Introduzione alle Upanishad (Carlo della Casa)

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"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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Introduzione alle Upanishad (Carlo della Casa)


Le Upanisad sono trattati di varia estensione, di varia epoca e di varia forma, alcune in prosa, altre versificate, altre ancora miste di prosa e di strofe, son dedicate alla contemplazione o all'illustrazione delle verità supreme e son dirette a rispondere alle domande pressanti dell'individuo, che si chiede quali siano l'origine e il destino dell'uomo, quale ragione regga le varie vicende dell'esistenza, quale sia il fondamento ultimo dell'universo e della vita.

Trattati di questo tipo e di questo nome furono nell'India sempre composti per le esigenze di sette diverse 1. Ma le Upanisad veramente importanti e tipiche sono poco più d'una dozzina, sono denominate Upanisad antiche e medie oppure vediche, appartengono alle varie scuole che si rifanno alle Samhita vediche e quindi fanno parte della rivelazione, e risalgono a un periodo compreso, con tutta probabilità, tra il 700 e il 300 a. C.

Il termine, nell'interpretazione che per lungo tempo ha goduto maggior fortuna e che s'attiene al significato più evidente (upa-nisad = sedersi vicino) sembra alludere al carattere esoterico dell'insegnamento, partecipato dal maestro al discepolo che, convenientemente preparato e disposto, appunto vicino sedeva 2.


E veramente assai spesso nelle Upanisad s'afferma che l'insegnamento deve essere tenuto segreto e comunicato soltanto a chi è iniziato, sia per l'audacia innovatrice dell'insegnamento stesso, sia per la difficoltà di essere compreso da orecchio impreparato. Ma è veramente innovatore questo insegnamento? Non tutto naturalmente è detto nelle Upanisad in contrapposizione con quanto prima era stato affermato, spesso non v'è distacco dalle osservazioni e dalle speculazioni precedenti, talvolta non è visibile differenza di forma, contenuto, atteggiamento fra alcuni testi accolti nelle Upanisad e testi appartenenti a raccolte anteriori.

Chi consideri tuttavia la dottrina monistico-idealistica in cui sembra culminare il pensiero upanishadico, chi osservi il rivolgimento portato nella concezione della vita dal dogma del ciclo delle esistenze, che proprio nelle Upanisad s'afferma per non più abbandonare il suolo dell'India, chi valuti nella giusta misura la difficoltà di staccarsi dalla concezione mitica dell'universo e dal dominio più o meno esclusivo del rito e della magia per guardare con occhio spassionatamente limpido ai fatti della vita e della morte, dovrà riconoscere che nelle Upanisad, al di là degli innegabili apriorismi e delle sopravvivenze del passato, lo spirito umano ha lasciato una documentazione notevolissima d'un travaglio spirituale che cerca, propone e ancor dubita delle soluzioni proposte, che accetta e combina spregiudicatamente elementi e nozioni di varia origine, che per rappresentare la complessità dell'inconoscibile non esita ad ammettere contraddizioni e contrasti. E la validità non già delle risposte date, ma dell'atteggiamento assunto, è dimostrata dal fatto che la storia del pensiero indiano è incomprensibile ove si trascuri il periodo delle Upanisad antiche e medie.


"La maggior parte degli studiosi delle Upanisad vediche considera più antiche, nell'ordine, la Brhadàranyaka Up., la Chandogya Up., la Taittiriya Up., l'Aitareya Up., la Kausitaki Up., la Kena Up., le quali sono tutte in prosa con qualche strofa lirica o gnomica. Segue un gruppo di testi in forma quasi totalmente metrica (Isa Up., Katha Up., Mundaka Up., Prasna Up., Svetasvatara Up.); quindi vengono, di poco più tarde, la Màndukya Up., la Maitrayaniya Up. e la Mahanarayana Up. Lo studio della lingua, la considerazione della forma e del contenuto hanno permesso di stabilire questo ordine cronologico, che è soggetto comunque a dubbi e controversie anche per le varie rielaborazioni a cui il materiale raccolto sembra sia andato soggetto. Mentre è probabile che i testi confluiti nelle Upanisad del primo gruppo siano prebuddhistici e in ogni caso non posteriori alla predicazione del Buddha (ca. 500 a. C.)
3, per le Upanisad medie si dovrà scendere di qualche secolo, rimanendo comunque sempre prima dell'inizio della nostra era. Più recenti invece le Upanisad cosiddette del Yoga e quelle settarie, di cui si parlerà in seguito. Ancora va ricordato che le singole Upanisad non sono attribuite a un autore determinato, ma in esse compaiono nomi di sapienti o di maestri che figurano depositari d'un sapere che, spesso a malincuore, acconsentono a rivelare. E in verità le Upanisad, specialmente le più antiche, non sono opere organiche che rivelino la mano d'un unico autore, ma sono piuttosto collezioni di brani giustapposti, ossia raccolte di tutto quanto fu ritenuto degno d'essere conservato, come testimonianza del travaglio spirituale di generazioni di ricercatori."

"La prosa delle Upanisad più antiche è assai vicina, per lingua e stile, a quella dei Brahmana, in cui esse sono state incorporate; le Upanisad metriche presentano schemi prosodici abbastanza semplici e sono inclini a riassumere in brevi frasi dogmatiche i risultati, considerati ormai acquisiti, delle ricerche compiute; nelle Upanisad del terzo gruppo la dizione è molto più elaborata e assai vicina a quella del sanscrito classico. Frequenti sono i dialoghi, che permettono di rappresentare con vivacità le diverse posizioni dottrinali e il carattere degli interlocutori; spesso assai ardui sono i passaggi dall'uno all'altro argomento, non di rado motivati dal ricorrere d'un numero, d'un vocabolo, d'una frase che richiamano, per analogia o per antifrasi, altri concetti; assolutamente spregiudicato l'uso di aforismi, enigmi, similitudini, che devono introdurre il discente alle ultime verità, al superamento del rito per raggiungere quello che acutamente è stato definito il piano del ""metaritualismo""."

