in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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L'illuminazione ed errori simili - Parte 2 (Karl Renz)

(A cura di Isabella di Soragna)


 

Spontaneamente, naturalmente, senza un pensiero. Conosci quello stato: dal sonno profondo, ‘pam!’, eccoti nello stato consapevole. Proprio allo stesso modo è emerso tutto quanto l’Essere. Prima non c’era né idea né desiderio di risveglio. Da questo primo risveglio è sorto il Big Bang. Non era la decisione di nessuno. Non c’è mai stata nessuna decisione.

 

D.: L’Io prende pure delle decisioni in quanto all’attenzione o per l’orientamento dell’attenzione.

K.: Anche questa non è una decisione. Si tratta tutt’al più della grazia. Quando la consapevolezza diventa consapevole di se stessa, non è condizionata da un Io che decide di stare un po’ più attento. Puoi sederti per mille anni e deciderti ad essere consapevole ma non succede niente. Forse questo l’hai già superato.

 

D.: Lo spero.

K.: Oppure è ancora da farsi. In ogni modo non l’hai in pugno. Niente dipende da te, da un Io che crede di decidere. Ogni idea è un’idea spontanea. Ogni apparente decisione viene dal nulla. Dal ‘’blu dipinto di blu’’. “Out of the blue into the great wide open”(Improvvisamente appare nello spazio infinito) Non ha direzione. Niente ha una direzione.

 

D.: Questo ha sapore di disperazione.

K.: Non è né disperazione né speranza. Entrambi implicherebbero qualcuno che possa avere o aver bisogno di speranza. Ci saranno sia un disperato che uno speranzoso finché l’idea ti sembrerà reale. Soltanto per questo sorgono simili domande. La radice è l’idea, che tu esisti come Io. E poi vorresti avviarti nel silenzio dove queste idee svaniscono.

 

D.: Si, lo vorrei questo. Per questo ho preso la decisione.

K.: Hai mai contribuito a qualcosa in una qualunque maniera?


D.: Questo si, l’ammetto.

K.: Devi soltanto ammettere che è successo sempre da solo. Ha sempre funzionato da solo e non ha mai avuto bisogno della tua decisione. La paura che non potesse succedere senza la tua decisione è solo un’idea.

 

D.: E la paura che a causa di una mia decisone errata io non esista più?

K.: Questa è l’angoscia di morire. Appare quando vedi che non hai libero arbitrio e nessun controllo. Allora l’Io si difende perché pensa che possa perdere qualcosa.. Non solo le sue decisioni, ma anche la sua vita. Certo ci sarà questa paura. Appartiene all’istinto di sopravvivenza di una funzione. Il pallone continua a rotolare e teme di restar fermo. Rotola, non ha controllo, ma ha paura. Può anche succedere che quando cessa il rotolare, esso non sia più un pallone.

 

D.: Ma quando cessa il rotolare, ci sono ancora io?

K.: Quando il ruolo è esaurito, l’Io cessa. L’io è costruito dalla nostra storia personale. La paura si risveglia se questa storia potesse aver fine.

 

D.: Cosa succede se la storia si ferma?

K.: Continua tale quale come prima, ma senza la tua idea di azione. Senza l’idea di desiderio, di volontà, di controllo, di libertà e di potere decisionale. Senza il pensiero di una storia personale.

 

D.:Continua senza la mia persona?

K.: Si, proprio come adesso. Adesso c’è forse una storia? Guarda quello che succede! Osserva solo se qualcosa cambia grazie alla tua decisione. Se in fondo prendi veramente una qualsiasi decisione o hai la capacità di convertire un qualunque desiderio. O se mai qualcosa è dipeso dal tuo controllo.

 

D.: Voglio alzare la mano, per favore, alzo la mano.

K.: Un nervo viene stimolato, la mano si alza e presto arriva l’Io che afferma: “Questo l’ho deciso io!” osservalo nei tuoi pensieri: l’Io viene sempre dopo. Ogni azione avviene spontaneamente, ogni idea appare da sola, ogni pensiero. Ma poi avanza una superidea che si chiama Io, che trasforma ogni avvenimento in storia personale. Questo è tutto. Non c’è altro. Un pensiero che si chiama Io arriva un po’ più tardi, spiega la faccenda in termini di proprietà personale ed esprime la propria opinione: “La mia volontà, il mio errore, il mio corpo, la mia vita, la mia morte.”

 

D.: E’ possibile che cominci a capire.

K.: Capisci? Allora osserva la tua comprensione! Guarda quando si fa sentire questo “mio”.

 

D.: La mia decisione non è la mia decisione, il mio desiderio non è il mio desiderio?

K.: Sii solo consapevole. Guarda da dove proviene il tuo desiderio. Puoi tu desiderare di desiderare? Oppure il desiderio viene da sé – come energia, che si apre come un fiore, che fiorisce senza ragione né senso? Il desiderio viene e scompare da sé.

 

D: Certamente, in ogni modo quando viene esaudito.

K.: Non perché viene soddisfatto. Il desiderio originario, il desiderio che sta a monte di tutti i desideri è quello della conoscenza di sé. E questo desiderio non sarà mai esaudito.

 

D.: Allora devo dimenticare anche quello?

K.: Non esiste alcuna speranza che tu ti possa mai conoscere. Il desiderio di conoscere se stessi sorge per ultimo, quando tutti gli altri desideri sono venuti e poi andati senza che tu potessi mai guadagnarci qualcosa. Allora sorge il desiderio della conoscenza di sé, poiché sei giunto all’idea che tu possa finalmente trovare la felicità  e la pace nel trovare il Sé.

 

D.: E’ sbagliato?

K.: Non c’è semplicemente niente da trovare. Niente da riconoscere. Il desiderio della conoscenza di sé emerge e deve sparire rinunciando alla ricerca. Ma quando smette la ricerca si quieta.

 

D.: Allora devo semplicemente smettere di cercare.

K.: Certo, quando non c’è nient’altro! Tuttavia non puoi deciderlo tu. E nemmeno puoi opporti. E il bello è che non hai bisogno di prender decisioni. Non hai nemmeno bisogno di desiderarlo. La ricerca, il desiderio non può sparire per mezzo di un desiderio. L’ultimo desiderio può solo sparire quando l‘assenza di desideri si accorge di se stessa. Tu desideri, vuoi, decidi in apparenza, controlli i tuoi progressi, ti sforzi e d’un tratto – pfft! o peng! – cessa la presa, qualunque incidente abbia potuto provocarlo.

 

D.: Cessa la presa e io non ci sono più?

K.: Si, quasi un peccato! Perché avevi costruito un rapporto così interessante con te stesso.

 

 

 

 

Benvenuto nel mare di luce

 

 

D.: Cosa è possibile o raggiungibile per un uomo?

K.: Per l’uomo nulla è possibile. L’uomo è un’idea. E per un’idea nulla è possibile. Ma per quello che sei in realtà, per l’Essere non c’è nessuna frontiera.

 

D.: Va bene per l’Essere. Io sono un piccolo uomo.

K.: Finché ti definisci come uomo e vivi nelle frontiere di un uomo, nulla è possibile. Retrocedi prima dell’uomo. In questo “Io sono”. Non dico nella coscienza individuale. Nella coscienza cosmica, nell’unità. E poi ancora prima della coscienza, nell’Io puro. Il puro Io scompare nell’essere, senza idea di Io.  Questo succede al più tardi alla morte. Alla morte muoiono tutte le idee del tipo ”Io sono un uomo”. Rimane solo puro Essere.

 

D.: Allora posso veramente rallegrarmene!

K.: Rallegrati. L’essere non perde la sua totalità, se si mostra come “Io”, come “Io sono” o “Io sono un uomo”. In questa tridimensionalità c’è totalità. L’Essere è completo anche come uomo. Ma limitarsi a quest’ultimo anello della catena è una follia. Come se avessi dimenticato che sei la totalità. Come se dovessi tornare indietro. Sei sempre stato questa totalità in sé! Tu lo sei!  Non sei mai stato l’idea “Io” o “Io sono” o “Io sono un uomo”. Non lo sei mai stato, non lo sei, sono solo idee e nient’altro.

 

D.: L’uomo cerca da millenni l’ultima verità e non la trova.

K.: Non è fatto per quello. Egli è uno strumento per mezzo del quale l’Essere fa l’esperienza di un uomo. Ma quello che sperimenta se stesso eternamente, è sempre l’Essere. Quando si sperimenta come uomo, si sperimenta solo come variazione di se stesso.  Come riflesso. Come puro Essere non può farlo perché là non esiste esperienza. E quindi ci vuole uno sperimentatore, un Io. Te.

 

D.: Allora io sono solo un mezzo per far divertire l’Essere?

Tu stesso ti diverti! Tu stesso sei la totale esperienza di sé nella manifestazione dell’Essere. Non sei nulla di meno. C’è solo una manifestazione della totalità. Qualunque idea d’imperfezione è solo un’idea.

 

D.: Ma visibilmente mi attacco a quest’idea. Oppure non posso saperlo.

K.: Anche il non sapere è una manifestazione perfetta del sapere. Una manifestazione di quello che sei. Apparentemente esiste uno che sa e apparentemente uno che non sa. Ma entrambe sono apparenze. Il sapere in sé non conosce né uno che sa, né uno che non sa.  Tutto questo sorge con l’idea del tempo. Con l’idea della separazione. Al momento sperimenti un Essere separato.

 

D.: Già, e dov’è l’unità?

K.: Qui. Quello che sembra una separazione è in fondo una storia che ti racconti. Tu sperimenti quello che credi. Cosa c’è qui? Un luminoso mare di vibrazioni. Ma dall’esperienza del passato componi un quadro. Dall’esperienza di sedia, di umanità, di spazio, componi una scena. Quando eri un bebè avevi esperienze di luce e di vibrazioni nello spazio. Non quella di una sedia o della mamma. Quello è venuto dopo. Questo momento di spazio e tempo prende vita dal tuo condizionamento. Dalla storia, dai tuoi genitori e dal tuo ambiente che ti hanno detto: così stanno le cose, caro mio. E’ una costruzione mentale. A te sembra reale perché te lo ripeti quotidianamente.

 

D.: Allora lo creo dal passato – e quando esso sparisce, c’è solo l’adesso, questo momento.

K.: Allora non affermi più: Questo è un pavimento, questa è una coperta, questa è una sedia. Questa è la morte.

 

D.: Ma esistono pure queste differenze…

K.: Non ci sono! Non nell’adesso. L’esperienza ha bisogno di tempo.

 

K.: Tu vedi pure questa sedia o no?

K.: Qui c’è un vedere.

 

D.: Vedrai pure le differenze che ci sono tra gli uomini.

K.: Vedo differenze, ma non uomini differenti.

 

D.: Oh! Ma allora vedi delle differenze?

K.: Che c’è di sbagliato? Vedo le differenze e riconosco che le differenze sono solo nel tempo. Sono conseguenti alla condizione di separazione.  Sono dipendenti dall’Essere. E l’unica cosa essenziale che è qui ed ora, è l’Essere. Tutto il resto è finzione. Tu sei l’Essere, che in ogni adesso, in questo eterno ora, osservandosi si sperimenta. Questa è la tua verità. Conoscenza di sé. L’essenza di tutto si riconosce in tutto. Le forme contenute in essa sono solo ombre fuggevoli.

 

D.: Si questo posso percepirlo. Cerco solo…

K.: Lo so – vuoi farne un’esperienza.

 

D.: Sentire completamente questo momento, non va bene?

K.: Chi fa la domanda ora? Una domanda è nel tempo. L’eterno ora non ha domande. Allora chi le fa? L’Essere o qualunque altro oggetto nello spazio-tempo?

 

D.: Diciamo così: una domanda è semplicemente arrivata.

K.: Ottima risposta. Non c’è ostacolo alla tua illuminazione.

 

 

 

 

 

4.Progressi sulla via

 

 

 

Sto evolvendo?

 

D.: Ho visto alla TV dei bambini uccisi dal napalm. Prima non avrei potuto vederlo. Questa volta sono rimasto tranquillo e ne sono rimasto meravigliato.

K.: Vuoi dire che hai fatto progressi?

 

D.: Si, insomma…

K.: Hai ottenuto un vantaggio rispetto a prima?

 

D.: Solo non mi sono sentito così coinvolto come prima.

K.: Può essersi manifestato un testimone cosciente che non era più coinvolto in una conseguenza di eventi.

 

D.: Appunto. M’ immagino che se succede a me qualcosa di spiacevole eppure rimango tranquillo…

K.: Allora sei salvo?

 

D.: Allora non soffro se per modo di dire rimango fuori.

K.: Chi rimane dove? Qual è la differenza se rimani qui o lì? Se sei coinvolto o fuori? Chi ha il vantaggio se non è coinvolto? Che cosa sei tu?

 

D.: Sono colei che sta seduta qui.

K.: E che cos’è il vantaggio se ci sei tu? Questo è uno svantaggio assoluto. Fintanto che ci sei tu, come persona che vorrebbe manipolare per ottenere un vantaggio, allora il vantaggio personale è uno svantaggio assoluto.

 

D.: Per me è una questione di essere libera dal dolore.

K.: Quello che è libertà non ha bisogno di libertà. Ma l’idea che ci sei tu e che potresti avere un vantaggio se questo o quest’altro avvenimento si manifestasse nel quale comportarti in questo o in altro modo, per evitare una sofferenza – solo questo crea un sofferente.

 

D.: E’ una sofferenza il desiderio di voler essere felice?

K.: Naturalmente. Anche colui che è felice deve battersi per la sua felicità. L’infelicità è sempre possibile. Allora anche la felicità si trasforma in infelicità. Finché c’è qualcuno che è felice, c’ è anche un infelice. Sono insieme in un’ unica persona. Finché c’è qualcuno che è libero dalla sofferenza, è lui medesimo il sofferente. Da questo cerchio non sfugge nessuno. L’unica possibilità è il cosiddetto divino incidente: quell’Aha!, la realizzazione che non vi è mai stato nessuno che sia esistito nel tempo. Che il tempo non è mai esistito. E che quello che sei, è prima di qualunque idea di tempo e di spazio. Prima di qualunque idea che possa esistere.

 

D.: E non posso farci niente?

K.: Non devi farci niente! Tutto quello che succede nello spazio-tempo non può toccarlo. Tutto quello che fai nello spazio-tempo non può renderti come già sei. E’ ancora più semplice. Quello che sei riconosce semplicemente che non può essere qualcosa che possa riconoscere. In te, nella tua percezione appaiono lo spazio-tempo e il mondo. Ma tu stesso non ne fai parte.

 

 

 

 

La collana di perle della storia personale

 

D.: All’improvviso mi sono liberato da una grande tensione. Tempo addietro avevo intrapreso molte tecniche per liberarmene, eppure rimaneva. Ora non facevo nulla ed è sparita. Perché? Perché ho lasciato andare? Perché prima mi sono dato tanto da fare?

K.: Tutto quello che è stato trattenuto o lasciato andare, quello che è stato intrapreso o non intrapreso, ti ha portato a questo.  Ogni passo è il passo giusto per raggiungere questo preciso punto. Ma tu non hai mai preso una decisione per l’una o l’altra questione. E’ stata un’infinita relazione reciproca. L’uno condizionava l’altro. Ogni momento è una perla in un mucchio infinito di perle, che si condizionano l’un l’altra.

 

D.: O una collana di perle.

K.: La collana rappresenterebbe una storia personale. Ma è forse il passato la condizione del futuro? O è solo una relazione reciproca e tutto esiste qui allo stesso tempo, senza andare né venire? Una collana è una catena individuale, per la quale si scelgono particolari perle, le si annodano l’una all’altra come momenti personali. Un tale se la mette al collo e dice: ü la mia collana. La mia storia. Il mio passato, il mio futuro, la mia vita. In questo modo la collana è pesante da portare. Molto pesante. Per l’Io quasi insopportabile. Per questo cerca di manipolarla per renderla  più bella o sottile, brillante o discreta e meno vistosa.

 

D.:Finché l’Io finalmente la getta via.

K.: Per l’Io è impossibile gettare la collana. Non può separarsene. Perché la collana c’è in quanto c’è l’Io.  E l’Io c’è in quanto c’è la collana. Inseparabili. Si condizionano l’un l’altro.

 

D.: Allora vi è un’unica possibilità: che spariscano insieme allo stesso tempo!

K.: Vi è un’unica possibilità: quella di riconoscere che non ci sono mai state. Né l’Io né la collana.

 

D.: Vuoi dire che non esiste storia personale? Nessun susseguirsi di momenti?

K.: Quello che sei non ha conseguenze né condizionamenti. Non può essere spezzettato in momenti. Non è parte di qualsiasi cosa. E’ sempre prima di tutto.

 

D.: Non è nemmeno il mucchio di perle?

K.: E’ prima del mucchio di perle. E si rallegra se tu ci scivoli sopra!

 

 

 

 

 

 

Il satsang può favorire lo sviluppo?

 

D.: Il satsang può favorire lo sviluppo?

K.: Quello che si sviluppa non può essere quello che sei. Esiste uno sviluppo personale come esperienza. E c’è uno sviluppo umano come evoluzione. Esiste, certo, come gioco mentale. Ha forse un significato affinché tu possa riconoscere quello che sei?

 

D.:Probabilmente no.

K.: Là puoi riconoscere quello che  n o n  sei. A quello serve: riconoscere che non puoi essere quello che riconosci. Non per altro. Puoi goderti questo fatto.

 

D.: Ho però la sensazione che mi sono sviluppato. Dieci anni fa non avevo il collegamento con l’Essere. In ogni modo questa era la mia esperienza.

K.: Non puoi mai avere un collegamento con l’Essere. Nell’Essere non c’è collegamento, poiché non c’è separazione.

 

D.: Voglio dire che allora non avevo il contatto con Quello.

K.: Per essere non ci vuole contatto. Se no ce ne vorrebbero due. Ma non esiste il mio Essere ed il tuo Essere. Possiamo però parlarne del fatto possibile che  tu sperimenti uno sviluppo da uno stato di coscienza individuale ad uno stato di coscienza cosmico.

 

D.: E’ quello che voglio dire.

K.: Allora si parla di satori, di risveglio e di illuminazione.

 

D.: Certo. È quello che voglio dire. E non succedono dei satori in certi momenti dello sviluppo?

K.: Arrivano e partono spontaneamente. Tutto quello che si sveglia può ancora riaddormentarsi. E ogni Io che se ne va può ritornare, ce n’è fin troppi di “ego return”(ritorni dell’ego). Questo non è un vantaggio.

 

D.:Ramesh Balsekar dice: “Sali una scala – e l’ultimo scalino succede.” Dice chiaramente: c’è un processo.

K.: Si, un processo che hanno fatto a te!

 

D.: Anche tu hai avuto un processo e uno sviluppo!

K.: Il processo è stato fatto anche a Carletto. Egli era seduto sulla sedia degli imputati e doveva dimostrare di esistere. Lui non ce l’ha fatta L’impotenza di Carletto di dimostrare che esisteva, lo ha annullato.

 

D.: Come ci si arriva a questo giudizio?

K.: Dipende dal giudice.

 

D.: E chi è il giudice?

K.: Il Sé Quello che non lascia passare altro che se stesso.  L’Io deve dimostrare di esistere. Ma non esiste. E forse nel suo disperato bisogno di provare la propria esistenza, gira a vuoto per la prima volta. Questo lo si chiama “ Giudizio universale o Ultimo Giudizio” poiché in quel momento non c’è più tempo. Qui c’è solo l’inizio. Ma è anche l’ultimo giorno, dove c’è solo la Sorgente e dove ci può essere solo la Sorgente. Tutto quello che non è Sorgente viene annullato. Ecco il Giudizio Universale della Bibbia, ove non si accetta più nulla di quello che può essere nel tempo.

 

D.: E hai partecipato anche tu a questo processo?

K.: Hanno processato Carletto che fu giustiziato.

 

D.: Vuoi dire che questa rinuncia dell’Io è legato al dolore?

K.: L’esecuzione capitale è eseguita con una spada smussata. Salvo che avvenga dopo lenta impiccagione.

 

D.: Spiacevole in ogni modo.

K.: Non c’è regola. Sei impiccato, ma non sai quanto devi starci e finché sei dissanguato - cioè finché ogni desiderio ed ogni intenzione sia sparita. Sei sospeso ad un gancio. Ti attaccano al gancio.

