in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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I filosofi antichi nel pensiero di Simone Weil e Hannah Arendt
Wanda Tommasi

 

Prima di parlare dell’interpretazione che Simone Weil e Hannah Arendt ci offrono dei filosofi antichi, vorrei fare alcune considerazioni preliminari circa il rapporto che, più in generale, la riflessione femminile contemporanea intrattiene con la tradizione del pensiero antico.

In quelle autrici che imprimono consapevolmente il segno della differenza di essere donne nel loro pensiero (vorrei prendere qui come esempi Luce Irigaray e Marìa Zambrano), il r apporto con i filosofi antichi è caratterizzato da un’ambivalenza di fondo: oscilla fra amore o odio, fra ammirazione e critica spietata.

Per Marìa Zambrano la filosofia greca (in particolare i presocratici e Platone) reca ancora traccia, a differenza di quella successiva, del divino e della sacralità della vita, e come tale appartiene allo spazio di quella che la Zambrano definisce «ragione materna», ma, nel contempo, già tradisce questa vocazione, che essa or iginariamente

ha in comune con la religione e con la poesia, a favore di una ragione distaccata dalla vita, la quale poi prevarrà soprattutto nel pensiero moderno 1 .

Per Luce Irigaray, in modo ancora più esplicito, dal momento che in quest’ultima autrice è dichiarata l’opzione femminista, la fisica di Aristotele (ad esempio) da un lato è valorizzata, in quanto consente una riflessione filosofica a partire dalla designazione del materno-femminile come luogo, ma, da un altro lato, è duramente criticata, in quanto riduce la donna a semplice vaso-ricettacolo 2 . Irigaray considera il discorso di Aristotele come vero e meritevole di interrogazione, anche in un’ottica femminista, per i problemi filosofici che esso pone, ma, contemporaneamente, lo ritiene espressione dell’ordine patriarcale, di cui sarebbe un rispecchiamento

fedele, e come tale lo coinvolge nella condanna senza appello emessa contro il patriarcato.

Parlo di ambivalenza di rapporto, perché quando, come in Irigaray nei confronti di Aristotele, viene tematizzata la differenza femminile, si oscilla fra il risentimento verso un pensiero che ha svalutato la donna, rispecchiando in ciò fedelmente l’ottica patriarcale, e il desiderio di utilizzare comunque la grande tradizione filosofica del pensiero greco, riletta a partire dalla differenza femminile.

Né Simone Weil né Hannah Arendt, invece, hanno fatto professione di femminismo; hanno ritenuto di pensare in modo neutro, a prescindere dalla differenza femminile 3 . Tuttavia, il loro essere donne si rivela in molti aspetti del loro pensiero e anche nel rapporto che le due autrici intrattengono con la tradizione antica: questo rapporto è, per certi versi, più libero rispetto a quello delle pensatrici "femministe", perché non è guidato dal risentimento né risente di quell’ambivalenza di cui parlavo sopra.

E’ più libero anche di quello di molti pensatori loro contemporanei. E’ probabile che sia Simone Weil sia Hannah Arendt, essendo donne, non avvertano, a differenza di molti pensatori del nostro tempo, la crisi dei valori precedenti e le trasformazioni tipiche della società di massa come qualcosa che minaccia la loro autorità

nel dire e la lucidità del loro sguardo: sono, ad un tempo, partecipi e appartate rispetto alla loro epoca 4 . Ciò si rispecchia anche nel rapporto con la tradizione: non sono coinvolte totalmente nella tradizione che le ha precedute, ma ne fanno tuttavia parte; si sentono vicine alle filosofie del passato, ma non si identificano con nessuna di esse.

Uno sguardo libero, con gli occhi ben aperti soprattutto sul presente, consente

loro di avvicinare i filosofi antichi come risorse viventi a cui attingere. Le accomuna

un uso libero della grecità, guidato dall’attenzione al presente piuttosto che da

preoccupazioni filologiche o di storicizzazione: usano i filosofi antichi all’incirca

come i medioevali facevano riferimento alle loro auctoritates. In ciò si può riconoscere

un tratto della differenza femminile, che in queste autrici agisce pur senza

essere esplicitamente tematizzata.

Le accomuna inoltre una grande ammirazione per i filosofi greci, per Platone

nel caso della Weil, per Aristotele nel caso della Arendt. Ma le affinità finiscono qui:

è stato detto - e trovo che sia un’affermazione condivisibile - che «l’una pensa nel

rovescio del pensiero dell’altra»5 : mentre la Weil valorizza Platone come «padre

della mistica occidentale» e si rapporta molto criticamente al pensiero aristotelico,

Hannah Arendt utilizza soprattutto Aristotele e critica la tradizione platonica sia per

la svalutazione, in essa contenuta, del mondo delle apparenze sia per la svolta politica

autoritaria che in essa si annuncia; mentre Simone Weil considera la scienza

greca come un «paradigma perduto» di straordinario valore, ma rigetta in blocco

(con la sola eccezione di Marco Aurelio) l’eredità romana, Hannah Arendt valorizza

anche l’apporto romano, soprattutto nell’ambito della filosofia del diritto.

Per comprendere il loro rapporto con i filosofi antichi, è necessario dunque trattarle

separatamente: prenderò in esame per primo il pensiero di Simone Weil, poi

quello di Hannah Arendt.

Simone Weil si avvicina al cristianesimo nel 1938, in seguito ad un’esperienza

mistica del tutto inaspettata, vista la formazione agnostica e la militanza marxista

che avevano caratterizzato la sua prima giovinezza. All’interno di questa «conversione»,

- la quale però non consentì mai alla Weil di entrare a pieno titolo nella

Chiesa, dal momento che scelse di rimanere «sulla soglia» - si colloca la rilettura

weiliana dei filosofi antichi: l’autrice ritiene infatti di poter scorgere nella grecità

delle intuizioni «precristiane» e intravede in alcuni filosofi antichi, soprattutto in

Platone e nei pitagorici, una vera e propria prefigurazione del cristianesimo.

Un’intera opera della Weil, pubblicata postuma, La Grecia e le intuizioni precristiane,

è dedicata al tentativo di ricolle gare le due tradizioni, quella greca e quella

cristiana, che, se avevano comunicato intensamente fra loro alle origini della cristianità,

si erano poi separate nel seguito della storia dell’Occidente.

Proprio nel divorzio attuale fra la spiritualità e la vita profana è da scorgere, a

mio avviso, l’intento strategico che guida questa ar rischiata operazione weiliana.

Non c’è dubbio infatti che nella lettura weiliana dei filosofi greci come autenticamente

cristiani, nello spirito se non di fatto, ci siano evidenti forzature; l’interpretazione

della Weil è lontana da preoccupazioni filologiche e da intenti di storicizzazione:

è come se l’autrice, abbagliata dalla luce che proviene dall’incontro col

Cristo e dalla bellezza del testo evangelico, scorgesse la medesima luce in tradizioni

lontanissime fra loro nel tempo e nello spazio, dalla Grecia, appunto, all’antico

Egitto, dall’India all’estremo Oriente.