"I dati geografici tratti dagli stessi testi permettono di localizzare le Upanisad vediche nella parte orientale del Doab gangetico e nella regione posta tra esso e il Bihar, che fu il centro spirituale dell'India al tempo del Buddha. La regione apparisce divisa in stati piuttosto limitati, dove la piazza del villaggio è il luogo dell'assemblea, la ricchezza è costituita da armenti e greggi e i premi ai vincitori sono vacche e modeste quantità d'oro. La vita contadina raffigurata nelle Upanisad è in netto contrasto con la cultura cittadina documentata nelle opere del canone buddhistico, che rappresenterebbe quindi una realtà sicuramente posteriore; ma può essere che le Upanisad abbiano mantenuto una visione tradizionale della vita, conservatasi nella letteratura ma non più attuale 4."

L'ambiente sociale delle upanisad è assai vario: come interlocutori compaiono brahmani, ma anche guerrieri, servi e figli di servi e persino donne, che sono interessate a problemi teologici, mentre in seguito è noto che saranno poste in una condizione di minorità che continuerà fin quasi al nostro secolo. L'ordinamento castale non separa ancora nettamente la popolazione secondo la nascita: l'umiltà dell'origine non impedisce infatti a Satyakama, figlio d'una serva e di padre ignoto, di accedere allo studio e alla discussione (Ch. Up., 4, 4), mentre in seguito la lettura dei Veda sarà riservata, secondo la legge, soltanto ai membri delle tre caste più alte.
Di frequente guerrieri e principi non sono soltanto ansiosi di discussione, ma sono in possesso, e la stessa cosa succede in testi brahmanici precedenti, d'una scienza che ai sacerdoti è sconosciuta 5, sicché sono i brahmani a prendere la legna per il fuoco, simbolo dell'alunnato e della completa soggezione al maestro, e a recarsi alla scuola del guerriero o del principe.

Ciò ha indotto alcuni studiosi a ritenere che le dottrine prevalenti nelle Upanisad, in particolare la dottrina dell'unica realtà dell'Atman-Brahman e il dogma della trasmigrazione delle anime, siano sorte, in opposizione alle concezioni ritualistiche propugnate dagli esponenti della religione per così dire ufficiale, per opera di rappresentanti di correnti razionalistiche laiche, che ora soltanto avrebbero potuto sottrarsi all'egemonia d'un potere sacerdotale estremamente oppressivo, gretto e geloso dei propri privilegi 6. In effetti l'atmosfera dominante nelle Upanisad è di superamento della presunzione d'onnipotenza attribuita alla pratica sacrificale, che nelle Upanisad vediche non viene ripudiata, ma è considerata inferiore e limitata di fronte alla conoscenza, e il monismo in esse affermato è in netto contrasto con il pluralismo e il politeismo vedici.
"È anche vero tuttavia che dubbi sul potere e sull'esistenza degli dei, esitazioni sul valore del sacrificio o di certe sue forme e la tendenza a interpretare simbolicamente il sacrificio, alle complesse pratiche rituali sostituendo la meditazione o il compimento di atti della vita comune, sempre ce ne furono e non necessariamente al di fuori della casta brahmanica, che comunque accolse l'espressione di quei dubbi e di quelle incertezze nelle sue raccolte sacre; ed è ancor più vero che è il brahmano Yajnavalkya il più convinto e convincente assertore del monismo idealistico e che la redazione giuntaci delle Upanisad si rivela con assoluta certezza proveniente da mano sacerdotale. Se opposizione ci fu, essa fu rivolta contro la parte più retriva del sacerdozio e le Upanisad, ripetiamo nella"
"redazione in cui ci sono pervenute, testimoniano ormai il superamento di contrasti e conflitti. La conclusione che ci sembra più vicina al vero è che alla formulazione delle dottrine più caratteristiche abbiano partecipato in misura notevole appartenenti ad altre caste, perché non è pensabile che i brahmani, estensori dei testi, abbiano spinto l'ossequio per la classe depositaria del potere politico ed economico fino a inventare una situazione del tutto fantastica; ma ben presto quelle dottrine furono accettate e fatte proprie dai brahmani, che in esse finirono per vedere la continuazione e la conclusione di meditazioni che non sentivano affatto estranee alla propria tradizione e alla propria forma mentis. E infatti Vedanta furono dalla tradizione indiana chiamate le Upanisad vediche, ossia ""conclusione del Veda"", sia nel senso di parte finale di tutta la rivelazione, sia nel senso di parte ultima, e più complessa, dell'insegnamento impartito al discepolo, sia nel senso di culmine dell'intero pensiero vedico, stabilito in questa forma e affidato alla posterità."

Formalmente le Upanisad appariscono come l'appendice dei testi di epoca precedente: e anche qui si sorprende una delle caratteristiche più evidenti della civiltà letteraria e religiosa dell'India, voglio dire quella fedeltà almeno formale alla parola del passato che giustifica il proliferare di commenti e supercommenti, nei quali con interpretazioni non raramente forzate si cerca di trovare nella tradizione lo spunto per nuove concezioni e nuovi atteggiamenti.

"Lo sviluppo del culto e della pratica sacrificale nei più antichi tempi vedici aveva portato alla formazione di tre distinti manuali, il Rgveda, il Yajurveda, il Samaveda, contenenti gli inni, le formule sacre, i canti melodici per i tre preti principali attori del sacrificio (rispettivamente hotar, adhvaryu, udgatar). A queste tre raccolte, che costituivano la ""triplice scienza"" religiosa, fu in seguito aggiunto come quarto l'Atharvaveda, ""Veda dell'atharvan o sacerdote del fuoco"", la cui sacertà fu a lungo discussa, poiché s'occupava per buona parte di scongiuri e di esorcismi di magia bianca e nera per scopi quasi sempre del tutto privati. L'Atharvaveda fu considerato il manuale del quarto sacerdote o brahmàn, che sorvegliava l'andamento del sacrificio e interveniva, grazie alla superiore conoscenza che possedeva della ""formulazione"" della verità, pronunciando mentalmente o espressamente le preghiere e gli scongiuri adatti per liberare il sacrificio dai difetti eventualmente riscontrati".

