in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

  home page   cerca nel sito   iscrizione newsletter   email   aggiungi ai preferiti   stampa questa pagina    
 

 

  SU DI ME
 Vita       
 Pubblicazioni

 Corsi, seminari, conferenze

 Prossimi eventi
 
  DISCIPLINE
 Filosofia antica       
 Mistica
 Sufismo
 Taoismo
 Vedanta              
 Buddhismo              
 Zen
 Filosofia Comparata
 Musica / Mistica
 Filosofia Critica
 Meditazione
 Alchimia
 Psiché
 Tantrismo
 Varia
 
  AUTORI
 Mircea Eliade       
 Raimon Panikkar
 S.Weil e C.Campo
 René Guénon, ecc.
 Elémire Zolla     
 G.I.Gurdjieff  
 Jiddu Krishnamurti
 Rudolf Steiner
 P. C. Bori       
 Silvano Agosti
 Alcuni maestri

 

Tra due analogiche visioni: nota in margine alla poesia di Cristina Campo (Massimo Morasso)


 

Come nessuno, almeno fra quanti ho incontrato, degli scrittori italiani di questa seconda metà del secolo, la Campo ha saputo riconoscere la verità del proprio essere, e vivere (e scrivere) in accordata obbedienza a questa verità. Pensare alla vita innanzitutto come a un percorso eticamente rischioso ha coinciso in lei con la ricerca incessante, perseguita con spietatezza, del suo proprio strumento linguistico: di un ritmo del respiro, direi, assai più che, superficialmente, di una qualche “cifra stilistica” da consegnare alla fastidiosa tribù dei letterati, in cui l’irreprensibile disciplina dello sguardo potesse arrivare a vedere analogicamente rispecchiata sulla pagina, come un compimento d’ascesi, l’idea stessa della giustizia.

La giustizia, la parola giusta, l’individuo che ha in sé la ragione, è un’iperbole - dicono tutti, e tornano a vivere come già l’avessero, ha scritto nel suo libro Michelstaedter. Per Cristina Campo, araldo fedele dell’iperbole e dell’impossibile (in Parco dei cervi, per esempio, dice della verità “che parla per iperboli esatte”, e altrove, più avanti negli anni, afferma candidamente che “è bene avere ideali impossibili”), sarebbe stato già da sempre inaccettabile tornare a vivere come questi tutti, nell’oblio della propria chiamata alla perfezione. Anche prima del suo avvicinamento al rito slavo-bizantino, la Campo avrebbe sottoscritto senza difficoltà le parole semplici e terribili di Basilio di Cesarea: l’uomo è un animale che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio… solo, le avrebbe lette (le avrà senz’altro lette), queste parole di fuoco che ci invitano a diventare modelli morali a noi stessi, con l’unica vera guida possibile per un’anima infinitamente affamata d’attenzione, l’indice, cioè, del proprio dolore…

 

… avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa… È avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia. Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male. Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione (da Attenzione e poesia, in Gli imperdonabili, Adelphi, 1987, p.169).

 

Con piglio eckhartiano, Cristina concepì la giustizia come un altro volto della santità: la giustizia è il giusto, oppure non è. Se non che, tragicamente sprofondata nel buio di Dio, nello spazio abissale della sua assenza (esplicitamente, in una lettera del ’58 all’amica Pieracci: “E io non parto dall’amore di Dio - sto nel buio…”), la Campo non arrivò mai, per sua e nostra fortuna, a pensare alla giustizia positivamente, come all’estremo dei contenuti.

La concezione del termine “giustizia” nella Campo è da intendersi sempre in senso ontologico: la giustizia non è per lei una norma di condotta, ma dell’essere. La lotta per ricomporre questo legame secondo l’ordine dei principi di bellezza e verità è stato il suo modo, labirintico, psichicamente senza vie d’uscita, di riconciliare se stessa con il proprio destino.

 

Il coraggio di proclamarsi campo

“Piagata di infinito”, la Campo visse con caratteristica ambivalenza il sentimento - tutto letterario - del proprio esilio nella parola e nel suo stesso principale eteronimo, mi pare, giocò a segnalare la sua disponibilità a farsi luogo di riconciliazione dalla separatezza profondamente innaturale fra mistica e letteratura. Ebbe il coraggio raro, Cristina Campo, in un tempo, così come definì, non senza ragione, il nostro, di “apostasia” e di “sacrilegio”, di proclamarsi campo, appunto, ed esecuzione di un processo cosmico umanamente tollerabile nella misura in cui la parola è il corpo visibile di un’anima invisibile.