In questa propensione a istituire legami, a scorgere le affinità, mettendo in

ombra le differenze, io scorgo - lo dico di sfuggita - la qualità di uno sguardo femminile

attento alle relazioni e poco propenso, invece, a costruire barriere, steccati,

confini: più donne che uomini dimostrano questa propensione a legare, a far comunicare

fra loro le differenze. In Simone Weil, che percepisce acutamente le differenze

fra culture, questa capacità di istituire le gami è fortissima.

Occorre cogliere innanzitutto il significato strategico del legame istituito dalla

Weil fra grecità e cristianesimo; tale legame acquista significato solo in relazione al

presente, come rimedio ai mali del presente: il primo fra questi, secondo l’autrice,

è la separazione fra spiritualità cristiana e cultura profana, una separazione che

impedisce oggi anche ai cristiani di essere veramente tali al di fuori della messa

della domenica, dal momento che, nel resto della loro esistenza, essi prestano fede

ad una scienza e ad una cultura che nulla hanno a che fare con la fede in Dio.

A tale esigenza strategica risponde l’intento di scorgere nella grecità, vista

come la radice della nostra cultura profana, la prefigurazione del cristianesimo:

«L’estrema importanza attuale di questo problema deriva dall’urgenza di

porre rimedio al divorzio tra la civiltà profana e la spiritualità nei paesi cristiani,

divorzio che esiste da venti secoli e si fa sempre più grave. La nostra

civiltà non deve niente a Israele, e ben poco al cristianesimo; essa deve

quasi tutto all’antichità precristiana (Germani, Druidi, Roma, Grecia,

Egeo-Cretesi, Fenici, Egizi, Babilonesi...). Finché questa antichità e il cristianesimo

resteranno impermeabili l’uno all’altro, lo saranno allo stesso

modo la nostra vita profana e la nostra vita spirituale»6 .

A l l ’ i n t e rno delle civiltà pre c ri s t i a n e, quella greca occupa per Simone Weil un

posto di assoluto ri l i evo : in essa, i pitago rici attestano «una profonda unità fra le

d ive rse parti della vita pro fana e fra l’insieme della vita profana e della vita soprannaturale, tanta unità quanta separazione vi è oggi » 7 . Nei pitagorici , dunque, e, più in

generale, nell ’ intera cultura greca Simone Weil trova innanzitutto quella libera circolazione

fra spiritualità , cultura e scienza che invece tanto difetta al nostro tempo.

Alla religione e alla cultura greca, inoltre, Simone Weil attribuisce l’intuizione

dell’infinita distanza fra la necessità, da un lato, e il bene e il divino dall’altro: proprio

per la lucida consapevolezza della miseria umana e della lontananza dell’uomo

da Dio, tutta la grecità avrebbe lavorato per costruire ponti, metaxy, avrebbe cercato

degli intermediari fra umano e divino; per la Weil, sono soprattutto la filosofia

pitagorica e quella platonica ad esprimere tale vocazione alla ricerca di ponti, di

metaxy.

Da questo punto di vista, è possibile rintracciare nei testi dell’autrice una scansione

all’interno della sua lettura della grecità. La prima dimensione della grecità

che ella individua è quella omerica, caratterizzata dal dominio della forza, ma capace

anche di pietà nei confronti del nemico vinto, attraversata da una nostalgia di

misura, di pace e di giustizia che fanno già intravedere in essa un’anticipazione del

cristianesimo 8 . La seconda dimensione è quella della grecità pitagorico-platonica,

nella quale la ricerca di intermediari fra umano e divino, l’idea della giustizia

cosmica e l’intuizione di un amore che possa avere la meglio sulla forza costituiscono,

secondo l’autrice, vere e proprie intuizioni precristiane, sono addirittura prefigurazioni

della dimensione cristologica, della figura del Cristo come mediatore 9 .

Attraverso i presocratici e il pitagorismo, filtra in Grecia, dall’Egitto e dal vicino

Oriente, una rivelazione che anticipa quella cristiana. Se già Anassimandro attesta,

fra i presocratici, l’idea di una giustizia cosmica che l’autrice legge alla luce del

cristianesimo 10 , la ricerca della media proporzionale presso i pitagorici costituisce,

secondo la Weil, una vera e propria profezia del Cristo, in quanto rimanda al Cristo

come media proporzionale fra Dio e le creature 11 : «Come il Cristo si è riconosciuto

come l’uomo dei dolori di Isaia e il Messia di tutti i profeti di Israele, egli si è

riconosciuto anche come quella media proporzionale alla quale i Greci avevano

pensato tanto intensamente per secoli»12 . Le scienze, matematica e geometria, privilegiate

dai pitagorici, attestano dunque una disposizione alla ricerca scientifica,

volta a conoscere l’universo nel suo rapporto con il divino, e non solo la natura in

quanto tale. I pitagorici concepivano la geometria come una ricerca di rapporti, una

disciplina che coglie nell’universo un tessuto di proporzioni. Alla Weil il concetto

di proporzione è molto caro; ella è sempre tesa a individuare i termini medi che possano

mettere in relazione ciò che di per sé è infinitamente distante, e a riconoscere

in questa media proporzionale una figura dell’incarnazione, estremo simbolo di un

rapporto fra ciò che appare inavvicinabile: l’uomo e Dio. Per questo considera preziosi

gli studi che i pitagorici conducevano intorno al medio proporzionale fra due

numeri incommensurabili.

Inoltre l’esigenza di mediazione fra umano e divino si fa sentire nei pitagorici

nella ricerca di armonia, sia in senso musicale sia nel tema dell’amicizia: la formula

pitagorica secondo cui «l’amicizia è un’eguaglianza fatta di armonia», dovendosi

intendere armonia come proporzione e come unità dei contrari, viene interpretata

dalla Weil come indicazione della necessità di una mediazione fra uomo e Dio e

come anticipazione del mistero trinitario. Infatti l’autrice, accostando questa formula

ad un’altra definizione pitagorica dell’armonia, «il pensiero comune dei pensanti

separati» (Filolao)13 , ne ricava un riferimento alla Trinità per il fatto che, in

tale formula, se riferita a Dio, Dio è presentato come pensiero pensante e non come

una cosa, come l’unità di persone che pensano ciascuna separatamente. La definizione

pitagorica dell’amicizia fa capire che il modello, per ogni amicizia umana,

deve essere la Trinità, la quale è l’amicizia per eccellenza: «La Trinità è la suprema

armonia e la suprema amicizia»14 . Ciò fa capire che, sul piano umano come su quello divino, l’amicizia non si instaura fra uguali – e in ciò la Weil dissente dalla tradizione

aristotelica – 15 , ma a partire da una disparità, da una distanza fra due termini,

fra i quali si realizza sì un equilibrio, ma senza che venga eliminata la disuguaglianza

di partenza: come fra uomo e Dio, così anche fra uomini, occorre amicizia

per attraversare una grande distanza, per realizzare l’unità dei contrari.