 

D.:Si è appesi ad una fune e nessuno la taglia?

K.: In un qualunque momento può avvenire il taglio. Questa è la liberazione. Ad un tratto quello che penzolava, sparisce. E tu sei quello a cui tutto si attacca.

 

 

 

 

 

Non hai bisogno di cambiare nulla

 

D.:Ho la sensazione che comincio poco a poco a svegliarmi, più o meno.

K.: No. In questo eterno ora esiste solo pura esperienza di sé.  E non ci sono misure di più o di meno. O più o meno vicino, o corto o progredito o non progredito, o qualunque altra cosa.  Non ci sono illuminati o non illuminati là. Ogni idea di risveglio è svanita. Non ci sono più né addormentati né risvegliati. Tutta questi giochi di magia del tipo “Là devi ancora arrivare e quando sarai là dove io sono”…e altre scemenze del genere. Dove io sono, non ci può essere nessuno. Là non c’è essere risvegliato o addormentato. Poiché quello che è non ha mai dormito e quindi non potrà mai risvegliarsi. Ogni risveglio di una persona è una barzelletta. Un peto nel vento. Una persona non può mai risvegliarsi. Il Sé è sempre sveglio.

 

D.: Tu hai detto che è una stupidaggine che qualcuno dica che ora è realizzato o illuminato.

K.: La sola cosa che egli possa raggiungere o raccontare è il fatto che non esiste più una storia personale. La storia che prima era presa per reale è scomparsa. Ma una persona non può mai dire: “Sono illuminato”. Tutto quello che succede nel tempo non può farti diventare quello che già sei. Non dipende dalla persona il fatto di diventare consapevole di se stesso. Quando succede, succede spontaneamente. Non a causa di qualche circostanza precedente.

 

D.:Rimane ancora la persona?

K.: Si. Ramana dice per esempio: “Quando c’è Ramana c’è una persona assoluta.” L’uomo vero. Gesù diceva esattamente lo stesso. Il Sé non si perde nella relatività. Quello che vive nell’uomo è Essere assoluto.

 

D.: E io ne sono un aspetto.

K.: Un aspetto è qualcosa di fuggevole. Puoi vedere se sei qualcosa di fuggevole o qualcosa che è. Un aspetto significa una variazione. Un riflesso di quello che sei.. Tu sei l’Assoluto che si riflette come uomo, come luna, come sole, come universo. Tu sei la verità in sé. Se ti realizzi come uomo o come sasso o come albero – sei tu la Realtà, la Verità.

 

D.: Allora non ho bisogno di agognare l’illuminazione.

K.: Agognare l’illuminazione significa: quello che è solo un oggetto pensa che potrebbe intraprendere qualcosa per ottenere quello che è Essere assoluto. Pensa che potrebbe modificare qualcosa che è Assoluto. In modo che quello che già è perfetto diventi un po’ più perfetto. Quando Ramana dice:”Sii quello che sei” significa: sii quest’esistenza assoluta. E lascia le varianti alle varianti.

 

D.: Ma per arrivare a questo momento – “Sii quello che sei” – ci vuole in apparenza uno sviluppo.

K.: Si. Nisargadatta diceva: “ Ci fu un tempo in cui io ero e con questo ho popolato il mondo. Ci fu un tempo in cui c’ero io e c’erano uomini. Ma dal momento che ‘costui’ non c’è più, non c’è più popolazione. Da allora il mondo è vuoto.” C’ è stato in apparenza un tempo in cui egli viveva l’idea folle di essere separato, in mezzo a persone separate. Lo credeva. E foss’anche stato un sogno pareva realtà. Se un’idea è percepita come vera, è appunto vera. Solo nel riconoscerla come falsa, esplode l’illusione. Ed in questo momento della chiarezza non c’è mai stato un prima né un dopo. E’ fuori dal tempo. Quello che sei è fuori dal tempo.

 

D.: Che cosa mi arreca questo nel quotidiano?

K.: Vedi soltanto che non è mai esistito uno che abbia potuto cambiare una cosa qualsiasi. Se tu riconosci nel quotidiano la perfezione - cioè te stesso - allora anche il quotidiano non è più il quotidiano, ma eterno ora senza andare né venire, e tu guardi solo in te stesso. Questa è la visione di Dio. Come diceva Meister Eckart: “L’occhio di Dio che guarda nell’occhio di Dio.”

 

D.:Si Meister Eckart. Ma io non ho avuto questa comprensione.

K.: Tu non hai mai avuto niente e non avrai mai niente. Ma all’istante di questa comprensione capisci che è sempre stato così. Allora non esiste né prima né dopo. E questo succede senza sforzo. A questo scopo non serve aver fatto qualcosa o aver cambiato qualcosa. Per questo nulla deve andarsene e nulla deve venire. Non c’è nemmeno da capirlo.

 

D.: Allora mi sento tranquillo.

K.: Ed io per primo!

 

 

 

 

Non c’è nulla da abbandonare

 

 

D.: E’ necessario aver costruito una certa qualità di Io?

K.: Si può gonfiarlo soffiandoci dentro. Lo si fa a volte. Ma è raro che scoppi.

 

D.: Non volevo dire questo.

K.: L’ego è un pallone di aria calda. Ogni pensiero lo gonfia un po’ di più.

 

D.: Voglio dire: c’è una certa forza o salute necessaria per sopportare il risveglio?

K.: No. L’ego non può essere sano. Ci può essere una certa salute psicologica; un ego che si sappia adattare a diverse circostanze e a vivere in armonia con il mondo circostante. Su questo si può discutere. Ma in questo momento non ha significato. Nessun ego può essere abbastanza sano o forte da sopportare l’assenza di un Io.

 

D.: Ma l’ego può conoscere le ragioni degli impedimenti.

K.: L’ego non ha mai conosciuto niente. Esso fa parte del conosciuto. Non ha mai capito nulla. Solo il tutto, il Sé capisce. Non esiste nessun ego che abbia mai capito qualcosa.

 

D.: Tuttavia posso riconoscere l’origine del dolore per esempio. Posso analizzarlo. O tollerarlo e vedere che non sono il dolore.

K.: Qualunque cosa tu ne faccia è sempre una manipolazione. Il tuo maneggio è sempre il tentativo di controllare. Che tu sopporti imperturbabile il dolore o che tu voglia entrarvi completamente dentro: ogni tecnica ti porta alla condizione di poter controllare il dolore. Il dolore e insieme l’essere in sé.  Vorresti che il Sé ti toccasse solo quel tanto che gli permetti. E come coronamento dovrebbe risvegliarsi in te quell’Avatar che controlla come il mondo debba essere.

 

D.: La mia esperienza è che l’accettazione del dolore è come un abbandono, come una preghiera.

K.: Finché pensi che hai un vantaggio nell’accettare o nell’abbandonarti o nella preghiera, rimane in vita l’Io, il controllore. E finché è in vita il controllore, tutto è dolore. E’ il dolore della separazione. In questo dolore della separazione sta la nostalgia di quello che sei: assenza di Io, assenza di limiti, libertà. Ma qualunque idea che tu debba controllare qualcosa per la tua libertà, mantiene in vita il piccolo Io separato. Anche se ti sacrifichi. Poiché anche con la tua rinuncia vuoi controllare. Con l’abbandono pensi di ottenere cose. Con l’abbandono tutto dovrebbe diventare più bello. Ma si tratta della rinuncia alla rinuncia, come diceva Ramana. Riconosci che non c’è nulla da sacrificare, poiché nulla ti appartiene.

D.: Non posso controllare per esempio se mi nutro in modo sano?

K.: L’idea che tu abbia il controllo su qualcosa, sorge sempre dopo che è successo il fatto. Quello che succede, avviene da sé. In seguito credi che sei tu ad averlo fatto. Ma non è avvenuto attraverso di te. E’solo un’idea che tu sia l’agente o di poter tener in pugno una situazione. Appartiene all’idea di ”mio”, o che ci sia qualcosa che ti appartenga. Un’azione, l’intelletto, il corpo. Tu credi di essere il possessore e il possessore vorrebbe poter controllare quello che possiede. Ma nulla gli appartiene. Lui non possiede niente. Non esiste nemmeno!

 

D.: Se capisco bene - questo è assurdo. Cosa succede qui in fondo?

K.: Tutto diventa ancora più confuso e caotico.

 

D.: Posso solo dire: qualcosa lascia andare

K.: Si può dire che qualcosa si scioglie, si libera dagli oggetti. Questa è l’idea di salvezza di Gesù. Egli è il salvatore che ti libera dagli oggetti del mondo e ti porta verso l’assenza di oggetti. Quello che sei, si libera da tutto quello che è percepibile e conoscibile, e diventa Mistero. Il Mistero significa: completa ignoranza senza un oggetto, ovvero un secondo che possa essere conosciuto. Questo tuttavia non può essere né raggiunto, né perso, né lasciato andare.

 

 

 

 

 

Semplicemente succede

 

D.: Un anno fa seppi all’improvviso: non c’è niente da fare. Era chiaro come il sole. Ma solo per pochi giorni.  Poi questa chiarezza scomparve. Ora mi sforzo di non fare nulla. E con questo faccio ancora qualcosa. Allora come devo capire questo cosiddetto fare nel non-fare?

K.: Chi fa qualcosa?

 

D.: E’ quello che ti chiedo.

K.: Chi fa tutto quanto?

 

D.: Una volta si diceva: Dio.

K.: E’ mai successo qualcosa?

 

D.: Ne ho come l’impressione, si!

K.: Succede qualcosa ora?

 

D.: Direi di si.

K.: E c’è bisogno di qualcuno che lo sperimenti come avvenimento?

 

D.: Se me lo chiedi in questo modo, certamente no. Intellettualmente so che non c’è agente. Ma questo non mi serve affatto.

K.: Il sapere non porta a soluzioni. Il sapere relativo, che un Io può avere non ti porterà mai la salvezza dall’idea della separazione. Perché necessita sempre un qualcuno che abbia questo sapere. Finché c’è uno che sa, c’è separazione. Può anche essere il sapere più eccelso dell’esperienza più sublime – non porta la liberazione. Poiché c’è sempre un Io che sa. Sempre ed ancora separazione. Nell’assoluto sapere non c’è più nessuno che sa.

 

D.: Ma ognuno di noi vuole la coscienza cosmica.

K.: Che si tratti di coscienza individuale o cosmica c’è sempre ancora qualcosa che spia il ritorno di quest’assoluta beatitudine di puro Essere. La coscienza individuale si sforza di arrivare in quella cosmica, cioè prende un’altra forma. Ma la coscienza cosmica può sempre ricadere in quella individuale. Si tratta di quello che è prima della coscienza. Dell’appercezione in sé, dove non c’è più nessuno che possa percepire. Dove l’appercezione è sola. L’appercezione viene prima della coscienza e del sapere relativo.

 

D.:Quando sperimento questo? Come succede?

K.: E’ un avvenimento spontaneo che non succede.

 

D.: Arriva da solo?

K.: Con o senza sforzo. Succede malgrado, non a causa degli sforzi.

 

D.: E quando? In un qualunque momento? Quando mi pare e piace?

K.:Non ha niente a che fare col tempo. Si tratta di comprendere di esserci prima del tempo. Comprendere che il tempo si sveglia in te e non sei tu a svegliarti nel tempo. E’ come un campo magnetico che si capovolge. Ad un tratto il tempo è in te e tu non sei più nel tempo. Il tempo è solo un riflesso di quello che sei. Là non c’è più il senso dell’agire. C’è solo un semplice “Aha!” C’è solo il riconoscere che quello che sei è sempre stato. Mentre quello che si trova nel tempo è fatto solo di ombre fuggevoli di esperienze.

 

D.: Là non c’è più azione, ma solo comprensione?

K.: Non c’è nemmeno più la comprensione. In quel momento chi comprende, la comprensione e quello che è compreso sono un’unica cosa. Non c’è separazione.

 

D.: Allora sei solo un testimone di tutto, nella veglia, nel sogno e nel sonno profondo?

K.: Un testimone differenzia ancora. Io parlo di quello che non fa più differenze. Per il quale non ci sono più distinzioni. Che sempre è, quello che è. In qualunque condizione si trovi, rimane sempre quello che è. Non è né questo né quello. Non è in nessuna coscienza di un testimone. Non è un osservatore. Non è più un individuo. Tutti questi stati appaiono in quello che lui è.  Anche lo stato di testimone è ancora un avvenimento. Qualcosa che succede e poi ancora non succede. Parlo di quello che non avviene e che non si può definire. E per questo non possiamo fare nulla. Nemmeno dobbiamo fare nulla.

 

D.: Questa è l’infamia. Non possiamo né aspettare né sperare, né qualunque altra possibilità.

K.: Al contrario tu puoi tutto.

 

D.: Siamo seduti qui, detto tra noi, affinché questo succeda. E se possibile al più presto.

K.: Il fatto che tu sieda qui, non lo promuove. Ma non lo impedisce. Non c’è causalità. Non succede per un qualsiasi motivo. Quando deve succedere, succede.  Puoi fare o lasciare quello che vuoi, non puoi impedirlo. Ma non puoi nemmeno accrescere la possibilità che accada prima.

 

D.: Ma succederà?

K.: Qui c’è la tua garanzia ufficiale. E’ inevitabile che succeda.

 

D.: Ancora in questa vita?

K.: In quale vita non ha importanza. Per questo non-avvenimento non c’è vita.

 

D.: Come prego?

K.: Non conosce la vita. Non è necessario il tempo perché il Sé realizzi se stesso e sia pura conoscenza di sé. E’ la sua natura. Ed essa non è mai nascosta. Non è niente di nuovo. Non c’è nessun risveglio.

 

D.: Non c’è risveglio?

K.: Tutto quello che può risvegliarsi è nella coscienza. La coscienza individuale può risvegliarsi in quella cosmica. E poi riaddormentarsi. Ma il Sé in essenza, non dorme mai e non si sveglia mai. Non conosce né sonno né veglia. E’ sempre quello che è. Non conosce stati.

 

D.: Ma tu personalmente? Conosci ancora degli stati?

K.: Non parlo di quello che sono. Non potrò mai definirmi. Non potrò mai riconoscermi. Non saprò mai quello che sono. Ma pure io so al cento per cento che sono. E che tutto quello che va e viene, che accade in quanto stato, apparizione, informazione, esiste perché io sono. Io non sono qui perché qualcosa appare. Io sono lo stato primordiale che condiziona tutto. L’origine primitiva che soprattutto permette che qualcosa possa accadere.

 

D.: E’ un sentimento il fatto di essere la Sorgente di tutto?

K.: Non sono la Sorgente. Anche la Sorgente è uno stato.

 

D.: O una sorta di dio creatore.?

K.: Sono prima del creatore. Sono prima di Dio. Quello che sono come essenza è prima di tutto. Quando Gesù dice nella Bibbia:” Io ed il Padre mio siamo una sola cosa, ma io non sono il Padre” – allora vuol dire: il Padre creatore, io come persona Gesù, e lo Spirito Santo siamo uniti in un’unica essenza. A dire il vero diversi nella forma. Ossia il dio creatore è ancora diverso dall’essenza. Anche Brama è diverso dall’essenza. Gli indiani lo chiamano “Parabrahman” – “para” significa prima di Dio. Non lo si designa mai come qualcosa che sia possibile definire. Eppure se ne può parlare all’infinito. Non si potrà mai afferrarlo. Non ci sono definizioni. Non si può oggettivarlo. E’ incomprensibile. Inafferrabile.

 

D.:Occasionalmente sei lo stesso identificato con un pensiero o un sentimento?

K.: Che io sia identificato o non identificato, non ha importanza. Entrambi appaiono come sensazioni fuggevoli. La coscienza identificata e la coscienza cosmica sono solo miei aspetti. Io sono prima di entrambi. Sono il causale in sé.  Il noumeno, cioè quello che è prima di tutto quello che si possa definire. E’ prima di qualunque identificazione o non identificazione.

 

D.: E’ uno stato naturale come quello in cui ci troviamo noi?

K.: Tutti gli stati sono stati naturali. Non c’è uno stato più o meno naturale o più o meno limpido. In questo sta questo piccolo”Aha!”: che l’essenza di qualunque origine, prima della nascita, in tutti i tempi e nel futuro, non sono né saranno mai offuscati. Non sarà mai toccata da ciò che è nel tempo.

 

D.:Non l’essenza ma io si! Oppure qui non ci sono né corpo né mondo?

K.: Il corpo e il mondo appaiono con il pensiero dell’Io. Dalla pura consapevolezza “Io sono” si innalza come un grande albero l’intera totalità della manifestazione. Tutto appare a partire da quell’ “io sono”. Ma prima dell’ “Io sno” c’è ancora quell’ “Io-Io”. E questo c’è sempre. Non è offuscato da questo “Io sono questo” o da “Io sono costui e questo è il mondo”.

 

D.: Ma allora perché sono progioniro in questa fissazione di Io e il mondo?

K.: Non ha significato questo.  La fissazione non può fare nulla a quello che sei. E’ altrettanto buona quanto la coscienza cosmica. Non c’è differenza qualitativa. La coscienza personale di essere nel corpo è altrettanto buona quanto quella di essere nella coscienza cosmica. Quello che sei non fa nessuna differenza. Non fa distinzioni fra il modo di vedere di una coscienza personale o cosmica.

 

D.: Preferirei il modo di vedere cosmico.

K.: Ogni pensiero che vi possa essere qualcos’altro che te, e quello che sei, rappresenta una separazione. Tutta la cosiddetta non-dualità dell’Advaita Vedanta ha lo scopo di mostrare che esiste solo il Sé e nient’altro che il Sé.

 

D.: Già può essere, ma io non lo sperimento!

K.: Ogni esperienza è pura esperienza di sé. Il Sé conosce solo se s tesso. Anche l’esperienza personale è pura esperienza di sé. C’è solo il Sé. Questo è il fondamento. Il Sé è quello che è. Anche quando si mostra come mondo. Qualunque cosa si manifesti è il Sé. Mai turbato da qualsiasi cosa. Sempre puro essere.

 

 

 

5. Amore e relazione

 

 

 

 

Sono innamorato

 

 

D.: Sono innamorato in questo momento. Amo qualcuno. Non il Sé o l’Essere, ma un’altra persona. E’ permesso questo?

K.: No, è assolutamente proibito.

 

D.: Voglio dire se è tollerato in quanto amore? E’ poi amore dopo tutto?

K.: Esistono numerosi libri e detti che descrivono che cos’è l’amore. Troverai una diversa definizione dell’amore per ogni abitante della terra.

 

D.: Ma tu non ne hai.

K.: So solo una cosa: dove c’è una definizione di amore, non c’è amore.

 

D.: Come prego?

K.: Solo nell’assenza di una rappresentazione dell’amore è possibile l’amore. Finché hai una rappresentazione dell’amore lo imprigioni. Lo definisci e definire significa letteralmente: porre dei confini. Non appena vorresti l’amore in questo o quell’altro modo, è il tuo amore. Un amore che hai a disposizione e che ha un possessore. E’ limitato, imprigionato, e certamente non quell’amore infinito a cui tutti anelano.

 

D.: Ma esiste un amore che non sia imprigionato?

K.: Esiste. C’è dove non esiste colui che possiede quell’amore. L’amore è libertà. Solo questo è amore. Amore significa assenza di una persona che fa delle differenze e dice: questo amore e questo non lo è.  L’assenza di qualcuno che discrimina è amore.

 

D.: Dunque quello che descirivi non ha niente a che fare con il mio innamoramento?

K.: Non esiste il tuo amore. L’amore non conosce un possessore. Dove cessa il “mio” ed il “tuo”, là comincia l’amore.

 

D.: Allora l’amore non può essere un sentimento.

K.: L’amore è tutti i sentimenti perché è la sorgente e l’essenza di tutto.

 

D.: Ma secondo te rimane qualcosa per l’amore personale? Per un amore che sorge spontaneo e che dirigo verso una determinata persona?

K.: Se tu ti riconosci nell’altro perfettamente e se non esiste separazione tra te e l’altro, allora c’è amore.

 

D.: Ehi! Allora c’è dunque.

