in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Estetica e sacro in Cristina Campo (Roberto Taioli)


 

     Novalis nell’esordio del suo romanzo filosofico I discepoli di Sais, parla dell’esistenza di una scrittura cifrata1, contenuta in tutte le cose e che non sempre giunge in superficie. La connessione di tutte le cose entro questa lingua, il loro disporsi e nascosto intrecciarsi, interagire, vedersi l’un l’altra e in qualche modo parlarsi, ci avvicina alla verità, alla perfezione. Questa lingua cifrata parla per “figure bizzarre”2, una sorta di profonda venatura fungente in ogni sensibile apparizione. Questa venatura

 

si scorge dapperttutto: sulle ali, sui gusci d’uovo, sulle nuvole, sulla neve, nei cristalli e nelle formazioni rocciose, sulle acque che ghiacciano, nella struttura interna e nell’aspetto esteriore delle montagne, delle piante, degli animali, negli astri del cielo, sulle lastre di pece e di vetro che vengono toccate e colpite, nella limatura intorno ad una calamita e nelle singolari congiunzioni del caso.3

 

     Questa scrittura è congiunta a due mondi (la syllàpsis, di cui parla Eraclito nel Fr. 19), quello che le è sotterraneo e di cui governa la connessione, e quello esteriore che emerge alla superficie e si dà a noi nel sensibile. Ma dobbiamo avvicinarci al nodo di questa congiunzione, saggiare l'intimo nesso che salda insieme, pur nel loro diversificarsi, il sotto e il sopra, la zona d’ombra e la zona di luce che sono installate in ogni cosa. La lingua della fiaba (e per estensione della poesia) dispone di questo doppio gettito, di questa duplice e complementare natura che Cristina Campo ha intuito. Questa lingua è come una chiave, sa discendere nel più profondo dell’abisso ed ergersi al contempo verso il nitore del cielo. Compartecipe di questi due destini, di due istinti profondi, di due forze antitetiche, l’una centripeta, l’altra centrifuga.

 

Mai, certo, come nella fiaba le due direzioni in cui la vita si cerca – verso le sue più buie radici e verso il cielo – apparvero squisitamente, scandalosamente complementari..4

 

     Ma questa complementarità non è il frutto di un sapere noetico né di una dispositio simmetrica appartenente all’ordine geometrico o ad una calcolata e rigorosa proporzionalità. Si tratta di gettarsi in un campo magnetico – nota la Campo – ove coesistono forze di attrazione e disparate spinte dinamiche, convergenti e divergenti, lasciandosi attraversare dalle onde di influssi, senza opporvi resistenza, come in un abbandono. Questo insieme di forze che non governiamo ma da cui siamo governati e che ci avvolgono in un abbraccio e in un intreccio profondi di cui, pur differenziandoci, siamo parte, è il logos selvaggio di cui  parla Maurice Merleau-Ponty o il mondo delle viscere di Marìa Zambrano.

     Si determina quindi un campo alchemico, ove l’ordine naturale si sovverte e la mescolanza fa affiorare, dal cono del possibile, nuove figure. La modalità del possibile opera come l’alkatest ripreso da Novalis, un liquore che non può solidificarsi, pena il suo venir meno, come la possibilità non può irrigidirsi in statiche categorie che ne sarebbero la negazione. La possibilità è infatti sempre oltre il confine cui di volta in volta perviene, ponendosi come limite, orizzonte, focus cui tendere.

     L’incontro con la fiaba, più che con un genere letterario, porge alla Campo la possibilità di un nuovo terreno da visitare dell’infinito mondo del misterioso e dell’impalpabile, retto da arcane leggi non scritte che sfuggono ad una codificazione. La fiaba è l’archetipo del mistero e dell’imponderabile, di ciò che non è prima determinato, che è sconosciuto come un destino;

 

Il cammino della fiaba s’inizia senza speranza terrena. L’impossibile è subito figurato dalla montagna.5

 

 

     Essa s’erge dinnanzi come muto ostacolo indecifrabile e invincibile. Per non soccombere davanti a questa imposizione, occorre un sovvertimento radicale che la Campo indica come la quarta dimensione che non è più spaziale né temporale; essa intercetta un altro terreno che, pur non prescindendo dalla concretezza vivente, non si identica con esso. La fiaba svela l’ambito fenomenologico del precategoriale che si offre a noi come dono del mondo-della-vita. Non scoperta euristica che prevede il lavoro della ragione ma sorpresa oblativa. Ma il dono è nascosto, non esiste se non per chi si accinge ad aspettarlo oltre la cortina fuorviante del mondano. Non si  può pretenderlo, ma sfiorarlo come in una ascesi. Anche Novalis sente nella fiaba la presenza di un altro abitare dell’uomo, come nella Fiaba di Giacinto e Fiordirosa, parte del romanzo i Discepoli di Sais; la natura che è bellezza infinita e incommensurabile, si palesa in uno sfolgorante seppur parziale simultaneità, in ogni forma della sua epifania. In ogni atto del suo manifestarsi essa si presenta interamente, concentrata e rappresa, in una sintesi alchemica di tutti gli ordini del sensibile e del sovrasensibile. All’uomo tuttavia non è consentito avvicinarsi ad essa se non per partecipazione; egli è condannato ad una metessi, ad una fruizione incompleta che gli lascia nell’animo l’ardente sete dell’assoluto, sconta una interdizione, un divieto che inibisce la comprensione del Tutto. Giacinto nella fiaba di Novalis deve pagare morendo precocemente l’incauto gesto di sollevare il velo che copre la statua della dea Iside, violando l’ammonimento della divinità:

 

Nessun mortale solleverà quel velo finchè io stessa non lo solleverò. E chi con mano non consacrata e colpevole solleverà prima del tempo il velo sacro e vietato, costui vedrà la verità.6

 

     L’immagine perviene a Novalis dalla lirica di Schiller L’immagine velata di Sais che fa pronunciare al giovane sacrilego la formula dell’autocondanna:

 

                                Guarda a colui che si dirige verso la verità

                             per la colpa! Essa non sarà mai più per i più una gioia.7

 

    Non è quindi possibile svelare il Tutto, ma è possibile desiderarlo. L’eroe della fiaba, come il poeta, vive costretto entro questa dilemma che lo sospinge insieme verso un sopramondo e lo rimanda alla matrice terrena. Cristina Campo coglie le sponde di questa crepa entro la quale ci dibattiamo:

 

E tuttavia l’eroe di fiaba è chiamato sin dal principio a leggere quel sopramondo in filigrana, ad assecondarne le leggi recondite nelle sue scelte, nei suoi dinieghi. Gli si chiede di meno che appartenere simultaneamente sonnambolicamente a due mondi.8

 

     Esiste infatti un rispecchiamento, un sottile filo che lega nascostamente l’immenso al piccolo, l’infinito al finito. Quasi come la monade9 leibniziana, il tutto si dà a noi per porzioni e per segmenti in cui esso è rappresentato, sì che noi lo viviamo e lo percepiamo, pur ignorandolo, nel finito che ci è concesso.

    La connessione tra finito e infinito, il loro essere intimamente implicati per cui l’uno sente l’altro e viceversa10, non esclude che sussista un rapporto di dominanza e gerarchia, una scala, una modulazione di diverse sensibilità; l’infinito governa le leggi della fiaba e della poesia e rappresenta “la vittoria sulla legge di necessità”11, per cui il mondano tende a spezzarsi, ad uscire da sé, ad aprirsi, come un guscio teso che si gonfia fino all’estremo punto di rottura. Non c’è necessità che non possa essere vinta e superata, risolvendosi in un nuovo ordine e annodandosi in altri legami. Il tappeto è la metafora attraente e insidiosa di questo intrico che pur essendo definito, sfugge ad una numerazione, perché non rappresentabili, misteriose e labirintiche sono le vie che lo percorrono.