Credo di non sbagliarmi quando penso che alla Campo interessasse la parola, florenskijanamente, soltanto come testimone dell’energia e della vita dello spirito. Ma questa energia, questa vita, mi domando con due verbi da Yeats, non “fioriscono e danzano” come natura umanizzata proprio nell’ampiezza degli spiriti che ostinatamente, ritualmente li celebrano?

Eppure, i passi, nelle sue pagine, in cui compare la figura del “giusto” rinviano sempre, in una sorta di caratteristico understatement che interviene però a zone siderali del discorso, a una sapienza del cuore che è sempre di altri, o di altre epoche, dispersa magari in vecchi, inaccessibili libri…

Fronteggiando senza alcun risparmio di sé la realtà del finito, la Campo giunse a individuare nel destino, nella legge ontologica cui sottostà l’esistenza, un punto di fuga dalle strette di quel nichilismo di cui il destino parrebbe, a uno sguardo disattento, una delle figure più pertinenti: il destino, inscritto di solito a lettere esclusivamente negative nel nostro liber vitae, fu per lei il geroglifico, la decifrazione del quale (intesa come compito essenzialmente umano) servirebbe a ricomporre i caratteri dispersi in cui si dà simbolicamente il logos proprio dell’anima.

Fu, il destino, per Cristina Campo, un luogo purgatoriale - un altro nome, d’accordo, per dire la keatsiana “valle del fare-anima” - che ciascuno di noi ha da attraversare oltre la sua conformazione e la sua destinazione mondana serbando intatta la tensione alla santità e, dunque, alla giustizia. E la scrittura, il traslato verbale di ciò che entro la vita si va configurando come destino, appunto, fu la migliore delle approssimazioni possibili alla sua idea, che lei riteneva per sé senz’altro impraticabile, di giustizia, beninteso a patto che il gesto poetico fosse il frutto di un puro guardare, del nietzscheano rein erkennen di cui ha parlato Cacciari due anni fa nella relazione d’apertura del convegno fiorentino sulla Campo - di “un’attenzione fervente”, cioè, sono parole che trovo ne Il flauto e il tappeto adesso, “ugualmente distante dall’apparenza e dal mito”.

È vero che è sempre un altro a destare la mente, ed è pur vero che il concetto di giustizia di un testo pervenne alla Campo attraverso la mediazione regale di Hofmannsthal. Ma al di là dei debiti e delle filiazioni libresche è proprio tutta della Campo, mi pare, ne è, anzi, uno dei tratti più utili a definire il profilo della sua estraneità radicale, una disposizione alla parola onesta che riporta con naturalezza la memoria ai versi, acutissimi, del Faust di Goethe: “Beredt wird einer nicht / durch fremder Reden Macht, / ist nicht sein eigen Geist / zur Redlichkeit gebracht” (“Non si diviene eloquenti / per la forza di parole altrui, / se il proprio spirito non è / portato all’onestà”), dove nella radice di “beredt” (eloquente) come in quella di “Redlichkeit” (onestà) stanno a un tempo, inestricabilmente congiunti, probità e disponibilità al dire. Ecco, l’animo poetico di Cristina Campo è l’indagine di questa connessione, la sua disponibilità soltanto relativa alla scrittura è la via stretta che Cristina ha sentito di dover percorrere per testimoniare oltre il proprio talento linguistico ed esegetico il fallimento del sapere e della volontà, con tutta la loro furbizia.

 

Contro la profanazione del linguaggio

Per capire qualcosa della Campo, occorre attribuirle innanzitutto e al più alto grado - e di questa attribuzione sapersi intanto rivestire come fosse un abito anche nostro - quel rispetto della parola che può essere considerata la prima regola nella disciplina che educa alla rettitudine intellettuale, emotiva e morale. Quel rispetto, dico, che già di per sé è avviamento al sentimento del sacro, che il primato del sociologico e dell’informazione mass-mediale stanno consegnando ogni giorno di più alla cura di pochi…

Cristina Campo ebbe assai vivo il fiuto e, di conseguenza, il disgusto, per la profanazione del linguaggio. La comprensione della funzione simbolica della parola presuppone una coesione spirituale che l’arroganza dell’autoaffermazione dell’io rischia di spezzare. Il rifiuto anche istintivo dell’hybris - oscillante tra il sublime e il patetico - che tenta diabolicamente di abbassare la letteratura al rango subordinato di sismografo dell’umanismo teomorfico, è ciò che primariamente l’ha portata ad essere, col tempo sempre più coscientemente, una scrittrice passiva. Passiva, a differenza, non ci si inganni, della sua tempestosa sorella d’elezione Simone Weil, nel senso che la Campo non ha mai scritto, come la Weil, e come molti mediocri, per partecipare di sé, ma, piuttosto, credo di poter dire, per il debordo di ciò che la possedeva.

