in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

  home page   cerca nel sito   iscrizione newsletter   email   aggiungi ai preferiti   stampa questa pagina    
 

 

  SU DI ME
 Vita       
 Pubblicazioni

 Corsi, seminari, conferenze

 Prossimi eventi
 
  DISCIPLINE
 Filosofia antica       
 Mistica
 Sufismo
 Taoismo
 Vedanta              
 Buddhismo              
 Zen
 Filosofia Comparata
 Musica / Mistica
 Filosofia Critica
 Meditazione
 Alchimia
 Psiché
 Tantrismo
 Varia
 
  AUTORI
 Mircea Eliade       
 Raimon Panikkar
 S.Weil e C.Campo
 René Guénon, ecc.
 Elémire Zolla     
 G.I.Gurdjieff  
 Jiddu Krishnamurti
 Rudolf Steiner
 P. C. Bori       
 Silvano Agosti
 Alcuni maestri

 

"Dardi verso il cielo". Scrittura e liturgia in Cristina Campo (Riccardo Venturi)

 

Due mondi – e io vengo dall’altro

 

 

 

I

Se, come scrisse Pietro Citati in un accorato articolo commemorativo, Elémire Zolla “fingeva di non avere un io”, altrettanto si può dire di Vittoria Guerrini (1923-1977), a lungo sua compagna di vita. Lo testimoniano l’abitudine di pubblicare “sotto falso nome” – Cristina Campo resta il nom de plume più celebre e l’unico “pseudogino” –, nonché la dedizione infusa nelle traduzioni poetiche[1], che le permettevano di nascondersi dietro l’autorià dei suoi autori preferiti. Lo testimonia altresì la sua scrittura: dalla ricerca di un avverbio prezioso ad un’“aggettivazione sempre insistita ed enfatifca”[2], dai contrappunti verbali a un periodare analogico e metaforico, da una scrittura virtuosa ad una esoterica, a volte nitida e cristallina, altre lussureggiante e barocca.

La Campo ci ha lasciato “poche pagine imperdonabilmente perfette” (R.  Calasso), lei che “non sapeva che farsene della perfettibilità” (M. Luzi). La sua scrittura ci appare come un “sottile manuale di tecnica della perfezione” (G. Ceronetti), una “spietata via” (M. Cacciari), “irrangiungibile” (ancora Luzi) se non, addirittura, “imperfetta” (G. Caramore). Ma su questa strada, nonostante la lontananza siderale rispetto ai dibattiti letterari degli anni sessanta e settanta (causa del suo insuccesso e della tardiva riscoperta da parte della critica), la Campo non era sola. Mario Luzi – che l’aveva introdotta alla lettura de La pesanteur et la grâce di Simone Weil, prima che Franco Fortini ne approntasse l’edizione italiana – parlava a proposito di una “mistica della perfezione in cui c’eravamo allora in parte riconosciuti tutti quanti”[3]. Una mistica legata ad un modello altissimo di scrittura e che era anzitutto bellezza – per la Campo quarta virtù teologale –, responsabilità e, weilianamente, attenzione.

Sia la Campo che Luzi tenevano del resto bene a mente il precetto evangelico (Mt 12,36) per cui ogni uomo sarà giudicato e condannato in base ad ogni parola infondata (oziosa, traduce Luzi). In una rarissima intervista la Campo lo afferma senza equivoci: “La parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che di ciascuna dovremo render conto”[4]. Solo così si coglie il senso di quella bruciante autodefinizione, improntata ad un austero minus dicere: “Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno”. La perfezione si nutre dunque anche di silenzio – interstizio tra il poco e il meno – e la sua mancanza genera un frastuono che mortifica la parola e la costringe a sorgere da altre parole, come sostiene ancora Luzi. Questo silenzio non è tuttavia il semplice vuoto che ritma la scrittura o il respiro tra due parole ma, più radicalmente, l’inaggirabile sacrificio della parola stessa – come il canto lo è del respiro – e di ogni suo imbellettamento.

Ora, l’ossessione per la perfezione – minacciata da un preziosismo legato all’intenso commercio con il linguaggio poetico –, assieme alla consapevolezza di avere un “‘orecchio assoluto’ per la lingua italiana. (E orecchio, ahimé, non vuol dire tocco)”[5], furono vissute dalla Campo come una colpa. “La mia lingua, lo so bene, è armoniosa, troppo, persino. E’ proprio questo che a me non va. Io faccio dell’oreficeria, mentre si deve lavorare la pietra”, come confessa a Margherita Dalmati nel ’55[6]. Una metafora concreta: basti pensare alle “pietre che cantano” studiate dall’etnomusicologo Marius Schneider (amico di Zolla e collaboratore, come la Campo, della rivista da lui diretta, Conoscenza religiosa), ovvero a quelle figure animali che ornavano i capitelli di alcuni chiostri catalani del XII secolo. Schneider si accorge che quelle sculture non sono in realtà mute decorazioni bensì salienti notazioni musicali che componevano assieme uno spartito architettonico, un esoterico aide mémoire per il monaco che, salmodiando, evolveva nel chiostro.