 

     Questo transito ad altro, avviene non per leggi dialettiche ma mediante una estetizzazione del mondo in cui oggettivo e soggettivo non si danno più come mondi separati. Logos e mythos12 sono allora forse solo nomi diversi per indicare la stessa cosa: la relazione di prossimità e insieme di distanza che la poesia intrattiene con la natura. La ragione che attinge le cose è la stessa che le contempla sotto un altro sguardo. Il sublime si installa nel razionale. L’idea del labirinto associato al viaggio riaffiora in Cristina Campo nella visitazione della fiaba. Il viaggio non è  mai predeterminato, non ha punto di partenza né conclusione:

 

Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina davanti a sé, la linea è retta all’apparenza. Alla fine questa linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella – o addirittura un punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente.13

 

     La forma del cerchio perfetto è quella del luogo a cui non si ritorna, il non-luogo dello spirito. Strade immateriali raccolgono il nostro cammino. Nulla è segnato. La poesia si innalza dentro una rarefazione. Anche in Novalis raccogliamo questa suggestione, seppur formulata attraverso una più marcata distinzione tra il poeta e il filosofo. Frutto di un’antica contrapposizione, l’uno e l’altro non sono poi così distanti, in quanto leggono con lenti diverse le pagine di un medesimo libro. Il poeta

 

E’ la voce del cosmo, questo, la voce dell’uno più semplice – del principio – Quello canto – questo discorso. Quello, diversità, riunisce l’infinito – questo molteplicità, riunisce il più finito.14

 

     Entrambi – dobbiamo dire – esercitano l’arte dell’attenzione, viva nel filosofo nel lavorio della ragione, ma non estranea alla askesis poetica. L’attenzione per Simone Weil, al suo grado più alto, converge nella preghiera, che si libera degli impulsi della volontà egoistica, nutrendosi della sola fede. Richiede quindi salto, un balzo non compensabile con nessun esercizio logico, né dicibile con normali parole. Per Cristina Campo, che fu  lettrice ed estimatrice della Weil, l’attenzione è prossima alla poesia e ad un pensiero poetante che non si placa negli specchi fuorvianti dell’immaginazione:

 

Poesia è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura.15

 

     L’immaginazione è fuorviante perché fugge nell’arbitrario, si regge su una contaminazione caotica degli elementi che allontanano dalla Verità, si rivela “eterno labirinto senza filo di Arianna”16, libero e frastornante gioco, mentre l’attenzione costringe ad una disciplina interiore, ad un’arte che è quella di attendere che si precipiti e si compia il kairòs, il tempo propizio verso il quale ci dobbiamo far trovare preparati, come il vuoto ad essere colmato. E tuttavia l’attenzione porta in sé la cifra del reale, si radica in esso anche se tende, nel suo doppio movimento verso il basso e viceversa, a trascenderlo, in una forma incarnata di oblio:

 

L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale, si manifesta il mistero.17

 

     Il mistero si dà per simboli e per figure, accenna la Campo, con echi che rinviano alla atmosfere dei Vangeli gnostici, la verità è criptica,18 nascosta, essa è seminata ovunque, tuttavia pochi la vedono e la raccolgono.

     Lo stato di attenzione rinvia all’atteggiamento della preghiera, come leggiamo in Giovanni Vannucci, figura con la quale la Campo ebbe per anni una consuetudine di amicizia e di dialogo:

 

La via per comunicare con lo Spirito è quella di mettersi in uno stato di perfetta disponibilità al suo influsso; non è possibile raggiungere rapidamente un tale stato per tutta l’esistenza, ma insistendo nell’esercizio di scegliere alcuni momenti del giorno per isolarci da tutto ciò che in noi viene dall’esterno, la realtà dello Spirito discenderà in noi accrescendo le nostre energie vitali.19

 

     Non poche paiono le linee di affinità su alcuni grandi temi e nodi quali la bellezza e il sacro tra Cristina Campo e Giovanni Vannucci, il Padre Servita che nel 1967 fondò l’eremo di San Pietro alle Stinche, luogo estremo di preghiera, lavoro e raccoglimento, di profonda condivisione, modellato nel solco del motto orat et arat monachus in silentio et spe.

    I contatti tra le due figure sono in qualche modo ricostruibili in alcuni luoghi delle Lettere a Mita,20 l’intenso epistolario che Cristina Campo intrattenne con Margherita Pieracci Harwell. Si tratta per lo più di cenni, di fugaci passaggi, di allusioni, non tuttavia così deboli da impedire una lettura più profonda della relazione spirituale intercorrente tra le due persone, verificabile più intensamente nelle assonanze e parentele emergenti dai testi degli stessi. Questa relazione resta tuttavia nel territorio dell’impensato, del non ancora espresso in chiave discorsiva e sistematica, frutto di uno scavo e di una comparazione indiretta nella carne testuale dei due autori.

      Il primo luogo epistolare da prendere in considerazione è una lettera della Campo alla Pieracci del 30.4.1959 (catalogata nella raccolta con il n. 115). In questa breve lettera l’ultimo capoverso fa cenno in maniera netta ai contatti tra i due:

 

Padre Giovanni [Vannucci] mi ha dato la pace ma anche la spada. Vuole in tutti la persuasione perfetta – lei comprende ciò che questo significa.21

 

     Sappiamo così che l’incontro tra la Campo e il Padre Servita avvenne ben prima della fondazione dell’Eremo alle Stinche e che sarebbe riconducibile – pare – al 1952, come la stessa Pieracci scrive annotando il passaggio della lettera,22 e che tale amicizia si consolidò nel tempo, coinvolgendo anche la figura di Padre David Maria Turoldo che allora si trovava con Vannucci alla Chiesa dell’Annunziata.

     Tuttavia, al di là dei riscontri fattuali, non sempre agevoli, ciò che colpisce nel breve passo della lettera campiana sono due elementi: il primo riguarda il riferimento alla spada, che riprende il luogo del Vangelo di Luca: “Pensate che io sia venuto a portare la pace nel mondo? No, ve lo assicuro, non la pace ma la spada”, 23 segnalandoci in Vannucci la traccia di un cristianesimo combattivo e la presenza di lacerazioni, dubbi, contrasti che attraversarono la sua intera vita.24

     Il travaso di questo elemento, in forma complessa, di cui ovviamente la prossimità a Vannucci è solo una componente di un processo profondo ricco di una molteplicità di voci, nel pensiero di Cristina Campo, figura costituzionalmente solitaria e selettiva, testimone di una aristeia morale e intellettuale, è documentato da tutta la sua intera opera di combattente per la bellezza e la verità, senza nulla mai concedere alle mode letterarie del momento e sempre ostinatamente controcorrente, anche a costo dell’isolamento.