La sua originalità, la clamorosa inattualità del suo ornato retorico, in prospettiva estetica sta soprattutto nella prossimità con l’origine delle parole-chiave che lo definiscono. Detto con più precisione, l’originalità della voce della Campo è dovuta in primo luogo alla sua spontanea (e artisticamente funambolica) capacità di mantenere una relazione di prossimità col suo principio formale. Techné, negli scritti di Cristina, consentitemi metafora e grecismo, va ancora a braccetto con arché: che è il modo privilegiato, in un corpo solo con magistero fonico-ritmico e acribia lessicale, in cui significato e bellezza, come cavallo e cavaliere in un sonetto famoso di Rilke, possono essere per un attimo, o possono almeno indurci a pensare che siano “una cosa sola”.

Due passi tratti da Fiaba e mistero, il primo volume di saggi che la Campo pubblicò, mi sembrano esprimere bene l’atteggiamento che già intorno ai trent’anni la scrittrice aveva assunto con precoce lucidità nei confronti di questa relazione originaria. Ricordando di passaggio che quelli in cui la Campo andava ragionando il suo libretto (edito da Vallecchi nel 1962, Fiaba e mistero contiene in Parco dei cervi alcuni scritti risalenti ai primi anni ’50) erano i tempi, cito a caso, di “Officina” e, che so, del sanguinetiano “Laborintus”, di questi due passi (rispettivamente, alle pp. 149 e 146 de Gli imperdonabili), come di intere pagine, del resto, giova per noi sottolineare l’afflato sprezzantemente anti-intellettualistico:

 

Nella poesia, come nel rapporto fra le persone, tutto muore non appena affiori la tecnica. La vera educazione della mente non ebbe mai altro fine, da quando il mondo esiste, che la morte della tecnica, di quel triste saper vivere che al bambino, al quale tutto riesce per naturalezza, venne un giorno fornito dagli adulti.

 

Il massimo del sapore non lo gustiamo mai nelle parole rare o in quelle del costume – le parole che non hanno precisa cittadinanza, le parole che Machiavelli accusava di lenocinio – ma nelle pure e originarie – nel reale – quando siano sospinte dalla forza vitale come da una matrice e sboccino nella chiarezza dello spirito come fiori.

 

Non si trattava, scrivendo, di essere unici, per Cristina, diversi da ogni altro: la circostanza, evidente di per sé, della nostra assoluta singolarità (umana, certo, ma di riflesso, fra gli uomini che scrivono, anche stilistica), è un dato di fatto che non può aver alcun nesso causale con l’autenticità di una missione creativa. Né si trattava, nella completa noncuranza per gli aspetti esteriormente espressivi della lingua, di essere bravi, oppure, addirittura, come pareva imponesse la rampante società letteraria dell’epoca, di essere utili: di considerare la letteratura - e perché no, con la letteratura, la vita - come un divertissement scettico incrinato magari da qualche transumanante contrappeso ideologico, dalle forti tensioni pragmatiche. Si trattava, invece, passivamente, per lei ferma nell’ascolto di un tempo del segreto che non ha nulla a che fare con le comuni vicende storiche, di lasciarsi invadere, di farsi conoscere dalla conoscenza per tentare di ascendere all’eloquenza di una parola riflessiva che nel dettaglio, nel margine di ciò che andava nominando trattenesse in qualche modo la memoria di colei che nominava. Così, solo così, il compito (etico) di nominazione poteva, per Cristina Campo poeta, farsi tutt’uno con il compito (estetico) di rimemorazione. Consegnando la parola alla volgare celebrazione dell’immediatezza, si sarebbe altrimenti bloccato lo scambio tra mondo e realtà soprannaturale, tra la coscienza dell’evento dell’essere qui e lo stupore provocato dalla percezione di questo evento, impedendo l’accesso della parola a quel crocevia (due versi di Canone IV, nell’esibito calco eliotiano dai Four Quartets, per tutti: “fermo orizzonte dell’immagine, / all’incrocio del tempo e dell’eterno,”) dov’è fanciullescamente in gioco la restituzione dell’immagine come prodotto di verità.