"Quando il sacrificio assunse funzione di operazione magica, valida di per sé purché fosse ritualmente perfetta, capace di costringere la volontà degli stessi dei e quindi fulcro della vita dell'uomo e del cosmo, ad ognuna di quelle raccolte s'aggiunsero degli imponenti trattati liturgici, i cosiddetti Brahmana, o libri riferentisi al Brahman, ossia alla ""formulazione"", delle verità eterne, diretti a illustrare il sacrificio, le cui operazioni materiali venivano date per conosciute, mentre ampio spazio veniva dato al racconto dell'origine del rito, all'affermazione della sua efficacia, all'interpretazione degli strumenti usati nel sacrificio e all'identificazione di essi con le varie parti del cosmo. Il sacrificio era infatti considerato rappresentazione simbolica dell'universo e quindi, secondo i principi della magia per identificazione, dominando gli strumenti del sacrificio s'otteneva il dominio sul fenomeno cosmico identificato con lo strumento."

"Ai Brahmana, testi farraginosi e pletorici, ricchi di assurdità rituali e di elucubrazioni etimologiche, fanno seguito gli Aranyaka, ""testi silvestri "", ossia da recitarsi e da insegnarsi nella foresta, in un isolamento dovuto alla pericolosità magica delle azioni e dei riti in essi raccomandati. In questi si ritrova la convinzione che fili misteriosi colleghino tutte le apparizioni in una solidarietà che abbraccia l'intero universo, fisico e morale, e che risiede in ultima analisi sulla fede che a tutti i fenomeni sottenda una realtà unica che si manifesta in una poliedrica visibile varietà di oggetti ovvero di nomi, poiché nome e oggetto sono tutt'uno e la relazione stabilita tra i nomi sottintende la stessa relazione tra gli oggetti. Per colui che ""così sa "", ossia per colui che ravvisa queste misteriose correlazioni, che conosce l'intima essenza d'un atto o d'un rito, sarà indifferente compiere quell'atto o quel rito oppure uno sostitutivo: in altre parole potrà raggiungere per via di successive identificazioni ciò che è lontano e invisibile per mezzo di ciò che è vicino e tangibile e l'adempimento di funzioni naturali, come il respirare o il mangiare, sarà considerato equivalente al sacrificio più solenne."

Questi stessi atteggiamenti si continuano nella Upanisad, che sono le parti ultime e più propriamente filosofiche dei trattati liturgici testé citati, staccate dal contesto, in maniera tuttavia avventurosa e arbitraria, cosicché il taglio non è netto e molti testi importanti dal punto di vista filosofico sono rimasti nei Brahmana e negli Aranyaka e viceversa elucubrazioni ritualistiche e magiche sono incorporate nelle Upanisad. L'appartenenza dei singoli testi a questa o quella raccolta vedica non incide se non per questioni di dettaglio (come ad esempio nella Chandogya Up., che appartiene al Samaveda, l'attenzione rivolta al saman, ossia alla melodia, piuttosto che all'inno sacrificale) ed è quindi parso opportuno seguire un ordinamento cronologico, per incerto che possa essere, piuttosto che la divisione liturgica.