Se la filosofia pitagorica è dunque ricerca di ponti fra uomo e Dio, la medesima

vocazione si esprime, secondo l’autrice, in modo ancora più esplicito, nella filosofia

platonica.

In Platone, la Weil sottolinea l’influenza orfica e pitagorica, e lo considera

come l’erede della spiritualità del vicino Oriente. Platone sarebbe un mistico autentico,

che in tutta la sua opera parla dell’assimilazione dell’anima a Dio: l’affermazione

di Socrate (Teeteto, 176), secondo cui «bisogna sforzarsi di fuggir di quaggiù

il più rapidamente possibile», poiché tale fuga viene intesa come assimilazione a

Dio, viene senz’altro interpretata dall’autrice in senso mistico; la centralità dell’idea

del bene all’interno del mondo delle idee, le quali a loro volta sono viste come

i pensieri o gli attributi di Dio, attesterebbe da parte di Platone l’intuizione di Dio

come bene; l’immagine platonica del giusto perfetto, che, per essere veramente tale,

deve essere privato di ogni apparenza di giustizia (Repubblica, II, 360 ss.), viene

accostata a quella del Cristo, il giusto che, sulla croce, si sentì a bbandonato anche

da Dio 16 .

Nel Gorgia (523) e nel Fedone (64a-67d), Simone Weil rintraccia l’immagine

della nudità associata a quella della morte, e attribuisce a tali immagini un significato

mistico: «La verità non è manifesta se non nella nudità e la nudità è la morte,

cioè la rottura di tutti gli attaccamenti che costituiscono per ogni essere umano la

ragione di vivere: il prossimo, l’opinione degli altri, i possessi materiali e morali,

tutto»17 ; l’autrice interpreta cioè le immagini della nudità e della morte alla luce del

tema mistico della morte dell’io (morte di tutti gli attaccamenti e i legami dell’io).

Non fa problema all’autrice che, da Platone, il corpo sia considerato tomba dell’anima

(Gorgia, 493a, Cratilo, 400 c), dal momento che il cristianesimo della Weil

non è privo di venature gnostiche, che la portano ad interpretare l’immagine del

corpotomba come indicazione della necessità di distaccarsi dalla parte sensibile e

carnale dell’anima, sede del desiderio, per metterne a nudo la parte divina, increata,

che aspira a ricongiungersi a Dio.

Platone, indicando due vie per distogliersi dal mondo sensibile e per volgersi

verso quello intellegibile, la via intellettuale (matematica e geometria), che passa

attraverso la contemplazione dei puri rapporti tra le cose e che permette così di

allontanarsi dall’illusoria centralità dell’io, e la via dell’amore (Simposio e Fedro),

avrebbe indicato le tappe fondamentali dell’itinerario mistico.

Tutta la filosofia di Platone sarebbe un’incessante ricerca di mediazione fra

uomo e Dio. L’accentuazione del significato mistico della filosofia platonica si

spinge nella Weil fino a farle considerare l’intera Repubblica non come un dialogo

politico, ma come un testo mistico, nel quale si parlerebbe dell’aspirazione dell’anima

a ricongiungersi a Dio: la città ideale della Repubblica non sar ebbe che un

simbolo per indicare l’anima e il desiderio della sua parte divina di ritornare a Dio;

lo stesso mito della caverna, lungi dall’avere prioritariamente il significato gnoseologico

che comunemente gli si attribuisce, ha per la Weil senz’altro un significato

mistico: tale mito esprimerebbe la sofferenza che comporta, per chi voglia volgersi

a Dio, il distacco dalle cose di questo mondo; del resto, argomenta l’autrice, è probabile

che i riti orfici di iniziazione prevedessero, come rituale, l’imprigionamento

in una caverna.

In altri termini, Simone Weil, facendo riferimento a diversi dialoghi platonici (Gorgia, Fedone, Repubblica, Simposio, Fedro, Teeteto, Filebo, Timeo), di cui traduce liberamente e da cui altrettanto liberamente estrapola alcuni passi, fornisce un’immagine complessiva di Platone come un mistico alla ricerca incessante della

mediazione fra uomo e Dio. Nel compiere tale operazione, l’autrice ripercorre, per

suo conto, passando dall’ateismo alla fede, la via che avevano percorso diversi pensatori

alle origini della cristianità, alla ricerca di una fusione fra la tradizione greca

e il nuovo messaggio cristiano 18 , ma con in più la libertà che deriva , in epoca conte m p o ra n e a , d a l l ’ at t e nuazione dei conflitti in nome dell’ortodossia; di tali confl i t t i , l ’ a u t rice conserva tuttavia viva memori a , al punto da scag l i a rsi conto la Chiesa per le persecuzioni at t u at e, nel corso della stori a , nei confronti dei cosiddetti ere t i c i .

Sicuramente, la lettura weiliana di Platone come mistico precristiano contiene molte forzature: l’autrice si accosta alla filosofia platonica come i medioevali si avvicinavano ai classici, non storicizzandoli, ma dialogando con loro come se fossero vivi nel presente, come auctoritates da interpellare a partire dalla nostra specifica

vocazione, non a partire dalla loro. Simone Weil, che dimostra grande ammirazione per il contesto medioevale e per la fusione, che, nel Medioevo romanico, era stata realizzata fra cristianesimo, apporti orientali e grecità, dichiara esplicitamente questo tipo di approccio:l’autrice ritiene che ci si debba riferire alla tradizione classica

traendone ispirazione, attualizzandola e facendola rivivere, non trattandola come una cosa morta e statica. La cultura greca contiene ricchezze incomparabili: ma «il contatto con queste ricchezze non deve tanto impegnarci ad assimilarle tali e quali, a meno di una specifica vocazione, quanto stimolarci alla ricerca della fonte di spiritualità che è nostra»19 .

Se, come abbiamo visto fin qui, un primo aspetto della lettura weiliana della filosofia greca riguarda le intuizioni precristiane che in essa sarebbero contenute, un secondo aspetto, collegato al precedente, concerne la distanza fra necessità e bene, e di conseguenza anche fra la politica e la giustizia. Qui si può cogliere l’inclinazione

gnostica del pensiero dell’autrice francese, la quale sottolinea, riecheggiando ancora una volta Platone, quanto differiscano l’essenza del necessario e quella del bene: Dio avrebbe creato il mondo non con un atto di espansione, ma ritraendosi, abbandonando il mondo alle leggi della necessità, assentandosi per lasciare all’uomo la sua libertà; in tal modo il mondo, consegnato alla necessità, sperimenta l’as-senza di Dio. Proprio a causa dell’infinita distanza tra il mondo e Dio, la quale è al centro dell’intuizione greca del divino, i greci hanno lavorato instancabilmente per

costruire ponti che colleghino queste due dimensioni così lontane fra loro.

