Introduzione alla lettura delle Upanishad (A. D'Alonzo)

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Introduzione alla lettura delle Upanishad (A. D'Alonzo)


Sempre più frequentemente l’attuale e totalizzante tendenza alla desertificazione spirituale dell’epoca, costringe l’uomo occidentale all’affannosa ricerca di suggestioni compensatorie bilancianti l’incipiente consapevolezza della perdita di spessore di senso dell’esperienza quotidiana. L’apparato tecnico, come teorizzato da Galimberti, trasformando il “regno dei fini” in un “universo dei mezzi”, ha abolito la storia come éschaton ed esercita un restringimento sull’apertura di senso, che si riflette in un appiattimento delle istanze soggettive connaturato al primato della pseudo-oggettività della “cose”.
La tecnica appiattisce le identità individuali alla sua funzionalità, laddove anche il magico castello dell’interiorità si dissolve in un bombardamento mediatico che impedisce, di fatto, la solitudine e il raccoglimento. Accerchiata dai media la soggettività si autoimprigiona in una chiusura narcisistica all’esterno, dove si rifiutano le possibilità e i rischi connessi all’azione non massificata- in quanto se ne accerta l’evanescenza e l’inconsistenza- o si riduce ad una passiva accettazione dell’imprescindibilità dell’istanza del ruolo che l’apparato le assegna. Il soggetto diventa un impersonale funzionario dell’apparato che incarna un ruolo, quanto più anonimo, tanto più intercambiabile e rimpiazzabile.
Non stupisce quindi che molti occidentali, preso atto della fine della filosofia fondazionistica occidentale, volgano lo sguardo ad Oriente, terra ricca di ricchezze non tanto materiali, quanto piuttosto spirituali. D’altronde, oggi è sempre più accettata la tesi di un’influenza sugli albori del pensiero greco da parte di civiltà più remote, quali quella egizia, e soprattutto indù. È soprattutto nell’ottocento che le grandi opere indù incominciano a circolare negli ambienti accademici tedeschi e si formano insigni orientalisti o semplici appassionati e curiosi lettori di questi testi millenari. Celeberrima rimane, a questo riguardo, la dichiarazione di Schopenhauer che attribuisce alla lettura delle Upanishad, l’unico motivo consolatorio della sua vita. La capacità di ri-velare il dolore esistenziale sotteso al fondo metafisico è, in effetti, peculiare alla letteratura brāhmanica, che schematicamente possiamo far risalire ai Veda, per proseguire con le Upanishad, il Vedānta, la Bhagavad Gītā.
In sanscrito la radice vid, vuol dire “conoscere”, e il termine Veda (conoscenza o anche conoscenza intuitiva, sapienza primordiale) designa i testi che stanno alla radice della religione indiana e si suddividono in quattro grandi raccolte, il Rig-veda o veda degli inni, Inni dedicati alle divinità politeistiche, il Sama-veda o veda dei canti, lo Yajur-veda o veda delle formule sacrificali, lo Atharva-veda o veda delle formule magiche, o anche veda dei sacerdoti àthavan del fuoco e del Soma, che è una bevanda sacra inebriante degli antichi Arii indo-iranici, assimilabile all’idromele dei culti nordici.
I Veda sono redatti in un sanscrito arcaico e contengono le lodi rituali e una narrazione poetica sui miti degli dei Arii, etnia di pelle bianca e di lingua indoeuropea, discesa nella valle dell’Indo all’incirca nel II millennio a. C. Gli Arii si suddivisero secondo tre caste, i Brāhmani, sacerdoti detentori del potere spirituale, gli Ksatriya, guerrieri e nobili detentori dell’ordine temporale, i Vaiśya, allevatori ed agricoltori. A questi si aggiunsero i Śūdra, i serivitori non Arii.
