in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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OLTRE LA SCRITTURA. LA RICERCA DI CRISTINA CAMPO

Walter Nardon

 

Proseguiamo la riflessione su Cristina Campo, autrice cui «Il Margine» ha dedicato il convegno di Sopramonte (20 dicembre 1998: gli atti relativi sono stati pubblicati nel n. 2/1999 della rivista).

L’esperienza letteraria di Cristina Campo porta il segno di una dedizione alla scrittura che non ebbe tregua. La lettura delle sue pagine – un ristretto numero di saggi, poesie e traduzioni, cui si aggiungono le molte lettere1 – costringe ad accostarsi alla qualità che attribuiva ai poeti d’un tempo e a quello stupore, a quella meraviglia per l’esistente, a quell’attenzione per ciò che sembra manchi al reale per essere vero che trovò in lei forza considerevole, tanta da imporle una strenua disciplina. Si potrebbe dire che lo stupore prese in lei un’intensità tale che non si poteva arrendere se non davanti all’esercizio della perfezione. Ciò costringe ad un chiarimento. La sua partecipazione emotiva agli eventi dell’epoca crebbe al punto che la scrittura, da lei concepita come una forma di esercizio spirituale, poteva aver luogo solamente a patto di una rinuncia: una rinuncia agli aspetti più convenzionali del discorso, all’opinione corrente, persino al costume di riferire al proprio nome – alla propria personalità intesa come immagine sociale – le poche pagine che vergava. Per questo il ricorso allo pseudonimo le divenne irrinunciabile. 
Avvertire la precarietà del reale, mantenendo nel contempo «un’accettazione fervente, impavida» dello stesso: così la Campo si votava a quell’attenzione che sola le sembrava essere un viatico, per quanto oneroso, al luogo del vero. Il culto dello stile, la ricerca di uno splendore in esso, pur mantenendo un’espressione nitida, di rado tortuosa od oscura, rappresentava il risultato di una ricerca inesausta, una tensione verso ciò che non si coglie, la professione di fede, «di incredulità nell’onnipotenza del visibile». Il suo percorso giunse in questo modo ad assumere un carattere prossimo a quello mistico, non senza incertezze o difficoltà. Un itinerario dal finito all’infinito che, compiuta la fatica,
ha per premio una comprensione piena, la restituzione del reale.
Il rapporto con la scrittura, ciò nonostante, rimase una prova incerta. L’elegante noncuranza, la sprezzatura del linguaggio nella quale, in un saggio, l’autrice pareva intravedere un aspetto della poesia, sembra contrastare con l’elemento cerimoniale dello scrivere, col bisogno di arrivare all’opera in rapporto conflittuale con il già-detto, di cui in altri momenti aveva sostenuto la presenza. Forse, su un piano diverso, non più letterario, questo mutamento d’opinione può essere letto come uno sviluppo.
In un periodo, come risulta dalle lettere inviate ad Alessandro Spina, provò forte il desiderio di scrivere della vita dei religiosi, poiché sosteneva di non veder altro che valesse la pena d’essere raccontato: passeggiava in giardino portando con sé un taccuino rosso su cui prendeva appunti per «un racconto immenso ed impossibile, protagonista un monaco» come affermava. «Il mistero di una vita consacrata. Non c’è assolutamente altro di interessante al mondo».
Il lento confronto col silenzio non la portò ad esprimersi in un’opera, sicché può forse valere l’opinione di chi, nonostante la qualità della sua prosa, non la ritiene una scrittrice, poiché il risultato della sua esperienza letteraria non è – e lei ne era ben consapevole – che un segno, il segno dell’assenza, il geroglifico della dimensione ulteriore.

 

 

Da: http://www.il-margine.it/archivio/1999/h9.htm

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