K.: Allora l’amore rima con Conoscenza di sé. Riconosci che quello che sei è quello che è l’altro. Dove non c’è più né tu né l’altro allora rimane solo amore. E ditro questo amore c’è ognun di noi. Questo è il vero senso della relazione

 

D.: E l’amore accade dunque anche nelle relazioni.

K.: Accade e svanisce di nuovo. Questo gusto dell’amore è temporaneo. Ecco la fatalità. L’amore in questa forma è fuggevole e la fugacità fa male. Se questo amore esiste, sai tuttavia che scomparirà un giorno perché è sottomesso al tempo.

 

D.: Sempre?

K.: Senza eccezioni. Tutto quello che avviene nel tempo se ne va col tempo. Ma la sorgente dell’amore relativo, l’amore in sé, c’è sempre.

 

D.: Ma se una relazione che tu chiami amore relativo, è costruito sull’amore…

K.: … allora possiamo lavorarci sopra affinché duri in eterno o almeno fino alla morte? Basta che stiamo veramente attenti! Si, lavoraci su e sta attento. La domanda è: c’è qualcuno che ha bisogno di questo amore relativo? Che ha bisogno di questo sentimento, questa sicurezza o dedizione per esistere ed essere felice?

 

D.: Si, c’è ed è seduto qui.

K.: Se l’amore ha il sapore di bisogno allora vuole aggrapparsi al possesso.

 

D.: Ma se invece non è così in una relazione?

K.: Allora non c’è relazione. Allora la relazione cessa.

 

D.: Se io sono amore, allora non mi pongo più in relazione a qualcun altro?

K.:Esatto. Allora non ci sono più due persone, tu e l’altro e allora la relazione cessa. C’è solo un sentimento di compassione, ma nessuno che abbia questo sentimento.

 

D.: Ha un sapore di solitudine.

K.:  L’amore è solitudine. Non c’è più un secondo. Sei l’uno senza secondo. In quel momento tutto quello che è nel tempo deve morire, e tu come persona separata che non può esistere in quella solitudine.

 

D.: Ma mi sembra orrendo!

K.: E’ quanto di più spaventoso possa esistere sopratutto per una persona. Si ucciderebbe piuttosto che lasciar succedere una simile cosa.

 

D.: Ma esiste pure un sentimento che si chiama amore.

K.: Forse lo si chiama in questo modo, ma non è amore. Tutto quello che puoi nominare non lo è. Può essere un bel sentimento, che va e viene, come un buon sapore di cibo o di armonia. Il sapore finisce. E’ un amore fuggevole. Non ne sarai mai soddisfatto.

 

D.: Per questo vogliamo amore eterno.

K.: Eterno? Per trovarci completamente dalla parte sicura?

 

D.: Affinché il sentimento non finisca mai.

K.: C’è amore quando cade l’idea di qualcuno che vuole o necessita qualcosa. Quello che sei ha già in sé l’eternità e non ha bisogno né di qualcosa di eterno né di sentimento. L’amore non è un sentimento.

 

D.: E’ questo il genere di dichiarazione che la tua compagna ascolta da te?

K.: Se tu glielo chiedessi, lei direbbe che non ne ha mai ascoltato una. Non è il paradiso in una relazione. Eppure sono tutte dimostrazioni d’amore.

 

D.: Secondo il motto: qualunque cosa io faccia sono amore?

K.: Per me l’amore è un nome come tanti. Se vuoi usare il concetto allora quello che sono è quello che è amore. Io non sono l’amore. Io sono quello che è amore.  E questo è quello che è sempre. L’eterno mistero dell’esistenza.

 

D.: Allora lo è chiunque.

K.: Naturalmente.

 

D.:Ma conosci anche tu qualcosa che sia un bisogno d’amore?

K.: Questo si chiama essere una persona. Conosco l’esperienza.  

 

D.: Ma non ti tocca perché sei radicato nell’Essere?

K.: Quello che sono veramente in essenza, non era mai radicato, né senza radici. Non conosce nessuna di queste definizioni. E’ quello che non si è mai preoccupato di niente.

D.: Allora l’essenza, l’amore non si preoccupa di niente?

K.: Non ha alcuna preoccupazione. La preoccupazione si preoccupa.

 

D.:Non l’avrei mai pensato a proposito dell’amore.

K.:Ecco la preoccupazione.

 

 

 

 

Meglio non avere nessuna relazione?

 

D.:Gesù pare abbia detto: ama il prossimo come te stesso. E’ possibile questo?

K.: Così soltanto. Non funziona altrimenti. C’è amore se ti riconosci in tutto.  Allora non c’è più dualità. E poi non hai bisogno di sforzarti di amare qualcuno che in fondo non trovi così eccezionale.  Allora l’amore è l’evidenza della realtà. Infatti riconosci te stesso nell’altro. Non il fatto di pensare che l’essenza di quel tizio nel metro dovrebbe essere la stessa essenza della mia, e allora esclami: “Ehi! Tu là in fondo!” No, invece lo riconosci direttamente. E’ quello che sei. Per questo la conoscenza di sé e l’amore sono la stessa cosa. Invece che “Conosci te stesso” ci potrebbe essere scritto sul portale del tempio a Delfo: “Ama te stesso.” Questo forse non piaceva troppo ai preti.

 

D.: E “Riconosci te stesso” esprime anche meglio il percorso. Bisogna prima trovare l’accesso.

K.: Non c’è nessun accesso. Non c’ è semplicemente nessuna uscita. Non puoi diventare quello che sei. Non c’ né un arrivare né un divenire. E’ altrettanto un’allucinazione il fatto che tu ti creda separato da te stesso quanto da qualcun altro. Ma se lo credi, costruisci una relazione con te stesso. Una relazione sulla quale puoi lavorare in modo meraviglioso. Sicuramente puoi migliorarla all’infinito. Come se ci fossero due sé: prima te e poi te stesso. La separazione non esiste. Ma se credi ad una relazione e se credi che hai una relazione con qualcuno, allora credi al pensiero della separazione.

 

D.: Allora è meglio non avere alcuna relazione?

K.: Meglio se dici che non c’è nessuno che possa averne una.

 

D.: Appunto, io ne ho una. Ma verosimilmente non posso chiamarla amore. Mi riesce difficile dire ad una donna: ti amo. E’ mancanza d’ amore questo? Oppure una vaga percezione che in queste due parole si prospetta una relazione che impedisce il vero amore?

K.: Piuttosto c’è l’angoscia di lasciarti coinvolgere e che potresti soffrire.

 

D.: Appunto una mancanza d’amore.

K.: C’è la paura che da questo possa nascere la mancanza d’amore. Per questo non vorresti affatto essere coinvolto. Se ti concedi interamente ti perdi interamente nell’altro.

 

D.: Allora oso fare il salto e dico:”ti amo”?

K.: Non può succedere a parole. Le parole ne sono un’espressione. Se ci sono, ci sono. La rinuncia di sé succede quando succede. La devozione, la bhakti, o la comprensione succedono quando devono succedere. Non si possono provocare.

 

D.: Anche nei momenti di grande dedizione non dico mai”ti amo”.

K.: Temi di essere preso in parola. Noi tedeschi abbiamo più difficoltà di altri. Gli inglesi e gli americani dicono a chiunque “I love you” .E’ una frase retorica. Se un tedesco lo dice, deve mantenere la promessa. “Ti amo” è qualcosa di sacro per un tedesco. E sacro significa che può essere pronunciato in senso sacro. Se è veramente sacro. Ci sono quindi motivi nobili e spirituali per avere simili scrupoli.

 

D.: E’ quello che volevo dire.

K.: Ma se questa dichiarazione ti appare difficile, c’è dietro l’angoscia di perderti.

 

D.: Questa è una risposta chiara.

K.: Alla fin fine c’è sempre la stessa ragione in questo bisogno di difendersi: la paura di perdersi. Per questo costruiamo un riparo intorno a noi. Tutto quello che può essere perso è quanto considero un mio possesso.  La mia vita, il mio corpo, il mio mondo, la mia rappresentazione personale dell’amore. L’idea che posseggo qualcosa - sapere, corpo, vita – mi costringe a proteggermi e a difendermi. Il possesso ha bisogno di controllo e di porte chiuse. Un “ti amo” apre la porta.

 

D.: E per questo tremo.

K.: Si, forse non rimane nulla di te. Niente di quanto ritenevi fosse la tua identità.

 

D.: Ma una volta espresso è infinitamente rilassante.

K.: E’ rilassante quando non devi più conservare nulla, né identità, né storie, né futuro. Quando sei semplicemente quello che sei. Allora non ci sono più tensioni. In quel momento non esiste nemmeno un’altra persona né alcuna relazione.

 

D.: Più nessuna tensione?

K.: Non tende, tira o opprime alcunché.

 

D.:Nessuna frizione, nessuna scintilla, allora niente sesso? Sarebbe un problema per me.

K.: Il problema ce l’hai adesso. Te lo stai costruendo in quest’istante. Questa è la tua onnipotenza. Se consideri reale questo Io, allora è reale in questo momento. Se consideri questo problema e questo corpo come reali, sono reali.

 

D.: Devo dunque restare sul mio argomento: che realtà ha il sesso?

K.: Come vuoi.

 

D.: Meno male.

K.: Ogni attività sessuale è masturbazione. E’ sempre per portare all’assenza di un Io. A questo orgiastico sentimento di assenza di un Io.

 

D.: In tutti i casi la relazione è una buona cosa!

K.: Tutto quello che fai è masturbazione - fino ad arrivare all’orgasmo cosmico che chiamano illuminazione. Là scoppi. Tutto è diretto verso questo Big Bang cosmico, dove non c’è inizio e dove niente esiste più.

 

D.:Proprio così! Lo spiegherò in questi termini alla mia ragazza.

K.: Puoi anche provare a dirle: “Ti amo”.

 

 

 

 

Ricerca e nostalgia

 

D.: Sono pieno di nostalgia. Una nostalgia senza ragione precisa.

K.: La nostalgia emerge quando pensi di aver perso qualcosa. Per esempio la vitalità della tua infanzia. Oppure se ti piacerebbe andare altrove. Per esempio in un altro ambiente. La nostalgia appare quando ti rappresenti delle condizioni nelle quali t’immagini di sentirti meglio. Una relazione armoniosa, un buon lavoro, una sicurezza finanziaria, una famiglia, una buona salute. Quindi uno stato che non possiedi o che credi di non avere. Allora hai nostalgia. Allora cerchi qualcosa che sembra mancarti o che hai perso.

 

D.: Si, per esempio la felicità. Questa è la ricerca fondamentale. E si direbbe che essa sia programmata nel profondo delle cellule.

K.: Tutto quello che è nel tempo ha nostalgia dell’atemporalità. Tutto quello che è diviso vuol ritornare all’indiviso. Tornare alla sorgente. L’idea della dualità coincide con la nostalgia dell’unità.

 

D.: No, la mia nostalgia non è un’idea, ma un profondo sentimento.

K.: Proviene da un’illusione. Dall’illusione dell’imperfezione. Dall’idea dell’Io. Non appena appare l’Io, subito si crea la pretesa dell’assenza dell’Io. Della felicità dovuta all’assenza di desideri. Ed ecco la nostalgia di non aver più nostalgia. Quello che è diviso deve riunirsi. Da due ritornare ad uno.

 

D.: Naturalmente! Assenza di desideri, atemporalità, cioè vivere totalmente soddisfatti nell’attimo presente: questa è appunto felicità. C’è qualcosa di sbagliato nel cercare di perseguirla? Tu mi presenti la cosa come se fosse un errore! Oppure c’è qualcosa di slegato nel mio discorso?

K.: Io vengo da una famiglia di contadini. Quando uno di noi chiedeva : “che cos’è tutta quest’agitazione?” c’era un’unica risposta: “si agita ciò che non è tenuto a freno.” Non chiarisce la faccenda, ma è una risposta logica. E la domanda non è a proposito di quello che si agita o si frena, ma piuttosto: c’è innanzitutto qualcosa che possa essere tenuto a freno?

 

D.: Erano queste le vostre conversazioni alla fattoria?

K.: Per questo ci siamo giocati le sovvenzioni agricole della comunità europea.

Ci siamo chiesti: esiste qualcosa che possa essere tenuto a freno da qualcosa di separato? Sono veramente due? Qualcosa che trattiene qualcos’altro? Che possa riunirsi ad esso o che sia separato da qualcos’altro?

 

D.: Ha tutta l’aria di agricoltura ecologica. A che risultato siete giunti?

K.: Entrambe sono illusioni.  L’essere riunito come l’essere separato. Perché non c’è nulla che possa esser rimosso da qualcos’altro. Perché non c’è mai stato qualcosa che fosse collegato a qualcos’altro.

 

D.: Questo si chiama economia agricola.

K.: Questa è conoscenza di sé.

 

D.: Io la chiamerai soppressione di nostalgia.

K.: Finché vi è un’idea di legame e di separazione, c’è la nostalgia o il desiderio di cambiare questo stato. La nostalgia di trovare quest’unità. Tornare alla sorgente, al Sé. A causa di questa nostalgia sei un cosiddetto cercatore. O meglio hai lo stesso desiderio morboso di un tossicomane. Cerchi il Sé. Un drogato del Sé.Ogni cercatore è un drogato di se stesso.

 

D.:Ottimo, ti domando soltanto questo: come si può soddisfare questa bramosia oppure farla sparire?

K.: La nostalgia non deve né essere soddisfatta né deve sparire.

 

D.: Al contrario, perché io possa vivere in pace.

 

K.: Tu sei quello che sta prima di qualunque concordia o discordia. Ciò che sta prima di ogni sensazione, percezione o rappresentazione. Tu sei quello in cui tutto questo sorge e poi scompare. Anche la nostalgia e la ricerca fanno parte di queste rappresentazioni. Non hai bisogno della soddisfazione di una qualsiasi ricerca per essere quello che sei. Tu stesso sei l’esaudimento.

 

D.: Non ho quest’impressione.

K.: Tu sei perfetto con o senza nostalgia. Con la ricerca o senza la ricerca sei assolutamente quello che è eternamente perfetto in se stesso. Per esserlo non c’è bisogno di cambiare nulla. Niente deve succedere né dev’essere evitato per essere quello che sei. Niente deve venire, niente deve andarsene per esserlo.

 

D.: Si, ma questa comprensione vorrei averla io stesso. O se preferisci, ritrovarla.

K.: Il desiderio di ritrovarla proviene dalla folle idea che l’avevi perduta. Che ci fosse stato un solo momento in cui essa non fosse stata presente. Da questo errore proviene tutta la falsità della ricerca. Non c’è nulla da raggiungere o da ritrovare. E’ qui. Questo perfetto essere qui è l’origine fondamentale per qualunque apparizione. Per ogni domanda e per ogni risposta. Non bisogna fare nulla per questo.

 

D.: Solo essere qui presenti.

K.: Solo essere qui presenti. Essere l’assoluto silenzio. Riconoscere che non è mai esistito qualcosa che avesse un’esigenza qualunque. Che quello che sei non è mai stato disturbato da qualcosa che va e viene. Da nessuna domanda e da nessuna risposta. Non c’è niente che possa commuoverlo. Niente che possa nasconderlo o svelarlo. ‘ in se stesso sempre assolutamente chiaro e puro.

 

D.: Wow!

K.: Niente è legato, niente è slegato.

 

D.: Come da voi in campagna.

K.: Come in una fattoria con le sovvenzioni agricole.

 

 

 

 

 

La felicità nella coppia

 

D.: Ho sentito affermare che non esiste affatto una relazione vera e propria. E’ anche una tua esperienza?

K.: Per quello che sei non ci sono relazioni. Ma nel regno del sogno ci sono tante varietà di relazioni. Essenzialmente non c’è nessuno che ne abbia una. Ci sono relazioni tra due oggetti. Finché consideri realtà il mondo dell’oggettività, sei in una relazione. In assoluto non esistono relazioni.

 

D.: La compagna di un maestro del satsang non vive con lui una relazione?

K.: L’idea che vi sia un altro col quale potresti avere una relazione proviene dall’idea che esisti come essere separato. Quando questa viene a mancare, esiste l’idea di una relazione ancora in quanto idea, ma non più come realtà. Un’idea che balla per un’idea. Essa viene a mancare.

 

D.: Una volta la si sarebbe chiamata “Amore”. E’ anche questa un’idea?

K.: Se anche ci fosse, potrebbe essere solo amore per sé stesso. Poiché esiste unicamente il Sé. L’amore sarebbe allora solo amore del Sé per sé stesso se ci fossero due Sé. Dunque anche l’amore per sé stessi è un’idea che proviene dalla dualità.

 

D.: Forse non esiste nemmeno l’amore? Robert Adams ha detto:tutto è vuoto eppure c’è tanto amore.

K.: Significa che c’è l’assenza di qualcuno che accetta o che non accetta. Nel vuoto c’è un sentimento di totale accettazione che è paragonabile all’amore. Quando non c’è nulla da accettare, quello che dovrebbe accettare è sparito. Questo lo si potrebbe definire amore. Ma chi ha bisogno di una definizione? Se  questo lo si definisce amore allora c’è qualcos’altro che non è amore. Ecco che si crea ancora un contrario. L’essenza dell’amore non ha bisogno di amore per esserlo.

 

D.: Colui che accetta sparisce e allo stesso tempo colui che vorrebbe essere accettato?

K.: Entrambi spariscono. Se tu sei quello che sei, sparisce la nostalgia. Allora non c’è più desiderio d’accettazione o d’armonia. Qui c’è pace perché non ci sei più. C’è pace solo se manca colui che necessita la pace. Finché c’è qualcuno che ha bisogno di pace, sei in guerra. Sino a quel momento porti la guerra per amore della pace.

 

D.:Hai detto che la nostalgia sparisce…

K.: Quello che sei c’è con o senza nostalgia e non ha bisogno che la nostalgia se ne vada. Una varietà di nostalgia potrà ancora rimanere, ma non qualcuno che ha nostalgia.

 

D.: Che cos’è la nostalgia senza qualcuno che ce l’ha?

K.: Una vibrazione di energia che si può nominare nostalgia, ma che non significa più niente.

D.: Ma la nostalgia può servire a aprirsi una strada verso la verità?

K.: Questa è la sua origine. Dal momento in cui nasce in te l’idea di un Io, si delinea la nostalgia di quello che sei prima dell’idea dell’Io.La nostalgia è il seme che ti spinge a tornare indietro per ritrovare quello che sei. Solo quando sei quello che sei, cessa la nostalgia. Tutto quello che fai proviene dal senso di esistere e di essere cosciente ed è la ricerca di quello che c’è prima della coscienza. Ogni scienza e religione scaturisce da questa nostalgia.

 

D.: Va bene, la nostalgia mi spinge. Quando troverò quello che cerco?

K.: Mai. La nostalgia verso te stesso non troverà mai soddisfazione. Non ti troverai mai. La ricerca nostalgica di te stesso non ti porterà mai ad un traguardo. Non è in programma. Perché non c’è qualcuno che trova. Nessuno l’ha mai trovato. La nostalgia cessa semplicemente. Non perché si sia trovato qualcosa, ma soltanto perché il nostalgico si è perso.

 

D.: Cosa può aiutare a questo scopo?

K.: Assolutamente niente. Il nostalgico si scioglie spontaneamente in un qualunque momento. E’ arrivato spontaneamente e spontaneamente se ne andrà. Puoi meditare per mille anni e cercare e non succede niente. E un altro comincia a farlo e ‘peng!’eccolo lì. Non c’è regola.

 

D.: Né giustizia.

K.: Se fosse possibile raggiungere questo stato con la meditazione, la libertà sarebbe controllabile, dunque non sarebbe più libertà. La libertà che è l’origine della tua natura, non è controllabile da te e non si può ottenere. Con la meditazione puoi trovare una certa armonia, che tuttavia rimane temporanea e debole. Non appena oltrepassi un limite di sopportazione, la tua armonia scompare.

 

D.: E quando l’armonia cresce?

K.: Tutto quello che si può rendere armonioso, un giorno o l’altro tornerà in disarmonia. Qui non si tratta di sforzi per ottenere esperienze di felicità temporanee. Non si tratta della felicità dell’uomo che si compra una nuova Mercedes e che è contento per un paio d’ore o giorni, finché non gli fanno un bel graffio sulla carrozzeria. Non si tratta della felicità della casa dei tuoi sogni dove ti senti bene perché è adatta a te. Ci penseranno poi i vicini a mostrarti che non è una vera felicità. E se dubiti ancora ti aspetta la morte.