"L'affermazione dell'unicità dell'origine e della sostanziale medesimezza delle manifestazioni empiriche non è soggetta nelle Upanisad al minimo dubbio, mentre il metodo delle identificazioni è tanto comune che qualche studioso, come si è detto, interpreta il termine Upanisad come ""equivalenza"". Ma se la fede nell'unità dell'Essere, che si configura come il modello immobile e la meta suprema, è veramente la caratteristica più evidente delle Upanisad (anzi in Ch. Up., 7, 4, 1, sembra che il concetto d'esistenza sia inscindibile da quello d'unità), la forza delle apparenze concrete ha pure il suo peso. Da questo complesso di sentimenti ci sembra che traggano origine alcuni dei tratti più tipici delle Upanisad: e vogliamo dire la dedizione e l'entusiasmo nella ricerca (così ben rappresentati nell'episodio di Naciketas) e nella contemplazione di quell'Uno che sta oltre il velame delle apparenze, ma anche il riconoscimento dell'impossibilità di raggiungerlo con mezzi umani, cosicché per avere un lampo d'intelligibilità (un lampo soltanto, ché altro si sa di non poter pretendere) s'ammetteranno tutte le vie, dalla rinuncia al rito, dall'illuminazione mistica e dalla grazia sovrannaturale alla moralità comune, e si tenteranno tutti gli espedienti, dalle affermazioni che soltanto nella ripetizione trovano la loro forza, ai paragoni più suggestivi che persuasivi, dalle indagini sugli elementi del culto e sui nomi alle osservazioni naturalistiche, al tentativo di far della scienza, alle pseudo dimostrazioni, convinti d'altra parte che tutta la realtà visibile ha una sua dignità in quanto rispecchia in qualche modo la sublimità di quell'Uno di cui essa è la manifestazione."
"La fortuna delle Upanisad nell'India è testimoniata dai numerosi commenti che ad esse furono dedicati (Gaudapada, VIII sec.?, Sankara, IX sec., Madhva, XIII sec., Sankarananda, XIV sec., Narayana, XIV sec., Rangaramanuja, XVI sec., Bhaskararaya, XVIII sec., Aurobindo Ghosh, XX sec.). Inoltre esse furono il punto di partenza delle costruzioni filosofiche posteriori, che, pur allontanandosi dal pensiero o meglio dai pensieri delle Upanisad, di queste si sono servite per trovarvi la conferma delle proprie affermazioni. È ovvio che in questi casi il testo è sottoposto a interpretazioni forzate: anzi si giunge a tali punti (ma l'interpretazione è quasi sempre giustificata con il ricorso a sottigliezze tecniche veramente mirabolanti, consentite anche dalla particolare struttura dei composti sanscriti e dalla scrittura stessa in devanagari) che a stento si crederebbe che i commentatori abbiano avuto sott'occhio lo stesso testo. Del resto l'abitudine di rifarsi al passato nell'India è almeno tanto antica quanto le Upanisad medesime, che dai Veda traggono strofe isolate e fuor del contesto le interpretano piuttosto liberamente, e non si limita soltanto all'ambiente brahmanico. Citeremo a mo' d'esempio i casi dei già citati Sankara e Madhva e di Ramanuja (XI-XII sec.), tutti e tre appartenenti al Vedanta (propriamente Vedantamimamsa, ""indagine sulla parte finale dei Veda""), ossia di quel sistema filosofico che si vanta d'essere l'erede autentico del pensiero upanisadico, di cui accentua e sviluppa determinati aspetti. Sankara commentò undici Upanisad 6bis, in esse vedendo il sostegno alla propria dottrina dell'idealismo monistico assoluto, per cui soltanto lo spirito esiste, essendo il mondo l'obiettivazione illusoria dello spirito, la corda creduta serpente da chi è immerso nelle tenebre dell'ignoranza (ma nelle Upanisad antiche il mondo è ben reale e la pluralità fenomenica, una volta prodottasi dall'unità originaria, vive per così dire di vita propria). Ramanuja invece nelle più recenti tra le Upanisad vediche ritrovava soprattutto il seme della bhakti, ossia della devozione fidente in un dio personale, Narayana-Visnu, del quale sono modi o forme le anime individuali e la materia, che?"
"inscindibili dal dio ma distinte da lui, costituiscono dunque una triplice unità in una costruzione religioso-filosofica che fu definita visistadvaita, ""monismo differenziato "", o, forse meglio, ""non dualità del [l'Uno che pur è] ricco di attributi o di qualificazioni ''. Madhva infine, con interpretazioni d'un'artificiosità e d'una faziosità straordinarie, nelle Upanisad vedeva, in netta polemica con le altre forme di Vedanta, l'affermazione d'un vero dualismo: da una parte il Brahman supremo, che si configura nella persona di Hari-Visnu, dall'altra le anime individuali e la materia. Queste son completamente dipendenti dall'arbitrio di Visnu, che è quindi l'unica causa efficiente del divenire e dell'ordine cosmico, ma la differenza tra i due principi permane invalicabile ed eterna."

"Ancor in epoca contemporanea le Upanisad sono state e sono fonte d'ispirazione per poeti e pensatori: secondo Ram Mohan Ray (1772-1833), il ""padre della nuova India"", il primo dei riformatori indiani dell'epoca moderna, la base d'ogni religione è il puro monoteismo che gli sembrava il succo del pensiero upanisadico; Tagore (1861-1941) nelle Upanisad ritrovava la dottrina dell'armonia della natura, Aurobindo Ghosh (1872-1950) e Sarvepalli Radhakrishnan (1888-1975) le pongono a fondamento delle loro costruzioni filosofiche, dirette alla ricerca e all'esaltazione d'un equilibrio universale che si giustifica in ultima analisi per la divinità dell'esistente."

"In Europa le Upanisad furono dapprima conosciute nella traduzione latina di Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron (Oupnek'hat, i.e. secretum tegendam, Strasburgo, 1801-02), eseguita sulla traduzione persiana di cinquanta Upanisad, che nel 1657, poco prima d'essere giustiziato per ordine del fratello Aurangzeb, fece compiere il principe moghul Dara Shukoh, studioso delle religioni indiane e desideroso di giungere, sull'esempio dell'avo Akbar, a un sincretismo che ponesse fine alle lotte religiose tra Indù e Musulmani che dilaniavano il suo impero. Dall'Oupnek'hat vennero a conoscenza di Arthur Schopenhauer quelle ""concezioni quasi sovrumane"" nelle quali a suo giudizio si compendiava la saggezza primeva dell'umanità; ed è noto il suo elogio di quella ""lettura più d'ogni altra al mondo fruttuosa ed edificante"", che, come era stata il conforto della sua vita, sarebbe stata la consolazione della sua morte (Parerga und Paralipomena, II, par. 184). Schopenhauer,"
con atteggiamento tipicamente romantico che doveva persistere nella cultura, o meglio nel sentimento comune, per decenni, trasfigurava l'immagine dell'India e al suo entusiastico apprezzamento ben pochi davvero saprebbero unirsi. Le Upanisad rimangono tuttavia un momento culminante del pensiero indiano antico e come tali son sempre state l'oggetto di studi approfonditi da parte dei maggiori indologi d'ogni tempo.
Tema preferito delle Upanisad antiche e medie è la contemplazione dell'identità fra Brahman e Atman, ossia dell'identità fra ciò che è infinitamente grande e ciò che è infinitamente piccolo, fra il principio dell'universo, che a questo dà vita e fornisce la base, e il proprio sé, che è quello cui si giunge dopo aver spogliato la propria individualità di tutto quanto di transeunte, provvisorio, accidentale è legato a essa.

L'origine dei due vocaboli, Brahman e Atman, è nettamente distinta e nettamente distinti furono anche i modi e gli oggetti della speculazione.