Se il bene puro è del tutto assente da questo mondo, salvo per la parte infinita-mente

piccola dell’anima che, pur schiacciata dalla sventura, conserva la capacità

di amare, la sfera delle relazioni umane è caratterizzata dal dominio pressoché

esclusivo della forza: ne consegue una condanna del sociale come luogo in cui

domina la violenza, come regno del «principe di questo mondo», cioè del diavolo,

il quale, in ogni forma di idolatria collettiva, prende il posto di Dio. Anche per ciò

che concerne l’infinita distanza fra la politica e la giustizia, tuttavia, Simone Weil

riconosce ai pensatori greci una tensione alla giustizia che ella giudica senz’altro

precristiana.

Dal dialogo fra gli Ateniesi e i Melii, riportato da Tucidide, l’autrice ricava la

concezione di una giustizia naturale che, se è ancora molto lontana dall’idea cri-stiana

di giustizia, tuttavia ne costituisce la premessa, perché essa implica la cono-scenza

dell’imperio della forza, una conoscenza che è necessaria per poter rifiutare

consapevolmente l’uso della forza.

«Gli ateniesi, in guerra contro Sparta, volevano costringere ad allearsi con loro

gli abitanti dell’isoletta di Melos, da tempi antichissimi alleati degli spartani, ma

che fino a quel momento erano rimasti neutrali. Inutilmente gli abitanti di Melos, di

fronte all’ultimatum ateniese, chiesero giustizia, implorarono pietà per la loro anti-ca

città. Poiché non vollero cedere, gli ateniesi rasero al suolo la città, uccisero tutti

gli uomini, vendettero come schiavi le donne e i bambini»20 . Riportando tale epi-sodio,

Tucidide ne ricava, secondo la Weil, una concezione della giustizia naturale

che può essere sintetizzata così: «dato che l’animo umano è quello che è, si può

prendere in esame ciò che è giusto solamente se c’è uguale necessità da entrambe

le parti. Ma se si fronteggiano un forte e un debole, il primo impone ciò che è pos-sibile

e il secondo accetta. (...) Per legge di natura ognuno comanda sempre, dovun-que

ha il potere di farlo»21 . Commenta Simone Weil: «Questa lucidità di intelligen-za

riguardo al concetto di ingiustizia è la luce che precede immediatamente quella

della carità. E’il chiarore che perdura qualche tempo, là dove la carità è esistita ma

si è spenta. Più sotto vi sono le tenebre, dove il forte crede sinceramente che la sua

causa sia più giusta di quella del debole»22 .

L’idea di giustizia naturale, che la Weil espone qui commentando Tucidide,

coincide dunque con la necessità meccanica secondo cui ciascun essere esercita

tutto il potere di cui dispone, finché la sua forza non incontra un limite: poiché chi

è in posizione di debolezza non può fare ostacolo, la giustizia naturale, nel caso del

rapporto tra un forte e un debole, coincide con la legge del più forte, che produce,

a caso, effetti giusti e ingiusti. La dottrina della giustizia naturale di Tucidide, ben-ché

sia estremamente spietata, ha tuttavia il merito, secondo la Weil, di non ritene-re

che la causa del più forte sia anche, per ciò stesso, giusta: essa conserva un bar-lume

di pietà per il debole vinto, perché impedisce di criminalizzare l’avversario,

di addossargli delle menzogne persecutorie, di farne un capro espiatorio.

Al livello naturale, meccanico delle relazioni umane, sintetizzato dalla visione

di Tucidide, il tema della giustizia «naturale» si riallaccia dunque a quello della

forza, vista dall’autrice come un’energia che si espande fino a quando non incontra

un limite 23 . Tuttavia,per la Weil, non è la forza, ma il potere, con la sua componente

ineliminabile di prestigio, ciò che, tendendo all’illimitato, costituisce il pericolo

maggiore.

Rispetto a questa tendenza all’illimitato insita nell’uso del potere, la giustizia è

ciò che limita; essa è il limite stesso della forza, il punto in cui la forza perviene al

limite di se stessa 24 . Per questo la giustizia, in quanto limite posto all’illimitato della

potenza, è definita dall’autrice la «sovranità della sovranità»25 .

La tensione alla giustizia e la consapevolezza che la vera giustizia è di origine

soprannaturale sono, secondo l’autrice, al centro della filosofia platonica: l’imma-gine

del «grosso animale», contenuta nella Repubblica di Platone (VI, 493 a-d),

serve ad indicarci quanto differiscono fra loro l’essenza del necessario e quella del

bene, e a renderci consapevoli che la vera giustizia non è di questo mondo, ma può

essere solo di origine soprannaturale. Il «grosso animale» è il sociale, il quale è

visto come ostacolo fra uomo e Dio: il sociale è essenzialmente cattivo, e l’in-fluenza

della collettività sulle coscienze può spegnere ogni tensione alla giustizia 26 .

Occorre quindi non solo rinunciare alla pretesa di realizzare il regno di Dio in que-sto

mondo, come hanno tentato di fare i rivoluzionari più sinceri, ma essere consa-pevoli

del fatto che, solo se manteniamo l’attenzione costantemente orientata alla

giustizia trascendente, soprannaturale, potremo sperare di portare nel sociale una

traccia del bene puro. Alla pretesa umana di «fare giustizia» si sostituiscono così

l’apertura alla giustizia trascendente, la recettività nei confronti del bene, l’atten-zione

al soprannaturale.

L’idea platonica di giustizia come intuizione precristiana si completa con l’im-magine

del «giusto perfetto», cui abbiamo già accennato: tale immagine serve

all’autrice a sottolineare l’incompatibilità fra l’apparenza della giustizia, che preva-le

sempre in questo mondo, nell’ambito delle convenzioni sociali e della morale del

grosso animale, e la vera giustizia, che può essere solo di origine divina, trascen-dente.

Il giusto perfetto, di cui parla Platone, viene senza esitazioni accostato al

Cristo, la vittima pura, perfettamente innocente, la quale viene ingiustamente per-seguitata

e condannata dal mondo come un criminale di diritto comune 27 : il giusto

perfetto è per l’autrice profezia del Cristo ed esso stesso figura Christi, conforme-mente

alla concezione weiliana secondo cui vi sarebbero state, nella storia dell’u-manità

e nelle diverse religioni, molteplici incarnazioni di Dio.

La valorizzazione della filosofia pitagorico-platonica si collega, infine, in

Simone Weil, all’ammirazione nei confronti della scienza greca, vista come para-digma

perduto. La scienza greca era molto più che una disciplina conoscitiva,molto

più che un’indagine delle leggi naturali: era un’attività contemplativa, un modo di

scoprire, dietro le leggi fenomeniche, l’immagine del bene. La scienza greca era

innanzitutto contemplazione dell’ordine e della bellezza del mondo: la scienza non

era cioè finalizzata al dominio della natura, ma alla ricerca delle tracce del divino

nel cosmo.