      Il secondo elemento che va rimarcato nel passaggio epistolare, è il riferimento alla persuasione perfetta che Vannucci pretendeva da sé innanzitutto e dai suoi più intimi amici, quale per un certo tempo fu anche la Campo. Negli scritti vannucciani non mancano i luoghi ove questo tema è declinato, seppur non in modo sistematico, come è proprio della sua riflessione. Il deserto è una metafora della condizione interiore dell’uomo che abbandona il superfluo e il vano inoltrandosi per un duro itinerario nel quale la perfezione non è mai compiuta ma sempre riconquistata nelle forme imperfette del vivere; l’imperfetto è tensione verso il perfetto che è tuttavia ascesa verso un altro ordine, non dialetticamente mediato dal primo. Seguiamo Vannucci in questo passo:

 

Torniamo al deserto. Il deserto è la dimensione ove tutte le forme sono abolite, ove l’uomo può finalmente vivere nudo di tutte le vesti della cultura e sentire la parola che risuona al di là di tutti i linguaggi, vibrare insieme alla verità che è oltre la falsa verità dell’uomo civile, divenire voce di colui che comunica il messaggio, di colui che vive nel silenzio.25

 

     Nella Introduzione ai Detti e fatti dei Padri del deserto26, anche la Campo non manca di sottolineare la sua appartenenza ideale al mondo del deserto come archetipo e forma suprema del mistero. L’amputazione del mondo, la scoperta del silenzio come luogo dello spirito più consono all’uomo per mettersi in contatto con le energie spirituali che lo attraversano, determina una “soprannaturalizzazione dei cinque sensi27 o affinamento di sensi soprannaturali, per cui i sensi diventano veicoli di altri messaggi, di altre parole. C’è un linguaggio sotterraneo universale che è prima dei linguaggi particolari, e tutti li sottende, che viene intercettato e incontrato da chi si dispone nella condizione dell’hesychìa, facendo il vuoto in sé, lasciandosi attraversare da superiori energie.

     In un passo fondamentale e altamente problematico del saggio Sensi soprannaturali, Cristina Campo fa cenno provocatoriamente, in un’epoca di dominante materialismo, ad una “vita spirituale del corpo” cui solo pochi iniziati accedono e si rivolgono. La frantumazione dell’unità sensoriale e del vissuto corpo-spirito è una perdita, un impoverimento dell’essenza umana, in linguaggio religioso una caduta. Solo la piena ricomposizione dell’unità corpo-spirito come unica abitazione dell’uomo, ci riavvicina all’integrità della vita. La logica dicotomizzante e separante, altro non fa che sradicare da quel tutto indiviso da cui proveniamo e che una diffusa ratio analitica preclude:

 

Chi resterà a testimoniare dell’immensa avventura, in un mondo che confondendo, separando o sovrapponendo corpo e spirito li ha perduti entrambi e va morendo di questa perdita?28

 

     Il deserto è quindi non solo luogo geografico, ma terreno ove viene colmata la perdita e superata la separazione. L’uomo riflette in sé le tracce degli archetipi originari che sono andate coprendosi e occultandosi nel corso del lungo cammino della civiltà. Risvegliare l’uomo archetipale che è in ognuno di noi, ridando vita alle forme sepolte dalla polvere e cadute nell’oblio di noi stessi, significa recuperare l’interezza che siamo.29 Ma l’impresa pare disperata, la crisi della civiltà è così profonda e accentuata da rendere quasi impossibile la rinascita di quell’intero e il risveglio dell’umanità. Allora vivremmo addormentati in un insano realismo ove ciò che appare viene scambiato come il vero. In un mondo così confuso e disperso quale la salvezza? La Campo formula una speranza, seppur incrinata da un velato scetticismo e da un’ombra di dubbio:

 

Forse unicamente i poeti, che hanno dimora simultaneamente nella vecchiaia e nella fanciullezza, nel sogno e nella visione, nel senso e in ciò a cui il senso allude perennemente. E’ un poeta, il solo poeta religioso oggi vivente, Andrej Sinjavskij, ad aver chiuso in due parole la gesta perduta della quale sembra divenga sempre più imperativo ricordarsi: "Non si tratta di superare la natura ma di sostituirla con un’altra natura a noi ignota”.30

 

 

     L’incontro con la parola restituita alla sua forma evocatrice e suggeritrice (a tal proposito la Campo parlò opportunamente dello stile come analogia salvatrice e seconda vita, non solo orpello)31, è paradossalmente l’incontro con il silenzio. La voce del silenzio non è solo assenza di suoni, ma uno spazio ideale ove avviene la conversione al sacro e al poetico. Poesia e sacro si richiamano come uniti da un sottile filo di condivisione. Nel linguaggio della Campo ritroviamo in questi due termini, chiamati a risolversi in un’unica forma, la vecchiaia e la fanciullezza dell’umanità. Nella parola si condensa il risultato di una lunga sedimentazione e al contempo di una sempre nuova nascita, come il vecchio che continua nel fanciulllo che non potrebbe essere senza di lui. Questa eco risuona nelle espressioni che Vannucci dedica alla parola e che Cristina avrebbe condiviso:

 

La parola sacra interrompe il consueto fluire del quotidiano per far irrompere nella coscienza la presenza del divino, costituisce una rottura ontologica del livello in cui abitualmente viviamo e ci porta verso una dimensione differente.32

 

 

     A questa rottura ontologica si accede con una conversione estetica e religiosa, con una metanoia non lontana campianamente dall’acquisizione di sensi soprannaturali, mediante i quali il mondo si schiude a noi come sopranatura, dilatazione della gabbia dell’ego, via d’accesso alla percezione della platonica Anima mundi.    L’uomo di sensi soprannaturali ha così compiuto un transito che è avvenuto con tutto se stesso, trascinando il peso di tutta la sua corporeità e carnalità. Tutto il suo peso sussiste, pur non essendo più misurabile né percepibile. Questo cambiamento, per cui il poeta come l’asceta, sconfigge le forze dell’inerzia radicate nel suo corpo, la Campo condensa nella reiterazione della formula della Prefazio dei Morti: Vita mutatur, non tollitur.

     Nell’annullamento siamo davanti ad una nuova più alta acquisizione, la perdita riaccende l’ardore e l’ascesa ad una nuova sorgente. I sensi soprannaturali non cancellano se non ciò che è caduco, inerte, spento, destinato ad estinguersi, rilasciano in un vaso solo l’essenziale. In questo alternarsi di perdita e nutrizione, per cui ciò che bruciamo e consumiamo ritorna nel desiderio di nuovo alimento, risiede l’avventura del sacro. Il comparire del pane e del vino nel rito dell’eucaristia è la traccia sensibile di una sopranatura:

 

Persino nel suffragio perdura la nutrizione, ed è questo il vero cibo dei morti. Di nuovo la metafora trapassa nella realtà, come i sensi naturali in quelli soprannaturali, poiché tutta intera la natura non è se non metafora della sopranatura.33

 

     Si ricompone quindi nei sensi soprannaturali la lacerante scissione corpo-spirito che si è consolidata nella tradizione occidentale conducendo alla frattura tra i due ambiti, e talora ipotizzando il dominio dell’uno sull’altro; l’abbandono del corpo e dello spirito ad una loro autonoma vita propria o risolvendo l’uno nell’altro, determinandone la cancellazione. Giovanni Vannucci si è spinto avanti nella ricerca di più alti e nascosti confini, di nuove terre di influenza e di contatto. L’interiore e l’esteriore delle cose create, dice Vannucci, l’uomo non deve separarli e contrapporli, perché dalla coppia originaria della scissione altre ne sorgeranno in una infinita filiazione. La ricerca del superamento della non-dualità ci proietta nel mondo degli archetipi, delle forme ideali, dei modelli che rilasciano nel mondo sensibile gli effetti della propria luce:

 

In questa prospettiva il corpo fisico viene sentito come ciò che di più concreto è stato dato all’uomo perché riverberi, nel mondo delle cose, il mondo divino. Forse è questo il senso della presenza del corpo fisico umano nell’universo sensibile.34

 

 

     Qui si stabilisce e si sfiora molto più di un’intima relazione tra la matematica archetipica del mondo divino e il caos del mondo sensibile, del mondo delle cose.