"Brahman è parola della speculazione sacerdotale, che proprio nella fortuna della parola rivela la sua importanza 7. Abbiamo visto come il sacrificio fosse considerato l'immagine e il centro dell'universo; ma la parte essenziale del sacrificio è la parola sacro-magica"
"e la "" formulazione "" di essa è il Brahman. Quindi il Brahman è la forza sovrannaturale e misteriosa della parola magica: per esso il sacrificio è efficace, il brahmano ha il suo potere, i Veda hanno la loro onnipotenza; esso è la forza che è il fondamento di tutto l'esistente, che dà il potere agli stessi dei, che è difesa contro i mali, che è la fonte immortale di tutto ciò che è mortale: ""Ciò da cui tutti gli esseri son nati, ciò che li mantiene in vita, ciò in cui morendo vanno a finire"" (Taittiriya Up., 3, 1)."

"Atman è invece parola che originariamente indica il respiro (cfr. germ. Atem, con cui è etimologicamente congiunto), fu l'oggetto di osservazioni e di esperimenti diretti ad accertarne le caratteristiche e l'eventuale indispensabilità, e presto venne a indicare la parte essenziale della personalità umana, che è vista nel pensiero e nella conoscenza. Ora, poiché esiste un'analogia fra la costituzione del microcosmo e la costituzione del macrocosmo (ed essa, d'origine probabilmente indoeuropea 8, era un dato di fatto accettato dalla speculazione, incline ad attribuire ai fatti cosmici gli stessi connotati dell'esperienza terrena, tanto più che era assente ogni distinzione di principio tra spirito e materia), il principio vitale dell'uomo sarà eguale al principio vitale dell'universo ed eguali saranno pure le caratteristiche: l'Atman è dunque il Brahman e la conoscenza è l'essenza di entrambi. Ciò viene espresso nelle due ""grandi parole"" che compendiano l'insegnamento delle Upanisad: Tat tvam asi, ""Tu [, anima individuale,] sei il Tat, il principio supremo"" (Ch. Up., 6, 8 sgg.) e Aham Brahmasmi: ""Io sono il Brahman"" (B. Up., 1, 4, 10)."

È probabile che l'idealismo monistico espresso nell'identità Brahman-Atman non sia stato soltanto il prodotto d'una giustapposizione voluta, ma che sia il risultato ultimo di osservazioni di filosofia naturale, e precisamente di successive meditazioni sul fuoco, considerato principio vitale 9. Mentre è attestata, in tempi
"probabilmente diversi, una primazia attribuita all'acqua o al vento-respiro, della quale parleremo più avanti, il punto di partenza della cosiddetta dottrina del fuoco è l'osservazione che il calore corporeo è l'ultimo ad abbandonare il corpo alla morte, quindi supera sotto questo punto di vista anche il respiro. Il calore, ossia il fuoco, causa il brusio che si ode quando ci si tura le orecchie e provoca pure la digestione del cibo ingerito. Il fuoco proviene dal sole attraverso i raggi solari che si continuano nelle vene dello stesso colore confluenti nel cuore dell'individuo. Percorrendo a ritroso la stessa via, dall'individuo il fuoco ritorna nel sole in un ciclo continuo che congiunge terra e cielo, ossia mondo dei vivi e mondo dei morti, e che offre una risposta plausibile alle domande intorno all'origine e al destino dell'individuo. Ben presto si fa strada il pensiero che il fuoco è luce e che la luce è il simbolo o l'essenza della conoscenza, che, simile a lampada, appunto illumina gli uomini. Il principio vitale unico è allora conoscenza e la conoscenza è quella che vivifica le varie facoltà dell'uomo, in esse penetrando e da esse ritraendosi nel sonno, quando ogni attività sensoriale viene sospesa. Mentre nel sonno con sogni ancor si hanno le immagini dell'esperienza terrena (o perché tutto si ritrova nella cavità del cuore, che, simile allo spazio cosmico, tutto contiene, o perché ancora permangono l'impressione o il ricordo di quell'esperienza), nel sonno profondo è scomparsa ogni coscienza: il principio vitale, l'Atman, s'è ritirato nelle arterie che dal cuore si dipartono, ossia viene a cessare ogni collegamento con tutto quanto s'attiene alla terra. L'Atman rimane solo con se stesso, in una condizione di appagamento totale e dimentico, quale può aversi nella riunione di due amanti, in uno stato di quiete immobile e di beatitudine incosciente, della quale vien data una spiegazione che per il tempo in cui fu formulata apparisce straordinaria. Si ha conoscenza infatti quando esistono un soggetto e un oggetto della conoscenza; ma quando tutto s'è ridotto all'unità, quando l'Atman è solo con se stesso, con che cosa e chi potrebbe conoscersi? chi potrebbe conoscere il conoscitore? La beatitudine incosciente che è propria del sonno profondo, da cui tuttavia si ritorna, ricreandosi così tutta l'esperienza terrena, è poi trasferita allo stato dopo la morte, che nel sonno trova la sua immagine più vicina, per la tendenza, o l'abitudine, di trasferire al secondo termine della comparazione tutte le caratteristiche del primo, anche se non si riferiscono al medium comparationis. Lo stato dopo morte, che è lo stato comune a tutti e definitivo, è quindi una condizione di beatitudine priva di coscienza 10, ovvero di coscienza pura senza oggetto di fruizione e questo Atman perfetto è tanto lo stato finale quanto lo stato originario (poiché come dal sonno si ritorna allo stato di veglia così dalla morte si rinasce alla vita), è il tutto, è il Brahman. La contemplazione del principio universale da cui tutto si produce, che è identico al più vero, all'intimo se stesso, stupisce ed esalta. E infatti i vati delle Upanisad non si stancano di parlare della scoperta della divinità, potremmo dire, della propria essenza individuale, alla quale Sandilya (Ch. Up., 3, 14) scioglie quello che non a torto H. Oldenberg chiama un inno in prosa"

Di fronte alla possibilità di conoscere, e quindi di essere, l'Atman-Brahman ogni altra cosa perde di valore: infatti quisquis deum intellegit, dens fit 10 bis. Per esso si rinuncia al desiderio di ricchezze, al desiderio di prole. Chi lo conosce abbandona tutto e non è più toccato dalle transeunti vicissitudini della vita, la quale,
come la veglia è il contrario del sonno, è l'opposto dell'Atman perfetto e sarà pertanto dolore, turbamento, angoscia, conoscenza del particolare, azione e fruizione incessanti.