         E’ del resto all’interno di una chiesa romana – spoglia e anonima – che la Campo intravede quella “nudità di stile” di cui andava alla ricerca, abbozzando un programma (corre l’estate del ’56) che non realizzerà mai veramente: “Partire dalla tabula rasa di un tempo ‘où l’on a tout perdu’ [...] fuorché la verità che abita in quel luogo”[7]. La scrittura dovrà quindi conformarsi a quello spazio sacro e alla liturgia per cui è stato eretto, al canto che le pietre suggeriscono a chi sa ascoltarle. Dovrà insomma essere nuda, anonima e senza ornamenti. Al riguardo, il discrimine cruciale nella vita, le opere e le letture della Campo è certo costituito dalla ferma se non tetragona conversione al cristianesimo, dalla “violazione del voto di laicità”, per rubare un’espressione di Zolla a proposito dell’archimedica pubblicazione dei Mistici dell’Occidente (Garzanti, 1963), cui la Campo collaborò attivamente come traduttrice. Una conversione segnata a sua volta da un deciso viraggio dal cattolicesimo all’oriente cristiano, porto sicuro nella tempesta postconciliare, come vedremo. Non rinnegando mai l’esperienza della mistica occidentale, la Campo inscrive la sua fede all’interno di quel solco – invisibile e tenace – in cui confluiscono i Padri del deserto e il Racconto di un pellegrino russo, l’esicasmo del Monte Athos e la Philocalia[8].

Gli anni settanta, per la Campo, sono segnati da una devozione pervasiva e parossistica, da una fede rocciosa nella Predestinazione e nella Provvidenza divina, nella presenza concreta degli angeli e dell’Arconte che – in una Roma infestata da sette sataniche – detronizzava il trono papale, ma anche da sghembe, se non imbarazzanti, frequentazioni degli individui più conservatori e reazionari del mondo ecclesiastico. E mentre la fede cementava la sua vita, la passione letteraria si affievolisce gradualmente, rendendo precario l’equilibrio tra religione e letteratura, tra liturgia e scrittura. Gli ultimi anni della sua produzione lo confermano, “come se, dopo l’apparizione di Dio – fuoco che consuma ogni cosa –, la sua parola fosse ridotta a un balbettio. Come se, a questo stadio, dire non fosse più necessario”[9]. Si era compiuto, in altri termini, quel decorso individuato da Luzi da una mistica della letteratura, edenica ed estetica, “desiderata e forse raggiunta”, ad una mistica sacrificale “certamente desiderata e certamente irrangiungibile”. Quest’ultima cadeva fuori dai confini della pagina, incapace di contenere le parole necessarie per dirla.

I suoi ultimi interventi, che dei saggi rispettano la forma e le convenzioni – “ma che l’orrenda parola Saggistica non si avvicini col suo laccio acchiappacani”[10] –, trattano di incenso e di campane, di interni di chiese e di ordini monastici. Una sorta di archeologia o di fenomenologia delle forme religiose che si erge come una diga contro il processo di modernizzazione innescato dal Concilio Vaticano II, che consegnava definitivamente alla storia riti e miti ancestrali, rimuovendoli dalla funzione liturgica quanto dalla memoria collettiva. Difficile restituire il clima dei lavori del Concilio dove, tra strali apocalittici ed episodi grotteschi, volano accuse di eresia e scisma contro il Papa, di cospirazioni massoniche e complotti protestanti, di vagues liberiste e neo-moderniste.

Due mondi si scontrano – l’anathema sit e le sospensioni a divinis da una parte, i virulenti libelli d’accusa dall’altro – calunniandosi a colpi di fumo di Satana e di spirito leguleio. Seme della discordia: l’istituzione della messa in lingua volgare, che contravveniva al ne varietur del latino per andare incontro, secondo le scontate buone intenzioni, ad una pastorale realmente comprensibile e condivisibile dall’assemblea. Il nuovo “Ordo Missae”, considerato dalla Campo un atto apostatico, non fa in tempo ad entrare in vigore (30 novembre 1969) che le acque di alcune fontane di Roma furono colorate di rosso, secondo quanto già impartito a Mosè (Esodo 7,19). Nel 1972 l’abbé de Nantes – tra le frequentazioni della Campo – chiede che Paolo VI, “l’incarnazione della violazione della legge di Dio”, sia deposto, finché, in un rocambolesco passage à l’acte, scende a Roma con una delegazione scontrandosi con la polizia italiana e pontificia[11].