 

L’attenzione del poeta

È un piccolo destino, questo, che a ben vedere elegge la ricostruzione della memoria a possibilità della fondazione dell’autocoscienza, che Cristina come ognuno dei suoi più imperdonabili amici accolse azzardandosi sulle tracce di un percorso ovviamente personale e irripetibile. Tuttavia, avessimo il tempo di svolgere insieme i fili di una delle sue imprevedibili trame, potremmo forse intravedere con un qualche profitto, per la disperazione o, magari, lo scherno di filologi e storici della cultura, come esso abbia dei sostanziali punti di contatto con l’itinerario che fu di Rilke (pensiamo per un momento all’Herzwerk come passaggio obbligato della poetica rilkiana, l’opera del cuore concepibile, solo, da quel centro gravitazionale che il poeta delle Elegie definì una volta come Weltinnenraum, “spazio interiore del mondo”) e, in Rilke e ben oltre Rilke, con certo neo-platonismo, o meglio con certo neo-plotinismo introdotto nella Firenze medicea per vari tramiti culturali da Marsilio Ficino, che nel concetto poetico di “immagine del cuor” trovò la forza per riciclare in letteratura una forma d’attenzione, l’attentio cordis, che, in fondo, è proprio quella medesima forma d’attenzione evocata con insistenza dalla Campo nell’ombra dei lampeggiamenti intuitivi di Simone Weil.

In un saggio de Il flauto e il tappeto in cui ha tematizzato centralmente il rapporto dialettico in essere fra attenzione e poesia, Cristina Campo ha parlato della poesia come di “una lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure”. Una simile concezione del poiein, confermata senza grossi scarti semantici anche in altri passaggi da rintracciare qua e là lungo i suoi scritti, pone in questione da un lato il fondamento stesso della figuratività, dall’altro il potere interpretativo del poeta - o meglio l’orizzonte entro il quale si darebbe il suo legame con la verità.

Per fare almeno un po’ di chiarezza intorno a questi snodi importanti, è bene pensare alla passività del poeta come a un carattere originario della sua vocazione.

Prima, ho sottolineato la qualità passiva della scrittura di Cristina. Ebbene, alcuni teorici degni di fiducia ritengono che questa qualità possa a buon diritto dirsi una qualità essenziale dell’esperienza artistica in generale, e di quella poetica in particolare. Per parte mia spero che qualche precisazione in merito a una qualità che sarebbe di tutti (i poeti veri), possa servirci a una migliore comprensione dei modi in cui questa stessa qualità si declina in un singolo (poeta vero).

Poeta, per Cristina, non è chi porta la parola alla presenza e basta, colui che compie l’aspettazione diurna dell’impossessamento del mondo per via di nominazione. Ci sono altri nomi, aggiungo io, per definire un individuo di una tal specie, e uno di essi è: verseggiatore, o, cambiando genere ma non sostanza, prosatore, oppure, al più, scrittore. Poeta autentico, lo sappiamo già, ma la Campo ce lo ricorda a più riprese, è invece mediatore, cioè ermeneuta, e mediatore, non dimentichiamolo, di una parola restituita al suo gradiente simbolico, a un livello di significazione dove essa deve poter risaltare anche nella sua incomprensibilità.

Il poeta, che non è colui che impiega un po’ del proprio tempo a scrivere versi, ma colui che, parafrasando la Campo, fa la verità in figure, è l’uomo che accompagna la parola nella sua peregrinazione dalla coincidenza con la cosa che essa significa all’enigma implicito in questa coincidenza. Deve, il poeta, da un punto di vista non estrinseco della fenomenologia dell’esperienza estetica, lasciarsi agire linguisticamente dalle forze, ciò che la nostra tradizione imbevuta di platonismo ci ha abituati a chiamare dèmoni, e annullarsi in quel punto focale del linguaggio dove diventa antinomicamente verosimile la misteriosa triunità di uomo, cosa e sogno di cui ha scritto Hofmannsthal nell’ultima delle sue Terzine sulla caducità. Deve, allora, il poeta, per un pensatore originario che, come Cristina Campo, ha meditato come fosse materia sua tanto la drammatica lezione hofmannsthaliana del Chandos quanto la suprema, sublime frivolezza della Recherche, servire la notte dell’attesa, e per così dire raccogliersi accanto alle parole per lasciare che nell’idealità del ricordo le immagini riaffiorino alla sua coscienza interrogante plasmate come figure di quel mundus imaginalis che il linguaggio, adesso, è per così dire riabilitato a frequentare - o forse, più semplicemente, che l’intelligenza del medium poetico che lo muove è ora in grado di sopportare.