Con la scienza moderna, galileiano-newtoniana, tale dimensione, conoscitiva, estetica e religiosa insieme, della ricerca scientifica viene perduta: la scienza moderna, da qualitativa, diviene puramente quantitativa; essa mantiene tuttavia un aspetto positivo, in quanto pone al centro la nozione di lavoro, la quale consente una

connessione con ciò di cui possiamo quotidianamente fare esperienza, soprattutto con il lavoro manuale. La scienza contemporanea, infine, perde anche questo contatto con la nozione di lavoro, e, a causa del dominio assoluto della quantità e di segni algebrici ormai svincolati dal significato, attesta la nostra condizione di sradicamento:

ci muoviamo in un mondo di segni che non rinviano più alle cose e abbiamo perduto ogni possibilità di rapporto fra la nostra scienza, votata ormai all’illimitato, e ciò di cui possiamo fare esperienza nell’arco limitato della nostra

esistenza.

Rispetto alla condizione dello sradicamento contemporaneo, nel quale gravi responsabilità ha appunto la scienza, la scienza dei Greci appare alla Weil come un modello di rigore, di misura, come una conoscenza volta non al dominio, ma alla contemplazione della necessità, cioè dell’ordine impresso da Dio al cosmo: l’assenza, nella scienza greca, dell’algebra, che pure i Greci avrebbero avuto la possibilità di sviluppare (la Weil fa riferimento a Diofanto) attesta,secondo l’autrice, una vocazione alla misura di cui la scienza successiva, votata invece alla dismisura, ha

perduto ogni memoria 28 .

E’ stato sostenuto convincentemente che gran parte del pensiero di Heidegger

in Essere e tempo comporta una rilettura, in chiave ontologica, della filosofia prati-ca

di Aristotele. Hans Georg Gadamer, presentando un inedito heideggeriano del

1922, ha parlato della rilettura heideggeriana di Aristotele come di una «vera rivo-luzione»:

«Aristotele cominciò veramente a parlarci nel nostro presente», scrive

Gadamer 29 . Nel corso tenuto nel semestre invernale del 1924/’25, al quale la Arendt

assiste, Heidegger ricava dall’ Etica nicomachea gli elementi fondamentali di una

fenomenologia dell’esistenza umana: egli si basa sulla distinzione aristotelica fra

poiesis (disposizione «ragionata» a produrre opere), praxis (attività che hanno il

loro fine in se stesse) e theoria (la forma suprema di vita, aperta alla pura contem-plazione

dell’ente)30 . In Essere e tempo, tali dimensioni, in particolare quella della

praxis, la quale diventa pervasiva rispetto alle altre modalità, vengono, secondo

Franco Volpi, «ontologizzate»: la prassi diventa «la radice ontologica ultima dell’e-sistenza,

da cui si dipartono le possibilità dei singoli atti teoretici, pratici e poieti-ci»

31 . L’intensa meditazione, da parte di Heidegger, sulla filosofia pratica di

Aristotele, motiverebbe l’inclinazione di alcuni suoi allievi e allieve, fra cui Hannah

Arendt, alla filosofia politica e alla sfera della prassi 32 .

Ritengo che questa influenza indiretta di Aristotele, tramite Heidegger, pesi

notevolmente sul pensiero della Arendt, da un lato determinando la netta separa-zione

fra pubblico e privato e la conseguente svalutazione della dimensione della

necessità, da un altro lato consentendo felicemente all’autrice di elaborare la sua

concezione dell’agire politico come legato alla mondanità, nello spazio di un appa-rire,

non platonicamente degradato rispetto all’essere, ma aristotelicamente riabili-tato

nella sua piena dignità.

Il punto di maggiore divergenza fra la Arendt e la Weil è le gato al fatto che la

Arendt, in Vita activa, facendo proprie le distinzioni tipiche della cultura greca, ela-bora

una concezione sostanzialmente «signorile» (e maschile) della sfera pubblica,

concepita come nettamente separata da quella privata, e svaluta, di conseguenza, la

dimensione della necessità 33 . La concezione della libertà come liberazione dalla

necessità e la connotazione in termini di sostanziale passività della dimensione del-l’animal

laborans precludono infatti alla Arendt il riconoscimento della piena uma-nità

del lavoro, del corpo e dei bisogni, cioè della dimensione della necessità negli

esseri umani 34 .

Al contrario, la Weil, pensatrice della necessità e sensibile al tema del lavoro,

critica duramente Aristotele per aver accettato come naturale l’istituzione della

schiavitù 35 , e sostiene che quello del lavoro è l’unico aspetto fondamentale dell’e-sistenza

umana su cui i Greci non hanno prodotto alcuna elaborazione filosofica

significativa. Opposto è, su questo punto, il giudizio di Hannah Arendt, la quale fa

sostanzialmente propria la concezione aristotelica del lavoro e ne accetta tranquil-lamente

la connotazione servile:

«il lavoro del corpo, imposto dai suoi bisogni, è schiavitù. (...) Ciò che gli

uomini condividevano con le altre forme di vita animale non era conside-rato

umano. (Fu questa, per inciso, anche la ragione della tanto malintesa

teoria greca della natura non-umana dello schiavo. Aristotele, che sostenne

questa teoria così esplicitamente, e poi, sul suo letto di morte, liberò i suoi

schiavi, può non essere stato così incoerente come i moderni sono inclini a

pensare. Egli non negava la capacità dello schiavo di essere umano, ma

solo l’uso della parola "uomini" per membri della specie umana che siano

totalmente soggetti alla necessità). Ed è vero che l’uso della parola "ani-male"

nel concetto di animal laborans (...) è pienamente giustificato.

L’animal laborans non è che una, sia pure la più alta, delle specie animali

che popolano la terra»36 .

Benché la sezione di Vita activa dedicata al lavoro, e più precisamente alla

dimensione dell’animal laborans, distinta da quella dell’homo faber, sia costruita

soprattutto attraverso un serrato confronto con il pensiero di Marx 37 , tuttavia anche

qui, come in altre parti dell’opera, è la filosofia greca, in particolare quella aristo-telica,

a ispirare l’impianto di fondo del discorso: la stessa distinzione fra «il lavo-ro

del corpo», che non si fissa in un prodotto, ma rimane sempre penosamente a

ridosso della necessità, e l’«opera delle mani», cioè il lavoro dell’artigiano o del-l’artista,

si radica nell’amore per le distinzioni che era proprio del pensiero greco.

Anche se i due massimi filosofi greci, Platone e Aristotele, svalutarono entrambi la

vita activa, preferendole quella contemplativa, tuttavia è proprio nella cultura greca,

non certo in quella moderna o contemporanea, che hanno maggiore risalto le distin-zioni,

non solo fra vita contemplativa e vita attiva, ma anche all’interno di que-st’ultima.

In particolare, Aristotele è decisivo per la distinzione arendtiana fra opera

e azione:Aristotele, nell’Etica nicomachea, insiste infatti sul concetto che «altro è

la produzione, altro è l’azione»38 ; solo quest’ultima designa l’ambito di quelle azio-ni

che hanno il loro fine in se stesse, ambito che la Arendt fa coincidere con la sfera

dell’agire politico.