E’ in questo clima di sfibrante (per la Campo) e indefessa opposizione che si costituisce l’associazione “Una voce”, col compito di “salvare la liturgia tradizionale, latina e gregoriana” (SFN:119) e che nel ’66 spedisce al Papa una lettera manifesto, firmata, fra gli altri, da Borges e la Zambrano, Montale e Quasimodo, Bresson e Dreyer, De Chirico e Dallapiccola. Come riassumeva l’intransigente Arcivescovo Lefèbvre – che la Campo apostrofava così: “Vous êtes l’Eglise” e lui, di rimando: “Et vous êtes les fidèles”[12] – “Non si può modificare profondamente la lex orandi senza modificare la lex credendi[13]. La Campo, tra le promotrici di questa campagna, si espose in prima persona, gettandosi nell’agone pubblico con il suo vero nome. Nel frattempo, nella stessa città ma in realtà da un altro universo, Pasolini constatava, negli articoli che costituiranno gli Scritti corsari, l’urbanizzazione del cristianesimo – “dalla pietas rustica al misticismo soteriologico” – e dunque la fine del sodalizio tra chiesa e mondo contadino. Nel 1974 scrive: “Il linguaggio religioso è da secoli insopportabile, almeno in Italia”, e ancora: “la lingua italiana liturgica parlata oggi in Chiesa è quasi ripugnante”[14].

Vicende affatto marginali, che toccano da vicino la sfera letteraria, con esiti non sempre felici, come testimonia la prefazione del ’72 a Attesa di Dio dell’amata Simone Weil. La Campo finisce, in questa occasione, per dar ragione alla risposta oltranzista scritta da Guérard des Lauriers a Lettera ad un religioso. In una requisitoria di oltre cinquanta pagine in odore di scomunica – dove ogni concessione, secondo una stantia algebra retorica, diventa il volano per un più efficace affondo critico – des Lauriers mancava di cogliere gli slanci, le perplessità e il tormento spirituale della Weil. Considerando la lettera perentoria, ostinata e venata di hybris, finiva per equivocare del tutto la “qualità dell’affermazione e la trasparenza della certezza” che secondo Blanchot costituiva il proprio del discorso weiliano. E pertanto, des Lauriers e la Campo concordano nel criticare la resistenza illuminista e la mancanza di abbandono alla fede della Weil, l’esitazione nel varcare la soglia della Chiesa, la scelta dolorosa di restarne all’esterno pur rivendicando un’identità cristiana. “Ella ha giudicato, pur essendo fuori della fede, cose che si possono comprendere solo nella luce della fede ricevuta dal battesimo nella Chiesa”[15], una frase che potremmo purtroppo ascrivere tanto al gesuita che alla scrittrice.

 

 

 

 

II

Se, come ha affermato l’amica M. P. Harwell, una biografia della Campo “dovrebbe essere prima di tutto una storia delle sue letture”[16], potremmo sostenere lo stesso per le frequentazioni dei luoghi di culto e per gli itinerari romani segreti, dalla Trappa alle Tre Fontane al museo delle Anime Purganti. Una città “immemorialmente indifferente” (SFN: 141), “nelle sue tremende basiliche vuote, nelle sue piazze di sangue coagulato che pare liquefarsi”, dove la notte, assieme al “solito odore di Basso Impero in putrefazione”, può capitare di perdersi nell’“immenso labirinto di misteri concentrici” (LAL: 103). Da questo affresco si stacca l’hortus conclusus dell’Aventino, dominato dall’abbazia benedettina di Sant’Anselmo, all’ombra delle cui mura sorgeva la casa della Campo – luogo di lavoro se non cella di ritiro (fuge, tace, quiesce, consigliavano gli esicasti). Una predilezione dettata non tanto dalla riconoscenza verso Simone Weil che, durante il viaggio in Italia degli anni trenta, trasaliva sugli stessi scranni all’ascolto dei vespri, quanto dalle corrispondenze e dalla continuità tra i benedettini e il monachesimo orientale, incluso quello buddista (come la Campo accenna prefando la biografia di un monaco tibetano).

Un passaggio, quest’ultimo, reso possibile dalla “consonanza concettualmente inesprimibile, di figure simboliche universali”, che permetteva di gettare “archi e ponti di luminose similitudini tra i più remoti paesaggi di dottrine e tradizioni” (SFN: 160). Una trasmigrazione di simboli reperibile, per citare qualche esempio campiano, nell’unione dell’indice e del pollice del sacerdote o del Cristo Pantokrator bizantino e in generale nella sacralità dei loro gesti che ricordavano i mudra induisti. Negli arabeschi, le criptografie e i caratteri cufici dei tappeti orientali, nei cui disegni concentrici la mente si perde come davanti un mandala, e che furono riutilizzati per le decorazioni delle chiese e dei manti della Madonna. Nelle immaginifiche orazioni corporali del buddismo tibetano, evocate in un contesto in cui la Campo osava paragonare l’ecatombe postconciliare all’occupazione del Tibet. E, ancora, nelle incessanti giaculatorie simili ad un mantra o nelle rispondenze cosmologiche e zodiacali del breviario.