La verità, che in arte è sempre verità presentativa, si offre in poesia in quanto la parola che la dice ha già percorso a ritroso tutto l’itinerario illineare e labirintico che apre a un cosmo immaginale dov’è un nodo originario della significatività: i punti ritmici che intervallano come antiche pietre miliari gli scarsi segni di orientamento disseminati lungo questa discesa ad inferos, sono i luoghi di una passività fertile, di una recettività attiva, dove a presiedere non sono più facoltà intellettuali o volitive. Specchio, cuore, anima, la metaforica di queste dimensioni ci rimanda invariabilmente a una regione trasparente - a un luogo nomade affine al fondo trascendentale dell’immaginazione pensato da Kant - che non è meno dell’organo del “passaggio” cruciale fra la terra e il cielo… che non è meno, dunque, di un campo di battaglia, di un laboratorio dello spirito che si è dato cristicamente in offerta a domande i cui vasti echi gli impongono di espandersi, di provare instancabilmente a riunificarsi alla sua radice.

Il doppio sguardo

La psicanalisi e le sue logorree nichilistiche ci hanno portati ormai a diffidare del profondo. Il vaniloquio pretenzioso dello junghismo meno autocritico (Dottor Bernhard escluso, ovviamente, “lo psichiatra silenzioso”, si legge nel saggio che la Campo dedicò a Cechov, che ai suoi depressi - fra i quali per un periodo anche la scrittrice - “usava consigliare la lettura del libro di Giobbe”) si affaccia, e affacciandosi, oggi, prova a affacciarci, all’universo delle immagini archetipiche come davanti all’officina delle meraviglie. Cristina Campo, lontana dal materialismo come da ogni gnosticismo spiritualista, lungo il suo viaggio iniziatico per verba ha attraversato anche per noi proprio il mondo ‘ricco e strano’ delle immagini risalite dal profondo: ha capito non solo per istinto, vera sapiente della rimemorazione, che liberata dal compito di produrre e dirimere le idee, la mente si svolge armonicamente a comporne.

Senza scomodare più di un attimo Coleridge e la sua geniale dialettica tra fancy (fantasia, illusione) e imagination (immaginazione simbolica, verità), che il poeta-filosofo risollevò a suo tempo oltre ogni leziosità mitologica alla dignità di problema estetico radicale, non è neanche il caso, qui, di addentrarci in sottili e inevitabilmente complesse indagini testuali sui presupposti culturali di un’idea della poesia, quella di Cristina naturalmente, che rappresenta una esatta antitesi della logica spezzata cui s’appoggia il realismo della mimesi rappresentativa.

Se è vero, come ha detto qualcuno, che la domanda sugli influssi, comunque essa suoni, dev’essere subito restituita a quella vita da cui deriva, e, in certo modo, nuovamente disciolta in essa, penso che basti, oggi, un riferimento al concetto zolliano di “fantasticheria” (nella Campo: immaginazione febbrile, illusione fantastica) in opposizione polare a quello di “realtà” (nella Campo: luogo di manifestazione del mistero, approssimabile soltanto grazie a un perfetto esercizio dell’attenzione) per definire il contorno più plausibile di una coscienza irriducibilmente incline a creare una realtà più alta in simboli, in immagini, appunto, reali, oppure, infallibilmente, a tacere.

Nell’intervista che rilasciò ad Antonio Altomonte, pubblicata su “Il Tempo” nell’aprile del 1972 (ora in Sotto falso nome, Adelphi, 1998, pp. 178-180), la Campo confessò con distaccata levità il nesso tragico che lega esorcisticamente l’èrgon poetico alla faustiana dimora delle Madri, la terra di nessuno dove può spalancarsi la realtà figurale del mondo oltre ogni rispecchiamento narcisistico dell’io:

 

La bellezza… è un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino. Si può senza dubbio chiamare “esorcismo” questo attrarre, per mezzo di figure, lo spirito, che di certe cose ha sempre una grande paura. Questo fanno i miti. Questo dovrebbe fare la poesia.