Al contrario di quella di Aristotele, la filosofia di Platone è generalmente svalutata dall’autrice sia per l’inclinazione autoritaria in politica che essa lascia intravedere sia per la svalutazione della sfera dell’apparire che essa implica. Per ciò che riguarda il primo aspetto, la filosofia platonica è accusata di aver sostituito all’agire politico come agire di concerto, in relazione con gli altri, l’azione politica intesa come governo e comando; con ciò, «scomparve dalla filosofia politica la più elementare e autentica comprensione della libertà umana», e si impose una teoria del

dominio, che prevede la distinzione fra chi comanda o governa e chi ubbidisce o esegue 39 . Per ciò che riguarda la svalutazione platonica della sfera delle apparenze, la Arendt richiama il mito della caverna, il quale viene senz’altro interpretato come indicazione a fuggire dal mondo e dalla politica:

«Il filosofo può avere esperienza dell’eterno (...) soltanto al di fuori del

regno degli affari umani e al di fuori della pluralità degli uomini. Ecco ciò

che ci insegna la parabola della caverna nella Repubblica di Platone, dove

il filosofo, liberatosi dalle catene che lo legavano ai suoi simili, lascia la

caverna in perfetta "singolarità", cioè né accompagnato né seguito da altri.

Politicamente parlando, se morire è "cessare di essere tra gli uomini", l’esperienza

dell’eterno è una specie di morte»40 .

Dietro a queste critiche a Platone, è possibile forse intravedere una sotterranea polemica di Hannah Arendt nei confronti di Heidegger. Quest’ultimo aveva sì riattualizzato la filosofia pratica di Aristotele, ma facendo un passo decisivo al di là di Aristotele: Heidegger aveva infatti ontologizzato la dimensione della praxis, a partire

dall’intuizione dell’unità di fondo dell’esistenza umana, colta nella temporalità del Dasein, facendo diventare la praxis pervasiva rispetto alle altre modalità individuate da Aristotele. Ora,nel rinnovamento heideggeriano di Aristotele, il quale conduce Heidegger alla distinzione fra il sé autentico (solitario, privato) e il sé inautentico

(pubblico), non si ripropone forse l’antica sfiducia platonica nei confronti della polis e della vita politica? Ecco allora che Hannah Arendt non segue Heidegger quanto alla centralità pervasiva della categoria della prassi, perché tale

centralità porterebbe a rinchiudere la prassi stessa in un orizzonte solipsistico, come è accaduto ad Heidegger, ma tiene ben ferma la distinzione aristotelica fra poiesis e praxis: «altro è la produzione, altro è l’azione», ripete, con Aristotele, Hannah Arendt, e valorizza l’azione nella sfera pubblica come dimensione «autentica», insorgendo con ciò, implicitamente, contro il «giudizio» di inautenticità espresso da Heidegger 41 .

Platone è dunque duramente criticato, per motivi analoghi a quelli che condu-cono

la Arendt ad allontanarsi concettualmente da Heidegger. Un certo valore viene

riconosciuto tuttavia alla filosofia platonica per la determinazione, che essa con-sente,

dei tratti caratteristici dell’opera: quest’ultima si distingue, per la sua perma-nenza,

dal mero lavoro del corpo, che non lascia traccia dietro di sé; ora, tale distin-zione,

che per i moderni si è offuscata, era resa sensibile ai Greci proprio dalla filo-sofia

platonica, nella quale l’opera era pensata come ciò che traeva ispirazione da

un modello soprasensibile, trascendente.

«Questa qualità della permanenza del modello o immagine (...) ebbe un

potente influsso sulla dottrina platonica delle idee eterne. In quanto dottri-

na di Platone, fu ispirata dalla parola idea o eidos ("configurazione" o

"forma"), che egli usò per la prima volta in un contesto filosofico, essa si

basò sulle esperienze della poiesis o fabbricazione; e sebbene Platone si

servisse della sua teoria per esprimere esperienze del tutto differenti e

molto più "filosofiche", non mancò mai di trarre i suoi esempi dall’ambito

del "fare", quando voleva dimostrare la plausibilità di ciò che diceva.

L’idea eterna e unica che presiede a una moltitudine di cose deperibili deri-va

la sua plausibilità, nella dottrina di Platone, dalla permanenza e unicità

del modello conformemente al quale possono essere fatti molti oggetti

deperibili»42 .

Infine, per la centralità dell’azione, che l’autrice intende ristabilire contrastan-do

l’oblio in cui essa è caduta nella modernità,sono fondamentali i riferimenti all’e-roe

omerico, ma ancora più significativi quelli ad Aristotele, in particolare alla

distinzione fra poiesis e praxis, già ricordata. Aristotele distingue nettamente l’a-zione

che dà origine ad un prodotto dall’azione il cui fine si trova nell’attività stes-sa.

L’opera della politica è «vivere bene»: essa non dà origine a qualcosa di altro da

sé, ma esiste solo come pura attività:

«E’ questa accentuazione dell’attività vivente, del compiere azioni e pro-nunciare

discorsi, come le più grandi realizzazioni di cui siano capaci gli

esseri umani, che fu concettualizzato nella nozione aristotelica di energeia

("attualità", nel senso di essere in atto), con cui il filosofo designava tutte

le attività che non perseguono un fine (...) e non lasciano dietro di sé delle

opere (...), ma esauriscono il loro pieno significato nell’esecuzione stes-sa»43.

Se la tradizione ari s t o t e l i c a , fi l t rata tramite Heidegge r, da un lato condiziona dun-que

pesantemente un impianto di pensiero , quello are n d t i a n o , il quale re s t a , a mio

av v i s o , sostanzialmente maschile e legato a un ideale signori l e, da un altro lato que-sta

stessa tra d i z i o n e, ri e l ab o rata ori ginalmente dalla A re n d t , le consente di affe rm a re,

c o n t ro la svalutazione platonica delle ap p a re n ze, che la politica è il luogo in cui il

m o s t ra rsi gli uni agli altri fa tutt’uno con l’essere della politica stessa. La tra d i z i o n e

a ri s t o t e l i c a , c o n t rapposta dall’autrice a quella eleatica e plat o n i c a , le consente non

solo di ri c o n o s c e re dignità di essere alla sfe ra dell’ap p a ri re, ma anche di va l o ri z z a re

la molteplicità («gli uomini, e non l’Uomo, v ivono sulla terra e abitano il mondo»)4 4

e di re s t i t u i re all’essere-nel-mondo e all’essere-con gli altri tutta la loro import a n z a .

Assolutamente centrale è A ristotele per la rivalutazione della dimensione dell’ap p a ri-re

: « i n fat t i , ciò che ap p a re a tutti, questo chiamiamo Essere » , s c rive A ri s t o t e l e

n e l l ’Etica nicomach e a, e la A rendt sottoscrive e va l o rizza tale affe rm a z i o n e 4 5 .