Non si può parlare di rispecchiamento, di semplice contatto, ma di un riverberarsi della luce che non si concede a nessuna figura della descrizione o a fonema della dicibilità. Siamo davanti all’indicibile, al non-rappresentabile, a ciò che mette a nudo interamente i confini ristretti della polarità umana. E’ l’impudicizia della poesia, di cui parlerà Andrea Emo. La corporeità e la carnalità sono icone viventi e visibili di un soffio invisibile e inudibile di cui recano le tracce, i segni nella loro fenditura, nelle loro pieghe. Vannucci parlerà altrove degli uomini del silenzio35come di coloro che portano in sé incarnata questa esperienza estrema e che ne acquisiscono (a differenza di altri) la consapevolezza, come i contemplativi, i profeti, gli artisti, i sapienti, testimoni parlanti di una relazione che resta muta, indecifrabile. Essi parlano per icone, per immagini imperfette e sbiadite del Vero.

     Questo istante misterioso e insondabile, in cui avviene il travaso, non disdegna le vie carnali e la sete del desiderio, l’impulso inarrestabile dell’eros, come la Campo scolpisce nella prima parte di Canone IV, uno dei suoi testi poetici più complessi e al contempo più nitidi, di un nitore che sfiora la trasparenza:

 

                        Il Tremendo, conoscendone l’animo

                             pieghevole come il salice al vento dell’idolatria

                             trasfuso ch’ebbe nella divina icone

                             il suo indicibile sguardo sugli uomini,

                             volle talora sottilmente provarne

                             l’antico occhio di carne,

                             un lampo trasfondendo della suprema Maschera

                             in un volto di carne,

                             centro celato nel cerchio, essenza nella presenza,

                             lido inafferrabilmente coperto e ricoperto

                             della Somiglianza, fermo orizzonte dell’Immagine,

                             all’incrocio del tempo e dell’eterno,

                             là dove la Bellezza,

                             la Bellezza a doppia lama, la delicata,

                             la micidiale è posta

                             tra l’altero dolore e la santa umiliazione,

                             il bersaglio salvifico e

                             l’ustione,

                             per la vivente efficace separazione

                             di spirito e anima, di midolla e giuntura,

                             di passione e parola …36  

                            

 

Allora tutto è quasi chiaro: il coprirsi e riscoprirsi della Bellezza, velarsi e rivelarsi, designano un ritmo che è quello del separare e del riunire, del dividere e del rinsaldare, della distanza e della prossimità sempre coessenzialmente presenti in entrambi i movimenti, per cui la Somiglianza si nega, per sempre di nuovo attuarsi:

 

                        Ancora e ancora, scoperta e riscoperta

                            La tua cifra per ogni angolo della terra, per ogni angolo

                            Dell’anima da te gettata, da te è scagliata:

                            a testimoniare, a ferire,

                            a insolubilmente saldare

                            a inguaribilmente separare.37

  

 

     La Bellezza “a doppia lama”, ci conduce al secondo riscontro epistolare della relazione con Giovanni Vannucci, deducibile dal già citato carteggio con la Pieracci Harwell. La lettera, classificata con il n. 144, risalente alla primavera del 1962, contiene un chiaro richiamo alla figura e alla riflessione del Padre Servita sul tema cruciale della Bellezza. La Campo pare attirata intensamente dalla Philokalia  di Vannucci, come  leggiamo in questo passo:

 

Ora una cavia – Padre Giovanni con la sua Philokalia – si presterà all’esperimento. Se la respingeranno, sarà meglio tentare di cambiare editore – in questo caso il suo libro non avrebbe, in linea di massima, necessità di revisioni. Le darò una risposta al più presto, i.e. quando Padre Giov[anni] mi dirà che cosa hanno risposto a lui. Tutto potrebbe andare liscio, sia per lui che per lei.38        

 

     La via sacrale alla bellezza s’impone per la Campo non come mera scelta estetica, la bellezza è anzitutto un’idea attorno alla quale ripensare il mondo. Essa possiede una forza dirompente in un’epoca di mero progresso orizzontale che ha bandito il bello all’insegna dell’utile e ha estromesso il sacro a favore del mondano. Si sono così consolidate divisioni e fratture, lacerazioni e barriere, portatrici di fraintendimenti e di tragedie. Per la Campo perfezione e bellezza non possono distinguersi; la via alla perfezione, che può impegnare tutta una vita come telos infinito, è accesso alla bellezza, sempre velata e misteriosa, come la via che ad essa conduce. Incontriamo qui nella Campo una feconda simbiosi, una contaminatio tra sacro e bello che si danno in una stretta identità, giacchè anche la poesia è bellezza che si nasconde, che attrae e allontana. Per usare un’espressione cara ad Andrea Emo, figura che fu prossima alla Campo, si potrebbe dire che l’arte come la vita “si crea secondo la sua negazione, che il suo affermarsi è l’attualità del suo negarsi”.39 Nel suo effimero rivelarsi, essa riverbera sull’ombra del mondo bagliori del suo interno splendore. Solo l’ascolto che in fondo è silenzio, può in qualche modo metterci in comunione con tale dimensione. Ancora Giovanni Vannucci ha colto con nettezza questo terreno di confine tra la parola sacra, l’arte, il bello:

 

Ascoltare la Parola  Eterna e annunciarla rivestendola di forme splendide è il più stimolante sogno degli artisti; cogliere la Parola eterna e viverla è la più grande aspirazione degli uomini di Dio.40

 

     Il Mistico è il Poeta e il Poeta è il Mistico perché entrambi credono nella salvezza come unità e trascendenza. Il Mistico e il Poeta temono la divisione, la lacerazione perché bellezza e sacralità non possono darsi nella frantumazione. Pavel Endokìmov, autore carissimo alla Campo, ci parla della bellezza salvata dal sale corrosivo della frammentazione, di una bellezza che non può che essere unità e identità:

 

Per la coscienza moderna “frantumata”, l’oggetto non esiste solo nella sua forma unica ma riveste molteplici aspetti. Prima di scomparire, l’oggetto s’impenna in un’ultima agonia, sembra contorto e convulso. Il contenuto delle cose e l’epidermide dei volti si decompongono, tutto è fatto a pezzi, atomizzato, disintegrato.41

 

     La polvere sollevata dalla disintegrazione può alla fine nascondere e oscurare il nitore dell’Uno e far cadere in preda ai frammenti fuorvianti che affollano la via. Allontanarsi, retrocedere, prendere distanza, possono essere gesti propedeutici ad un nuovo cammino verso il sacro e la bellezza. La Campo parla a tal proposito di sprezzatura come atto in primo luogo morale di supremo distacco dal mondano, esercizio di volo e volteggio assimilabile alla danza:

 

Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di in destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta. Due versi la racchiudono, come un astuccio l’anello: “Con lieve cuore, con lievi mani / la vita prendere, la vita lasciare”.42

 

 

     Le discendenze della sprezzatura potrebbero ravvisarsi nel movimento dell’ent-werden di Eckhart, che è il dis-venire, il dis-fare (fortemente presente anche nella meditazione di Giovanni Vannucci)43, il gesto che ritorna al punto iniziale, che si riavvolge su di sé, come la tela che riconsegna la sua ampiezza all’intimità del gomitolo da cui è partita. Entwerden è il sempre nuovo, la tensione che spezza il muro dell’abitudine e che riapre il tempo oltre i margini della sua finitezza. Lungi dal ridursi ad una tecnica, la sprezzatura nella Campo assume le connotazioni di un movimento profondo di ordine ascensionale che prende e abbandona, richiamando in questo ritmo i toni dell’epochè fenomenologica di Husserl, intesa come atto rifondante e generante nuova vita. Anche la sprezzatura è in qualche modo “messa tra parentesi” del mondano, non è però sorvolo sul mondo né disinteresse o abulia. L’atto del distanziamento prelude ad un introito, ad un nuovo ingresso. Così la Campo scolpisce ancora il gesto della sprezzatura:

 

Non la si conserva né trattiene a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più altro che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano la figura. La bellezza, innanzitutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto.44

 

      Assonanze ritornano anche nella nozione di decostruzione di Maurice Bellet che ben sottolinea il movimento di distanziamento dalla massa inerziale che impedisce la visione della verità. Questo ostacolo va superato con la volontà di un atto morale. Bellet scrive:

 

Lasciare non significa lasciare le cose e le persone. Significa lasciare che si decostruisca l’interpretazione, l’enorme massa interpretativa che su di esse si agglutina, che fa corpo con la realtà ed è per noi la realtà. Che essa scivoli via, ed è vero che saremo come trafitti dalla crudezza del reale, cui nondimeno rimandano il risveglio della parola, il suono della voce, il viso con la sua dolcezza. Lasciare “questo mondo” significa rendersi presenti, comprendere ogni cosa, ivi compresi i conflitti bloccati, affinchè confessino l’unità perduta.45

 

     La sprezzatura infatti null’altro è se non ricerca dell’unità dispersa, offuscata o cancellata dalla cortina del molteplice. L’unità è invisibile ma compare a noi nelle forme cangianti del rito che è riscrittura e lingua del sacro nell’umano. Il rito traduce e converte il sacro nella gestualità e nella simbolica della celebrazione che non è tuttavia comprensibile se non nel collegarsi all’ardore e al fuoco originario da cui trae linfa e ragion d’essere. Isolato dal suo evento sorgivo, il rito scade a reiterazione. La Campo salda intimamente il sacro alla poesia come atto oblativo in cui è difficile se non impossibile tracciare i confini tra l’uno e l’altra:

 

Liturgia - come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano. 45

 

     La crisi della liturgia e del rito degradati a ripetizione, è così crisi del significato dell’umanità incapace di riallacciarsi alle proprie sorgenti e di pensare la propria identità.

     La rimozione del poetico ridimensionato a descrizione, fenomeno di cui la Campo avverte il pericolo, sottende la più ampia amputazione ed espulsione del sacro dall’assemblea umana a vantaggio del mero utile e del dilagare di una ragione strumentale. La liturgia attinge alle forme archetipali costruendo un mondo di simboli che si declinano nelle figure del rito come segmenti del mistero. Infatti per la Campo anche la “pura poesia è geroglifica, decifrabile solo in chiave di destino”46 e quindi affacciata sull’inconoscibile. Questa stretta connessione ontologica tra liturgia e poesia determina una gerarchia, un ordine intercorrente tra le due forme:

 

Più si conosce la poesia più ci si accorge ch’essa è figlia della liturgia, la quale è il suo archetipo …47

 

     Siamo così davanti, nel pensiero estetico della Campo, ad una morfologia dell’identità tra sacro e poesia che designano un unico atteggiamento e punto di vista; la poesia attinge nella liturgia il proprio fondamento precategoriale, in quanto schema trascendentale e visione delle essenze. Lontana dalla parola estetismo (definita una “vecchia e trista fattura)48, la Campo incardina nel sacro la fonte della bellezza. Al di là degli slittamenti semantici sempre possibili, la bellezza si pone come telos invisibile fungente in ogni visione. Ma la Bellezza è teologica, dice la Campo, refrattaria ad una scansione che non sia rifrangenza dell’Uno. Infatti

 

… il paesaggio, il linguaggio, il mito e il rito, che sono i quattro ingredienti della felicità, sono oggi diventati i quattro bersagli dell’odio concentrato dell’occidente.49

 

     I quattro elementi costituiscono la base precategoriale e si raccolgono e concentrano in ogni formazione di senso. La caduta dell’uno trascina con sé la crisi degli altri, come nell’atto liturgico, ove il significato si dà e appare solo nell’insieme e non nei singoli elementi che lo compongono. La visione filocalica richiede che arte e sacro fungano come una calamita dotata di un potere di attrazione. Si va verso di essi perché sospinti da una energia, chiamati da una voce cui non si può non rispondere. Ritornare alla bellezza non è quindi ricaduta nel mondano ma contemplazione dell’Uno che sempre diviene attuandosi e negandosi. La bellezza è ambigua, polimorfa, richiede attenzione per essere còlta, perché le sue forme variabili e adulatrici possono trarre in inganno:

 

Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire? E’ un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei regni sotterranei della conoscenza e del destino. Si può senza dubbio chiamare “esorcismo” questo attrarre, per mezzo di figure, lo spirito, che di certe cose ha sempre una grande paura. Questo fanno i miti. questo dovrebbe fare la poesia.50

 

     Sul tema liturgico ritorna anche Andrea Emo, cui – come abbiamo ricordato – la Campo fu interlocutrice nell’ultimo periodo della sua vita. Troviamo vicinanze e sporgenze tra la meditazione filosofica ed estetica di Emo e la filocalìa della Campo. Sulla confinanza tra liturgia e arte Emo osserva:

 

L’arte deve diventare liturgia, appunto perché la nostra vita è teatro di un dramma. La rappresentazione visiva più calma, la sensazione in apparenza più ovvia, sono un’occulta drammaturgia raccontata dalla loro semplice presenza, dalla loro semplice apparenza. Un dramma che crea tutte le immagini e poi le riassorbe in sé, appunto perché le riduce ad apparenza di un evento unico e ambiguo: cioè il dramma, sintesi di perdizione e di salvezza, l’azzardo supremo non mai abolito. Ed ambigue sono perciò le immagini che sono insieme soggettive ed obbiettive, quando la soggettività deve sempre abolire ciò che crea ed è: l’immagine, la diversità, ecc.51

 

     Viene qui richiamata, nella estemporanea formulazione diaristica propria della meditazione e della scrittura emiana, la visione della Campo che vedeva la poesia figlia della liturgia. Per Emo l’arte tende e si proietta nel liturgico (“deve diventare liturgia”) in quanto attinge alla complessa drammaturgia della vita che è “la sacra rappresentazione del nostro mistero di salvezza e di perdizione, di luce e di tenebre”.52  Inoltre il passo di Emo permette di avvicinarci, sul piano estetico e filosofico, all’idea della diversità che si annida in tutte le cose e che fa anche dell’arte una forma ambigua, nella quale opera il movimento dell’abolizione, per cui essa si attua e si realizza solo negandosi e irrealizzandosi.