Alla casta dei Brāhmani corrisponde nell’ordine divino la coppia Mitra-Varuna, il primo divinità solare ed il secondo signore dell’oceano. Agli Ksatriya è corrispondente il dio Indra, il Signore degli dei vedici, dio della tempesta e della folgore. Ai Vaiśya è correlativo Parjanya, dio della pioggia, ma anche altre divinità connesse alla fecondità della terra. Possiamo quindi vedere una perfetta corrispondenza fra ordine umano e divino, Microcosmo e Macrocosmo. La predestinazione della nascita riflette perfettamente, secondo gli indù, il Dharma, ovvero la legge che regola l’universo e il Samsāra, la concatenazione delle morti e delle rinascite, cui si pone fine con la Mokśa o Mukti, la Liberazione. E ancora: il Brāhmano si può considerare la bocca di Purusha, lo Ksatriya le braccia, il Vaiśya le anche, lo Śūdra, viceversa è nato dai piedi stessi di Purusha. Le Upanishad vengono di solito considerate parte integrante dei Veda e ne costituiscono la parte conclusiva; possono essere ritenute, a buon diritto, come un insegnamento esoterico di esegesi vedica.. Etimologicamente «Upanishad» significa “sedersi ai piedi del maestro” , ovvero dottrina segreta tramessa dal guru al discepolo. Le Upanishad si dividono in antiche, medie, e recenti, e schematicamente contengono insegnamenti esoterici volti all’interiorizzazione del rito mediante la pratica meditativa e yogica. Le Upanishad contenute in appendice ai Veda fanno parte della tradizione udita ( śruti) , conoscenza ritenuta superiore alla tradizione “semplicemente” rammentata ( Smrti) : Le Upanishad che provengono dalla śruti si propongono di dimostrare la perfetta identità ed equivalenza teorica e pratica tra Brahman ed Ătman. Con il termine «Brahman», gli indù intendono lo Spirito Universale, considerato secondo una prospettiva oggettiva. L’«Ătman» è il suo correlativo soggettivo, il Sé, la monade universale. Tra Brahman e Ătman vi è una perfetta identità: scopo delle Upanishad è liberare e riaffermare questa identità. È importante sottolineare che l’Ătman- il Sé- è tutt’altra cosa dall’Io della coscienza riflessa (ahankāra), essendo quest’ultimo solo l’organo dell’atto conoscitivo che perpetuando la falsa dualità soggetto-oggetto, conoscente e conosciuto, rimane irretito da Maya, l’illusione magica, che rende molteplice ciò che appare, mentre in realtà la pluralità è un errore: giacché il Tutto fa parte dell’Uno e l’Uno emana nel Tutto. La realizzazione dell’identità Ătman-Brahman, Sé e Spirito Universale, permette al rsi ( saggio ispirato) o allo yogi, di dissolvere la propria coscienza nell’Uno-Tutto, affermando la perfetta unità tra microcosmo e macrocosmo, e dilatando il Sé ( Ătman) nel suo correlativo oggettivo, nel Brahman. Lo rsi giunto a questo stadio di realizzazione, annulla l’egotismo nello Spirito Universale (Brahman) e realizza così la moksha o mukti (Liberazione), essendosi sottratto - proprio perché pervenuto all’illuminazione - al samsāra, al ciclo delle nascite-morti-rinascite.
Le questioni essenziali indagate dalle Upanishad sono sostanzialmente tre: la definizione del karma, l’indagine sull’essenza del soggetto agente, la questione della relazione fra lo Spirito Assoluto e il mondo oggettivo.
Nei Veda il karman è il sacrificio che unisce l’uomo a Prajāpati ( prajā = Creature; pati = Signore), archetipo del potere germinale del reale, creatore degli uomini, degli dei, degli animali, delle piante, delle cose. Prajāpati è creato a sua volta da Brahmā, personificazione di Brahman, lo Spirito Universale. Nelle Upanishad il karma non è più soltanto l’atto sacrificale, ma è l’invisibile tramite che vincola alle conseguenze dell’azione, e chiama l’uomo ad essere responsabile del proprio fato, in quanto quest’ultimo è la risultante degli atti stessi dell’uomo che pensa, agisce, desidera.
L’essenza del soggetto agente è il riconoscimento dell’identità perfetta tra il polo oggettivo assoluto e quello - altrettanto assoluto - soggettivo: una volta dissolta l’illusione di Maya che rende le cose molteplici, quindi apparenti, si riafferma l’equazione pura Brahman - Ătman. È errato pensare che Brahman e Ătman siano due elementi che dialetticamente si ricongiungono nell’Assoluto, secondo il noto schema triadico hegeliano. Siamo in presenza, piuttosto, di una sorta di tautologia mistica, dove Brahman è Ătman ed è anche contemporaneamente l’Assoluto, così come Ătman è Brahman e L’Assoluto ( quindi non un dialettico 1+2=3; ma 1=2).