Con lo stesso sguardo viene letta la fiaba, su cui la Campo ha scritto pagine decisive e attualissime: una parabola o un racconto iniziatico, in cui l’eroe “dovrà dimenticare tutti i suoi limiti nel misurarsi con l’impossibile” (GI: 32), nell’intraprendere perigliosi viaggi in cui non si raggiungerà altro che il centro di se stessi. Non esistono strade diritte ma solo anelli, labirinti e spirali in cui l’inizio e la meta coincidono e in cui l’eroe “viaggia verso il centro immobile della sua vita” (GI: 18). Siamo nelle vicinanze del cammino ascetico del pellegrino russo come del mistico islamico, di colui che, attraverso il raccoglimento, trova, nascosto dentro di sé, l’infinito. Lontani dai rapimenti estatici, dalle uscite dal mondo e dall’io dei mistici occidentali che fanno astrazione dal corpo, gli “atletismi spirituali” orientali – che chiamare mortificazioni “appare in qualche modo mortificante” (GI: 239) – trasformano il corpo in un tempio e in un altare, ovvero in un corpo glorioso.

La parabola, la fiaba (anch’essa euanghélion), la poesia intonavano insomma, ciascuna con la propria voce, gli stessi accordi: echi di una tradizione che “non è tanto ciò che il passato porge al presente quanto ciò che l’eterno porge al temporale”[17]. Su questo punto vi era piena convergenza tra il pensiero della Campo – nonostante alcune inevitabili frizioni con le sue posizioni cattoliche[18] – e quello di Zolla, che batteva gli stessi sentieri della tradizione di chi aveva “in tasca la storia della stelle”. Lo stesso vale per la Weil, secondo cui la mistica d’ogni cultura religiosa si somigliava. Come dimenticare poi la chiusa della Lettera ad un religioso, che evocava il ripristino della de-cisione del cristianesimo dal paganesimo e il recupero di una fonte primeva, condivisa tanto dalla geometria greca che dalla fede cristiana?

Ora, nel cammino che la Campo compie da occidente a oriente, nella sua orientazione (da intendere alla lettera) verso una diversa concezione della perfezione, determinante fu la scoperta del Pontificio Collegio Russicum. Un depositum fidei in cui sopravviveva la liturgia bizantino-slava, “teatro sacro di stupenda efficacia terapeutica, [che] guarì Cristina dalla grave prostrazione psichica” postconciliare[19]. Dal Russicum (o della liturgia), scaturirono alcuni tra i più ispirati e complessi testi campiani (Diario bizantino, Sensi soprannaturali). Non si trattava solo di indugiare nella descrizione di mirabolanti cerimonie fatte di incensazioni, inchini, impetrazioni, prostrazioni, insufflazioni, gesti ieratici, o dell’arcana simbologia dei colori dei paramenti e delle suppellettili sacre. Passando dal piano dell’enunciato a quello dell’enunciazione, la scrittura stessa ne voleva essere una fedele trascrizione.

Per la liturgia, la Campo aveva del resto sviluppato una sensibilità ustionante, tale da poterle procurare “un terribile male, come tutte le cose perfettamente belle quando si sia nel disordine e nella tenebra” (LM: 235). Scrive di conversioni dovute non alla predicazione ma ad un solo gesto liturgico, efficace come un esorcismo; oppure suggerisce a María Zambrano (che frequenta negli anni cinquanta, quando la poetessa spagnola viveva di stenti in una pensione romana), che il vero monaco si riconosce da come rialza il cappuccio della sua veste. Al Russicum la Campo trova insomma un modello e un mondo di forme, i cui respiri, suoni e cadenze tenta di riprodurre sulla pagina. In un “mondo divenuto aliturgico” che, parole della Campo, ha crocifisso la bellezza e martirizzato il simbolo, la vera sfida consisteva dunque nell’adottare una parola poetica che si rifacesse esplicitamente alla liturgia. Una lingua liturgica: in questo senso, la Campo aveva pochi ma preziosi antecedenti italiani[20]: Dante, certo, gli Inni manzoniani, Luzi, probabilmente, per quanto non va dimenticato che “la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia” (SFN: 133).