     Il processo di attuazione/negazione non avviene comunque mediante un passaggio dialettico di conservazione/superamento (Aufhebung) come nella dialettica hegeliana, soprattutto perchè viene meno la mediazione stessa. Pare invece di assistere ad un salto (“la mediazione è la radicale negazione”), ad una cesura o una fenditura entro la quale opera il lavorio del nulla. Il nulla come motore della distruzione e garanzia della resurrezione:

 

Quale è la verità di un poema, o di qualsiasi opera d’arte? E’ la stessa verità della vita che non ha bisogno di prove per la sua esistenza o per la sua verità: la verità, l’esistenza, la presenza della vita non possono essere oggettive perché sono attuali; la verità della vita è che essa si crea secondo la sua negazione, che il suo affermarsi è l’attualità del suo negarsi, è giustificata dal suo negarsi.53

 

     L’inattualità della vita è l’inattualità dell’arte e della poesia, il cui significato è sempre oltre le forme concrete del suo attuarsi. In questo suo destino mortifero per cui essa decade alle forme che ha creato, sta la possibilità della resurrezione. Ogni risorgenza ha alle spalle un atto di morte, un certificato di morte. Come per la Campo54, anche in Emo la poesia è sintetica o una “metafisica concentrata”, in quanto raccoglie nello scarto della parola l’inesprimibile del tempo e del divino. In tale metafisica concentrata, spirito filosofico e spirito poetico si incontrano perché, almeno alle origini, entrambi attingono alla stessa fonte e tentano di costruire una rete di dicibilità di ciò che non può essere pienamente detto:

 

In origine i poeti, “sacri vates” erano cantori, divulgatori sei misteri della divinità – che essi dovevano, insieme coi musici, rendere comprensibili ai cuori del popolo nell’unico modo possibile, cioè in poesia. Tutti gli antichi libri sacri sono ritmati come poemi. Ed è certo che tutti i primi poemi erano danze intorno agli altari della divinità.55

 

     Ma poi quel sostrato vitale si è ricoperto e quando la religione si allontanò dall’humus delle origini trasformandosi in ripetizione (o in scienza del divino, ma senza più il fuoco iniziale), anche la poesia decadde nel profano, perse la sua spinta verso l’unità filocalica che la faceva prossima al sacro. In questa analisi della decadenza e della crisi della poesia e del sacro e perciò della bellezza bandita dal mondo, la Campo ed Emo percepiscono la stessa desolazione. Cristina grida contro “l’era della bellezza in fuga”56, che non va intesa secondo un ordine soltanto cronologico; la crisi si ricrea ogni volta che l’uomo rinuncia alla interrogazione sul suo senso ultimo e rimuove grazia e mistero dalla sua vita, in nome di un progresso meramente cumulativo. Tutto ciò che ci appassiona è nascosto e labirintico, richiede una dedizione e si nega a noi in una facile fruizione. Facciamo ma anche subiamo le cose. Lo stesso artista partecipa a una doppia natura, in cui passività e attività, recezione e azione sono assimilabili, come nella coppia yin e yang del taoismo; scrive Andrea Emo:

 

Un artista deve avere sempre in sé due nature diverse: la natura contemplativa, recettiva, passiva, sensibile, femminile, ecc. e insieme la natura attiva creatrice, virile, ecc. E’ necessaria una natura contemplativa, conoscitiva, ecc., per superare le cose e gli avvenimenti, per essere al di sopra di essi, per poter negare tutte le cose e sé medesimi, e una natura attiva per poter risorgere dopo questa negazione e dare una forma alla propria volontà.57

 

     Possiamo a questo punto avanzare un possibile approdo e un accostamento tra l’esercizio della sprezzatura della Campo e la negazione di Andrea Emo. Si tratta ovviamente di un margine di confinanza e affinità che le due figure, della scrittrice e del pensatore, sviluppano autonomamente secondo l’itinerario del proprio terreno di ricerca e di vita. Quel che sembra unirli è prima di tutto il movimento complesso di messa fuori gioco e neutralizzazione del mondano, di distanziamento dal peso categoriale che impedisce la visione dell’intero. Per vedere il mondo bisogna esserne dentro, ma anche un po’ a distanza, anzi è proprio la lontananza la misura che meglio consente di vedere. Il mondo è il suo attuarsi, dice Emo, ma nell’attuarsi si nega e in questo negarsi sta il suo destino. La sprezzatura non è sorvolo sul mondo ma possibilità di vederlo in modo nuovo, porta di accesso al Vero. Entrambi, la scrittrice e il filosofo, sembrano riconoscere che oltre ogni sforzo della negazione, sopravvive qualcosa di irriducibile che è ontologicamente inconoscibile. Esiste un punto critico estremo ove non è più possibile andare, che è l’identità di sacro e bellezza. Questa identità non può essere smontata ed aperta, perché qui s’arena qualsiasi lavorio della ragione e impulso della passione. La fede soltanto estetica non basta perchè è “l’ondeggiare dei veli illusori dietro i quali è la Chimera”58. Per questo, anche per Emo (come per la Campo) l’esperienza dei Padri del deserto introduce ad una religio catartica e purificatrice non riconducibile al solo luogo geografico: essi

 

Scelsero il deserto come dimora dello Spirito appunto perché il deserto è, se così si potesse dire, l’immagine dell’iconoclastia universale, è assenza di immagini – non ha altro confine che la linea dell’orizzonte, sublime linea che non esiste.59

 

 

Il deserto è quindi abolizione.

 

     In questa visione monacale delle bellezza come cifra dell’Invisibile che non ha volto in quanto rarefattosi nella iconoclastia universale, alla parola resta l’estremo destino di un annuncio; il poeta è il latore di un segreto e tenta di decifrarlo prima di tutto a se stesso. Ma si tratta di un compito agonico; egli, nello sforzo di divulgarlo, s’accorge di non conoscerlo e di non possederlo. E’ il segreto che lo possiede. Come un angelo, scrive Andrea Emo, egli ha a lungo volato per giungere sino a noi, tentando di saziare la nostra fame di verità. Ha sperimentato tutte le forme letterarie e i più disparati linguaggi per cercare di tendere dicibile ciò che radicalmente non lo è. Ma qui si dà uno scarto, uno scacco che vale per sempre: l’opera letteraria è la differenza rispetto a quell’unum che non si fa dire, esito – anche splendido – nell’effimero del tempo, che è metamorfosi e distruzione. Altrove Emo dice che l’arte è Parousìa60, la rivelazione dell’istante eterno che, essendo lambito dal negativo, diviene anch’esso trasfigurazione:

 

L’infinita negazione è la riduzione dell’atto alla sua identità, all’istante unico; l’identità che si trasfigura in differenza assoluta.61

 

     Nell’alternarsi tra identità e differenza, tra quiete e movimento, l’arte (Emo parla della poesia ma anche di musica e architettura) adempie alla sua sorte che è quella di non avere scopo, finalità. Essa giustifica se stessa in quanto espressione dell’Uno che si rifrange e che sempre poi si riunisce e si ricompone. All’eterna domanda di qual è lo scopo dell’arte Emo risponde:

 

Qual è lo scopo dell’arte? Lo scopo dell’arte è appunto quello di liberarci dallo scopo – la liberazione dallo scopo. L’arte è la fine del fine. La liberazione dalla servitù dello scopo, la liberazione dalla necessità.62

 

     Spreco assoluto quindi, gratuità, oblazione. L’atto supremo del negare è proprio l’abolizione del fine, la soppressione dello scopo. Che è l’andare oltre, il trascendere l’ordine della necessità, inesorabile impositrice e legislatrice di fini. Anche la Campo invoca questa tensione dislocante, ricordando le parole dell’amato William Carlos Williams:

 

“La vita” scrive William” è soprattutto sovvertimento della vita stessa, quale era un attimo prima: sempre nuova e prova di regole. E nel verso, perché essa viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore stesso dell’instabile, qualcosa nella natura di una impalpabile rivoluzione”.63

 

 

     L’arte è trasfigurazione dell’atto in figura che riemerge dopo il lavoro della negazione. Figura è il tempo, figura la poesia, la musica, il mondo. Le opere d’arte sono i nostri monumenti sepolcrali .64 Solo morendo e annientandoci nelle nostre opere – che ci hanno consentito di vivere – ci offriamo alla resurrezione che è continua rigenerazione delle forme, urne delle nostre ceneri e della nostra continua rinascita.