"Ma come si giunge all'Atman-Brahman? Questo è al di là d'ogni conoscenza distintiva, al di là d'ogni concepimento e d'ogni immaginazione umani; lo si può definire soltanto negativamente o come la coincidentia oppositorum, il che significa soltanto che esso è al di là delle umane distinzioni. La rivelazione di esso non s'ottiene con l'istruzione, ma avviene per un lampo improvviso, per un'estasi o per la grazia dell'Assoluto, che sceglie colui al quale palesarsi. In altre parole è una cosa straordinaria da raggiungersi per mezzo d'una norma straordinaria, soltanto staccandosi da tutto ciò che è umano è possibile raggiungerlo. In effetti l'atteggiamento mistico, con la sottintesa negazione dell'umano e l'ovvia elezione dell'ascesi, che è il rifiuto della vita e delle sue esigenze, è la conclusione logica di quelle premesse; e quando si dice che per chi ha raggiunto la verità tutto è indifferente, che bene e male sono superati, che la colpa non più macchia, è difficile non pensare a quei gruppi che secoli dopo alterneranno licenza e ascesi, perché son legate alla provvisorietà terrena e in fondo prive d'ogni intima validità, perché colui che conosce ciò che è superiore a tutto diventa superiore a tutto, dato che si diventa ciò che si conosce. Ma giunte a questo punto a noi sembra che le Upanisad esitino a proclamare il distacco completo dal mondo e abbiamo già accennato a quella che può esserne una causa: la convinzione nella sola realtà dell'Uno induce cioè a pensare che tutte le apparizioni contengano una parte di verità in quanto riflesso dell'Uno, e perciò infinite e tutte giustificate saranno le vie dell'accostamento, che considerano soltanto un aspetto, momentaneo e transitorio, della realtà. E allora la vita viene accettata, né può eludersi, ci si preoccupa del cibo e s'apprezzano gli allettamenti dei sensi, si desidera prole che continui la stirpe, si paragonano le età della vita alle varie tappe del sacrificio, si considera somma ascesi il vivere la vita. La rinuncia è sì raccomandata, ma la vita, con le sue esigenze di compassione, generosità, dominio di sé, vien prima, e se la conoscenza del rito in ultima analisi esime dal compierlo, al culto vien riconosciuta un'indubbia importanza propedeutica. Si va anzi più in là, e così non è assente il pensiero che di fronte"
"alla necessità può venir meno l'applicazione di qualsiasi norma e che la considerazione della molteplicità apparente deve venir prima dell'intuizione della realtà unica, che senza la prima è mutila""."

Insomma, nelle Upanisad è fermissima la convinzione che esista una verità trascendente i sensi e l'immaginazione umani, cui l'uomo aspira pur non sapendo configurarsela al di fuori della sua misura, ma è pur chiaro che l'uomo, ancorato alla terra, non può astrarre dalle esperienze della sua condizione: e nel trarre le conseguenze di queste affermazioni consiste l'umanità delle Upanisad.

"Che cosa tiene l'individuo lontano dall'Atman-Brahman e lo lascia perciò preda della molteplicità, del dolore, ossia di tutto ciò che dall'Atman-Brahman è diverso? È il karman, ossia l'azione e la forza immanente in essa, che agisce automaticamente, per il fatto stesso d'esistere e che si pensa determini la pluralità fenomenica, costringendo l'Assoluto, essenza costituita di puro spirito, in forme individuali che obliterano la coscienza dell'unità universale e originaria. L'azione è la caratteristica più propria dell'individuo, e sembra quindi abbastanza logico che in essa sia vista la causa dell'individuazione, mentre il mutamento del significato attribuito al vocabolo karman (che prima delle Upanisad designa l'atto rituale) è indicativo del sopraggiunto cambiamento degli interessi e dell'attenzione sempre più viva rivolta all'uomo. In alcuni punti si ritrovano ancora tracce dell'antica concezione per cui i pensieri nell'ora della morte determinano la condizione della futura esistenza 12; poi, con un evidente approfondimento del senso etico, la dottrina del karman come determinante della futura condizione d'esistenza s'afferma, dapprima come dottrina segreta (B. Up., 3, 2, 13), poi come postulato indiscusso. Difficile è tuttavia tracciarne la storia e individuarne l'origine. La dottrina del karman è sorta come naturale sviluppo di concezioni affermate nelle raccolte vediche o si tratta del risultato d'infiltrazioni d'un sostrato culturale"
"diverso che affiora adesso alla luce? In realtà nulla possiamo affermare con sicurezza, poiché del mondo culturale e in particolare religioso anario e preario non abbiamo alcuna conoscenza certa. È chiaro che due momenti sono di particolare importanza per il sorgere della credenza nel samsara, come sarà chiamato a partire dalla Katha Up. il ciclo delle esistenze determinato dalla qualità morale dell'azione compiuta dall'individuo: e sono la convinzione che l'atto abbia un'efficacia che supera i termini di questa vita e la fede che l'azione abbia il suo rimerito, nel mondo in cui è stata effettuata, per mezzo d'una nuova esistenza 13. La prima convinzione è alla base d'ogni pratica cultuale, intesa a ottenere benessere nell'aldilà o benefici terreni più o meno immediati, ed è ben documentata per l'epoca vedica. Più difficile è rintracciare nei testi vedici i diretti precedenti della dottrina della reincarnazione o della rinascita. Il timore che la dimora nell'aldilà non fosse eterna e che una nuova morte (punarmrtyu) attendesse il trapassato (e, poiché l'uno e l'altro timore derivavano dal raffigurarsi la vita oltretomba a somiglianza di quella terrena, una morte nell'aldilà non poteva non significare un passaggio al di qua della morte) può aver preparato l'idea del ritorno sulla terra, che fu visto talvolta come un premio (vedi Ch. Up., 5, 10, dove si dice che la fede del trapassato gli assicura, attraverso varie tappe, il ritorno su questa terra; vedi anche Satapatha Brahmana, 1, 5, 3, 14: ""La primavera torna dall'inverno e così questo da quella. Di nuovo nasce in questo mondo colui che così sa"")."