 

D.: Ma ci sono delle relazioni di coppia felici.

K.: In una relazione di coppia ti senti libero per qualche tempo, poi diventa un rapporto serio. Ti coinvolge e ti opprime. In circostanze armoniose può soddisfarti. Ma questa contentezza è labile e rischia di sparire. Non è il vero traguardo della tua nostalgia. Qui si tratta della tua vera natura. Ed essa si trova aldilà di qualunque relazione. Essa è l’assenza di sforzo e beatitudine in sé.

 

 

 

 

Tutte le strade portano all’amore

 

D.: Se si è illuminati la sofferenza se ne va veramente?

K.: Se si è illuminati è garantito che si ritorna all’oscurità. E per questo l’amore è particolarmente pericoloso. Caspita, mi ero così ben sistemato nella mia illuminazione, era ormai stabile finché non è arrivato quel postino fantastico. O quella mitica vicina che ha traslocato qui da poco!

 

D.: Sul serio, l’illuminazione dovrebbe essere anche il risveglio dalle proprie passioni personali?

K.: Quello che ‘dovrebbe’ essere non lo è sicuramente. Quando ci si libera dall’amore allora anche la passione se ne va.

 

D.: Quando ci si libera dall’amore?

K.: Si, la fine dell’amore è la fine della passione e del dolore.

 

D.: Vuoi dire la fine dell’amore personale?

K.: La fine della dualità è il luogo dove può esserci l’amore. Dove non c’è un sé che ama qualcosa o non ama qualcosa. Ecco la fine del dolore. Poiché è la fine di chi soffre. Finché c’è un Io che si ama o che ama qualcun altro, c’è dolore e passione. E l’amore verso se stessi è l’inizio di questa sofferenza.

 

D.: Ma bisogna amare se stessi, no?

K.: E’con questo che tutto comincia. L’amore per sé stessi significa: c’è un Sé che si osserva come oggetto d’amore. Questa è già dualità. Questa è separazione. Già nell’amore del Sé per se stesso vi è la radice della sofferenza.

 

D.: Uno dei tuoi predecessori ha detto: Ama il tuo prossimo come te stesso!

K.: Chi mai sarà stato?

 

D.: Voglio dire che significa:quando ci si ama e nell’amore si crea n onte verso un altro, allora si scioglie la dualità.

K.: Finché c’è qualcuno che ama qualcos’altro, che deve cioè riconoscere quello che ama per amarlo, è un amore oggettivo. E finché c’è un altro c’è dualità. Se è necessario uno sforzo per amare un altro, rimane un concetto e rimane la sofferenza.

 

D.: Che cosa significa sforzo? In India si dice ‘Namaste’ – ‘Io mi amo in te’.

K.: Se ti vuoi riconoscere nell’altro per amarlo come te stesso, è necessario lo sforzo della distinzione.

 

D.: L’amore può essere totalmente senza sforzo!

K.: Non riesco a ricordarmene.

 

D.: L’amore che avviene spontaneamente. L’amore che si riflette nello specchio dell’altro”L’amore che è qui, semplicemente immediato.

K.: Se sei quello che è amore, non c’è più sforzo. Allora non c’è più  nessuno che ami o non ami. Allora c’è solo libertà. Libertà d0’amore. E libertà dall’idea d’amore. Ovvero amore senza amore. L’amore è senza di te. Ma fintanto che c’è un’idea d’amore, e finché c’è qualcuno che pensa che deve amarsi attraverso l’altro o l’altro lui stesso, oppure l’amore debba essere un ponte per sciogliere la dualità, o che debba essere spontaneo - fino a quel momento ci sarà sofferenza. L’amore con una rappresentazione di amore è sofferenza. Questo è amore che crea sofferenza.

 

D.: L’amore inteso come fusione dell’amante e dell’amato è felicità.

K.: Non appena si fa il primo passo fuori dal paradiso dell’assenza di un Io, si presenta la nostalgia di ritrovarla. Quindi farai di tutto per tornare indietro e fonderti di nuovo. E ogni passo è giusto. Finché ci sono dei passi, sono passi giusti. Ogni passo porta sul sentiero di Roma. E Roma è l’inversione di Amor. Là puoi fare quello che vuoi. Ogni strada porta all’Amore.

 

D.: magnifico. Ecco perché l’uomo ama.

K.: L’amore non ha bisogno di amare. Non necessita un oggetto. Non ha bisogno di te. Non le tue rappresentazioni. In qualche momento tu le dimentichi semplicemente. Dimentichi perfino l’amore. Allora sei quello che è amore. Quello che prima della dualità. E’ un dimenticarsi di sé.  Ma questo non puoi farlo Ogni desiderio di dimenticarti sarebbe un ricordo di te. Questo può succedere nell’immediato. E allora non c’è più né tempo, né separazione. Allora sei quello che è l’amore. Qualunque cosa succeda o anche non succeda. E forse non succede niente. L’amore non ha bisogno di amare per essere amore.

 

 

 

 

6. Addio alla sofferenza

 

 

 

 

Dolore e gas esilarante

 

D.: Esiste la sofferenza senza alcun dubbio. Sarà anche un sogno o un’illusione ma per chi soffre non lo è.

 

K.: La sofferenza non è percepita come tale dal Sé. Non è meno beatitudine dell’autorealizzazione in quanto gioia. La sofferenza e la gioia non sono separate.

 

D.: Se lo spiego razionalmente in questo modo non mi offre niente.

K.: Il raziocinio serve a separare. Separa la gioia dal dolore. Una buona esperienza da una cattiva. Ma quello che produce il ragionamento, l’essenza della ragione, non separa più la gioia dal dolore.

 

D.: Vorrei proprio vedere la persona che ha dei dolori tremendi e che sorride beata.

K.: Non c’è nessuno che sperimenta! Questo è l’essenziale. Colui che sperimenta, l’esperienza e l’oggetto dell’esperienza sorgono insieme. Sono un’unica cosa. Finché ti identifichi con colui che fa l’esperienza sei separato dallo sperimentare e dall’oggetto dell’esperienza.

 

D.: La via da seguire è dunque non identificarsi con lo sperimentatore?

K.: Per questo esistono le esperienze con le droghe. Ti danno la morfina perché la coscienza non s’identifichi più con il corpo. Allorché sparisce l’identificazione con il corpo, cessa il dolore. Quando avevo cinque anni mi diedero del gas esilarante dal dentista. Subito sono uscito dal corpo ed ho potuto assistere all’operazione dentaria. Nessun dolore. Un incanto totale!. E la coscienza che volteggiava tranquilla nella stanza.

 

D.: Si, però quando cessa l’effetto…

K.: Allora torna subito il dolore. Non puoi sfuggirlo.

 

D.: E’ quel che dico. Non si può negare il dolore.

K.: Se c’è qualcuno che possa sentire il dolore, allora ne risulta un dolore.

D.: Dunque se c’è un corpo, nasce il dolore?

K.: No, il dolore proviene dall’idea “Io ho un dolore”.

 

D.: O.K. e tu non hai quest’idea? Se adesso ti pianto un coltello nel braccio…

K.: Allora c’è una sensazione di dolore. In quel momento c’è dolore.

 

D.: Meno male che lo ammetti.

K.: In quel momento c’è un’esperienza totale di dolore. Subito dopo l’esperienza sparisce. Non c’è più nessuno che accumula un’esperienza nel tempo. O che conservi la “mia” esperienza di cinque minuti fa. O di un anno fa. Ci potrà essere un effetto mnemonico, ma non c’è più nessuno che dica: era il “mio”dolore.

 

D.: Adesso lo hai detto.

K.: Non io. Il parlare parla da solo. Il parlare parla. Ma non c’è il mio parlare. Non c’è “io-ho-detto”.

 

D.: E come stai adesso?

K.: Come sempre. Anche se mi domandi al punto di morte: come sempre. Quello che sono c’è sempre. Per cui posso solo dire: sto come sempre.

 

D.: Con la piccola differenza che non ti prescrivono più gas esilarante.

K.: Oh! Ho fatto di tutto per ottenerlo di nuovo. Mia madre mi ammoniva: “attento a non mangiar dolciumi se no devi tornare dal dentista!” Mentre io ero felice: eccome! Ero l’unico nella mia classe che andava volentieri dal dentista. Uno sperimenta l’inferno in un certo luogo e l’altro invece trova che nello stesso posto riesce ad uscire dall’inferno. Come colui il cui dolore è così forte che non lo sopporta più - e quello abbandona il dolore.

 

D.: Perde coscienza, non ha più forza e sviene.

K.: E perdere la coscienza significa che la coscienza si libera dal corpo. Sei sempre ancora coscienza, ma non sei più nel corpo. Non sei più definibile. Quando sorge questo”non lo sopporto più” la coscienza si libera. Da sola.

 

D.: Cade nell’incoscienza. E’ finito.

K.: Non è finito. Come per il cercatore. Quando la ricerca non è più sopportabile, la coscienza si libera. Non perché qualcuno ha lavorato per ottenerlo, o avrebbe potuto farlo. E’ semplicemente insopportabile. Allora la coscienza individuale si scioglie in quella cosmica. Perché quest’inferno della separazione era diventato insopportabile.

 

D.: E ha dunque un doppio significato questa liberazione, comprende anche una guarigione?

K.: No. Non ha nessun vantaggio. Poiché ciò che si può slegare può di nuovo riallacciarsi in un nuovo legame.  Ci sono passato da questo: dall’idea della dualità alla coscienza cosmica, in questo nulla che è il centro dell’universo, fino ad essere la coscienza che penetra in se stessa. E ho visto che non c’è alcun vantaggio. Quello che ero in essenza era esattamente lo stesso di prima. Che io sia la consapevolezza individuale o la quella cosmica- io non sono la coscienza. La coscienza è un aspetto del tempo. E’ il riflesso della mia esistenza. E tutti i dolori e ogni esperienza sono parte della consapevolezza.

 

 

 

Il mio corpo, il mio dolore

 

D.: Mentre siamo seduti qui ci sono altre persone nel mondo che vengono ammazzate.  Che cosa ne dici tu? Non è certo giusto questo.

K.: Per chi non è giusto?

 

D.: Per me no. E certamente non per la gente che viene ammazzata!

K.: Lo garantisci questo?

 

D.: No. Questo è un principio di vita! Siamo qui per vivere e non per essere uccisi!

K.: E’ la vita stessa che uccide. Che sia sotto la forma di un albero in un viale o di una funzione del corpo - è sempre la vita che uccide la vita. Ma la sola cosa che muore è un’idea. L’essenza rimane. Rimane quello che è vero. Soltanto quello che è irreale, scompare. Rimane la coscienza. Che recita la parte dell’albero del viale o di un’altra persona, assassino e vittima o qualunque altra cosa possa emergere da essa.

 

D.: Preferisco morire di morte naturale.

K.: Tu non hai paura della morte, solo non vorresti essere presente quando viene. A meno che avvenga per ragioni strettamente biologiche. Non esiste una morte naturale. Poiché non muore nulla. Quello che è la tua essenza vitale è l’unica cosa che vive. Ed è immortale. Non è mai nata e non ha forma che possa morire. Ciò che definisci come vita non ha mai vissuto.

 

D.: E non vive nemmeno adesso? Sono seduto qui come un cadavere?

K.: Dovremo indagare su questo fatto. Indaghiamo da dove viene quest’idea che questo è il tuo corpo. Da quale idea possa essere cresciuta la convinzione di un tale che affermi:”Questo è il mio corpo”. Un bebè non lo può ancora dire e non lo percepisce in quel modo. Non se ne preoccupa nemmeno. Ma a circa tre anni comincia a farlo. I genitori gli hanno ripetuto senza tregua: “Tu sei Carletto, si si, Carletto, ecco chi sei!” Fino a quel momento Carletto non sapeva nemmeno di esistere. Quando aveva cominciato a parlare diceva: “Carletto vuol bere, Carletto ha rotto questo, Carletto è buono.” Usa la terza persona. L’identificazione di un Io con il corpo non era ancora una realtà. Poi finalmente esclama: “Sono Io! Questa è la mia mano, il mio piede”e comincia a sentirsene responsabile.

 

D.: Se l’identificazione con il corpo è un errore inculcato, me ne posso anche liberare.

K.: La domanda è: chi deve liberarsene?

 

D.: Io no? Un altro non può farlo.

K.: E chi è questo Io?

 

D.: Colui che percepisce il corpo. Se qualcuno mi fa del male, mi ferisce.  Ferisce me.

K.: Allora hai un fenomeno di dolore.

 

D.: Se vuo,i esprimilo pure in questo modo. A me fa solo male. E non mi va.

K.: Ebbene la coscienza ha un’informazione di dolore. E reagisce ad essa. Non c’è niente di sbagliato. Senza l’idea che sia la “tua” reazione e che sia il “tuo”dolore, è semplicemente un gioco di energie.

 

D.: Non lo chiamerei un gioco. Ho l’idea che è senz’altro il mio dolore!

K.: E la sola cosa che potrà farti uscire da questo dilemma è riconoscere che quello che sei sta prima di quest’idea di corporeità.

 

D.:Va bene, vorrei uscire da quest’idea di corporeità. Come posso riconoscerla?

K.: Puoi comprenderlo quando ti accorgi che sei quello che riconosce e non quello che è riconoscibile. Tutto quello che riconosci è un oggetto. E tu non puoi esserlo. Anche quello che la mattina salta dal letto o si sveglia come idea in un corpo, non puoi esserlo. Perché anche quello è un oggetto di percezione, anche quello è qualcosa che puoi riconoscere. Tu però non sei un oggetto di cognizione, ma ciò che percepisce.

 

D.: Si, si, ma è proprio questo che non riesco a realizzare!

K.: Questa appercezione o realizzazione che sei, esiste semplicemente. E in questa appercezione qualcuno appare e pone una domanda. Ma lui stesso è solo un oggetto. Non potrà mai realizzare quello che sei. E nemmeno lo deve fare. L’appercezione che sei, era sempre presente. L’appercezione in cui tutto sorge è questa la realtà. Un’appercezione pura e chiara. Quella che chiamano l’occhio di Dio.

 

D.: Questo suona bene. Ma non lo afferro. Tutto quello che considero vivente ni realtà non vive?

K.: Appare all’interno della realizzazione. Dunque dipende da una percezione, da qualcuno che lo percepisce. Quindi non vive indipendentemente da essa. Appare, è solo un’apparizione.

 

D.: Ed è per questo meno reale?

K.: Reale è la realizzazione. Reale è la consapevolezza. Quello che appare in essa è appunto n’apparizione. Bel tempo, tempo cattivo, amante o nemico, vittima o assassino, euforia o solitudine, bancarotta o vincita al lotto, stretta di mano o attacco a mano armata, pace e guerra.

 

D.:Quando fa brutto tempo mi bagno. Per fare un esempio inoffensivo.

K.: Finché pensi di essere nato ed un essere imprigionato nel corpo, un solitario nel mondo separato dagli altri che possono sempre farti qualcosa – fino a quel momento sei in guerra con questo mondo.  Fino a quel momento sei in guerra perfino con te stesso. E quindi vivi sempre nell’angoscia che possa accaderti qualcosa. E per via di questa paura che possa succederti qualcosa, cerchi sicurezza e vantaggi. Arrivi al punto di far del male agli altri piuttosto. Perfino ad uccidere in caso di bisogno. Agisci per paura. Per paura che esista un altro, un ambiente ostile.

 

D.: Come realizzo che non sono un solitario essere imprigionato nel corpo?

K.: Rivolgendo la consapevolezza verso la consapevolezza. Non in direzione di fenomeni che vagabondano come fantasmi davanti ai tuoi occhi esterni ed interni.  Non verso quanto appare nella tua coscienza ma verso la coscienza stessa.

 

D.:O.K. Allora non ti ascolto più dato che sei anche tu solo un’apparizione nella mia consapevolezza.

K.: In ogni modo non mi ascolti lo stesso. Tu ascolti in ogni modo te stesso.

 

D.:E i dieci euro d’ ingresso li do a me stesso.

K.: Esatto! E diventa più evidente quando dai venti o cinquanta euro. Provalo Aumentati il prezzo fino all’illuminazione.

 

D.: Essa sopraggiunge quando mi sono completamente svuotato.

K.: Ma non svuotarti adesso completamente. Sul serio: tu non sei il corpo che prende o concede, non sei la mente che considera sia qualcosa come spiacevole oppure vi annoda aspettative. Tutto questo lo prendi per vero. Ma la consapevolezza era già presente sempre, prima che apparisse qualcosa in essa. Quello che sei è solo consapevolezza, se vuoi, chiamala stato di veglia o attenzione. Questa presenza c’è già al mattino, prima che un corpo si svegli e un Io si affacci affermando: Io sono il tal dei tali e devo far questo. E la famosa frase:”Chi sono Io” si rivolge appunto a quello che sta prima. Prima dell’oggetto di cui sei consapevole. Prima dell’Io. Si dirige verso questa distesa immensa. Verso questo Mistero dell’essere che è insondabile. Ma è questo ciò che sei. Ma se in questa distesa appaia una morte naturale oppure artificiale, questo non potrà toccare quello che sei.

 

D.: Tu hai detto: al mattino prima che il corpo si svegli o prima che l’Io si annunci…occasionalmente si dice che tra il momento del risveglio e la coscienza dell’Io sono, si apre una breccia nella quale la verità si affaccia in tutta la sua purezza.

K.: Solo nella breccia?

 

D.:No, naturalmente la verità è sempre presente, ma là è più facilmente riconoscibile.

K.: Ma non da te. Tutt’al più dalla tua sveglia. “Questa è la pura verità!”- pensa - quando ti guarda dormire. “Questa è illuminazione!” – poco prima di svegliarti. Ma poi deve suonare, un fremito percorre il tuo corpo e – puff! – l’illuminazione è svanita. E invece eccoti qua.

 

 

 

 

Compassione ed irritazione

 

D.: Per essere un illuminato parli un po’ troppo.

K.: Parlo troppo?

 

D.: In ogni modo confondi le idee. A volte parli ben rilassato e a volte sempre in ‘staccato’. Lo trovo irritante.

K.: Ottimo se ti irrita. Se l’Io è irritato, è un motivo di far festa. Più confuso diventa l’Io, e più presto abbandona quello che lo costituisce. Ti liberi dall’attrazione. Questo è intenzionale.

 

D.: Eh! Grazie tante.

K.: Non parlo alla persona, ma piuttosto a quello che è. All’Essere. Al Sé.

 

D.: Non parli a me come ad una persona?

K.: E questo irrita terribilmente la persona. Questo dovrebbe spingere il pensiero dell’Io all’insurrezione – a un completo grrrroah!

 

D.: Vuoi vedermi come una bestia?

K.: La nudità stessa vuole che tu sia nudo!

 

D.: Non lo vuoi?

K.: L’assenza di volontà stessa lo vuole. Ma quando lei vuole…

 

D.: …allora bisogna trovar il modo di allontanarsene.

K.:…allora non si può sfuggire. Ma non si può volerlo. Succede. C’è semplicemente. Senza intenzioni. E’ proprio questo che irrita! E’ la simultaneità dell’imperturbabilità e del parlare. Ecco lo ‘staccato’ che non vuole niente. Questo irrita. Di solito qualcuno vuole sempre qualcosa da te. Vuole che ti alzi, che impari qualcosa, che raggiunga un obbiettivo, che ti svegli. Con questo passi il tempo della tua vita. C’è qualcosa che non va in te, allora fa qualcosa! Ma qui non ascolterai nulla di simile. Perché tu sei già completamente quello che sei. Non ho bisogno di cambiare nulla.

 

D.: E così l’irritazione è intenzionale.

K.: Ci potrà essere un’intenzione, ma nessuno che ce l’ha.

 

D.: Ah! Allora c’è un’intenzione…affinché qualcosa possa essere cambiato tuttavia.

K.: No.

 

D.: Osservi il mondo e nulla che debba essere cambiato? Questa è imperturbabilità. Ma la compassione?

K.: C’è solo compassione.

 

D.: Davvero?

K.: C’è compassione.