 

 

 


 

1 Novalis, I discepoli di Sais, a cura di Alberto Reale, Rusconi, Milano, 1998. A proposito di questa scrittura cifrata, dalle forme sempre mobili e cangianti, refrattaria ad ogni solidificazione, Novalis riprende il tema dell’alkatest che Paracelso mutuò dai trattati arabi di alchimia.

2 Ivi, p. 105.

3 Ivi, p. 105.

4 C. Campo, Della fiaba, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, p. 38, d’ora in poi riportato con la sigla IM.

5 p. 32.

6 Novalis, cit., p. 77.

7 F. Schiller, L’immagine velata di Sais, in Novalis, Appendice seconda. La composizione poetica di Friedrich Schiller sulla Dea di Sais, cit., p. 329.

8 Della fiaba, cit., p. 239.

9 Dice Leibniz nel paragrafo 68 della Monadologia: “E benchè la terra e l’aria intercettate tra le piante del giardino, l’acqua intercettata tra i pesci dello stagno, non siano né pianta né pesce, tuttavia ne contengono anch’esse, ma per lo più di tale piccolezza, da riuscire a noi impercettibile” ( La Monadologia, a cura di Guido De Ruggiero, Laterza, Bari, 1971, p. 142).

10 Su questo tema vedasi il saggio della Campo Les sources de la Vivonne, in IM, cit., pp. 47-51, ed anche la lettera di Cristina Campo a Piero Pòlito del 26.3. 1963, ora in Cristina Campo, L’Infinito nel Finito. Lettere a Piero Pòlito, Via del Vento Edizioni, Pistoia, 1998, p. 8. Il breve saggio campiano consente di mettere a fuoco, riflettendo sull’opera di Proust, la differenza radicale tra la Verità e il Vero. La Verità – dice la Campo – è più grande del vero, esso tuttavia è il solo involucro concesso alla visione. La visione può essere solo adorata e contemplata, mentre il vero, sempre imperfetto e parziale, si offre a noi nelle strettoie della finitezza. E’ tuttavia il vero, quando si mostri, fa tremare, “così piccolo, così toccabile, così corruttibile”, p. 49.

11 p. 34.

12 Raimon Panikkar nella sua filosofia del dualogo ,riferita al dialogo interreligioso, propone una lettura della coppia logos e mythos attribuendo a quest’ultimo il carattere di terreno fondativo, fluente e mobile, su cui opera il logos che porta a solidificazione e trasforma in categorie e concetti il mondo materico e plastico del mito. Vedasi R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, edizione italiana a cura di Milena Carrara Pavan, Jaca Book, Milano, 2001. Su questo aspetto vedasi anche il mio scritto, R. Taioli, Raimon Panikkar. L’incontro indispensabile fra le religioni, in “Testimonianze”, anno XLIV, settembre / ottobre 2001, n.  5 (419), pp. 104-109.

13 In medio coeli, cit., p. 166.

14 Novalis, Il regno del poeta, in Opera filosofica, I, edizione italiana a cura di Giampiero Moretti, Torino, Einaudi, 1993, p. 166.

 

15 Attenzione e poesia, in IM, cit., p. 166.

16 p. 167.

17 p. 167.

18 “La verità non è venuta nuda  in questo mondo, ma in simboli e immagini. Non la si può afferrare che in questo modo”, Vangelo di Filippo, in Vangeli gnostici, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi, Milano, 1993, p. 61.

19 C. Vannucci, Invito alla preghiera, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1979, p. 20.

20 C. Campo, Lettere a Mita, con una Nota di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi, Milano, 1999.

21 p. 129.

22 p. 146.

23  Lc, 12, 52.

24 Per uno studio sistematico della vita e dell’opera di Giovanni Vannucci, vedasi il volume di A. Camici, Uomo di luce. Mistagogia e vita spirituale in Giovanni Vannucci, Il Segno dei Gabrielli, Negarine (Vr), 2001. Vedasi anche su questo libro la mia recensione in “Sapienza - Rivista di Filosofia e di Teologia”, vol. 55° (2002), Fasc. 4 – ott-dic, pp. 481-485. Sul tema specificatamente della preghiera, si rinvia al mio saggio, R. Taioli, La preghiera cosmica di Giovanni Vannucci, in “Città di Vita”, anno 56°, n. 1, gennaio/febbraio 2001, pp. 5-14.

25 G. Vannucci, L’uomo del deserto, in Pellegrino dell’Assoluto, Cens, Sotto il Monte (BG), 1990, pp. 90-91.

26 C. Campo, Introduzione, in Detti e fatti dei Padri del deserto, Rusconi, Milano, 1975, ora anche in IM. cit., pp. 211-221.

27 C. Campo, Sensi soprannaturali, in IM, cit. p. 232.

28 p. 232.

29 Su questi temi vedasi il libro di Annick de Souzenelle, Il simbolismo del corpo umano. Dall’albero della vita allo schema corporeo, trad. it. di Patrizia longo e Yvonne Mollard, Servitium Editrice, Gorle (BG), 2000. La de Souzenelle lavora sulla interpretazione e decifrazione dello schema corporeo alla luce degli archetipi viventi nelle religioni e nei miti dell’umanità agenti in ogni organo corporeo. L’itinerario conduce alla scoperta dell’ “albero” dei qabbalisti. Se l’uomo è creato a immagine di Dio, la figura del corpo che è un “libro di carne”, va letta come riflesso terrestre di quell’albero della vita.

30 Sensi soprannaturali, cit., p. 232.

31 Gli imperdonabili, cit., p. 88.

32 G. Vannucci, Le vie della preghiera. La parola, in Pellegrino dell’Assoluto, cit., p. 187.

 

33 Sensi soprannaturali, cit., p. 242.

34 G. Vannucci, Il corpo simbolo dell’invisibile, in La parola creatrice, Cens, Sotto il Monte (BG), 1993, p. 135.

35 Pellegrino dell’Assoluto, cit., p. 132.

36 C. Campo, Canone IV, in La Tigre Assenza, a cura e con una nota di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi, Milano, 1991, p. 54.

37 pp. 54-55.

38 Lettere a Mita, cit., p. 118. Nella seconda parte della lettera alla Pieracci, la Campo tra l’altro fa cenno a difficoltà in essere all’epoca per la pubblicazione di certi libri tra cui il suo Fiaba e mistero e uno della stessa amica. “Può darsi che certi libri siano inconciliabili con le nuove direttive”, sottolinea la scrittrice. A tal punto s’inserisce il riferimento alla Philokalia di Giovanni Vannucci che avrebbe dovuto uscire presso Vallecchi e che vide poi la luce presso la Libreria Editrice Fiorentina ( vedasi G. Vannucci, Filocalìa. Testi di Ascetica e Mistica della Chiesa Orientale, a cura di G. Vannucci, 2 voll., Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1963), e che Cristina regalò all’amica per il Natale del 1964.

L’interesse della Campo verso la Mistica nelle varie forme del suo manifestarsi è confermato tra l’altro dalla sua collaborazione, in qualche parte, con Elémire Zolla, all’ampia raccolta dei mistici dell’Occidente (E. Zolla, I mistici dell’Occidente, 2 voll., Adelphi, Milano, 1997).