 

Volgersi alla bellezza come destandosi all’intelligenza di sé comporta una morte rituale, e, con essa, il rischio della perdita implicito nella disponibilità a ciò che, dentro di noi, disumanamente ci sovrasta. Dostoevskij, tramite Dimitrij Karamazov, ha scritto, lo ricorderete di certo, che “la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Coscienza non diversa, fra gli autori cari alla Campo, espressero nelle loro opere almeno Baudelaire, e l’esoterico Rilke, per il quale “tremenda” è l’essenza più forte che attrae verso l’invisibile, e anche Williams. E la Campo, in Canone IV, in assoluto uno dei suoi esiti maggiori di poesia, negli ardui riferimenti a san Paolo e alle formule della giustificazione dell’icona ratificate dal IV concilio di Nicea tentò di risalire alla sapienza suprema di quel doppio sguardo insieme intenerito e glaciale che apre all’intravisione simbolica della realtà:

 

Il Tremendo, conoscendone l’animo

pieghevole come il salice al vento dell’idolatria,

trasfuso ch’ebbe nella divina icone

il suo indicibile sguardo sugli uomini,

volle talora sottilmente provarne

l’antico occhio di carne,

un lampo trasfondendo della suprema Maschera

in un volto di carne:

centro celato nel cerchio, essenza nella presenza,

lido inafferrabilmente coperto e riscoperto

della Somiglianza, fermo orizzonte dell’immagine,

all’incrocio del tempo e dell’eterno,

là dove la Bellezza,

la Bellezza a doppia lama, la delicata,

la micidiale, è posta

tra l’altero dolore e la santa umiliazione,

il barbaglio salvifico e

l’ustione,

per la vivente, efficace separazione

di spirito e anima, di midolla e giuntura,

di passione e parola…

 

Sono versi, questi (in La Tigre Assenza, Adelphi, 1991, p. 54), che sembrano cadere addosso al cicaleccio del poetese come da un iperuranio, cui mi piace affiancare alcune delle righe inviate dalla Campo alla Pieracci nel settembre del ‘73:

Volevo parlare con lei di un’altra cosa che vorrei scrivere: una serie di considerazioni tragiche sulla bellezza. La bellezza come tremendo retaggio. La bellezza come spada a doppio taglio… La bellezza come camicia di Nesso. Trenta, quarant’anni, sapendo di portare in sé, con sé, quest’arma mortale… E insieme la coscienza dell’elemento divino celato in quell’arma, nel suo doppio taglio, appunto. Si può ben capire come una creatura segnata da questo terribile privilegio sopprima i rapporti, le parole, le lettere, indossi ogni sorta di maschere, cammini a zig-zag, desideri scomparire nelle crepe dei muri, voglia essere ovunque, infine, “come un uomo che non esiste”.

 

“Rivoglio bianche tutte le mie lettere...”

Per la Campo la vocazione al minus dicere non fu un esercizio di contenimento di quella vita che, forte dell’opinione del mondo, rischierebbe di fluire esorbitantemente in parole. Estasi e cilicio, parlare (scrivere) bene, campianamente fu sì un esercizio per non “parlare a vanvera”, nel senso di Wittgenstein, ma fu soprattutto un esercizio di spogliamento (parola, non c’è chi non lo veda, perfettamente weiliana) di uno spirito inquieto che proprio nella costrizione al silenzio ha cercato di conoscere se stesso “parlante”. Parlante, d’accordo, perché, come Persefone nell’incontro fatale col giacinto-bellezza, posseduto da una manìa più forte di ogni resistenza, ma non già per questo “fantasticante”, non aggrappato come troppi alla balbuzie di un’espressività che non è se non una dilagante deriva sul piano letterario di ciò che gli spirituali chiamano philautìa, amore di sé, egocentrismo.

C’è questo rovello, nel doppio corteggiamento di poesia e silenzio sceneggiato ad un irraggiungibile livello stilistico fra le righe dell’opera di Cristina. C’è, nel dilemma che tra dire e non dire connette carattere e destino, la chiave-di-volta di un’idea del simbolo come prodotto e, insieme, produttore dell’interazione fra la coscienza e il suo eccesso: come cifra di una trasmutazione possibile soltanto a chi abbia assunto un atteggiamento di ascolto nei confronti del linguaggio, come di fronte a una parola che parla.

“Non fare che la mia opera / ricada su se medesima, / diventi vaniloquio, colpa” dice Mario Luzi - l’amico prediletto della Campo nel suo più fecondo periodo fiorentino - in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, dando voce al timore dello scivolamento nell’idolatria di un’anima squisitamente mistica che solo nell’apertura alla bellezza (quella bellezza consolatrice che la Weil, coraggiosamente, ha chiamato “l’eternità che possiamo gustare sulla terra”) poté trovare conforto.