Nata da un “desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti” (SFN: 132), la liturgia innesca un gioco di corrispondenze e di mediazioni tra terra e cielo, così come le campane presagiscono la voce divina e il dolore del popolo rinnova quello dell’ora nona. Simboli accomunati e quasi orditi dallo stesso destino, quello di non esser altro che il rovescio nodoso di un tappeto, “che solo raddrizzato mostrerà il suo disegno” (GI: 16), per quanto “solo dall’altro lato della vita – o per attimi di visione – è dato all’uomo intuire l’altro lato” (GI: 115). E lo stesso tappeto volante non è altro che un’ennesima figura di mediazione, visto che i suoi disegni “annunciano quella terra, ritrovata nel volo spirituale” (GI: 70). Così come figura di mediazione per eccellenza è il poeta – intuizione svolta dalla Campo in un conciso quanto denso articolo, Attenzione e poesia (1961) –, colui che fa da spola “tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura” (GI: 166).

 

 

 

III

Considerata l’implicazione reciproca tra liturgia e scrittura, le critiche che la Campo muoveva alla preghiera coinvolgevano implicitamente anche la letteratura.

La preghiera non può, innanzitutto, essere considerata come una supplica, una petizione rivolta a Dio la cui recitazione salda i piedi a terra e smorza quello slancio proprio delle giaculatorie, “dardi verso il cielo” (per citare un testo del ’67) che si levano come una colonna di incenso. Di più, questo dire imprecatorio reintroduce surrettiziamente il soggetto con i suoi appettiti e le sue passioni, quando la preghiera, secondo la Campo, è una questione di perdita di soggettività, di spersonalizzazione, di anonimato. Una posizione che recide la liturgia, quanto la pratica letteraria, dalla sfera della psicologia, da tutto ciò che “essendo psicologico, non è spirituale”[21], così come l’itinerario mistico è inassimilabile a qualsivoglia esperienza. “Io prendo la penna in mano solo quando è la mano a prenderla a mia insaputa” (LAL: 107). Allo stesso modo, in una lettera del ’56, la Campo suggerisce alla Harwell di stendere “un elenco di appunti (citazioni) e il discorso che li deve legare crescerà in mezzo da solo come un rampicante fra i sassi”[22]. E se “lo scrittore non deve esistere se non come scrittura” (SFN: 18) (il passo si riferisce a Katherine Mansfield), non sorprenderà la sua predilezione per le “verbalizzazioni perfette” quanto anonime dei lemmi dei dizionari.

Questa scomparsa, questo seppellimento dell’io – crociata fomentata dalle letture weiliane – è fortissimamente voluta dalla Campo. Lo scrittore ideale è indifferente al lettore e scrive senza pensare ad alcun destinatario, come le suggerisce Andrea Emo, scrivendole che “la sua opera ha trovato dei lettori appunto perché non li ha cercati”[23]. In una lettera ad Alessandro Spina viene persino tratteggiato un succinto canone dell’indifferenza (Xavier de Maistre, Constant, Chauteaubriand, Stendhal, l’amato Proust), che dalla scrittura si espande a raggiera ad ogni espressione artistica: dalla pittura di Paolo Uccello – “Non una delle sue tele è dipinta per chi guarda” (SFN: 192) – alle esecuzioni musicali di Michelangeli, sublimi in quanto la Campo percepisce, nella loro pulsazione, la scomparsa dell’esecutore. Un ritrarsi che sembra mimare quello di Dio dal mondo nell’atto della creazione, secondo una nota teoria kabbalistica cara fra l’altro alla Weil. Un insuperabile gesto d’amore per salvare il mondo, che è presente proprio grazie all’assenza divina e alla rinuncia volontaria ad esercitare la sua onnipotenza. Scrivere pensando a un Dio Nulla-sciente, consiglia la Campo allo Spina, a colui che “finge sempre, come è noto, di non sapere nulla” (LAL: 70).

Come in un tappeto dai fili inestricabili, è tuttavia la pratica meditativa quella che meglio scalza la preghiera supplichevole dell’io e le letterature ‘del loro tempo’. Lo sguardo della Campo è volto ad oriente e in particolare all’esicasmo – quell’essere in pace che traduce la parola hesychìa – unione dell’orante con la divinità attraverso metodi psico-fisici, dove l’orazione ininterrotta è più uno stato che un’azione, un saper durare proprio solo alla perfezione. Su tutti risplendono, come un cristallo di roccia, i Padri del deserto, il cui io “era semplicemente svanito. Non c’era più psiche a cui appendere una qualunque psicologia” (GI: 214). La recitazione, il battito del cuore e il respiro si appianano e si rispecchiano l’un l’altro finché “non più l’uomo prega ma in lui si prega incessantemente, gioiosamente, così come in lui si pulsa e si respira” (SFN: 137). Così il Pellegrino russo, che “non prega [...] la Preghiera, ma dalla Preghiera è pregato, non lui ne vive ma ne è vissuto” (GI: 225). La Campo individua tracce di questo svuotamento persino in san Paolo – “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal, 2, 20) – come nella figura, mitizzata, di quei monaci mendicanti – rapiti e imperturbabili – che non sembrano aver bisogno di noi e vivono nell’oblio totale di se stessi. Una declinazione di quell’inattuale “sprezzatura” che la Campo, in un vertiginoso gioco di specchi, considerava il cuore dell’esperienza letteraria.