Mi sono limitata qui a una sommaria esposizione della rilettura arendtiana del

pensiero greco, sottolineando la preferenza dell’autrice per la filosofia aristotelica,

a scapito di quella platonica: è opportuno precisare, tuttavia, che il recupero arend-tiano

della grecità riguarda anche la grecità prefilosofica (Omero, Esiodo) e non

filosofica (Pericle) e la filosofia preplatonica (i presocratici, Socrate).

Ma, soprattutto, occorre cogliere il senso dell’operazione arendtiana, che, pur culminando nell’idealizzazione della polis come spazio della politeia, della cittadinanza diretta, non intende tuttavia proporre a noi contemporanei il modello dell’esperienza politica greca come tale, ma farci piuttosto riflettere sulla mancanza, nell’orizzonte

moderno e contemporaneo, dello spazio e dell’idea stessa di un agire politico come agire di concerto. L’agire politico è diventato per noi comando e obbedienza, rappresentanza e sovranità; ad eccezione dei momenti iniziali delle rivoluzioni moderne e delle esperienze consiliari, non vi è nel moderno alcuno spazio per l’agire in relazione con altri, sulla scena della pluralità. Abbiamo perduto anche i termini per significarlo adeguatamente: di qui il paziente lavoro di ricostruzione, da parte della Arendt, delle distinzioni greche, le quali servono soprattutto a

segnalare, nel nostro presente, un vuoto, una carenza 46 .

Questo consente di affermare che anche la Arendt, sia pure in modo meno

accentuato della Weil, si muove con molta libertà rispetto alla tradizione antica: i

filosofi greci sono interrogati in relazione ai problemi del presente, per far risalta -re,

grazie alle loro distinzioni, la povertà che ci caratterizza, non per proporre un

modello lontano e inattuale, quello della polis, da far rivivere nella nostra prassi.

L’interpretazione femminile contemporanea del pensiero di Hannah Arendt ha

sottolineato soprattutto l’originalità del suo sguardo, che, a partire dall’inattualità

del contesto greco rispetto all’orizzonte contemporaneo, ha saputo spostare radi-calmente

la prospettiva e intrattenere un rapporto libero con la tradizione 47 . La riva-lutazione

arendtiana dell’apparire e del mostrarsi agli altri, contro la svalutazione

platonica delle apparenze, è stata rilanciata, in una prospettiva femminista, per

mostrare l’evidenza dell’essere donna/uomo come rilevante ai fini del discorso filo-sofico

48 . Il tema arendtiano della nascita, di cui ogni azione politica, in quanto dà

origine al nuovo e all’imprevisto, rinnoverebbe il carattere inaugurale, è stato valo-rizzato

come elemento che, al di là della dichiarata estraneità della Arendt al fem-minismo,

segnalerebbe che il suo pensiero è radicato nella differenza femminile 49 .

Contro tanta filosofia, anche contemporanea, che riflette sulla morte - si pensi a

Heidegger -,la valorizzazione arendtiana della nascita caratterizza un pensiero che,

pur debitore verso i Greci, non rimane tuttavia certamente prigioniero delle loro

categorie filosofiche, ma di esse si serve liberamente per riorientare lo sguardo nel

presente.

 

NOTE

1 - Cfr. M. ZAMBRANO, I beati, tr. it. di C. Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 47-64.

2 - Cfr. L. IRIGARAY, Etica della differenza sessuale, tr. it. di L. Muraro e A. Leoni,

Feltrinelli, Milano 1985, pp. 32-47, cap. III: "Il luogo, l’intervallo. Lettura di Aristotele,

Fisica, IV, 1-5".

3 - Per ciò che riguarda il rifiuto del femminismo da parte di Simone Weil, cfr. S.

PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, tr. it. a cura di M. C. Sala,Adelphi, Milano 1994, p. 72.

Ciononostante, ritengo sia possibile cogliere nel pensiero dell’ultima Weil, nel pieno acco-glimento

della necessità creaturale, un segno dell’accettazione della differenza di essere

donna: in tale direzione, cfr. il mio Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile,

Liguori,Napoli 1997, pp. 65-70, e L. MURARO, Simone Weil sulla differenza sessuale, in AA.

VV., Simone Weil a Roma, Edizioni Lavoro,Roma 1997, pp. 40-42. Altrettanto lontana appa-re

Hannah Arendt rispetto al femminismo (cfr. A. DAL LAGO, Introduzione. La città perduta,

in H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1989, p.

X), ma, nel contempo, è possibile sostenere che anche nella Arendt, nelle categorie portanti

del suo pensiero, innanzitutto in quella della nascita, traspaia il segno della differenza fem-minile:

cfr. A. CAVARERO, Dire la nascita, in Diotima, Mettere al mondo il mondo. Oggetto e

oggettività alla luce della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1990, p. 121.

4 - Cfr. C. ZAMBONI, La filosofia donna. Percorsi di pensiero femminile, Demetra,

Verona 1997, pp. 62-65, in partic. p. 64.

5 - Cfr. R. ESPOSITO, L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?,

Donzelli, Roma 1996, p. 10.

6 - S. WEIL, Lettera a un religioso, tr. it. a cura di G. Gaeta,Adelphi, Milano 1996, pp.

21-22.

7 - S. WEIL, A proposito della dottrina pitagorica, in La Grecia e le intuizioni precri -stiane,

tr. it. di M. Harwell Pieracci e C. Campo, Borla, Roma 1984, p. 203.

8 - Cfr. S. WEIL, L’Iliade poema della forza, ivi, pp. 9-41.

9 - Cfr. M. CACCIARI, La grecità, in in AA. VV., Simone Weil a Roma, cit., pp. 31-32.

10 - Cfr. S. WEIL, A proposito della dottrina pitagorica, cit., p. 211.

11 - L’autrice fa riferimento al Vangelo di Giovanni,17, 18:«Come tu mi hai inviato nel

mondo, io pure li ho inviati nel mondo». (Cfr. S. WEIL, A proposito della dottrina pitagori -ca,

cit., p. 210).

12 - Ivi, p. 214.

13 - Cfr. ivi, p. 220.

14 - Ivi, p. 221.

15 - Su questo tema, cfr. il mio Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femmini -le,

cit., pp. 77-91.

16 - Cfr. S. WEIL, Dio in Platone, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p. 51.

17 - Ivi, p. 53.

18 - Cfr. A. DEL NOCE, Simone Weil, interprete del mondo di oggi, in S. Weil, L’amore

di Dio, tr. it. di G. Bissaca e A. Cattabiani, Borla, Roma 1979, pp. 7-64.

19 - S. WEIL, I Catari e la civiltà mediterranea, tr. it. di G. Gaeta, Marietti, Genova

1996, p. 120.

20 - S. WEIL, Forme dell’amore implicito di Dio, in Attesa di Dio, a cura di J.-M. Perrin,

tr. it. di O. Nemi, Rusconi, Milano 1972, p. 105.

