e basta – commenta Jiso Forzani – e proprio bruciando e basta è e diviene ciò che originariamente è” (cioè ancora legna da ardere). In questo senso e in questa prospettiva vanno ancora lette anche le affermazioni finali di Doghen sulla vita e la morte: “E la vita è il posto del suo momento, e la morte è il posto del suo momento: come l’inverno e la primavera. Non è da pensare che l’inverno diventa primavera, non è da dire che la primavera diventa estate”. Nuovamente quello che ci viene proposto, all’interno di questo importante discorso sul tempo in tutta la sua realtà, è di andare oltre la contraddizione. Tuttavia, abbiamo detto fin dall’inizio, andare oltre la contraddizione non significa “…non chiamare più le cose con il loro nome e fare come se tutto fosse la stessa cosa”. Commenta Jiso Forzani: “La Via si dipana nella storia, tanto quella individuale che quella collettiva: se l’essere ciò che si è (il cristiano direbbe “come Dio mi ha pensato”) è da sempre e per sempre, oltre e prima del tempo, è però nel tempo che si manifesta e si svolge. La pienezza dell’essere è sempre vagliata dalla legge del divenire”. Doghen prosegue mettendoci in guardia ancora una volta da quel vago sentimento di soddisfazione di avere finalmente capito la vita: “Quando il vero modo di essere non ha ancora permeato il proprio corpo e spirito, si ritiene che esso già sovrabbondi. Quando invece il vero modo d’essere riempie il proprio corspo e spirito, allora si comprende che non ha fine…Sia che uno viva nella polvere del mondo, sia che abbia lasciato la casa per la vita monastica, imbattendosi nella varie situazioni vede e coglie soltanto fin dove arriva l’occhio aperto dal suo cammino”. “Non ci sta fornendo un sistema per far quadrare il cerchio – scrive Jiso Forzani – ma ci indica un orientamento che noi dobbiamo attivare e sperimentare mettendolo in opera nella nostra vita, nelle circostanze della nostra esperienza, unica e irripetibile”. Il pesce nuota nell’acqua, e se nuota non c’è limite all’acqua; l’uccello vola nel cielo, e per quanto voli non c’è limite al cielo: Tuttavia né il pesce né l’uccello da mai ancora si sono separati dall’acqua o da cielo: Semplicemente quando serve un uso grande usano in grande: Quando serve un uso piccolo usano in piccolo. Stando così le cose, né succede che uno per uno non impieghino tutto il proprio ambito, né avviene che non vadano in giro per ogni dove; però se l’uccello uscisse fuori dal cielo subito morirebbe, come il pesce se uscisse fuori dall’acqua. Essendoci l’acqua c’è la vita, essendoci il cielo c’è la vita. Essendoci l’uccello c’è la vita, essendoci il pesce c’è la vita. Essendoci la vita c’è l’uccello, essendoci la vita c’è il pesce. Eppure bisogna ancora andare oltre. Così c’è la testimonianza vissuta, così c’è l’adempimento della vita. Tuttavia se il pesce provasse a nuotare dopo aver perlustrato tutta l’acqua e l’uccello a volare dopo aver perlustrato tutto il cielo, non otterrebbero alcuna strada né nell’acqua né nel cielo; non otterrebbero alcun luogo. Colui che raggiunge questo luogo, colui che fedelmente si conforma a questa pratica attua “la profondità evidente del presente che si fa presente”. In colui che raggiunge questo cammino, in colui che fedelmente si conforma a questa pratica si attua “la profondità evidente del presente che si fa presente”. Questa via, questo luogo non consistono né nel grande, né nel piccolo; non sono né nel sé, né nell’altro; nemmeno appartengono al prima, nemmeno appartengono all’adesso che accade. Ecco sono. Così anche l’uomo che testimonia la via originaria (di Budda) di fronte a una cosa attraversa quella cosa, quando incontra una pratica compie quella pratica. Per il fatto che in questo è il luogo, è il percorrere e il raggiungere la Via, non c’è il conoscere il confine del conoscere, ma il conoscere altro non è che vivere e