Introdotta o preparata dall'osservazione di fatti naturali, come appunto il ritorno delle stagioni o delle messi, facilitata dal pensiero che il figlio rinnova le qualità del padre, accettata forse anche per illuminare certe rimembranze inspiegabili che s'osservano presso popoli di svariato grado di cultura, aiutata soprattutto, a nostro giudizio, dal pensiero che la morte sia simile in tutto al sonno, permetta cioè il ritorno, e dalla considerazione del ciclo del fuoco e specialmente dell'acqua, che offriva l'esempio più convincente
d'un rapporto fra la terra e il cielo, sede tradizionale dei morti, e indicava anche i modi del ritorno sulla terra, la dottrina del samsara determinato dal karman s'accordava in qualche modo con la dottrina dell'Uno-tutto. Se l'Assoluto immortale è identico alla parte essenziale dell'individuo, come può parlarsi di morte per questa parte immortale? D'altra parte se l'Assoluto è penetrato nell'individuo, per ciò individualizzandosi, dovrà essere la caratteristica dell'individuo, ossia l'azione, a condizionare questa individualità.

"È certo dunque che è il karman a determinare una serie successiva di esistenze, ma non è ben stabilito come agisca il meccanismo delle reincarnazioni o delle rinascite e in che cosa consista il legame che unisce la nuova vita con quella precedente. Sono infatti prospettate varie soluzioni. La prima nega il persistere d'ogni sostrato della personalità (B. Up., 3, 2, 13): dissoltisi tutti gli elementi che costituivano l'individuo, esiste soltanto l'azione che, analogamente a quanto è insegnato dalla dottrina del Buddha, produce la formazione d'una nuova creatura, la quale potrà indifferentemente appartenere, secondo la qualità morale dell'azione compiuta, al mondo umano, all'animale, all'infernale o al divino, poiché anche gli dei sono condizionati, nel loro stato di potenza e di perfezione, dall'opera compiuta, che non può non produrre effetti limitati nel tempo. La cosiddetta ""dottrina dei cinque fuochi e delle due vie"" (B. Up., 6, 2, 9-16; Ch. Up., 5, 3-10; Kaus. Up., 1) sembra invece ammettere la persistenza d'una sorta di anima, cioè d'una sostanza immateriale ed eterna. I defunti, o meglio quella parte o scintilla dell'Assoluto che è penetrata nel loro corpo dando vita e coscienza all'aggregato di elementi, salgono al cielo dalla fiamma del rogo. Alcuni giungono al mondo della folgore, da cui, lungo la via degli dei, arrivano al mondo del Brahman donde non più ritornano. Altri invece, giunti alla luna, dopo aver qui dimorato e aver consumato il frutto delle loro azioni, attraverso l'etere, il vento, la pioggia, la terra, il cibo giungono, per la via dei padri, nell'uomo e nella matrice femminile, che è scelta in base alle loro opere. Altre creature sono poi condannate a una sorta d'inferno, cui si fa oscura allusione. La via che le anime percorrono ripete evidentemente il ciclo dell'acqua, ma le tappe sono immaginate come altrettanti sacrifici e questo ci conferma come profondamente abbia inciso sulla formulazione"
"delle dottrine accolte nelle Upanisad la manipolazione dovuta a mani sacerdotali. Benché i testi non siano univoci, la condizione per essere liberati dal samsara sembra che sia la fede o la conoscenza dell'unicità di tutto l'esistente. Lo stato di colui che è liberato è descritto come incomparabilmente superiore a qualsiasi gioia del mondo e al di là di qualsiasi valore materiale, etico, spirituale. La liberazione assai spesso è rappresentata come raggiungibile dopo la morte, con un'ascesa al cielo (e qui si continua la vetusta dottrina escatologica del cielo troppo lontano per essere raggiunto con il corpo); ma non mancano i luoghi (B. Up., 4, 4, 6; Kath. Up., 2, 6, 14) dove s'afferma che non occorre raggiungere il decesso del corpo e che continuare o no la vita terrena è del tutto indifferente: si preannuncia quindi il concetto di jivanmukta, ""liberato in vita"", che sarà sviluppato nei sistemi induisti e che sembra accordarsi pienamente con la dottrina del riconoscimento della natura eterna della propria essenza individuale 13 bis."