39 A. Emo , Le voci delle Muse, Marsilio, Venezia, 1992, p. 79. I contatti tra la scrittrice e il pensatore veneto si situano essenzialmente nell’ultimo periodo della vita della Campo ed avvengono prevalentemente  per via epistolare e telefonica. Per ricostruire il legame spirituale ed umano intercorrente tra i due, vedasi il carteggio tra il filosofo e la scrittrice (non sono state allo stato rintracciate eventuali lettere della Campo ad Emo), ora confluito in A. Emo, Lettere a  Cristina Campo (1972-1976), a cura di Giovanna Fozzer, Quaderno terzo, Associazione culturale “In forma di parole”, Bologna, 2001. Il contatto tra la Campo ed Emo è anche brevemente accennato da E. Rubin de Cervin nel suo Ricordo di Andrea Emo, in appendice al volume di A. Emo, Il Dio negativo, scritti teoretici 1925-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, prefazione di M. Cacciari, Marsilio, Venezia, 1989, p. 253, e da A. Spina in Conversazione in Piazza Sant’Anselmo. Per un ritratto di Cristina Campo, Scheiwiller, Milano, 1993, p. 121: “Ma un filosofo solitario, Andrea Emo, notava nei suoi quaderni – dove il fracasso del quotidiano non arrivava mai: ‘ E’ morta. Cistina Campo è morta’ “

40 Pellegrino dell’Assoluto, cit., p. 189.

41 P.N. Endokìmov. Teologia della bellezza, trad. dal francese di P. Giuseppe Vetralla, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1991, p. 93.

42 C. Campo, Con lievi mani, in IM, cit., p. 100.

43 : Vannucci, Magnificat, in D.M. Turoldo, Santa Maria, Servitium Editrice, Sotto il Monte (BG), 1996, p. 89. Scrive Vannucci in un esplicito richiamo a Eckhart: “Meister Eckhart descrive questa necessaria operazione con un termine intraducibile nella nostra lingua, ma che cercheremo di capire. Egli dice che la mente, passando il limite che separa il mondo profano dal mondo sacro, deve ent-werden: werden è il divenire e, con il prefisso ent, può tradursi ‘contro-divenire’, ‘dis-disvenire’ “.

44 Con lievi mani, in IM, cit., p. 100.

45 M. Bellet, L’estasi della vita, trad. it. di Cristina Bolognini, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1996, p. 18. Interessanti anche le osservazioni che il filosofo francese dedica al tema della Via come itinerario di accesso alla Verità che pur partendo dallo strato del mondano, esplora altri confini e scompagina i percorsi usuali: “La Via discende lungo la regione a monte. Sogna e spiega i sogni. Lascia aperta l’enorme porta dello spavento, varca la soglia e crea la pace. Essa è dura e scava, vuole e gusta la verità, pure se molto dura, impossibile. E’ seppellimento, regressione, scarto, sloggiamento. La cosa più dura da sconfiggere è senza dubbio ciò-che-si-vede e ciò-che-già-si-sa; poiché questa evidenza nasconde il lato più oscuro, e la cosa più estranea è quella più conosciuta”, M. Bellet, La Via, trad. it. di Marco Turrini, Servitium Editrice, Gorle (BG), 2002, p. 11.

45 C. Campo, Note sopra la liturgia, in “Cappella Sistina”, luglio-settembre 1966, pp. 99-102, ora in C. Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Nuova edizione ampliata, Adelphi, Milano, 1998, p. 133. Si ravvisano su questi temi e in particolare sulla funzione del rito, convergenze e assonanze tra Cristina Campo (“il rito è vita, come le Scritture, come il sole che ogni giorno sorge e brilla e tramonta, eppure rimane inesauribilmente misterioso e diverso”, Note sopra la liturgia, cit., p. 214) e la meditazione di Giuseppe Trinchero  che coglie la presenza del rito nel manifestarsi della vita stessa, proponendo una recezione del termine in quanto designante un terreno fondativo preesistente alle operazioni; Trinchero allude ad una sorta di liturgia cosmica che permea di sé le sponde della vita: “Rito è tutta la vita. Svolgere la propria vita come un rito. Uscire dall’abitudine di scindere la vita spirituale da quella fisica, e comprendere che sono due aspetti diversi di una realtà. Quello che vive nello spirito non è completo se non diviene calore di sentimento, e questo non è completo se non diviene azione”, in “Barnabiti Studi”, n. 16, 1999, p. 341.

E ancora: il rito è unità che emerge nel divenire delle manifestazioni del molteplice. Cogliere questa unità al di sotto delle forme significa non cadere nell’errore dell’abitudine e della ripetizione, mantenere vivo e acceso il fuoco originario da cui il rito trae alimento e ne è, in qualche modo, espressione: “I riti stabiliti non sono che l’indicazione della via, per cui, prima di noi, sono passati altri per costruire l’organo della conoscenza della realtà della vita, mediante il quale la vita risorge. Non ripetere i gesti, le parole meccanicamente, ma penetrare la volontà, il sentimento, il pensiero espresso in quel gesto, in quella parola. Allora il passare per quella forma è riceverne aiuto. Ma l’aiuto è il surrogato, la via è la fede nell’unità” (cit., p. 342). Per un inquadramento della figura di Giuseppe Trinchero, vedasi lo scritto di A. Camici, Una vita inquieta, alla ricerca della profondità: il P. Giuseppe Trinchero (1875-1936), in “Barnabiti Studi”, cit., pp. 327-340. 

46 C. Campo, Parco dei cervi, in IM, cit., p. 145.

47 C. Campo, Il linguaggio dei simboli, intervista a cura di Gino de Sanctis, in “L’ Europa”, 15 febbraio 1975, p. 30, ora in Sotto falso nome, cit., p. 215.

48 p. 215.

49 p. 215.

50 C. Campo, L’intervista, a cura di Antonio Altomonte, in “Il Tempo”, 16 aprile 1972, p. 16, ora in Sotto falso nome, cit., p. 203.

51 A. Emo, Le voci delle Muse, cit., pp. 117-118.

52 p. 117.

53 p. 79.

54 C. Campo, Attenzione e poesia, in IM, cit., p. 167: “…l’arte antica è sintetica, l’arte moderna analitica; un’arte in gran parte di pura scomposizione, come si conviene ad un tempo nutrito di terrore. Poiché la vera attenzione non conduce, come potrebbe sembrare all’analisi, ma alla sintesi che la risolve, al simbolo e alla figura – in una parola, al destino”.

55 A. Emo, cit., p. 91.

56 Parco dei cervi, cit., p. 151.

57 A. Emo, cit., p. 91.

58 A. Emo, Lettere a Cristina Campo, cit., p. 62.

59 p. 62.  Su questo tema del deserto come luogo interiore, vedasi Marie Madelaine Davy, Il deserto interiore, trad. it. di F.C., G. Carraro e A. Andriotto, Servitium Editrice, Gorle (BG), 2001. Scrive la Davy: “Nel deserto interiore, l’uomo separato dai veri influssi e sollevato dal peso del mondo circostante, può liberamente scrutare il senso delle cose, sollevando il velo delle immagini per scoprire che cosa rappresentino. Egli potrà dedicarsi anche alla scienza dei segreti, all’arte dello svelamento, che è una prerogativa dell’ ‘intelligenza del cuore’ “ (p. 118). Parole che richiamano il fascino poetico e mistico che la Campo consegna ai già ricordati versi “Con lieve cuore, con lievi mani …” dedicati alla sprezzatura.

60 A. Emo, Le voci delle Muse, cit., p. 127.

61 p. 127.

62 p. 122.

63 C. Campo, Su William Carlos Williams, in IM, cit., p. 173. Per quanto riguarda il carteggio tra la Campo e Williams, vedasi W.C. Williams, C. Campo, V. Scheiwiller, Il fiore è il nostro sogno. Carteggio e poesie, a cura di Margherita Pieracci Harwell, Libri Scheiwiller, Milano, 2001.

64 A. Emo, Le voci delle Muse, cit., p. 115.

 

 

 

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