La terza questione è cruciale per approfondire la comprensione delle differenze tra la concezione della Creazione, così come ci viene tramandata dalla narrazione antico-testamentaria e la concezione indù della Manifestazione. A differenza del Giudaismo e del Cristianesimo che affermano la presenza di un Dio che crea il mondo, nei libri indù non si parla di Creazione - perché questo vorrebbe dire riconoscere la trascendenza di un Creatore - ma di manifestazione, perché l’Uno non può essere superiore alle sue parti, né le parti possono essere separate dall’Uno, così vuole il monismo indiano, per il quale la realtà è essenzialmente psichica.
Tutto deriva da Brahman-Ătman, manifestandosi in una serie graduale di ipostasi, attraverso le quali lo Spirito Assoluto si estranea da sé, producendo, in conseguenza di questo processo, la molteplicità delle apparenze, ovvero l’illusione di Maya. Ma se l’Uno è il Tutto e le parti del Tutto- in quanto falsa molteplicità- non sono altro che illusione (Maya), allora anche l’uomo che di questo Tutto fa parte è l’Uno. Ma come può egli liberarsi dalla rete di Maya e raggiungere la consapevolezza, illuminazione preliminare alla Liberazione (moksha)?
L’uomo può riuscirci esclusivamente in conseguenza del suo rifuggire le false apparenze del mondo, mediante la meditazione e la concentrazione (dhyāna) , al di là del terzo stato molteplice dell’essere, quando prenderà coscienza che il Sé (Ătman) - che ripetiamo è tutt’altra cosa dall’Io solipsistico che conoscendo si distingue dal suo oggetto- è identico allo Spirito Universale (Brahman).
Quattro sono i molteplici stati dell’essere, che lo yogi può conoscere attraverso un’azione di progressiva introspezione, con cui ripercorre - inversamente - il processo di estraneamento dello Spirito da sé stesso. Brahman per effetto di Maya si estrinseca come macrocosmo, dapprima nell’Essere identico a sé stesso, poi nel Verbo che è causa del possibile, quindi nelle forme eteree ed infine nel mondo materiale, massimo allontanamento dello Spirito dalla propria essenza. Abbiamo quindi un processo - che hegelianamente si potrebbe dire - di alienazione dello Spirito da sé stesso, se non che alla fine del percorso non si trova l’autoconsapevolezza che l’Assoluto ha di sé come Spirito, bensì- e qui dobbiamo rifarci ad Heidegger- l’oblio della disvelatezza dell’Essere. In questo punto risiede la peculiarità della sapienza indiana rispetto al pensiero filosofico occidentale: ogni teoria astratta, cioè non sperimentale, deve poter essere introiettata in una prassi intimista dal soggetto conoscente. L’uomo in quanto microcosmo, contiene in sé rovesciato, l’intero processo di formazione del macrocosmo: per cui come Brahman si estrinseca nel processo di discesa e negazione, così lo yogi si accentra e si introietta nella conoscenza di Sé (Ătman); conoscenza - che non dimentichiamolo - coincide con quella stessa di Brahman.
È essenziale sapere che il primo stadio dell’essere, lo stato di veglia (vaiśvānara) , è quello in cui lo Spirito è paradossalmente più incosciente, mentre nei successivi stadi di sonno con sogni (taijasa), sonno profondo (sushupta) , lo Spirito progressivamente diviene sempre più cosciente di sé, fino al culmine dello stato supremo di trance (turīya, il «Quarto»), dove si realizza la perfetta reintegrazione con Brahman.
L’intero processo è esotericamente racchiuso nel monosillabo sacro OM, sintesi della conoscenza, dove le tre sillabe A, U, M, ( la cui contrazione fonetica è OM) simboleggiano rispettivamente la conoscenza sensibile (A), l’elevazione in seguito all’abbandono del corpo (U), la penetrazione nella conoscenza intuitiva (M).
Questo è in estrema sintesi l’insegnamento esoterico racchiuso nelle Upanishad. Tralasceremo ora, per ovvi problemi di spazio, di introdurre la trattazione del Vedānta («fine dei Veda», esplicitazioni metafisiche delle questioni sottese nelle Upanishad), o della Bhagavad Gītā (commentario e sottocommentario di tutte le discipline fondamentali indiane). Ritorneremo ora al punto di vista che ci è proprio in quanto occidentali, ovvero alla prospettiva del pensiero critico.