 

D.: Con che conseguenze?

K.:Senza conseguenze.

 

D.: Allora non porta frutti.

K.: La compassione non ha intenzioni. La compassione è semplicemente compassione.

 

D.: Tuttavia dalla compassione nasce il desiderio di ridurre la sofferenza!

K.: No. Nella compassione non c’è sofferenza.

 

D.: E allora perché vengono al mondo degli esseri illuminati? Per esempio i Bodhisattvas con il loro profondo desiderio di liberare tutti gli esseri viventi dalla sofferenza? Questo non è forse lo spirito che non vede il mondo come separato da sé e nondimeno ha l’intenzione di liberarli.

K.: Per poter liberare qualcosa devi vedere che c’è qualcosa di imprigionato. Ciò che vede la prigione è esso stesso sempre imprigionato. Anche l’idea del Bodhisattva è un concetto.

 

D.: Per chi soffre un Bodhisattva è ben reale e di importanza determinante.

K.: Nel Sutra di diamante il Budda dice: “Non è mai esistito un Budda che abbia calpestato la terra o che la calpesterà. Ho predicato per quaranta anni e non ho mai detto una sola parola a nessuno. Tutto era come doveva essere e totalmente irrilevante. Senza significato. Questa è la libertà, che non abbia alcun significato. Che la commedia sia rappresentata in questo modo o in un altro, se appare un Bodhisattva o no…

 

D.: …per me fa differenza.

K.: …per quello che sei non fa nessuna differenza, per niente.

 

D.: Un Bodhisattva mi apre il cuore.

K.: Magnifico! Ma se lo fa con o senza narcosi non fa alcuna differenza per quello che sei.

 

 

 

 

La guerra è solo con te stesso

 

D.: Puoi dire qualcosa sulla guerra?

K.: La guerra succede per il bisogno di ottenere. Questo è l’inizio della guerra privata ed anche la guerra dei popoli comincia in questo modo. Vuoi ottenere e possedere qualcosa perché credi di essere più felice per questo.

 

D.: Diciamo così: voglio trovare la pace interiore.

K.:Vuoi sempre metterti in pari con te stesso. Sei sempre alle tue calcagna. Sempre in guerra. Sempre un po’ prima o un po’ dopo di te. Per tornare al primo pensiero: il pensiero “Io “ è già una separazione e nella separazione nasce un guerriero. Un guerriero che crede di dover padroneggiare il suo territorio.

 

D.: Vuoi affermare che chiunque pensa“Io” è un guerriero?

K.: Ogni pensiero di “Io “ è un pensiero di guerra. Con l’idea che c’è un “tuo” a cui appartiene l’esistenza -“la tua vita” - c’è qualcosa che devi difendere. In questo modo nasce la guerra. Dove c’è il “mio esistere” c’è anche il “tuo esistere”. Al più tardi al terzo anno di vita il guerriero è completamente formato.

 

D.: Sembra che ci siano delle comunità di indiani americani nelle quali non esiste il pensiero dell’Io, ma una comunità con un Io impersonale, un Io-gruppo. Nel gruppo non c’è né“ mio” né “ tuo”e nessun possedimento.

K.: Eppure al di fuori del gruppo ci sono “gli altri”. Nella società occidentale individualistica il piccolo Io è sempre per sé. C’è la famiglia ma in essa domina la guerra: chi ottiene più affetto o più attenzioni. Si parte sempre dall’idea che c’è qualcuno che ha bisogno di qualcosa. Un Io che s’identifica con il corpo. Una coscienza che si vede separata dal tutto e che richiede un senso d’ appartenenza e di sicurezza. Lotta quindi per ottenere qualcosa: proprietà, cibo, o attenzione.

 

D.: Allora anche un animale è sempre in guerra, senz’alcun’idea di Io.

K.:Questa è solo una funzione che riguarda la fame, la caccia ed il cibo. Non c’è futuro né pensiero rivolto al passato. Un criceto può ammassare cibo ma non si fa crucci sulla sopravvivenza. Anche se non sappiamo degli argomenti di cui parla con sua moglie nel covo.

 

D.: Allora è possibile creare la pace con o senza armi?

K.: Non ci sarà mai pace in questo mondo. Finché ci sarà un’idea di separazione, finché esisti, non ci sarà pace. La sola idea di un te stesso, significa che c’è qualcos’altro che esiste e con il quale non è possibile la pace. Una situazione armonica si trasmuterà ad ogni momento in una situazione bellica. Ogni uomo pacifico diventerà una bestia, quando la soglia della sua tolleranza è oltrepassata. Non c’è un uomo pacifico. Ci sono solo diverse soglie di tolleranza e aggressioni più o meno filtrate.

 

D.:E forte voglia di uccidere in modi diversi.

K.:Sono cresciuto in una fattoria. Quando si ammazzava un maiale, dovevo tener ferma la codina arrotolata, in modo da ottenere una salsiccia diritta. Macellare! L’atmosfera era fenomenale. Era come caricata al massimo di energia. Come se luccicasse. La luce s’innalza dalla materia fisica e si espande nello spazio.

 

D.:Puo’ la morte avere a che fare con l’ubriachezz(droga)?

K.: Si. Nelle situazioni estreme l’Io scompare. Se uccidi qualcuno tu non ci sei più. In quel momento la coscienza si libera dal corpo. L’alcool e la droga sono mezzi per ottenere quello che qui diventa un’esperienza diretta: l’assenza dell’Io. Questo non deve essere in relazione con l’uccisione. Ci sono tante situazioni estreme del genere. Quelli che saltano con l’elastico, il Bungee-jumper, lo provano. Gli scalatori estremi. I corridori. Anche i piloti di formula uno. Solo se scompare come io può essere tanto veloce da vincere la gara. Una situazione estrema è come una tecnica di meditazione: un mezzo per sciogliere l’Io. Ogni sforzo per raggiungere una meta cerca questa dissoluzione.

D.: E quando l’Io si dissolve?

K.: Allora non c’è più separazione. C’è un’esperienza di unità. Non ci sei più. Ed in quest’assenza di te stesso c’è libertà. E’ questa la libertà di cui hai nostalgia. Ma la momento in cui la vuoi ottenere, essa sparisce. Finché c’è qualcuno che vuole possederla, è come una strada sbarrata.

 

D.: Libero da me stesso? Libero dal costrutto mentale dell’Io?

K.: Libero dal pensiero di essere nato e quindi di essere mortale. Sei semplicemente scomparso. La coscienza senza un Io è totalmente impersonale. Questo sentimento di unità è orgasmico.

 

D.: In esso appaiono pensieri?

K.: Al fatto che ci siano pensieri o meno, non pensa nessuno. L’importante è che non ci sia più un pensatore. Quello che è percezione è libero e non è legato a qualcuno che percepisce. Gesù è il Redentore che ti redime dall’idea di essere nato. Si fa uccidere, risorge e dice: guarda, tu sei quello che io sono e questo è immortale, perché non è mai nato. La forma muore, l’oggetto nello spazio-tempo muore, ma tu non sei un oggetto nello spazio-tempo. Tu sei prima del tempo e di qualunque idea.

 

D.: Ma per riconoscere questo è necessaria una situazione estrema?

K.: L’eterno presente si rivela quando non c’è né un domani né un ieri. E questo accade in una situazione estrema. Spesso in un incidente, quando la coscienza si libera dal corpo materiale e diventa puro osservare. O durante la guerra sotto continua minaccia di morte. Questo è quanto vuole significare il romanzo “Essere senza destino “ di Imre Kertesz che ha preso il premio Nobel. Egli descrive l’esperienza di felicità nel campo di concentramento, della pace nel confronto con la morte, della libertà dell’assenza di un Io. “Se esiste un destino, la libertà non  è possibile” - dice e  “Se c’è libertà, non c’è destino”.

 

D.: Dunque in una situazione estrema ti liberi dal destino e sei libero. E’ questo il risveglio di cui si parla?

K.: No. Tutto quello che si sveglia davanti alla minaccia di morte può ancora riaddormentarsi. Vorrebbe essere naturalmente sempre sveglio. Ma il desiderio di risveglio fa si che ci si possa ancora riaddormentare. Una volta raggiunto l’orgasmo, vuoi sperimentarlo ancora ed ancora perché non rimane. E’ qualcosa di artificiale, prodotto sia da una situazione estrema, sia da una droga, sia da un’azione. Quindi non spontanea. Vuoi ritrovarla e devi partire in guerra.

 

D.: Un orgasmo non è naturale?

K.: E’ provocato. Una situazione generata da un’azione, non è libera ma dipendente. Ora il tuo stato naturale non è dipendente da una qualsiasi azione. L’agire rimane finché sembra esserci un Io che debba dissolversi. Il traguardo è l’assenza di un Io. Ma quello che sei non ha bisogno di un traguardo. Non ha la necessità di arrivare là dove sei già da tempo. Ogni Io che giunge alla propria assenza, deve anche ritornarvi fuori. Tutto quello che va, torna indietro. E tutto quello che viene di nuovo se ne va. Tutto quello che è liberato viene di nuovo imprigionato. Ciò che si sveglia si riaddormenta di nuovo.

 

D.: Ma con un’esperienza di risveglio ho pur seminato qualcosa. E se succede in guerra divento pacifista e non combatto più!

K.: Forse farai qualcos’altro. La nostalgia dello stato di assenza di un Io rimane. Anche il pacifista vorrebbe entrare nell’assenza di un Io. Appunto perché è un pacifista e vuole armonizzare tutto. La nostalgia di questo stato beatifico, nel quale non c’è più un Io, né separazione né frontiera, l’hanno in comune sia i soldati che i pacifisti. E’ il loro traguardo guerriero in comune.

 

D.: Ma ci saranno pur dei colpevoli e delle vittime!

K.: Finché ci sei tu, ci sarà tutto questo. Cominciamo dalla radice. Se tu non esistessi più come persona, non ci sarebbe più né guerra né sacrificio, né i sei miliardi di altre persone. Soltanto coscienza invece. Quello che sei. Appunto una coscienza che si manifesta come guerra, come colpevole e come vittima. Ma poiché ci sei tu in quanto concetto principale, ci sono anche tutti i concetti di guerra, pace e le varie azioni pro e contro.

 

D.: Tutto questo è dunque colpa mia?

K.: Con l’idea di un Io nasce il guerriero. Solo grazie a te esiste la guerra.

 

 

 

 

Non vedo uno che soffre

 

D.:In qualunque modo tu lo esprima, mi rimane la sofferenza.

K.: La sofferenza è l’esperienza dell’essere separato. Ma c’è qualcuno che soffra di questo? C’è mai stato uno simile? Oppure anche questa è un’esperienza che vi sia uno sperimentatore che soffra a causa di un’esperienza? Quello che sei ha mai sofferto? Per esempio da parte di chi soffre? La percezione che sei ha mai sofferto da parte di questa persona fittizia? Da parte di questa persona che soffre  a causa di una finzione?

 

D.: Perché fittizia?

K.: C’è uno che soffre?

 

D.:Naturalmente! Anche se io seduto qui col mio corpo e la mia personalità fossi soltanto una finzione – ci sono milioni di esseri umani che sono imprigionati in quest’immagine di sé. Ed io sono uno di quelli.

K.: Finché lo dici, ci sei ancora e tutto è reale.

 

D.:Esattamente. E fino a quel momento sentirò il desiderio di alleviare la sofferenza, per me e per gli altri.

K.:Finché questa è la tua realtà e finché emergono questi desideri, allora sono proprio quelli giusti. E chiunque dica che è falso o illusorio è egli stesso un’illusione.

 

D.:Un essere risvegliato non ha più il desiderio di alleviare la sofferenza?

K.:Non vede più sofferenti. Dal momento che egli è sparito in quanto sofferente, non ci sono più altri sofferenti. Quando non ci sei più non ci sono più nemmeno sei miliardi di altri. Solo il Sé stesso e la sua manifestazione. Non c’è più una seconda persona. Solo l’unico Essere Assoluto.

 

D.: Allora non si può avere compassione con le illusioni?

K.: Si, una compassione illusoria.

 

D.:Voglio dire se un illuminato si rende conto che gli uomini soffrono o credono di soffrire nelle loro illusioni - anche in maniera brutale - non gli viene il desiderio di aiutare?

K.:Non ne ho idea.

 

D.:Dov’è la compassione in quello che stai raccontando?

K.: La compassione è la sorgente del Tutto.

 

D.: Ma si dovrà pur manifestare.

K.: Si manifesta certamente, come pace e come guerra per esempio.

 

D.:Come guerra?

K.: Oppure come corpo, come spirito e come tutte le varianti della consapevolezza.

 

D.:La compassione si manifesta come guerra? Come sofferenza?

K.: Non fa differenza tra buono e cattivo.

 

D.: Allora posso immaginarmi che la sofferenza ha un senso, ma resto fermo su questo: si tratta di liberare gli uomini dalla sofferenza.

K.: Puoi liberare qualcuno dalla sofferenza soltanto se gli mostri chi è in realtà.

 

D.:Ammesso che abbia la forza e la voglia di ascoltare.

K.: Non vuol dire che gli togli il dolore. L’ultima medicina per qualunque dolore è l’indicazione che non esiste qualcuno che soffre.

 

D.: Ti sarà certamente riconoscente per quest’indicazione colui che non ha niente da metter sotto i denti e si trascina per terra pieno di malattie.

K.: Forse proprio per questo quell’uomo potrà rendersi conto che l’amore per l’esistenza è illusione. Molti uomini hanno ritrovato il loro essere originale sotto l’oppressione della tirannia, in situazioni estreme, in totale mancanza di amore. Nelle situazioni estreme esso si dissolve. La liberazione è la dissoluzione  della percezione di ciò che la percezione percepisce.

 

D.:Ci sono fin troppe persone che soffrono in punto di morte tra atroci dolori e non ne ricevono alcuna realizzazione.

K.: Che cosa ne sai tu?

 

D.:Forse ne ho solo paura.

K.: Adesso?

 

D.:Si tratta sempre della stessa cosa.

K.: Adesso, esiste qualcuno che soffre?

 

D.: Si, ne sono sicuro. Se non è qui è là fuori.

K.: Se necessario, in una prossima vita.

 

D.:Oppure qui per me. Esisto, io.

K.: Si, l’ “Io sono” è già l’inizio della sofferenza. Se l’ “Io sono “ è la tua realtà, da esso scaturisce sempre qualcos’altro – un concetto di come la realtà dovrebbe essere. Allora sei un’idea che si manifesta in ulteriori idee. Finché lo sei è doloroso. In realtà sei libertà. Tu non sei questo pensiero dell’Io e la sua nostalgia di qualcosa, tu non sei il riflesso di ciò che è sofferenza. Tu sei la Sorgente. Tu sei la completa libertà.

 

D.:E questo vale per gli altri?

K.: Quali altri?

 

 

 

 

7. Meditazione

 

  

 

 

 

A cosa giova la meditazione?

 

 

D.: A cosa giova la meditazione?

K.: A niente. La meditazione è ciò che sei. Tu sei il meditante che medita su sé stesso mentre riconosce se stesso in ogni momento. L’essere medita su di sé. Questo è quello che sei: meditazione.

 

D.:Direi piuttosto qualcosa che faccio.. Quando mi siedo e medito per venti minuti.

K.: Questa non è meditazione. E’ un’idea di miglioramento. E’ il tentativo di controllare qualcosa. Lo sforzo di muoversi in armonia per mezzo della meditazione e così ottenere la conoscenza di sé. Il tentativo di condurre all’armonia ciò che da sempre è completa armonia. L’idea “devo armonizzare qualcosa” è un’idea di separazione. E’ l’idea di stare al di fuori e di saperla lunga. Là dietro c’è un Io che come un dio clandestino vorrebbe sdottoreggiare riguardo alla creazione. Un riformatore che vuol migliorare il mondo e che pronuncia un giudizio su di esso che suona press’a poco così: “Malvagio!  Potrebbe essere migliore. Dovrebbe essere migliorato, cioè da me. Ogni uomo è un riformatore del mondo, un dio così piccolo che sa meglio come dovrebbe essere l’esistenza. In questo senso la meditazione appartiene al repertorio delle idee di miglioramento. Finché l’idea di un Io è vigente, esiste tutta la gamma delle idee di religione, di retta via, le pratiche, le tecniche e la meditazione.

 

D.:Per me la meditazione ha invece un certo valore.

K.: Ogni meditante pensa di fare qualcosa di speciale per se stesso e che fa qualcosa di spirituale e speciale che ha più valore che bere una tazza di caffè. Ma questa medit-azione o medit-tattica è una tecnica per controllare qualcosa. Non è niente di speciale. Se spalmi il burro sulla fetta di pane controlli che il burro si stenda bene sul pane. E’ la stessa funzione Tu armonizzi il pane spalmando uniformemente il burro sulla superficie della fetta. Bene, fallo. Ma non preoccuparti per nessun’altra cosa, perché l’armonizzazione è presente in ogni momento, L’esistenza si armonizza tutto il tempo. Anche se per una volta non l’osservi o non aiuti a farlo. Si adatta a se stessa in infinite variazioni, mentre spalmi il burro e anche quando mediti.

 

D.: Penso che questa tecnica sia utile!

K.: Non dà frutti. E’ labile in sé. Continui a curare, ma nulla si risana. Non puoi risanare qualcosa che è già di per sé sano assolutamente. L’esistenza non ha mai mancato di nulla.

D.: Ma se reputo che nella mia vita qualcosa debba essere migliorato?

K.: Ti prego solo di osservare: ti definisci come un piccolo povero diavolo, Io? Oppure sei quello che sei?  Puoi sempre vedere se l’Uno ti soddisfa o se il povero diavolo che credi di essere si prende troppo sul serio. E se questa serietà comincia a diventare pesante. Osserva. Sei quello che è infinita leggerezza ed armonia? O il povero diavolo che crede di dover sopportare il mondo?

 

D.: Ho una scelta forse?

K.: No, ma afferrala!

 

 

 

 

 

Preparazione al Risveglio

 

D.:A volte lascio fluire i pensieri come una folla umana. L’uno guarda, l’altro no. Questa è meditazione. Con questo giungo ad uno stato meravigliosamente rilassato. Potrebbe essere questa una preparazione al Risveglio?

K.:Ci può essere solo una preparazione per te stesso. Non appena appari sulla scena del mondo, già provi nostalgia per te stesso. Finché la tua realtà è l’idea di vita, ti struggi dal desiderio di quello che aldilà di essa. Di qualcosa che non sia condizionato dallo spazio-tempo, di una vita che è libertà Questa nostalgia compare appena apri gli occhi. La nostalgia della beatitudine ha diretto ognuno dei tuoi passi. E ogni passo è una preparazione all’ultimo passo che porta al nulla, nell’Abisso, in questo Mistero.

 

D.:Ma ci sono forse passi che portano in modo più diretto a quello?

K.: Se ci sono vie o passi speciali? No. Ogni passo è un passo speciale verso te stesso. Ogni respiro. Finché è l’ultimo. Finché l’Io non respira più, ma è respirato. Ci sono passi ma non passi particolari. Confida semplicemente in quello che fai poiché la nostalgia ti condurrà, in un modo o in un altro. Il Sé sa meglio di qualunque altro maestro o di qualunque altra cosa come trovarsi. E non c’è via d’uscita. Non puoi sfuggire a te stesso!

 

D.: Ma in questo non è compreso il fatto che legga certi  libri o che venga da te?

K.: Non credere che un’azione abbia più valore o ne abbia meno. E’ solo la parte qualitativa del Sé che porta a se stessi.

 

D.:Ma il fatto che legga certi libri o che venga qui avviene a causa del desiderio di ritrovarmi o di ritrovare il Sé.

K.: Il Sé nella sua aberrazione, nel suo piccolo “io”, cerca quello che è nella sua totalità. Ma non può far nulla. Poiché non si è mai perso! Puoi solo trovare quello che hai perso. E puoi solo ricordarti di qualcosa che hai dimenticato. Ma tu non hai perso nulla e per questo non troverai mai niente. E non hai dimenticato nulla e per questo non puoi ricordarti di nulla. Ogni tentativo all’interno del sapere relativo di poter giungere al sapere assoluto rimane un simpatico tentativo. Tutto quello che fai è meraviglioso, ma non porta a nulla. Eppure ogni passo compiuto dal Sé porta inevitabilmente al Sé! Ad un certo momento so sveglia e vede che non si era mai smarrito. Ecco tutto. Non c’è questione di trovare qualcosa. E’ piuttosto solo la constatazione che colui che cerca non troverà mai qualcosa, perché è egli stesso l’oggetto della ricerca.