Senza tali paradossali capovolgimenti sfugge quella perfezione disperatamente perseguita che dovrebbe fare dello scrittore un mistico – “puro precipitato di esperienze” – che “non specula, riferisce” (SFN: 164). Entrambi al servizio di una dimensione più profonda e concreta del reale e del mondo sensibile, di quelle “matematiche contemplative” che portano a rifuggire ogni fantasticheria. All’immaginazione febbrile – fugace e arbitraria – il poeta e il mistico sostituiscono l’attenzione (così i Greci, così Dante, secondo la Campo) ovvero “il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero” (GI: 167). Un’askesis che costringe lo scrittore a non distrarsi mai, “qualcosa di molto prossimo alla santità” (GI: 170) che non a caso, ha notato Cacciari, sembra ricalcato sul termine patristico prosoché[24].

Tuttavia, negli anni in cui la Campo tesse queste corrispondenze, la preghiera si andava trasformando in un evento puramente fonico, con la voce amplificata e distorta dai microfoni che, dopo il Concilio, fanno il loro ingresso nelle chiese. Proprio là dove le pietre, una volta, cantavano. Disincarnata e disinteressata all’atteggiamento e alla disciplina del corpo, se non fosse per qualche fugace inginocchiamento, la preghiera diventava, alla lettera, un’orazione, un soffio che passa attraverso la bocca, come qualsiasi profana vociferazione, al contrario delle antiche ed esoteriche cantillazioni dei testi sacri.

Per questo la Campo, con un gesto inattualissimo, si rifà all’esperienza multisensoriale offerta dalle chiese orientali, “recinto dei più crudeli digiuni e degli asceti in pesanti catene” (GI: 247). In Sensi soprannaturali (che pubblica su Conoscenza religiosa nel 1971) descrive il potenziamento, la trasmutazione e la rigenerazione degli organi sensoriali: dell’olfatto attraverso l’incenso, capace fra l’altro di “disperdere l’angoscia del respiro” (SFN: 134); dell’udito attraverso la campana o le catenelle del turibolo; del tatto attraverso la fiamma divina che trapassa le membra; della vista attraverso il lucore dell’iconostasi; delle papille gustative, per cui l’ostia sapeva di sangue e di miele. E, ancora, in un crescendo, il cuore di Filippo Neri che, in preda alla giubilazione, si dilata così tanto da spezzargli due costole; o i Padri del deserto, anacoreti che dormivano su paglia e cenere e si nutrivano di miele e locuste, “noci durissime, inscalfibili” che facevano della preghiera una corazza. Oggi, scrive giustamente la Campo, non abbiamo più neanche gli organi per afferrarli; impossibile calcolare la distanza astrale che li separa, per citare un cammeo della scrittrice, dal “prete in maglione e fuoriserie, patito di psicanalisi e televisione, il frate che suona la chitarra e ‘comprende tutto’” (SFN: 146).

Eppure Sensi soprannaturali, indagando il corpo e il sangue della vita divina, ribadiva l’idea della Messa come sacrificio – e del sacerdote come sacrificatore – contro il Concilio che l’aveva depotenziata a semplice cena. “Per essere divorati, assimilati dalla divinità, divorarla dunque. Per essere fatti a Dio cibo e bevanda, cibarsene e berne” (GI: 233), come nell’Ultima cena in cui “si mangia ancora vivente, il morto immortale” (GI: 242). Passi in cui si sente l’eco dei Cahiers della Weil sull’amore cannibale e antropofago – “si ama solo ciò che si può mangiare” –, ma in cui ad affermarsi è la spiritualità viscerale della stessa Campo, che gronda di carne e di sangue, di pneuma e di saliva, impregnata di corporeità come il Verbo. Nessuna teofania senza teofagia insomma: quello con il fuoco soprannaturale è un vero e proprio corpo a corpo, una comunione con il tremendo in cui ci si lascia mangiare dal divino mentre lo si incorpora.