Custodire le immagini, per un artista ma non solo, significa resistere alla corrente della propria illusione - vuole dire, per chi ha la capacità spirituale di risiedere all’inferno, rifiutarsi di ridurre a espediente personale, a strumento dell’eterno ritorno dell’uguale identico io, quel significante linguistico o visivo che è lo sfondo originario di ogni significatività e, dunque, di ogni memoria.

Soprattutto per questo mi capita di pensare all’esile plaquette di Passo d’addio come a un tributo, pagato una volta per tutte, senza più cedimenti o cadute, almeno sulla pagina, all’amore umano: ma un tributo che giunge a noi lettori da uno spazio ulteriore, da un livello più profondo e per noi, per me almeno, inarrivabile di Er-innerung. Più che come un esito di alta poesia, non riesco allora a non leggerla, questa diecina di buoni o anche buonissimi testi un po’ troppo luziani, come la più tenera la più effusa concessione al tragico non fiabesco per Cristina, come il petit journal che volle dar conto liricamente di una esperienza d’estasi e di lutto davvero troppo umani, un’esperienza inscritta entro i confini egolatrici di un soggetto che facendo della propria passione il centro di sé si è consegnato fatalmente allo scacco del solipsismo:

 

Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,

inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;

ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,

riconduca la vita a mezzanotte.

 

E la mia valle rosata dagli uliveti

e la città intricata dei miei amori

siano richiuse come breve palmo,

il mio palmo segnato da tutte le mie morti.

O Medio Oriente disteso dalla sua voce,

voglio destarmi sulla via di Damasco –

né mai lo sguardo aver levato a un cielo

altro dal suo, da tanta gioia in croce.

 

“Come una che non esiste”

La religione dell’amore è una delle figure più pertinenti (e letterariamente più abusate) della secolarizzazione. Sappiamo tutti che l’amore può non essere un gradino nella scala che conduce a Dio: può divenire un idolo esso stesso, meta e termine, pur sempre deludente, dell’ascesa. Nel quasi totale silenzio poetico della Campo fra il ’54, quando compose questi versi paradigmatici, e i suoi ultimi anni di vita, gli anni del breve tempo liturgico della sua poesia, non è affatto illecito leggere la decisione di tentare la restituzione dell’eros alla sua originaria funzione mediatrice. Di attendere in sé, nelle propaggini del Tremendo, la maturazione prima e l’accadere poi di un discorso demonico che sapesse orientare di nuovo la parola al suo orizzonte fondativo. Basta ascoltare la Campo stessa, in una lettera del ’58 che ho già brevemente citato, per renderci conto, anche se di sfuggita, di quale fosse in realtà la posta in gioco nel silenzio in versi di Cristina, tesa a reinvestire la funzione del poeta, e quindi di se stessa in quanto poeta, della sua arcaica funzione sacerdotale, fra nostalgia del fondamento veritativo e nostalgia del fondamento liturgico del poiein: “Ma io non ho davvero che la poesia come preghiera - ma posso offrirla? E quando mai la sentirò così vera (non dico pura, ma è differente?) da poterla deporre a quell’altare - di cui non vedo e forse non vedrò mai che i gradini - come un cesto di pigne verdi, una conchiglia, un grappolo?”

In una prospettiva storiografica, che sfioro solamente, esaudire una così ‘folle’ ambizione, lasciare anche pochissimi testi a testimonianza di questa conversione dello sguardo, del respiro, e, dunque, della voce, ha significato compiere un autentico salto mortale al di là del diabolico restringimento storico del mandato poetico portato a compimento in Italia dalla cosiddetta neo-avanguardia.

Credo che in un prossimo futuro nemmeno la critica più disattenta potrà onestamente negare queste semplici verità: che proprio nella stagione estrema della poesia della Campo, più che in tanta produzione cosiddetta “religiosa” o “confessionale” che affligge la nostra povera patria letteratura, si ravvisano di nuovo i segni, o le stigmate, di una coscienza simbolica originaria - e che in questi scarsi segni resiste, anzi, fluentemente si riafferma, una concezione sacrale del linguaggio in Italia praticamente inaudita (fatta eccezione, forse, per il ‘gran caso’ di Onofri) e dappertutto, pensandoci bene, scarsamente praticata dopo lo stravolgimento in senso post-mallarmeano delle ardite speculazioni romantiche sulla parola (ho detto stravolgimento, ma dicendola fino in fondo, si può parlare di un vero e proprio tradimento, cui, per eccesso di ontologismo, non è sfuggito nemmeno il nostro ermetismo fiorentino…).