 

 

 

 

E’ possibile almeno far qualcosa per rilassarsi?

 

D.:La tranquillità che sperimento durante la meditazione mi fa bene. Mi spiegherai forse che c’è qualcosa di sbagliato in questo?

K.:Tutti i passi sono giusti. Ognuno ti porta verso te stesso. Non puoi sfuggirti. In qualunque luogo tu vada troverai solo te s tesso. Puoi meditare quanto vuoi, voltar le spalle al tuo maestro, entrare in un ashram, lasciare l’ashram, seguire un insegnamento di Avatar o rovinare tutto il corso, puoi recitare la parte di Dio o del diavolo - tutto questo non ha né vantaggio né svantaggio. Tutto è meraviglioso.

 

D.: Allora continuo a meditare.

K.: Non direi mai: smetti. Si, continua pure! Qualunque cosa faccia l’organismo corpo-mente, è proprio per questo che è fatto. Proprio per la necessità di quell’esperienza. Per permettere all’esperienza di manifestarsi è proprio questo che deve accadere. E’ sempre assolutamente giusta. Anche quando è sbagliata. Se l’hai fatto per vent’anni e ti sei lasciato sfuggire qualcosa, era proprio la cosa giusta.

 

D.:Naturalmente lo faccio per poter essere più calmo.

K.:Quello che sei non può diventare più calmo di quanto lo è già. E quello che sembra diventare tranquillo è solo un’idea. Un pensiero che s’immagina un movimento per poter arrivare alla calma. Ma questo non ha importanza. Sii consapevole di ciò per cui niente ha importanza. E che non ha potere in sé. Che è completa mancanza di potere. Che non ha nessuna sorta d’intenzione. Che non ha bisogno di cambiamenti. Tutto ciò che ha bisogno di cambiamento è un pensiero, un’idea, un fantasma.

 

D.:Vuoi dire che la meditazione non cambia nulla?

K.:Un pensiero può trasformarsi in mille modi diversi. Un fantasma può svilupparsi nella coscienza fino a diventare il più grande Avatar o dio dalla testa di elefante. Si sente lo stesso solitario e soffre di solitudine e cerca e sospira e ha la sensazione che deve fare qualcosa.

 

D.:Anche senza tesa di elefante, si può fare qualcosa per rilassarsi?

K.: La tensione è valida quanto la distensione. Quello che può diventare teso non è quello che sei. E quello che si rilassa, nemmeno. Tu sei ciò che è eternamente rilassato. E quello non a niente a che fare né con la tensione relativa né con la distensione.

 

D.:Dal tuo punto di vista illuminato può essere valido. Ma dal mio punto di vistaci sono alcune differenza tra tensione e distensione.

K.: E’ semplicemente una variazione di percezione. Chi è lo sperimentatore? Come può ciò che egli sperimenta cambiarlo o influenzarlo? Vuoi dire che io sperimento dal mio punto di vista e tu dal tuo? Entrambi vediamo e siamo una cosa sola. Che cosa vede qui e che cosa vede là? Che differenza c’è?  Il Sé che vede da un’apparente punto di vista illuminato vede in modo altrettanto meraviglioso da un punto di vista apparentemente non illuminato. Questo è quello che sei. Che differenza c’è tra noi?

 

D.: Stimo che tu parli da un punto di vista della verità ed io no.

K.: Di quanto ho detto finora niente è verità. La verità non può essere né riconosciuta, né conosciuta né pronunciata. E non ha bisogno di nessuno che la riconosca.

 

D.: Peccato. Ma allora continuo a meditare nonostante tutto.

K.: Non puoi farne a meno. Perché sei la meditazione.

 

 

 

 

 

Dalla perturbazione alla catastrofe

 

D.:Mi è chiaro che l’Io non può riconoscere la verità. Ma nella meditazione sparisce l’Io. Oppure diventa la verità.

K.:No. Un uomo è solo un oggetto d’esperienza. Come può un oggetto diventare quello che è l’essenza? L’uomo non può diventare ciò da cui proviene, Un ghiacciolo si scioglie. E’ acqua. Era sempre acqua. Non diventa acqua ma l’acqua prende solo un’altra forma. Così è l’Essere. L’acqua rimane acqua anche se assume un’altra forma. In quanto ghiacciolo non raggiungi l’essenza. In quanto ghiacciolo non puoi ottenere nulla. Ma quello che sei può raggiungere tutto e assumere tutte le forme. E’ già tutto! La falsa percezione sta nell’idea della separazione. La pura consapevolezza assume tutte le forme e rimane sempre consapevolezza. Ma la forma non diventerà mai quello da cui proviene, cioè  consapevolezza. Sarà per sempre un riflesso. Riconosci che sei questo “Io sono”, questa pura consapevolezza. Poi vai oltre, prima dell’ “Io sono” - là c’è il puro Io. E poi  - anche senza l’Io – pura perfezione. Ma forse è meglio un passo dopo l’altro: prima  nell’ “Io sono”!

 

D.:Tu ci precedi, noi seguiamo.

K.: Puoi restar seduto. Quello che è possibile nel mondo relativo è di essere ciò che sta prima di chi percepisce, del percepire e di ciò che è percepito. E’ possibile riconoscere come transitorio ciò che viene e va. Tu non sei questo:”Neti, neti, neti”, non questo non quello, non quell’altro. Quello che viene ed appare, poi scompare. Tu sei quello in cui tutto appare e scompare. Questa è meditazione. Per questo non è necessario nessuno sforzo. E’ semplice. Questo non richiede sforzo alcuno. Non c’è mai da sforzarsi per essere quello che sei. Ti faccio notare che qualunque cosa richieda uno sforzo, non può essere quello che sei. E nemmeno se per ottenerlo devi fare qualcosa di speciale. Quello che sei è già completamente qui senz’alcuno sforzo.

 

D.:Tuttavia io lavoro e devo sforzarmi per portare a termine qualche cosa…

K.: Quello che sei non si è mai sforzato e non dovrà mai sforzarsi. Tutto avviene spontaneamente. Tu non sei ciò che si sforza. Questo fa parte dell’apparenza. Quello che sei non ha mai fatto né non fatto qualcosa. Tutto si è fatto da sé. E se realizzi che tutto si è fatto da sé e spontaneamente viene e va, chi si sforza ancora? Chi deve ancora fare qualcosa?

 

D.:Io apparentemente no!

K.:Il Sé può solo liberarsi da solo. Niente di quanto vive nel tempo può rendere il Sé com’è realmente. Dunque solo il Sé può risvegliarsi in sé stesso. E questo non è un risvegliarsi, questo è solo essere quello che è. Nessun’azione e nessuna meditazione può procurare quello che solo il Sé può fare. Ciò che è nel tempo, non può agire per volontà propria per ottenere qualcosa. Eppure ogni passo che accade nel tempo è sempre un passo verso se stessi. Solo che non lo ha mai fatto nessuno. Mai nessuno ha fatto un passo avanti. Foss’anche così, l’ha solo fatto il Sé, appunto perché non ha fatto nulla. Procede sempre verso se stesso. E non è possibile che sfugga a se stesso. Dunque tutto quello che fa il Sé porta a se stesso. Non c’è niente di speciale. Quindi non è questo o quel tipo di meditazione che porta a Lui più in fretta. E nemmeno quella fetta imburrata o quel programma TV che ce ne può allontanare. Tutto questo è esattamente quello che ti porta a te stesso.  Per quanto concerne il Sé non ci sono specialisti. A questo riguardo non ne so più di chiunque altro. So solo che sono e che c’è l’essere. Tutto il resto è speculazione. Non ne so più di te.

 

D.:Sono sconvolto.

K.: Prendilo come piccolo evento perturbatore. Ci sono tanti piccoli eventi perturbanti  finché non ha luogo la catastrofe, IL Sé  realizza se stesso e l’Io non ha mai esistito. Questa è la catastrofe per l’Io. Nel realizzarsi si annulla. Una fusione nucleare. Tutte le particelle ridiventano quello che sono in essenza. A quel punto le particelle cessano di esistere. Nel fuoco della consapevolezza scompare tutto il relativo. In questa consapevolezza di sé l’idea del relativo non può sussistere. Tutto il relativo brucia e ogni idea di separazione o non-separazione scompare.

 

D.:Per questo vorrei aspettare ancora un po’.

K.: Si, ma anche questo non puoi farlo.

 

 

 

 

 

Sono la vacuità?

 

D.:Durante la meditazione approdo ad uno stato di vuoto assoluto. Ed io so: ecco cosa sono!

K.: Vorresti esserlo?

 

D.:Lo sono, oppure no?

K.: TI piacerebbe sentirti a casa. E se non in seno alla tua famiglia, in una città o in un paese o nel mondo, almeno nella vacuità. Là troveresti pur sempre una patria. Foss’anche il vuoto. Ah! Il vuoto! “Accà sto a ccasa mia!” ma in qualunque modo tu ti definisca al momento, proprio per il fatto che ti definisci, ti separi da qualcos’altro. Quindi se dici:”Sono la vacuità” dietro questo grosso cespuglio del vuoto e del niente c’è ancora qualcosa. Lì si nasconde qualcosa che può sempre essere in agguato. E così è sempre, se ti definisci in un qualunque modo.

 

 

D.:Pensavo di dover giungere ad un punto dove sono sempre questa vacuità. Perché lo sono.

K.: Pensavi di dover diventare quello che sei? Quello che tenti di essere non puoi esserlo. Se pensi: “Quest’armonia che sento, così meravigliosa, così in unità col Tutto, dovrò pur esserlo!” oppure “Questa vacuità dove nulla può toccarmi, ecco cosa sono!” –allora provi nostalgia per uno stato. Ma quello che sei è sempre disponibile. Non è uno stato, non è un’esperienza, non è un sentimento. Non hai bisogno di provare nostalgia. Né hai bisogno di diventarlo. Quello che sei non dipende da una buona condotta o da un buon comportamento. Non dipende da una qualsiasi condizione. Non dal divenire o dal passato, non da un evento nel tempo, non dalla vita, non dalla morte.

 

D.:E’ come l’infinito. Non posso immaginarmelo.

K.: Tu non puoi immaginare quello che sei. Perché sei l’infinito, non puoi immaginare te stesso. E nessun’altro lo può. Nessuno può immaginarti.

 

 

 

 

 

Il concetto che dissolve tutti gli altri concetti

 

D.:Qui l’idea dell’Io si sta riducendo assai. Ma senza di esso non si può vivere!

K.: Quello che sei ha forse bisogno di un pensiero per vivere? Per essere?

 

D.:Quello che sono…

K.: Chi ha bisogno dell’idea dell’Io? Chi? In ogni modo l’idea stessa dell’Io.

 

D.: Allora scartiamola.

K.: Non hai bisogno di scartare niente. Niente deve andare e niente deve venire. Dopo tutto non lo si chiama assassinio del Sé, ma realizzazione del Sé. Cos’è la realizzazione del Sé?

 

D.: Ancora un’idea, di nuovo solo un concetto.

K.: Se vogliamo parlare, dobbiamo trovare un concetto – “un concetto – come soleva dire Ramana – che dissolve tutti gli altri concetti. Che cos’è questo concetto?

 

D.: Spiegacelo tu. Io non voglio più pensare.

K.: Il pensiero non vuole più pensare. Tuttavia finché non vuole più pensare può rimanere.

 

D.:Spiegaci per favore che cosa intendeva dire Ramana.

K.: E’ la tecnica di restare nella domanda:”Chi sono?” Di rimanere nell’impossibilità di una risposta. Nel mistero dell’eterno punto di domanda. Nella totale nescienza di quello che sei o se sei. In quest’apertura. L’apertura annulla l’idea dell’Io e la sua storia. L’agente o possessore scompare nell’apertura di questa domanda a cui è impossibile rispondere. Come un fuoco brucia la storia personale. Nulla rimane. Niente può sussistere nell’ignoranza di quello che sei.

 

D.:Non potrò mai avere la risposta? Il punto di domanda è eterno? Questo ha un suono molto doloroso!

K.: La sofferenza proviene dal fatto che pensi: se io potessi avere la risposta, il mio dolore potrebbe sparire in futuro. Ti posso solo affermare che la risposta non avrà mai luogo e così il dolore non avrà mai fine. La domanda è questa: qui ed ora esiste uno che sta soffrendo? O esiste un sofferente solo perché spera che in futuro il dolore possa cessare?

 

D.:Credo sia così.

K.: Finché c’è un uomo pieno di speranza che pensa di potersi elevare al culmine della felicità per mezzo della domanda:”Chi sono?” egli soffrirà per il fatto che a questa domanda non potrà mai esser data una risposta.

 

D.: Questo suona tremendo!

K.: Siamo seduti qui perché io possa ripeterti continuamente: non ci sarà mai una risposta a questa domanda. Quello che sei non lo conoscerai mai. Non è infatti un oggetto di conoscenza. Che tu possa farti risarcire o meno – le cose stanno così.

 

D.:Ma allora è senza speranza.

K.: L’assenza di speranza è la tua natura. Nella disperazione non c’è più un Io. La rassegnazione è liberazione. Tu ti rassegni quando riconosci che l’idea di poterti trovare è solo un’idea. Che quello che sei non potrai mai trovarlo, perché non l’hai mai perso. Puoi solo trovare quello che si era allontanato da te.. Ma la tua vera natura è completamente qui ora. La domanda “Chi sono?” è solo un’indicazione di questo mistero. Un’indicazione che devi già essere completamente quello che sei.

 

D.: Allora perché non lo sento?

K.: Perché non c’è un secondo Sé che tu possa sentire. Non è un oggetto, non è un sentimento, non è un pensiero. Per questo non potrai mai sentirlo. Non esiste un contatto con te stesso. Sei in conoscibile, incomprensibile, intoccabile.  Tu sei assoluto in te stesso. Mai nato mai mortale.

 

D.:Non saprò mai chi sono?

K.: Noi parliamo di libertà. E tu vorresti una risposta che non sia libera. Tu vorresti aggrapparti ad una risposta. Almeno così sai che esisti e da quel momento puoi prenderne cura. Con la compagnia costante della paura. Poiché è questo che succederà se hai avuto una profonda intuizione o un’esperienza di illuminazione o una visione mistica. Per il resto della tua vita devi occupartene per poterla mantenere. Che sforzo!

 

D.:Il mio problema di base non è stato risolto con questo.

K.: Questo non è significativo.

 

D.:Allora è sbagliato volersi conoscere?

K.: No. È arrogante. Vorresti conoscere Dio. Cosa c’è di più arrogante? Questa è presunzione. Almeno così potrai sospirare: “Oh com’è seria e difficile la vita!”

 

 

 

 

 

Il virus “Chi sono io?”

 

D.:Ramana ha raccomandato di porsi la domanda: “Chi sono io?” Questo porta ad un risultato?

K.:Questa domanda è come un trattamento di radice. Quando comincerai a porla ti porterà via la radice. Cominci a domandarti: sono io quello che pensa? Sono l’immagine che ho di me? Sono i pensieri, le rappresentazioni che ho di me? Sono effettivamente io quello che appare la mattina come idea-io? Oppure sono già lì da prima? Da dove viene quest’idea dell’Io? E in che cosa emerge? A chi appare in fin dei conti? Chi la vede? Quello che sono non è già prima di qualunque pensiero o fenomeno fuggitivo? Quello che sono può forse essere mai impressionato da un qualsiasi evento?

D.: Questa è solo roba cervellotica.

K.: Si, comincia nel cervello. Il Sé cerca se stesso con l’intelletto, con il sentimento, con tutti i mezzi.Comincia dalla testa. Poi il virus si espande.. Sempre con la domanda:”Chi sono?”. Questa domanda è meditazione in sé. Ove la meditazione è diretta solo verso se stessi e vien messo in questione lo stesso meditante. La consapevolezza si dirige verso se stessa. Non su un mantra o sul respiro o su un’immagine - si dirige verso chi pone la domanda? Chi è consapevole di sé ora? Nella totale concentrazione su questa domanda si annulla lentamente ma sicuramente la propria storia personale. Perché in questa domanda non può più esistere nessuna persona. Questo è il bastone che attizza il fuoco della consapevolezza e che, non si sa quando, sarà bruciato anch’esso. E’ questa la domanda con la quale l’Io stesso si brucia nel fuoco. Ma se e quando succede, nessuno può deciderlo, impedirlo o accelerarlo. Succede spontaneamente. In quel momento tutte le altre domande svaniscono. Spontaneamente sorge anche la domanda. Che un giorno tu te la ponga e che arrivi il momento in cui essa diventi essenziale – succede spontaneamente. In quel momento tute le altre domande svaniscono. Resta solo quest’unica domanda.. Rimane solo l’attenzione totale rivolta a se stessi. Questo non lo decidi tu. Invece in un momento preciso della tua vita sopraggiunge questa domanda. Si presenta in maniera lampante. Tutto si focalizza lì. Qui comincia l’auto-concentrazione. L’egocentricità che si orienta verso il mondo e che riferisce tutto a se stessa, è convogliata verso di sé e lascia fuori il mondo. L’attenzione non si dirige più verso ciò che è fuggevole. Diventa cosciente di se stessa, mentre gli oggetti perdono i contorni. Questo lo si chiama fuoco interno della consapevolezza. Quanto a realtà rimane solo l’appercezione.

 

D.:Significa che il mondo diventa insignificante?

K.: L’appercezione è la sorgente. Il resto è passeggero. Nella domanda:”Chi sono?” l’attenzione si rivolge a colui che pone la domanda. Chi si orienta? Che cos’è l’attenzione? Awareness in inglese, si dirige verso awareness, la veglia si dirige verso la veglia. E tutto quello che succede in questa veglia è riconosciuto come un film su uno schermo: sono ombre fuggevoli. Ti risulta chiaro che l’appercezione, in ogni momento, già da bebè e poi più tardi in ogni situazione, era già da sempre quello che è. E’ la cosa più affidabile che esista. E’ la sola cosa che tu conosci E’ senza condizioni. Il resto è condizionato. Senza l’appercezione e quello che percepisce e che è in conoscibile, non ci sarebbero oggetti percepibili. In quanto appercezione sei sempre primario. In seguito avvengono le situazioni e le circostanze. L’appercezione è già presente in modo perfetto nel sonno profondo, anche se non si percepisce nulla. E riconosci che in quest’appercezione, ha avuto luogo la nascita, in questa è apparso il corpo e in essa un giorno sparirà. L’appercezione esisteva prima e ci sarà dopo. Riconosci che l’appercezione non è mai nata e che ogni idea di nascita e di morte appare in essa. Essa stessa non è mai nata e non morirà mai. Tu sei l’eterno non-nato, l’immortale, la Sorgente in sé.

 

D.:Allora siamo dunque solo la medesima appercezione?

K.:L’appercezione non è selettiva. E’ uno spazio assoluto nel quale tutto succede. La percezione da un determinato punto di riferimento, ha luogo in questo spazio, è visiva, condizionata, relativa. L’appercezione totale è un palcoscenico assoluto in cui tutto succede e osserva da ogni sorta d’istallazioni fotografiche. E in quanto coscienza senza forma essa è perfino prima di questo show. E’ l’occhio di Dio, puro senza tempo, senza spazio. E qui in quest’eternità vi è tra molti altri anche questo momento – una perla tra infinite perle di coscienza.

 

D.:Allora esiste l’unicità!

K.: Ogni momento è unico. Non esiste un momento che si ripeta due volte, come non esistono due fiocchi di neve uguali. L’esistenza si esprime sempre in modo unico. Colui che si esprime qui come Carlo, si esprime là come quello che sei. L’espressione è infinitamente diversa. Ma quello che si esprime è sempre quello che è.

 

D.: Anche la consapevolezza è sempre differenziata.