 

 

 

IV

Come spingere la scrittura a tali limiti? Come “poter scrivere, anche una sola volta nella vita, qualcosa che ricordasse appena un poco la più semplice, la più umile delle antiche, delle eterne liturgie, d’Occidente o d’Oriente”? “E’ bene avere ideali impossibili” (SFN: 204), si rispondeva la Campo. La scrittura era vissuta come un corpo a corpo, un’esperienza verticale capace di lanciare “dardi verso il cielo”, come le grida disperate di Giobbe senza cui non sarebbe pensabile alcuna teo-logia. Una lettura che Ernst Bernhard, il celebre psicanalista che introdusse il pensiero junghiano in Italia ed ebbe in cura la Campo, consigliava ai suoi pazienti nevrotici. Ma nella ricerca della perfezione risuonava quell’etimologico ethos che la scrittura non poteva abitare. Una dimora simile a quella dei Padri del deserto che hanno radici solo in cielo e che, pur trasformando i loro cellari in tombe, facevano di ogni luogo – persino del deserto – un esilio, fedeli alla “xenìteia nel mondo, o migrazione interiore” (GI: 214). Più radicalmente, le voci della mistica si presentano spesso sotto forma di glossolalie inassimilabili ad alcuna profezia, per riprendere due termini cari a Luzi[25], linguaggi senza mediazioni che nessuna comunità umana saprebbe adottare né alcuna parola scritta riportare.

Come “ogni grande quadro è dipinto contro la pittura, anzi distrugge tutta la pittura”, così ogni grande libro compie la “distruzione del linguaggio” (GI: 153). Ma la via negationis che annienta o decrea il mondo delle forme è impervia, almeno quanto la salita sulla montagna secondo la mistica delle tenebre di San Giovanni della Croce o di Gregorio di Nissa (entrambi nella biblioteca della scrittrice). E’ vero, la forma si distruggerà da sé, “ma solo nel momento in cui si compie[rà] perfettamente” (GI: 18). Salvifico appariva dunque alla Campo il potersi ancora affidare ai riti, “i veri modelli, gli archetipi della poesia, che è figlia della liturgia” (SFN: 204). Liturgia che era a sua volta archetipo del destino e della vita, e che la Campo contrapponeva alla paludata forma saggistica. Difficile tuttavia trasporre sulla pagina la ciclicità rituale, che fosse la ripetizione infinita di un gesto – propria tanto all’espiazione delle colpe dei dannati che alla coazione a ripetere della nevrosi – che la traditio dei poteri sacerdotali, in cui l’uomo, celebrando il rito, non fa che assicurarne eternamente la continuità.

Esisteva tuttavia per la Campo ancora un ultimo modello: quello delle icone bizantine, che vivono in quel supremo anonimato di cui abbiamo intravisto alcune manifestazioni. Si tratta infatti di immagini sacre esenti da questioni d’autore, come le preghiere, perché, come noto, in loro si manifesta la presenza stessa della divinità, una sua epifania e non una rappresentazione due volte lontana dal vero. All’artista, cui è imposta la visione, non spetta che la mera esecuzione materiale[26]. Per questo le icone erano venerate dal popolo (come le reliquie), toccate, baciate, portate in processione, secondo una “sensualità trascendente” scambiata per superstizione, su cui la Campo ha lasciato alcune tra le sue pagine più intense.

Sappiamo che la scrittrice venerava l’icona di Edessa (ne teneva fra l’altro una riproduzione sopra il letto), un’immagine miracolosa detta acheropita, ovvero non toccata da mano umana, simile a tante altre Veroniche che imperversavano quella Bisanzio che la Campo conosceva, elettivamente, quanto Roma. Fedele ad un’abissale perfezione, alla cancellazione della mano che ritrovava nelle icone, la Campo anelava forse ad una scrittura acheropita, in cui la pagina bianca somigliasse al mandylion, il panno di lino su cui si era impresso il volto di Cristo. Detto altrimenti, una scrittura ierofantica, che mostrasse – e non dicesse – il sacro. “Sorveglia[ndo] ogni accento come se l’ordine del cosmo ne dipendesse”[27], Cristina Campo professò – come i mistici, gli eroi fiabeschi, i folli e forse i poeti – una profondissima e disperata “incredulità nella onnipotenza del visibile” (GI: 32).

 

 

 

BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA

 

 

CRISTINA CAMPO

Gli Imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, 2004

Lettere a un amico lontano, Milano, Libri Scheiwiller, 1989, 1998

La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, 1997

Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi, 1998, 2002

Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999

 

ENZO BIANCHI, PIETRO GIBELLINI (a cura di), Humanitas. Rivista bimestrale di cultura, n. 3, giugno 2001, numero speciale

 

ANNIBALE BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, Edizioni Liturgiche, 1983

 

ELISA CEDOLINI, Cristina Campo e Simone Weil, tesi di laurea in Letteratura italiana moderna e contemporanea, relatrice Cristina Benussi, a.a. 2000-2001

 

CRISTINA DE STEFANO, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002, pp. 173-4.