camminare applicando sempre tutto se stesso in armonia con la verità originaria. Non si deve dedurre che dal raggiungere il luogo derivi una conoscenza di sé in termini di acquisizione intellettuale. Quando la Via è espressa con tutto se stesso, attua il presente che si fa presente; tuttavia l’essere profondo non è automaticamente questo “ presente che si fa presente”: il presente che si fa presente è indefinibile. Myakusan Hotestsu Zenji stava usando il suo ventaglio quando un monaco sopraggiunto gli chiese: “La natura del vento è sempre presente, non ha né luogo fisso né limiti: perché allora il monaco usa il ventaglio?” Il maestro rispose: “Tu sai soltanto che la natura del vento no n viene mai meno; non sai qual’ è il significato del fatto che non c’è luogo dove non arriva.” Il monaco replicò: “Ma allora qual’ è il significato del principio che non c’è né luogo né limite?” Allora il maestro semplicemente agitò il ventaglio. Il monaco si inchinò. Così è la pratica evidente della verità originaria, così è il sentiero operoso della trasmissione corretta. Presumere di non usare il ventaglio perché il vento è presente ovunque, pensare che il vento agisca anche quando non si usa il ventaglio, vuol dire non conoscere che è dappertutto, non conoscere la natura del vento. Proprio perché la natura del vento è di essere presente dappertutto, il vento della dimora della verità (della dimora di Budda) fa essere presente il presente della grande terra che si fa oro, fa giungere a maturazione la dolce crema del lungo fiume (dell’esistenza). Scritto il 15 agosto 1233 per il discepolo laico Yokoshu del Kyushu. Stabilito come primo capitolo de “La custodia della visione della realtà autentica” (Shoboghenzo) nel 1252. “A chiunque – scrive Doghen nel Bendowa (Il cammino religioso – ediz. Marietti) – sin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il Sé originale genuinamente, però, se non passa attraverso il fare praticamente proprio zazen, quel principio non appare manifestato e se non si evidenzia nello zazen in realtà non lo si ha.” Il colloquio tra maestro e discepolo sembra voler ribadire proprio lo stesso concetto. Dobbiamo pensare, prima di tutto, che maestro e discepolo, in questo esempio riportato da Doghen, non sono due realtà così lontane fra di loro ma che, al contrario tra di loro c’è una comunicazione profonda. Il monaco pone al suo maestro la domanda “giusta”, a sua volta il maestro conosce con esattezza il senso ultimo della domanda. Perché conosce il percorso del discepolo, conosce il suo cammino. E perché la domanda è anche una domanda fondamentale. E’ la stessa domanda che ha portato Doghen in Cina, alla ricerca di una risposta finalmente vera: se lo spirito autentico è comunque sempre presente nella realtà del nostro esistere, quale senso può avere un cammino religioso? Perché mai dovrebbe essere necessario? La risposta, dopo anni di ricerca, di incontri con maestri e con “cuochi zen” e quant’altro è poi questa: se questo principio non appare manifestato è come non averlo! Nel dialogo tra maestro e discepolo la cosa è ancora questa. Lo spirito, nell’esempio del vento, soffia dove vuole e “…la Via non è accresciuta né diminuita dal fatto che io la percorra.” (Forzani) Ma la Via può essere realizzata o non realizzata e se non si realizza nella propria vita (dalla quale non è divisa) è come se non ci fosse. In questo quadretto il discepolo, proprio in quanto discepolo, pone l’eterna domanda, mentre “…il maestro – scrive Forzani – proprio come maestro, indica la direzione senza parole, perché quella domanda non vuole una risposta a parole.” E quindi usa il ventaglio per farsi vento, per “realizzare” il vento. Allo stesso modo, senza parole e con il senso di una comprensione e di una accettazione profonda del tutto, il monaco si inchina.
Da: http://www.muhenzen.it/zen/documenti/genjokoan.htm
|
|