21 - Ibidem.

22 - Ivi, p. 106.

23 - Cfr. S. WEIL, Quaderni, vol. II, tr. it. a cura di G. Gaeta,Adelphi, Milano 1985, p.

83 e p. 107 e Quaderni, vol. III, tr. it. a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 287, p.

302, p. 403, p. 410 e p. 419.

24 - S. WEIL, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la crea -tura

umana, tr. it. di F. Fortini, Comunità, Milano 1980, cit., p. 246.

25 - Cfr. ivi, p. 247. Su questi temi cfr. R. ESPOSITO, Categorie dell’impolitico, Il

Mulino, Bologna 1988, pp. 237-244. Più in generale, sul rapporto fra legge, diritto e giusti -zia

nella Weil cfr. il mio "Al di là della legge". Diritto e giustizia nell’ultima Weil, in AA.

VV., Obbedire al tempo, a cura di A. Putino e S. Sorrentino, Esi, Napoli 1995, pp. 75-95.

26 - Cfr. S. WEIL, Dio in Platone, cit., pp. 57-60.

27 - Cfr. S. WEIL, L’amore divino nella creazione, in La Grecia e le intuizioni precri -stiane,

cit., pp. 125-202, in partic. pp. 174-186.

28 - Cfr. S. WEIL, Abbozzo di una storia della scienza g reca, in La Grecia e le intuizio -ni

precristiane, cit., pp. 259-267, e Fantasticheria sulla scienza greca, in Sulla scienza, tr. it.

di M. Cristadoro, Borla, Roma 1971, pp. 1-6.

29 - Lo scritto di Heidegger è stato tradotto e pubblicato in «Filosofia e teologia», 3

(1990), con il titolo Intepretazioni fenomenologiche di Aristotele; la presentazione di

Gadamer è alle pp. 489-495.

30 - Cfr. ARISTOTELE, Etica nicomachea, 1. VI. Il corso di Heidegger è stato pub blicato

come vol. XIX delle opere complete (Martin Heidegger Gesamtausgabe, Klostermann,

Frankfurt a. M. 1992).

31 - F. VOLPI, L’etica rimossa di Heidegger, «Micromega», 2 (1996), pp. 147-148.

32 - Cfr. ivi, p. 140. Per una discussione delle diverse interpretazioni del rapporto fra la

Arendt e Heidegger, cfr. S. FORTI, Vita della mente e tempo della polis, Angeli, Milano 1996,

pp. 43 ss.

33 - Intendo per concezione signorile quella che riposa sulla concezione greca - e ari-stotelica

- della libertà come liberazione dalla necessità; tale concezione conosce il suo ver-tice

e, insieme, l’inizio della sua dissoluzione, in epoca moderna, nella filosofia di Hegel. Su

tale concezione, cfr. F. RODANO, Lezioni su servo e signore, Editori Riuniti, Roma 1990.

34 - Che, nella Arendt,la dimensione del lavoro tenda a scivolare nella passività,è soste-nuto

anche da G. D. NERI, Introduzione: "In che consiste una vita attiva?", in H. ARENDT,

Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, tr. it. di G. D. Neri, Ombre corte, Verona

1997, pp. 9-34, in partic. p. 31: «il lavoro confina con la passività assoluta, con la semplice

vita e col movimento insensato della natura (tanto da rendere discutibile il suo stesso inseri-mento

tra le forme della "vita attiva")». Il sostanziale misconoscimento, da parte di Hannah

Arendt, della dimensione della necessità, è stato sottolineato anche da P. Flores d’Arcais,

Hannah A rendt. Esistenza e libert à, D o n ze l l i , Roma 1995. La concezione della libertà come

l i b e razione dalla necessità pone la A rendt in rotta di collisione rispetto alla tradizione marxi-

 

s t a , una tra d i z i o n e, q u e s t ’ u l t i m a , a cui invece Simone We i l , sia pure in fo rma molto cri t i c a ,

ap p a rt i e n e.

35 - Cfr. S. WEIL, La prima radice, cit., pp. 209-210: «Fra parentesi, la loro [dei nazisti]

concezione del giusto ordine che dovrebbe essere, alla fine, la conseguenza delle loro vitto-rie

si fonda sul pensiero che la servitù sia la condizione a un tempo più giusta e più felice per

tutti coloro che sono schiavi per natura. Ora, è questo il pensiero di Aristotele, il suo grande

argomento per l’apologia della schiavitù. (...) Un uomo che si affanna ad elaborare un’apo-logia

della schiavitù non ama la giustizia. Non importa in che secolo sia vissuto».

36 - H. ARENDT, Vita activa, cit., pp. 60-61.

37 - L’interesse della Arendt per Marx risale almeno agli inizi degli anni Trenta (cfr. E.

YOUNG-BRUHEL, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, tr. it. di D. Mezzacapa,

Boringhieri, Torino 1994, p. 127 e pp. 319 ss.): la Arendt progettò un testo, che non venne

mai ultimato, che doveva intitolarsi Totalitarian Elements in Marxism; molti elementi di que-sta

riflessione confluirono nelle parti di Vita activa dedicate a Marx.

38 - Cfr. ARISTOTELE, Etica nicomachea, VI, 1140a1-23.

39 - Cfr. H. ARENDT, Vita activa, cit., pp. 163-167, in partic. p. 165.

40 - Ivi, p. 16.

41 - Cfr. F. VOLPI, L’etica rimossa di Heidegger, pp. 157-158. Cfr. inoltre G. D. NERI,

Introduzione, cit., p. 28. Sul rapporto Heidegger-Arendt intorno alla distinzione fra poiesis e

praxis, cfr. J. TAMINIAUX, Poiesis e praxis nell’ontologia fondamentale di Heidegger, «Aut-aut»,

223-224 (1988),pp. 111-128,Id., Arendt,discepola di Heidegger?, «Aut-aut»,239-240

(1990), pp. 65-82.

42 - H. ARENDT, Vita activa, cit., pp. 101-102.

43 - Ivi, p. 152. L’autrice prosegue osservando che, in tali attività, cioè nell’azione e nel

discorso, «il fine (telos) non è perseguito, ma si trova nella stessa attività che diventa quindi

una entelecheia».

44 - Cfr. ivi, p. 7.

45 - Cfr. ivi, p. 146.

46 - Cfr. A. DAL LAGO, Introduzione, cit., pp. XIX-XXIII.

47 - Una convincente lettura di Hannah Arendt come pensatrice del proprio tempo,piut-tosto

che come filosofa in senso stretto, è fornita da L. BOELLA, Hannah Arendt. Agire poli -ticamente,

pensare politicamente, Feltrinelli, Milano 1995.

48 - Cfr. A. CAVARERO, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica,

Editori Riuniti, Roma 1990.

49 - Cfr. A. CAVARERO, Dire la nascita, cit., pp. 109-118.

 

 

 

 

Da: http://lgxserver.uniba.it/lei/scuola/filosofi/1997/7.PDF

 

 

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