 

MONICA FARNETTI, GIOVANNA FOZZER (a cura di), Per Cristina Campo, Milano, Vanni Scheiwiller, 1998

 

MARIO LUZI, La porta del cielo. Conversazioni sul Cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Piemme, Casale Monferrato 1997

 

MARIO LUZI, Naturalezza del poeta. Saggi critici, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995

 

PIER PAOLO PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999

 

SIMONE WEIL, Lettera ad un religioso; Guérard des Lauriers, Risposta a “Lettera ad un religioso”, tr. it. Torino, Borla, 1970; ed. or. Paris, Gallimard, 1955

 

MARÍA ZAMBRANO, La fiamma, «Conoscenza religiosa», 4, ottobre-dicembre, 1977, pp. 382-385


 

[1] Oggi raccolte in La Tigre Assenza, Milano, Adelphi, 1991, 1997.

[2] MONICA FARNETTI, Il privilegio del segno, in Per Cristina Campo, a cura di Monica Farnetti e Giovanna Fozzer, Milano, Vanni Scheiwiller, 1998, p. 27.

[3] MARIO LUZI, A guisa di congedo. Una religione dell’armonia del mondo, in Per Cristina Campo, op. cit., p. 237.

[4] CRISTINA CAMPO, Sotto falso nome [d’ora in poi SFN], a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi, 1998, 2002, p. 203.

[5] CRISTINA CAMPO, Lettere a un amico lontano [d’ora in poi LAL], Milano, Vanni Scheiwiller, 1989, 1998, p. 35. Raccoglie il carteggio con Alessandro Spina durante tutti gli anni sessanta.

[6] Riportato in MARGHERITA PIERACCI HARWELL, Il sapore massimo di ogni parola, in CRISTINA CAMPO, La Tigre Assenza, op. cit., p. 290.

[7] CRISTINA CAMPO, Lettere a Mita [d’ora in poi LM], Milano, Adelphi, 1999, p. 27; 29.

[8] Si tratta di un’antologia di testi ascetici e mistici compilata da Nicodemo e Macario e pubblicata a Venezia nel 1782.

[9] CRISTINA DE STEFANO, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002, pp. 173-4.

[10] GUIDO CERONETTI, Cristina Campo o della perfezione (1971), in CRISTINA CAMPO, Gli Imperdonabili [d’ora in poi GI], Milano, Adelphi, 1987, 2004, p. 277.

[11] Come traspare dal composto regesto dell’anima della riforma liturgica, ANNIBALE BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, Edizioni Liturgiche, 1983, in particolare pp. 275-299.

[12] Episodio raccontato dalla Campo a ERNESTO MARCHESE, art. cit., p. 425.

[13] Riportato da ANNIBALE BUGNINI, op. cit., p. 293.

[14] PIER PAOLO PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 530; 532.

[15] GUERARD DES LAURIERS, Risposta a “Lettera ad un religioso”, in SIMONE WEIL, Lettera ad un religioso, Torino, Borla, 1970, p. 115. La lettera, composta nel novembre del ’42, non trovò che questa parziale e postuma risposta.

[16] MARGHERITA PIERACCI HARWELL, Nota biografica, in CRISTINA CAMPO, Gli imperdonabili, op. cit., p. 270.

[17] Passo inedito della Campo riportato da ERNESTO MARCHESE, Ricordo di Cristina Campo : gli anni del Russicum, “Humanitas”, 3, giugno 2001, p. 425.

[18] Per inciso, negli ultimi anni vi è chi, come Gianni Rocca e Francesco Ricossa, ha insinuato, piuttosto scaltramente, che quello della Campo sia in realtà un pensiero gnostico e pagano ammantato di tradizionalismo cattolico.

[19] ERNESTO MARCHESE, art. cit., p. 422.

[20] Cfr. GIOVANNI POZZI, La liturgia nella poesia e nella prosa di Cristina Campo, “Humanitas”, 3, giugno 2001, pp. 358-9.

[21] MASSIMO CACCIARI, Relazione d’apertura, in Per Cristina Campo, op. cit., p. 13.

[22] MARGHERITA PIERACCI HARWELL, in op. cit., p. 268.

[23] Riportato da CRISTINA DE STEFANO, op. cit., p. 161.

[24] MASSIMO CACCIARI, art. cit., p. 14.

[25] MARIO LUZI, Glossolalia e profezia (1973), ora in Naturalezza del poeta. Saggi critici, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, pp. 117-125.

[26] Cfr. RICCARDO RIMONDI, Il bacio dell’icona, in Per Cristina Campo, op. cit., pp. 52-66.

[27] ELEMIRE ZOLLA, La verità in uno stile, in Per Cristina Campo, op. cit., p. 284.

 

 

 

 

                                                                                                                                           TORNA SU