K.: La consapevolezza non conosce l’uno o il due, il separato dal non-separato. La consapevolezza qui non è diversa dalla consapevolezza là. E’ sempre Dio che guarda all’interno di se stesso. Che si contempla nelle sue infinite possibilità di manifestazione da infinite variazioni di angoli visivi. E’ sempre autoconoscenza. La parola Sé è solo un’indicazione. Qui nell’assenza di un Io non rimane più un Sé che possa conoscere un Sé. Qui c’è una totale assenza di essere o non-essere.

 

D.:E tutto questo salta fuori se mi pongo l’innocente domanda”Chi sono io?”

K.: No. Tutto questo scompare. E soprattutto sparisci tu.

 

 

 

 

8. L’oscura notte dell’anima

 

 

 

 

 

Nessun interesse verso il mondo

 

 

D.:E’ necessario che prima del cosiddetto risveglio si passi attraverso “la notte oscura dell’anima”?

K.: Oppure si può semplificare la cosa?

 

D.:Beh si, se non ha da essere…

K.:In primo luogo ti definisci come Io con qualità, storie che chiami la tua identità. Di fronte, sembra esistere un mondo in apparenza indipendente da te. In quello tu cominci a cercare. Cechi oggetti che ti possano procurare appagamento. Circostanze nelle quali sentirti felice. Ti sforzi e cerchi e cerchi ancora, finché non cerchi più. Poiché ad un certo momento la ricerca cessa. Non perché l’hai condotta in modo tanto abile. Semplicemente cessa. Ad un certo punto avviene il riconoscimento che non ha senso cercare nel mondo degli oggetti. Vedi che non c’è nulla da trovare. Allora sorge un vuoto in te, njel mondo e questo lo puoi sperimentare come depressione. In questa depressione nella quale niente può aiutarti, cambi rotta. Cominci ad osservare quello che è prima di questo mondo.

 

D.: A questo punto avviene lo sfondamento?

K.: Tu non hai niente a che fare con questo. Parliamo di coscienza. All’inizio la coscienza cerca se stessa nel regno degli oggetti, nel mondo e riconosci: il mondo, gli oggetti non possono soddisfare quello che sono. Sono virtuali. Realizzi la loro apparenza fittizia. La coscienza si tranquillizza. In questa tranquillità diventa cosciente di se stessa. Questa è pura consapevolezza, non c’è più un altro. Nessun interesse nel mondo.

 

D.: Sfortunatamente però provo ancora interesse per il mondo.

K.: Non devi fartene un cruccio. Questa totale rassegnazione di fronte agli oggetti e verso ogni ricerca, non può essere fabbricata. Affinché rimanga solo la consapevolezza, mentre la coscienza si ritira dal mondo e si rivolge verso se stessa: questo non puoi né favorirlo né impedirlo, succede da sé.

 

D.:So in fondo che non c’è nulla da trovare là fuori. Nella meditazione lo noto sempre: in sostanza non c’è bisogno di niente.

K.:Se tu rinunciassi a tutto non avresti un vantaggio. Non c’è garanzia che grazie alla meditazione e alla ricerca qualcosa possa succedere. Anche se fai di tutto, non troverai alcun vantaggio. Se riconosci del tutto che non c’è da ottenere alcun vantaggio sia col fare che con il non-fare, allora va bene.

 

D.:Questa sì che è un’indicazione valida per una volta!

K.: Mi fa piacere che abbia potuto offrirti questo piccolo vantaggio.

 

 

 

 

Paura e mancanza di senso

 

D.:La mia esperienza durante il satsang è spesso mistica, celestiale. Ma quando sono da solo, mi rendo conto che non ho potuto portar via niente. Allora ho paura della mancanza di senso.

K.: Come lo vivi?

 

D.:E’ un’energia fisica, durante il satsang sono come ubriaco. E’ un’ubriachezza divina. Il resto è poi solo angoscia. Come se fossi drogato.

K.:Questa è la droga del Sé. Ogni tossicomania è una ricerca di se stessi. Con o senza droga. La meta è il Sé. La nostalgia del Sé è la radice. Finché tu non sei totalmente quello che sei, cioè finché tu hai ancora un’idea di separazione, esiste la necessità di una droga. Durante i dialoghi o il satsang questa si calma momentaneamente, poiché energeticamente non c’è più separazione per qualche tempo.Tu sperimenti l’unità. C’è una fase di adattamento, una specie di iniziazione per il fatto di essere insieme. Ti dirigi sempre più da questa parte. Metti il piede in ciò che è innominabile e dove nessuno può entrare. Questi dialoghi sono un modo di tener la porta aperta. Qui c’è solo apertura. I buddisti lo chiamano campo di Budda. Per qualche tempo c’è la possibilità di essere senza un Io. L’assenza di un Io è celestiale, beatifica. E questo è come una droga. Ma come ci si arriva se ogni desiderio di arrivarci è un ostacolo? Come si arriva all’assenza di desideri? Come può un qualunque passo portare all’assenza di tempo-spazio?

 

D.:E’ quello che mi devi dire!

K.: C’è un completo senso d’impotenza qui e altrettanto là. Non ti posso dare alcuna speranza. Succederà come dovrà succedere. Finché si è totalmente sciolto da qualsiasi vincolo. Finché l’appercezione si è totalmente liberata dall’oggetto di percezione. E’ un processo nel quale l’appercezione che è imprigionata nell’oggetto, finalmente si svincola. Quando questo succederà lo sa solo l’appercezione. Non c’è possibilità d’intercessione della conoscenza. Non ci sono passi. C’è solo uno sprofondarsi  in se stessi.

 

D.:Fino a quel momento è per me uno sprofondare nell’orrore.

K.: Qui c’è la possibilità di toccare l’accettazione. L’accettazione dell’Adesso. Qui è possibile sprofondarsi senza l’orrore. Senza lotta o resistenza, semplicemente si dissolve. Il controllore si calma per un po’ e sprofonda in qualcosa d’impensabile.

 

 

 

 

 

Devo proprio traversare l’inferno?

 

D.: Che valore simbolico ha il viaggio attraverso l’inferno di Gesù, prima della sua resurrezione?

K.: Per chi?

 

D.:In genere.

K.: Chiedi sempre che significato ha per te. Il solo fatto rilevante è che tu sei. Non il valore simbolico per gli altri o per la società o per l’ umanità intera. Sii totalmente rivolto a te stesso. Non accettare nulla se non quello che sei. Il parere degli altri non è determinante, ma il Qui ed Ora, quello che succede a te. Non quante persone ti accettano o condividono il tuo parere. La quantità di consensi è totalmente irrilevante. Deve essere indipendente da un consenso esterno. Dipende solo da te.

 

D.:Allora veniamo ai fatti: per risvegliarmi devo passare dall’inferno?

K.: Tu non devi far  niente, ma invece fai tutto.

 

D.:Per essere ancora più chiaro e breve: vorrei percorrere un sentiero dolce. Non voglio sperimentare l’inferno.

K.: La volontà di Dio si realizza sempre. Se sei quello che sei, succede tutto in quanto proviene da te stesso. Ma se ti consideri un Io, allora non accade mai quello che vuoi tu. Allora succede solo quello che vuole la Sorgente e mai quello che vuoi tu. Succede sempre quello che vuoi nella tua essenza, non quello che vuoi tu in quanto Io.

 

D.:La mia essenza pianifica in modo diverso da me – allora posso dimenticare la mia volontà propria?

K.: Si dice: il diavolo ha creato il libero arbitrio per poterti dominare. Poiché il libero arbitrio è l’idea che tu esista come essere separato. Questa è un’idea diabolica. Solo se esisti in modo separato, c’è il libero arbitrio, la buona coscienza, la responsabilità, solo allora si presenta tutto l’incantesimo infernale.

 

D. Come ne vengo fuori?:

K.: Non puoi sottrarti ad esso. L’intera storia del Mahabharata, la Bibbia degli indiani, nella sua essenza, è l’accettazione dell’inferno. Accettazione totale del dolore. In questa accettazione scompare ogni idea d’inferno o di cielo. Ma finché c’è qualcuno che vorrebbe uscire dall’inferno per entrare in cielo, che vuole assolutamente evitare una situazione o migliorarla, fino a quel momento l’Io è reale. E finché l’Io è reale con le sue idee di salvezza e di volontà propria, ci sarà l’inferno.

 

D.:Ma c’è pure una salvezza?

K.: Finché vuoi essere salvato, sarai in prigione. Voler essere salvato, voler sfuggire, significa: voler evitare se stessi. E questo è impossibile. Anche se ti suicidi cento volte, sei ancora qui. Non puoi sottrarti a quello che sei. Nessuno può farlo. Posso solo mostrarti la completa impossibilità di questo tentativo. E se tu riconosci completamene che non puoi sfuggire, nemmeno al tentativo di sfuggire, allora lascia pur sfuggire chi vuole!

 

D.:Maledizione!

K.E’ solo un gioco. E tu sei la coscienza che recita ogni ruolo, il ruolo minore come quello più importante ed anche il ruolo principale.

 

D.:Va bene, allora non posso lamentarmi.

K.:Ma certo che puoi!

 

 

 

 

 

Prima la forza dinamica, poi la depressione

 

 

D.:In passato desideravo ardentemente il Risveglio. Ora ho l’impressione che vorrei fare una pausa, ma non sembra funzionare.

K.: Se nessun’altra cosa ti può soddisfare tranne quello che sei, allora si accende una volontà incondizionata. Non è la tua volontà. Non è una volontà personale. E’ una dinamica totalmente impersonale che non deriva dalla tua storia personale e di cui non capisci la logica. Non sai più cosa succede. Una forza più grande prende il comando. E’ come un animale infuriato che ha la meglio su di te. Consciousness is a bitch. (La coscienza è una megera) Quello che può succedere di te, non puoi calcolarlo: è imprevedibile. Non segue nessuna condizione.

 

D.:Questo mi sembra poco rassicurante.

K.: Tu sei il mistero. Si parla di grazia quando quello che prima pareva addormentato si sveglia. Diventa consapevole di se stesso – e non ammette più nient’altro. Niente può più soddisfarti. C’è solo quello come obbiettivo. Tutto il resto diventa insipido, grigio e senza senso. Che cosa ci faccio ancora qui? Ecco la depressione. Arriva l’orrore.

 

D.: Arriva inevitabilmente la depressione?

K.:La depressione significa letteralmente: sopraggiunge una vacuità. Un vuoto. Questo è inevitabile. La depressione avviene quando emerge il vuoto in una persona. Quando nulla, nessuna forma, nessun essere umano, nessun pensiero può rendere felice. La vita diventa completamente senza senso. Si, questo appare sempre.

 

D.:Ed i sentimenti che l’accompagnano?

K.: I sentimenti sono vibrazioni e pensieri. Puoi chiamarli melanconia, lutto, depressione. Secondo una convenzione sociale si chiamano in tal modo. Ma sono in fondo solo vibrazioni. I sentimenti sono vibrazioni energetiche nel corpo. Energia che prende forma. Non hai bisogno di preoccupartene.

 

D.:Mi immaginavo il Risveglio come qualcosa di più piacevole

K.:Quando sopraggiunge la grazia, la maggioranza delle persone cerca di scappare. Non se la immaginavano così. Così misericordiosa e senza misericordia. Così inesorabile. Qualcosa che ti prende totalmente. Niente ti viene dato, e tutto ti viene tolto.

 

D.:E la vita non ha più senso?

K.: La mancanza di senso è allo stesso tempo la libertà da qualunque idea. Ogni speranza ed ogni significato che dai al mondo, lo crea e lo rende reale. E già sei dipendente dalla tua creazione e vorresti mungervi alcune gocce di felicità. Ora la tua creazione ti è rilanciata indietro, come l’elastico di una fionda teso a lungo e che finalmente si libera. La creazione scompare, nessun’idea, nessun senso, solo libertà.

 

D.:Mi spiace, ma questo mi terrorizza piuttosto!

K.: Quando U.G. Krishnamurti andò da Ramana gli chiese: “Non puoi darmi quello che sono?” Ramana rispose: “Subito, ma puoi tu prenderlo?” Infatti è sempre presente. In nessun momento non c’è. Ma questa leggerezza, questa insopportabilità dell’Essere, puoi sopportarla? Puoi accettare che non dipende da te decidere quello che è accettabile o non lo è? Sei pronto ad essere senza diversità? Di non più differenziare tra ciò che è piacevole e ciò che è spiacevole? Puoi accettare l’inaccettabile: l’eterno dolore della dualità come un aspetto della tua realizzazione? Puoi sopportare l’eternità? Essere così lontano da non poter mai raggiungere? Puoi, cosa che è infinita dualità, rimanere solitario?

 

D.:Aspettiamo e vedremo!

K.: Puoi sopportare la solitudine? O tutto quello che fai è per evitare la solitudine? Perché hai l’idea che non puoi esistere in solitudine ed hai bisogno di un altro, di un secondo per poter vivere? Oppure in questa solitudine non c’è più nessun altro, nemmeno tu in quanto unico? Già, chi può sopportarlo? Puoi sopportare il pensiero dell’assenza di pensieri? Oppure ti fa orrore?

 

D.:Mi fa orrore.

K.: Eppure non ti rimane che accettare tutto. E lo fai anche. Lo sei già. Sei l’accettazione della non-accettazione. Sei l’essenza dell’accettazione e della non-accettazione e quindi l’accettazione assoluta. Si descrive il risveglio per lo più come trasformazione da uno stato di identificazione ad uno stato di non-identificazione. Ma in entrambi c’è ancora qualcuno che si identifica, sia pure in uno stato di non-identificazione. Tu però sei il vuoto del vuoto. Il pieno del pieno. Sei in tutte le circostanze quello che sei. Tu non sei né la forma né il senza-forma. Sei prima di una qualsiasi di queste idee. Anche ciò che è coscienza senza forma non è quello che sei. Tu sei quello che è la coscienza, ma non sei la coscienza.

 

D.:Rinuncio.

K.:Chi potrebbe rinunciare?

 

 

 

 

 

Rassegnazione e incidente divino

 

 

D.:Giro in tondo. Ogni volta che penso: ecco finalmente ce l’ho fatta, sparisce di nuovo.

K.:Magnifico! E’ questo il bello: che nessuno possa averlo o capirlo. Tutto quello che puoi avere o capire è un oggetto e quindi fuggevole. Ma quello che sei, è incomprensibile. In questa rassegnazione all’idea di poterti mai capire o trovare un senso, ad un tratto c’è la perfezione. Ma solo se c’è una rassegnazione totale.  Ti sei fatto assegnare il tentativo di trovarti. Nella rassegnazione annulli di nuovo l’assegnazione. R-assegnazione. Fai dietrofront dall’idea di poterti mai trovare e ritorni allo stato paradisiaco della nescienza. A capofitto nella perfezione senza alcun desiderio di conoscerti.

 

D.:E’ una rinuncia totale?

K.: Risputi la mela che prima avevi ingoiato come idea. La mela della conoscenza significa: Tu vuoi conoscerti. In quel modo ti dividi da te stesso – in apparenza. Esci da te stesso per poterti conoscere. Quest’uscita ti separa da te stesso. Da te. Quindi soffri all’idea della separazione finché al momento della rassegnazione torni indietro in te stesso.

 

D.:E questo dovrebbe essere il paradiso?

K.:Il paradiso è quello che sei. Cioè quello che è p a r a (prima) di questo, prima dell’apparenza. Tu non sei più un’ombra. Tu sei ciò che è reale. Tu esci dall’apparenza della conoscenza – dato che tutto quello che puoi conoscere è apparente – e ritorni a quello che non è apparente. Questo è quanto avviene nel Tutto. E questo – senza saperlo -  è quello che è: completo.

 

D.:Ma questo non posso raggiungerlo – vi inciampo dentro una volta o l’altra?

K.:Si, in India lo chiamano “l’incidente divino” quando l’idea di un o sparisce. Divino, perché  sopraggiunge spontaneamente. Non hai nessun’influenza su di esso. Altrimenti dovresti imparare in fretta: come faccio a far accadere un incidente? Tutti gli insegnanti  vogliono spiegarti come puoi evitare l’incidente: attento! C’è un albero, passagli accanto. No, no, vacci contro! E crash! La collisione con l’infinito! Questo è l’incidente divino. L’ego scoppia!

 

D.:ma questo costa qualcosa tuttavia.

K.: Ti costa tutto. Per la maggioranza delle persone è troppo. Non sono pronte a pagare il prezzo. Costa te stesso. L’idea che esisti, che sei. Ti costa tutta l’esistenza.

 

D.:Allora non dovrei più cercare alcun riconoscimento?

K.: Non ci dovrebbe più esser qualcuno che pretende di essere apprezzato.

 

D.:Potrebbero sputarmi addosso o denigrarmi.

K.: Come? Qui non c’è più nessuno Chi se ne preoccupa?

 

D.:Ah!già. Ma come sento che non ci sono più?

K.:Dimentica il come ed il perché e il percome.  Dimentica il tempo. Tu esisti solo nel tempo. Dove non c’è più tempo, non ci sei nemmeno tu.

 

D.:Questo non posso immaginarmelo.

K.: E’ perché cerchi di immaginartelo che il tempo esiste.

 

D.:Quando ascolto questo: ti costa tutto, di te non rimane più nulla…no, il prezzo è troppo alto.

K.: Naturalmente! Non saresti mai pronto a pagare quel prezzo. E per questo è necessaria la grazia che ti prende come fossi il premio principale. Il Sé vince alla lotteria e ti prende come primo premio. Allora sei fuori. Tu sei un biglietto della lotteria. Un giorno o l’altro ti acchiappa. E allora sei libero da te stesso.

 

D.: Ma se io…

K.: No, non hai nessuna probabilità. Il Sé vince sempre!

 

 

 

 

 

Non è mai esistito qualcuno che fosse felice

 

D.:A volte ho l’impressione che c’è solo infelicità nel mondo.

K.: Chi ha quest’impressione?

 

D.:Io. Questo mi affligge.

K.:Sii quello che sei e allora ti andrà bene. Poiché nell’assenza di un Io non c’è nessuno a cui potrebbe andar male. Un uomo felice avrà sempre l’impulso di diventare infelice. La felicità relativa spinge sempre di  nuovo all’infelicità. Si, la felicità relativa del mondo è sinonimo d’infelicità. C’è solo infelicità nel mondo! Hai ragione.

 

D.:Questo è tutto fuorché consolante.

K.: Perciò Gesù non diceva mai: “Porto pace a more nel mondo.” Ma proprio il contrario:” Vi mostro che il mondo non può rendervi felici.” Non c’è pace in questo mondo. Ci sono solo infelici. Non c’è mai stata una persona felice in questo mondo.

 

D.:Smettila.

K.:Gli fu sempre chiesto perché quale figlio di Dio non avesse potuto regnare e portare eterna felicità, il paradiso sulla terra. “Non hai tu il potere divino?” La sua risposta era: “Lascia che i morti seppelliscano i morti.” Il mondo è morto. Chi si preoccupa di come esso si presenta? Lascia che i morti si occupino dei morti. IL mondo  solo un fenomeno, una tua idea, non più vivo di un sogno o di un incubo che consideri reale finché qualcuno ti pizzica un dito del piede. “Oh! Non era reale dopo tutto, quell’assalitore che m’inseguiva o quell’abisso in cui sono appena precipitato!” No, non era reale. Non è reale. Reale è quello che sei. E quello non ha bisogno di un altro sogno per essere felice. 

 

D.:Ma per ora sono un figlio del tempo e non posso negare…

K.: No, tu non sei figlio del tempo. Il tempo è figlio tuo! Tu sei la sorgente del tempo. Ogni mattina quando apri gli occhi crei il mondo. Il corpo si sveglia, non te. La veglia che tu sei è già lì da un pezzo e non ha mai dormito. Sii questa veglia. Tu lo sei in ogni modo. Tu sei quello che è prima dell’Io e del mondo. Ma tu credi alla tua mente. Sei affascinato dalla sua proiezione del mondo e subito vuoi migliorarla. Ed eccoti già infelice. Può solo migliorare.

 

D.:Come e quando?

K.:Tu hai un appuntamento con te stesso a cui non puoi mancare. Quando? Quando non crei il tempo. Come ? per il fatto che smetti di farlo. La felicità non sta nella proiezione di un mondo, ma molto più semplicemente in quello che tu stesso sei. Chiamala natura di Budda o di Cristo. E’ quello che sei. Tustesso seiil non-nato e immortale. La tua natura è beatitudine.