Se consideriamo la filosofia come un’arte di produrre concetti, di sostenere ipotesi avvallate da argomentazioni, confutazioni, criteri di dimostrabilità, prove e sillogismi, ecc., non possiamo non ammettere che le dottrine orientali non sono propriamente delle filosofie- alla maniera in cui questo disciplina è intesa in Occidente- ma nemmeno possono essere riconducibili, in nuce, a qualche forma di irrazionalismo agnostico. Al contrario, il pensiero indiano è equiparabile, tout court, alla filosofia premoderna e precartesiana, alla mistica renano-fiamminga, alle correnti dell’esoterismo occidentale, ecc. In altre parole, il pensiero indiano è filosofico nella misura in cui fa proprie la speculazione e l’ortoprassi delle scuole presocratiche e neoplatoniche, in cui condivide e perfeziona gli abissi vertiginosi della mistica eckhartiana, in cui si cura di elaborare tecniche per risvegliare nel piano sottile le energie nascoste della monade individuale. In questo senso, il pensiero indiano è filosofia. Non lo è più, certamente, se con quest’ultima designiamo un’arte di produrre concetti. Infine, sorge spontanea la questione se il termine “filosofia” strictu sensu- in quanto “amore della sapienza”- non possa essere riservato proprio alla speculazione indiana e, conseguentemente, il pensiero occidentale moderno non risulti piuttosto una decadente alterazione dello spirito umano, da sempre teso, alla reintegrazione originaria con l’Universo. Forse- lanciando una sottile provocazione- sarebbe il caso di distinguere una volta per tutte il pensiero critico dall’”amore per la sapienza”, riservando quest’ultima a quelle correnti speculative che non scindono teoria e praxis, spirito e vita. Forse, la vera philo-sophia non ha niente a che spartire con le scuole contemporanee occidentali e deve essere ricercata nel pensiero precartesiano e nella speculazione indiana.
Un’ultima considerazione. Specialmente nei Veda si perpetua un realismo ingenuo, si attribuisce realtà effettiva agli enti e ai concetti inerenti come essenze necessarie. Si chiama qualcosa con un nome e, nominandola, si pensa che esista realmente. Manca, insomma, qualsiasi riflessione critica o indagine epistemologica. Ma anche quest’assenza è più peculiare al pensiero metafisico che a quello filosofico, sempre teso a superare l’immediatezza della facile identificazione tra sfera concettuale e mondo sensibile. Per Heidegger la metafisica è la contrapposizione di un soggetto conoscente ad un oggetto da conoscere: tuttavia nella conoscenza esoterica il soggetto finisce ineluttabilmente per identificarsi e con-fondersi con l’ente conosciuto.
Concluse queste brevi osservazioni teoretiche, è necessario dare alle dottrine indù quanto è dovuto, sottolineando la profonda bellezza, anche lirica, di questi insegnamenti, in grado di offrire un compendio di antica saggezza interiore al neofita e di riproporre quella domanda fondamentale sui valori essenziali dell’era tecnocentrica, sempre più frequentemente pullulante di ciarlatani travestiti da maestri spirituali.





BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

1. U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli.
2. C. Lasch, La cultura del narcisismo Bompiani.
3. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela Il Saggiatore.
4. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, ed. Mediterranee.
5. R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi.
6. R. Guénon, Gli Stati molteplici dell’essere, Adelphi.
7. G. Deleuze, Che cos’è la filosofia? Einaudi.
8. S. Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri.
9. M. Heidegger di Essere e tempo, Longanesi.
10. Agostino, Opere, Nuova Biblioteca agostiniana
11. P. Filippani - Ronconi, Upanishad antiche e medie, Boringhieri.
12. H. Zimmer, Filosofie e religioni dell’India, Mondadori.

 

 

Da: http://www.krisis.it/public/modules/news/article.php?storyid=32&page=0

 

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