Bruciata nel libretto poetico d’esordio la materia del ricordo amoroso, dopo una manciata di concessioni, ancora, al genere elegiaco, cioè in qualche modo alla “immaginazione passionale”, Cristina Campo preferì restituire all’italiano le visioni di altri, in una trasposizione quasi sempre vivificante - pensiamo alle meraviglie che ha compiuto con Williams più che al suo irraggiungibile Donne, già irraggiungibile nell’inglese - anche per coloro alle spalle dei quali portava intanto avanti la sua avventura ricreativa.

“Come una che non esiste”, Cristina si defilò dalla scena poetica nazionale non soltanto, come è stato detto, in seguito al riconoscimento, che pure ebbe, in piena umiltà di spirito, di una certa qual propria inadeguatezza creativa, ma anche, paradossalmente, in virtù dell’intuizione, sostanziata da un lavoro (o da un rituale?) in atto, della piena reversibilità di funzione-poeta e funzione-traduttore - o, addirittura, più in profondità, della sostanziale omologia fra poesia e traduzione.

 

Al confine del simbolo

L’esigua produzione in versi di Cristina Campo, considerata nel suo insieme e, sia chiaro, nei suoi limiti, compie in realtà un movimento di notevole significato storico, perché proprio nel suo lambire il silenzio, nel dichiarare in via negativa, per astensione, il fallimento del petrarchismo intimista cui si era votata nel suo primo tempo, ambisce in ultimo a riproporre la sostanziale valenza utopica della poesia come ermeneutica e, insieme, come metafisica di un mondo nel quale, alterando appena il motto di Schlegel, pensare (scrivere) non è ma deve essere divinare. Naturalmente, ricollocare la vocazione del poeta al livello spirituale che le compete non significa pensare all’atto poetico come al gesto di uno sciamano della materia. No, grazie all’identificazione assolutamente non estetistica di stile e verità, nella sua maturità Cristina poté pensare alla poesia, piuttosto, come al luogo cui affidare sacralmente un segreto potere iniziatico. Non è sacro qualsiasi mezzo in grado di guarirci, riconciliandoci anche solo per un attimo con noi e fra di noi, dal disastro spirituale? Non è sacro, allora, quel linguaggio la cui specificità sta nel continuare a creare un rapporto, nel continuare a ricostruire un ponte tra due analogiche visioni?

 

Il Tremendo, conoscendone l’animo

pieghevole come il salice al vento dell’idolatria,

trasfuso ch’ebbe nella divina icone

il suo indicibile sguardo sugli uomini,

volle talora sottilmente provarne

l’antico occhio di carne,

un lampo trasfondendo della suprema Maschera

in un volto di carne:

centro celato nel cerchio, essenza nella presenza,

lido inafferrabilmente coperto e riscoperto

della Somiglianza, fermo orizzonte dell’Immagine,

all’incrocio del tempo e dell’eterno,

là dove la Bellezza,

la Bellezza a doppia lama, la delicata,

la micidiale, è posta

tra l’altero dolore e la santa umiliazione,

il barbaglio salvifico e

l’ustione,

per la vivente, efficace separazione

di spirito e anima, di midolla e giuntura,

di passione e parola…

 O quanto ci sei duro

Maestro e Signore! Con quanti denti il tuo amore

ci morde! Ciò che dal tuo temibile

pollice luminoso è segnato

- spazio ducale tra due sopraccigli, emisferi

cristallini di tempie, sguardi senza patria quaggiù,

silenzi più remoti dell’uranico vento -

ancora e ancora, scoperta e riscoperta

la tua Cifra per ogni angolo della terra, per ogni angolo

dell’anima da te è gettata, da te è scagliata:

a testimoniare, a ferire,

a insolubilmente saldare

a inguaribilmente separare.

 

Canone IV, più di Diario bizantino, Nobilissimi Ierei e Radonitza, gli altri importanti risultati poetici di Cristina Campo in limine mortis, riconduce l’antinomia di questa doppia visione analogica al mistero di incarnazione e di rivelazione: spinge la riflessione di Cristina sulla parola al luogo del confine del simbolo-icona, facendo di se stessa una sorta di fioritura dell’energia verbale dello spirito.

Ma questo è un altro discorso, che ovviamente meriterebbe ben più di qualche nota in margine.

 

Da: http://archivio.il-margine.it/archivio/1999/c2.htm

 

                                                                                                                                           TORNA SU