 

 

 

 

 

9. Immortalità

 

 

 

 

La dolorosa idea della vita

 

D.:Quando cominciai a meditare ci fu raccontato di avatar immortali nell’Himalaya…

K.:Si chia^mano anche yeti.

 

D.:No, no. Non ci sono yoghi che hanno raggiunto l’immortalità?

K.:Che cosa ci guadagneresti? E chi l’avrebbe guadagnato? Ciò che si chiama morte è soltanto un’ulteriore esperienza nell’infinità delle esperienze. Quando viene e come viene non ha importanza. Chi esperimenta è sempre l’esistenza. Ed essa non è toccata da questa esperienza.

 

D.:Bene per l’esistenza. Ma io penso piuttosto a me.

K.: Tu non esisti come essere separato. C’è solo un’idea di questo.

 

D.:Trovo l’idea piuttosto buona.

K.:L’esperienza della morte, l’esperienza della nascita e tutto quello che c’è nell’intervallo, sono esperienze proprie in una storia personale. Ma ogni storia personale è percepita dal Sé. In questa storia non c’è un essere personale che la viva e che l percepisca. Solo la consapevolezza è il percipiente in ogni istante. Quello che qui parla  e che qui ascolta non è separato.

 

D.:Il mio trisnonno non è dunque separato da me, ma qualcosa mi dice che lui è morto e che io sono vivo invece. 

K.: Bene, in questo momento è presente il pensiero di vita?

 

D.:Se vuoi spiegarlo così.

K.: Dov’è questo pensiero di vita quando sei nel sonno profondo?

 

D.:Allora non c’è naturalmente.

K.:Questa è morte. L’assenza dell’idea di vita. Questa è morte. Finito. Entrambe sono idee. Solo se c’è l’idea di vita, c’è anche l’idea di morte.

 

D.:Con questo sistema mi rimarrà ancora qualcosa?

K.:Rimane quello che sei. E questo rimane anche nel sonno profondo, nell’assenza di simili idee. Quello che ti appare tanto reale, è in realtà labile e fugace. Quello che sei tuttavia non può andare e venire. C’è in ogni circostanza. Il sonno profondo è”uno stato di vacuità nel quale nessuno percepisce più. Eppure quello che sei è altrettanto presente come adesso.

 

D.: Potrebbe darsi altrettanto bene che io sia morto e che creda…

K.: Si, potrebbe darsi. Posso solo assicurarti che vivere nell’idea di un Io è la vera morte. Morte per suicidio che significa letteralmente, uccisione di sé. Nel pensiero di un Io, nell’idea della separazione, quello che sei è morto.  Nel credere a questo pensiero esci dalla perfezione dell’essere, il tuo stato naturale e ti rechi verso uno stato innaturale, nella separazione.

 

D.:Eppure quest’idea dell’Io mi è preziosa e cara.

K.:Cara certamente perché ti costa molto. Perché è l’ignoranza della tua vera natura. Solo nel riconoscere che nulla che possa essere separato da qualcos’altro, la sofferenza può cessare. Perché in questa realizzazione non c’è più nessuno che possa soffrire. E nessun malato o qualcuno che possa sperimenti qualcosa. Tu sei prima di colui che sperimenta. Ma finché ti costringi ad essere un riflesso, rimani nell’esperienza del dolore.

 

D.:Ho capito bene? finché credo di esserci fa male?

K.: Finché ti senti separato dal dolore e lo vuoi evitare. Il solo fato di voler evitare qualcosa è dolore. Sii quello che è il dolore. Quello che è essere. Allora non è più dolore, allora è una vibrazione in te, un’esperienza di quello che sei. Tu sei l’essenza anche del dolore. Tu sei l’Essere nel quale emerge questo sentire doloroso. Sii questo e vedi quello che succede: c’è qualcuno che prova questo dolore? In quel momento il possessore è sparito. E tu non ne fai più una vicenda.

 

D.:Forse sono attaccato al dolore perché mi dà la sensazione che sono Io a vivere.

K.:Allora non vivi. La vera morte succede non appena credi che sei tu a vivere. Finché pensi di essere al mondo sei in uno stato di morte apparente.

 

D.:E perché ci sono sei miliardi di persone che credono di essere vivi e che il mondo esiste?

K.: Al contrario: finché tu pensi di esistere ci sono sei miliardi di persone.

 

D.:A che serve tutto questo?

K: Il Sé ha creato un esperimento scientifico: la coscienza che cerca se stessa. E ti ha messo in una provetta.

 

D.:Adesso si che ridiamo!

K.:Si, perché proprio adesso sta cercando il bruciatore Bunsen.

 

 

 

Come si muore in maniera giusta?

 

D.:Ha un significato come si muore? Se incoscienti o in maniera cosciente?

K.: No.

 

D.:Quasi tutte le religioni insegnano che è importante come si muore.

K.:Ah! Ne sai già qualcosa?

 

D.:Non io. Molti illuminati dicono che il punto di morte è rilevante.

K.:Per questo ci deve essere qualcuno di rilevante, qualcuno che vede un tale vivere e morire.

 

D.:Il punto di morte, dicono che è importante ed anche lo stato dello spirito.

K.:Vuoi mettere in questione Dio o l’Essere?

 

D.:Come prego?

K.:Vuoi dire che la coscienza è stupida e che non sa quello che fa?

 

D.:Non credo proprio alla stupidità di Dio…

K.: Dio sa quello che fa?

 

D.:Lo presumo, certo.

K.:Allora credi che dovremmo preoccuparci se un essere muore in questo o quel modo? O Dio lo sa forse meglio?

 

D.:Dio lo sa meglio; eppure è importante che facciamo qualcosa.

K.: Che miglioriamo il mondo?

 

D.:L’indifferenza non può essere la risposta.

K.:Uno che vuole migliorare il mondo non si pone forse al di fuori del tutto? Quale Dio separato?

 

D.:Tra un riformatore del mondo ed un uomo che vuole aiutare un altro , c’è pure una differenza.

K.:Forse non tanto grande. Se vuoi aiutare un altro, vuoi cambiare qualcosa che è in quel modo. Non dico che sia sbagliato. Ma finché c’è qualcuno che afferma che sia necessario un miglioramento e finché questo costituirà per lui una realtà, vivrà nella sofferenza. La pietà per un altro viene dalla nostra autocommiserazione.

 

D.:Parlo di compassione.

K.:Nessuno può parlare di compassione. Nella compassione tu non ci sei più.

 

D.:Ma gli altri si’.

K.:Nella compassione non ci sono nemmeno più gli altri.

 

D.:Santo cielo! La compassione si manifesta in  questo corpo! Ed esso vuol forse far qualcosa!

K.: La compassione è il tuo essere. La compassione non fa differenza tra fra buone o cattive esperienze.Non partecipa col sentimento ad esperienze dolorose o meno. Anche la sofferenza nella compassione è un esperienza di autoconoscenza. La sola qualità è l’appercezione – per cui il Sé conosce se stesso. E questo è sempre qui in ogni cosa. C’è solo compassione. Compassione del Sé per il fenomenale.

 

D.:Smettila! Smettila con questo bombardamento di connessioni logiche. Posso solo dirti che il modo in cui riesci a comunicare sta diventando troppo per me.

K.: Non voglio comunicare nulla. Deve solo diventare troppo.

 

D.:Ci sei riuscito con un dannato insieme di concetti intellettuali.

K.: Tu hai un concetto della compassione. Il concetto di una pietà personale. Io mi attengo a qualcos’altro: il principio del Sé.

 

D.:Si, si. Qui non si tratta di un torneo intellettuale! Si tratta anche di essere commossi. Non vuoi commuoverci?

K.:Non voglio commuovere nessuno.

 

D.:Se non sono commosso, mi frulla solo accanto.

K.:Deve proprio frullare accanto. Poiché allora è qualcos’altro che inizia ad ascoltare. Qui parla la consapevolezza e là ascolta la consapevolezza. E quello che pensa, l’idea-Io che non ce la fa a seguire, non m’interessa.. Non la vedo nemmeno. Non parlo con nessuna persona qui.

 

D.:Allora buon divertimento!

K.:L’unica cosa che può succedere è l’accettazione che tu abbia un concetto e che io abbia un concetto. L’accettazione porta tutto alla luce. La compassione, l’accettazione di tutta l’esistenza cosmica, crea le discussioni e le parole in cui la coscienza qui sta parlando e là sta ascoltando. E’ un flusso di energia. Non importa l’argomento di cui parliamo. Non importa neanche se si ottenga un risultato o si abbia una realizzazione.

 

D.: A me importa quanto succede in questo spazio senza parole. E tutto quello che osservo è che riempi questo spazio di parole.

K.:Suona bene.

 

D.:Parli in fretta ed utilizzi determinati concetti e colleghi tra loro varie rappresentazioni.Devo prima provare un sentimento di quello che vuoi trasmetterci. Il mio intelletto deve prima coincidere con quanto affermi. Non è forse importante quello che succede qui? Questa è l’unica cosa importante.

K.: Chi dice  ora che cos’è importante?

 

D.:Io.

K.:Chi Io?

 

D.:Santo cielo!Volevo solo sapere come si muore e se ci si può fare qualcosa.

K.: Non ti accorgi come si muore?

 

D.:Osservo solo una demolizione.

K.:E puoi farci qualcosa?

 

D.:Non lo so più.

K.:Bene.

 

D.:Si, molto bene.

K.:Ecco perché mi chiamano “Carlo il demolitore”(gioco di parole:Kahlschlag in ted.=demolizione)

 

 

 

 

Si vive più a lungo se siamo illuminati?

 

D.:Puoi descrivere cos’è l’illuminazione?

K.:Possiamo solo parlare di quello che è accessibile al pensiero e alla lingua parlata. Dell’Assoluto possiamo solo dare l’indicazione che esso è aldilà di ogni definizione.Il Tao di cui si può parlare non è il Tao. L’ultima possibilità è che si possa essere consapevoli del proprio essere assoluto. E in questa consapevolezza dell’Assoluto non c’è più dualità.

 

D.:E questo è il tuo sentimento di vita?

K.: Questo è il sentimento assoluto della vita, non è relativo.

 

D.:Allora hai questo sentimento assoluto della vita?

K.:nessuno può averlo.

 

D.:Peccato.

K.:E’ la tua natura. Non hai da far nulla di proposito. Qui ed ora sei perfetto. Solo che l’attenzione ora è diretta verso qualcosa di fuggevole. Poiché tu lo prendi per reale, il transitorio diventa per te reale. Se tu rivolgessi l’attenzione alla cosa giusta, che è sempre presente, la tua realtà sarebbe l’Assoluto. Sarebbe l’unica cosa vivente. E in fondo è l’unica cosa che vive! Se rivolgi l’attenzione a quello che è permanente, riconosci nel mondo quello che sei – ma tu non fai più parte del mondo. Riconosci nel corpo quello che sei – ma non sei più il corpo.

 

D.:Deve essere una sensazione strana.

K.:Il mio corpo non è di questo mondo, disse qualcuno circa duemila anni fa. Questo non significa: il regno è lassù e se agite giustamente ci arriverete pure voi un giorno. Significa invece: il mio regno non ha niente a che fare con rappresentazioni. Non con quello che credi di vedere. L’Assoluto è la mia natura, in qualunque stato io sembri apparire in questo mondo.

 

 

D.:Qualunque cosa accada.

K.:Che io penzoli da una croce o che esca con Maria Maddalena: sono tutte circostanze, apparizioni. Non ha niente a che fare con ciò che sono. Gesù dice persino: “Sono quello che è il Padre, ma non sono il Padre. Sono quello che è Dio, ma non sono Dio. Significa che è l’essenza di Dio. Egli è quello che è il sapere, senza che egli sappia niente. Questo è sapere assoluto: essere ciò che è il sapere senza che ci sia qualcuno che sappia o debba sapere. Non c’è nessuno che si preoccupi se è vivo o morto. L’assenza di qualunque idea che tu esista o meno è l’indicazione dell’essenza.

 

D.:Mi viene il capogiro. Appartiene a questo mio senso di essere in vita che qualunque cosa ci capiti è indifferente?

K.: Non rimane più nessuno a cui capiti qualcosa. Nella fugacità di un mondo di ombre, c’è una coscienza che si comporta in modo attivo o reattivo. Ma tu non fai parte dell’ombra, ma sempre prima dell’ombra, sempre prima dei fenomeni.. In realtà nulla si muove, c’è solo pura tranquillità.

 

D.:Ma qui ci muoviamo e parliamo. Dopo tutto sembra esserci ancora un Io che prende parte o che fa finta.

K.:L’Io continua a comportarsi come prima. Lì non c’è differenza.

 

D.:Ma ciò che succede gli diventa indifferente?

K.: Per il Carletto non è indifferente. Carletto ha intenzioni e vuole questo o quello. L’unica cosa è una completa accettazione se riesca ad ottenerla o meno. Se dovesse morire l’attimo dopo, non ha importanza. Come ogni notte  c’è una simile atmosfera, quando va a dormire: “Se per caso non dovessi rivederti, è stato bello incontrarti!” E ogni mattina verso le otto: “Ah! Ancora tu!”

 

D.:E se dovesse capitare qualcosa di spiacevole?

K.:Succede solo quello che sei. E se qualcosa ti ammazza, sei solo tu ad ammazzarti. Così niente è ucciso. Se il corpo muore è ucciso dalla coscienza che recita il ruolo di questo corpo. L’apparenza di questo corpo può sparire, ma quello che sei – l’esistenza immortale – non ha perso nulla.

 

 

 

 

 

Immortalità

 

 

D.:La morte rappresenta la fine?

K.: Si. E’ la fine del corpo, della mente e dell’anima. Soprattutto la fine di quello che hai sempre creduto di possedere. Credevi che questo o quello ti apparteneva e anche se non qualcosa di materiale, per lo meno un tratto di carattere. O almeno una vibrazione dell’anima. O l’anima stessa. No,non rimane niente di tutto questo. Muore colui che possedeva un’auto, una casa, un giardino, dei figli, una famiglia, un corpo, dei sentimenti,uno spirito ed un’anima. Muore colui che possedeva esperienze e una storia personale. Finito. Terminal. E poi c’è qualcosa come il punto zero. E in questo punto zero c’è libertà. E da questa libertà guardi dentro in quello che sei. Allora succede quello che succede e tutto va bene come succede. Questa à la chiarezza finale che nulla ti appartiene. Questa è libertà.

 

D.:E questa liberta sopraggiunge solo in punto di morte?

K.:In ogni momento dovresti morire o per lo meno essere in faccia alla morte, in faccia alla tua mortalità. Tutto quello che incontri è mortale. Tutto quello che possiedi  o sperimenti è mortale. Tutto quello che vuoi tenere stretto è fuggitivo. Tutto quello che ottieni lo perderai. Anche l’idea di te stesso perderai. L’idea di un Io. Davanti alla mortalità sparisce l’idea di possesso. Il mio corpo, la mia vita, il mio karma, la mia storia – svanito. Davanti alla mortalità sparisce ogni “mio”. Sparisce il possessore, eppure sei totalmente quello che sei. Sei totalmente qui qualunque cosa tu sia.

 

D.:Come che cosa?Che cosa di me è ancora assolutamente qui?

K.:Ciò che è prima del possessore. Questo sei tu. Tu sei prima dell’idea di possessore e di transitorietà. Quello che sei non è toccato da cose fugaci. Non è toccato dall’idea che hai posseduto o possa possedere qualcosa. Questo si rivela essere solo un’idea. In realtà sei sempre libero. In realtà sei sempre nel qui e adesso ove non esiste storia personale. Quindi non c’è nessuno che sia nato e che possa morire. Al più tardi la morte ti poterà questa realizzazione. Ecco perché è liberatoria.

 

D.:Ho sempre sperimentato questo quando qualcuno moriva: un senso di leggerezza.

K.: Tutto perde il proprio peso. Non c’è più nulla da portare. Non c’è nessuno che possa potare qualcosa. Lascia morire quello che deve morire e osserva quello che sei. Quando hai già la tua pietra tombale davanti agli occhi, che cosa può esserci ancora qui? Se il tuo nome è già sepolto, se la tua forma, il tuo corpo, le tue idee sono già sotto terra, cosa c’è ancora? Cosa esiste adesso? E’ forse possibile che vivi già al cimitero e pensi di essere ancora vivo? Può darsi che tutto quello che vedi è già morto? Perché tutto quello che sperimenti muore al momento stesso in cui è nato? Tutto ciò che va e viene è morto. L’unica cosa che è viva sei tu.

 

D.:Questo non mi aiuta. Mio padre sta morendo. Presto svuoteremo l’appartamento. I suoi libri, le sue lettere i suoi sogni, butteremo tutto in un container.

K.:Tutte le idee connesse alla vita sono soffiate via al cospetto del vuoto.

 

D.:Si, rimane il vuoto ma non è una consolazione!

K.: Il vuoto significa l’essenza di un Io. Eppure c’è qualcosa di perfettamente presente in questo vuoto. Tu sei quello e tuo padre è quello che è, perfetto anche nel vuoto. Il vuoto significa assenza di qualcos’altro che non sia tu. Tu sei. Indescrivibile, indefinibile, incomprensibile eppure perfettamente qui in questo vuoto.  E non influenzato da questo vuoto! La morte è solo una circostanza. Non può né toccare, né influenzare, né cambiare quello che sei, quello che è tuo padre.

 

D.:Ero presente al momento della morte di alcune persone, ma non era un passaggio che avveniva nella gioia, c’era molta angoscia.

K.: E’ molto naturale. Colui che crede di morire ha paura. Dietro c’è l’istinto di sopravvivenza. Non è affatto sbagliato. Ma al momento della morte se non c’è più lotta, c’è solo chiarezza. Non c’è più lotta, non c’è più angoscia. C’è solo assenza di forma e tutto è chiaro. Fino a quel momento c’erano tutte le possibilità di lotta, di angoscia e di resistenza. Ma  quando c’è l’Ultimo, il Finale, non c’è più nessuno che possa combattere. C’è solo vuoto. La consapevolezza ora presente che pareva celata, è svuotata da desideri, idee, rappresentazioni. E’ vuota. Eppure in questo vacuità c’è l’essere pieno, totalmente chiaro e completo.

 

D.:L’Essere rimane, ma io sono morto.

K.:Che cosa è vivo d’altronde? La vita è forse ciò che è mortale, assoggettata alla morte? La forma è vita? O la forma è solo un riflesso? Tutto quello che può morire è già morto prima. Non ha mai vissuto e quindi non può morire. Al momento della morte non c’è nulla che possa morire. Quello che sei è puro Essere. E’ qui ed ora, l’unica cosa che è. E anche in punto di morte l’unica cosa che è.

 

D.:Si, l’Essere! Ma purtroppo non lo sono!

K.: Anche se dici :”Non lo sono” non fa niente. Non ti diminuisce. Tu sei nonostante questo, completamente quello che sei. Tu sei ciò che non ha bisogno di testimonianze. L’ “Io” rende sempre necessarie le prove. Cerca in tutti i modi di mantenere attiva la domanda di un senso. Senza la domanda sul senso sarebbe spacciato. E alla fine sarà spacciato sul serio: la morte lo rende irrilevante. Nella morte tutte le domande di perché, in che modo e a che scopo, spariscono all’istante. Di fronte a questo vuoto e assenza di tempo, tutte le domande diventano superflue, l’Io diventa superfluo.

 

D.:Si, esatto: è quello che mi fa paura.

K.:La morte è la gran consigliera perché ti mette a confronto con la tua mortalità. Almeno con la mortalità del corpo, della mente e dell’anima. Rappresenta la fine di tutto quello che credevi di essere. Davanti alla morte metterai in dubbio il tuo concetto. Il concetto di quello che credi di essere. Ti consiglio di mettere in dubbio adesso questo concetto.

 

D.:E’ quello che sto facendo.

K.:Se la morte non ti può toccare, chi muore? E che cos’era nato? E se la morte non ti può toccare – quello che sei è forse nato?

 

D.:Finora lo supponevo.

K.:Le idee di nascita e di morte sono pensieri fuggevoli nel mondo delle tue esperienze. Tu sei ciò che è eternamente intoccabile. Che mai è avvenuto e mai sparirà. Tutto quello che viene e va è solo un’ombra fuggevole di Quello.

 

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