Affermatasi come spiegazione del vario destino dell'uomo, dell'incomprensibilità della distribuzione attuale del bene e del male e perciò certamente favorita, anche se non inventata, dalle classi privilegiate che potevano così giustificare la propria posizione e offrire d'altra parte una speranza agli oppressi e ai disperati, sempre però nel quadro dell'accettazione della condizione attuale determinata dal proprio agire, la dottrina del samsara, unita alla dottrina dell'identità Atman-Brahman e della sua assolutezza, determinò un rivolgimento delle concezioni della vita e dei suoi valori, sia pure con le limitazioni che abbiamo prima cercato di lumeggiare. Da questo momento l'aspirazione è certamente il raggiungimento della liberazione: nel seguito incessante di vite e soprattutto di morti, perdono il loro valore di unicità e d'irripetibilità le ricchezze, la famiglia, l'esistenza stessa. Della dottrina del ciclo delle esistenze non tanto si valuta positivamente la possibilità a ciascuno offerta di rendersi artefice della propria sorte, ma si pone in risalto la provvisorietà d'ogni situazione, l'unica certezza della morte. Benché le Upanisad siano saldamente ancorate alla vita, che è reale, è indiscutibile che si prepara il terreno e ci si predispone a quell'atteggiamento di rinuncia che culmina nell'ascesi e che ha sempre colpito, come caratteristica, anche se non esclusiva, dell'India, gli osservatori stranieri. È la stessa frequenza della ricerca d'un quid medium tra rinuncia e vita, che a noi sembra essere il tratto dominante tanto dei movimenti monastici del Buddhismo e del Giainismo, nei quali vivissima è l'esigenza morale, quanto dell'istituzione del trivarga e degli asrama, che cercano di contemperare l'aspirazione al superamento della vita con la necessità d'adempiere ai doveri inerenti alla casta e all'età, per non parlare della filosofia dell'attivismo della Bhagavadgita, testimonia di quanto diffusa e profondamente sentita sia stata nell'India l'inclinazione alla negazione del mondo e dei suoi problemi.

"Ma nelle Upanisad l'io personale non è ancora l'obiettivazione illusoria e transeunte d'un Assoluto immoto e impassibile, la maya (il termine compare in Svet. Up., 4, 9) non ha ancora il significato di ""illusione cosmica"" che gli attribuirà Sankara, e l'immagine del mondo che fuoriesce dal Brahman-Atman come la scintilla dal fuoco è indicativa del rapporto che si pensa legare fenomeno e Assoluto."

Conseguentemente, la rinuncia upanisadica presuppone l'adempimento dei doveri rituali, familiari, morali e ben ci sembra rappresentativo del pensiero upanisadico antico il nucleo centrale dell'Isa. Up., che non a caso nelle raccolte indigene occupa il primo posto: per giungere "alla luce sopracosciente dell'Assoluto, che è privo di tutte le qualità umane, bisogna partire dall'uomo, sublimando le capacità meditative e astrattive dopo che sono state soddisfatte le esigenze terrene. È vero che s'attribuisce onnipotenza e invulnerabilità alla conoscenza e s'afferma, come s'è già ricordato, che la norma comune non vincola colui che conosce, il quale è al di sopra del bene e del male e non è tocco dal peccato 14; ma questo pensiero, che pur anticipa l'ammissione d'una doppia morale, non è certamente il più diffuso nelle Upanisad, che, dalla considerazione dell'unicità del Brahman-Atman, sembrano piuttosto esser tratte al rifiuto dell'egoismo in una superiore armonia che abbraccia tutto il creato: il che è quanto dire che anticipano l'ahimsa panindiana e la karuna buddhista."

"Se il monismo idealistico, con i limiti che s'è cercato di mettere in luce, costituisce il punto d'arrivo delle Upanisad e sembra essersi sviluppato dalla considerazione del fuoco come principio vitale, nelle Upanisad stesse esiste la documentazione di varie correnti di pensiero che ricercarono in altre entità la fonte unica che, diversa da tutti i fenomeni singoli, a essi dà vita fornendone la base. Alcuni veggenti ravvisarono il primo principio nell'acqua, nel vento, nello spazio etereo; altri ritennero che quest'origine comune non potesse essere definita che come Sat, ""esistente"", o Asat, ""non esistente ""; altri infine sottolinearono l'importanza di capacità o facoltà individuali, come la parola o il pensiero."

"La dottrina dell'acqua ha come punto di partenza la constatazione dell'essenzialità dell'acqua per il mondo vegetale e per il mondo animale, e trova la sua espressione più completa nella già ricordata "" dottrina dei cinque fuochi"", nella quale confluiscono inoltre concezioni antichissime relative alla luna, ora considerata come una specie di coppa che alternatamente si riempie e si svuota, ora immaginata come la porta dei mondi celesti, sbarrata o aperta secondo il vario alternarsi delle fasi. Il rapporto tra la terra e il cielo che il ciclo percorso dall'acqua dimostrava possibile fornì forse uno dei primi avvii alla concezione del passaggio d'una parte della personalità dei defunti, e in ultima analisi dell'anima, dalla terra al cielo, mentre la manipolazione brahmanica, evidente nella rappresentazione delle varie tappe come altrettanti fuochi sacrificali, fa pensare che si tratti non d'una dottrina in via di formazione, bensì della canonizzazione d'un'osservazione di filosofia naturale."

Altri pensatori videro il sostegno della vita e il primo principio nel respiro, cui corrisponde sul piano cosmico, per l'equivalenza tra manifestazioni del microcosmo e manifestazioni del macrocosmo da sempre usuale nell'India, il vento. Ovvia è l'importanza del respiro nei confronti di altre forze e capacità dell'uomo ed essa viene affermata in una serie di narrazioni 15 che sembrano implicare una sorta di polemica contro chi intendeva negare la posizione di predominio del respiro; tipica inoltre è la personificazione delle varie forze dell'individuo, come nell'apologo di Menenio Agrippa. Altro gruppo di narrazioni insiste sull'inesausto vigore del vento-respiro, che sussiste e continua a operare quando le altre forze o gli altri fenomeni cessano o mancano: il vento permane quando il sole è tramontato, il respiro continua quando mancano la vista o l'udito o la parola, il respiro vince il sonno che è così simile alla morte, cosicché è facile giungere ad affermare che tutto rientra o viene assorbito nel vento-respiro, che è quindi il ""Pigliatutto"", come s'esprime Raikva in quella che è forse l'esposizione più tipica della ""dottrina del respiro"" (Ch. Up., 4, 1-3). Ma la difficoltà di spiegare la capacità intellettiva e la coscienza in rapporto o in dipendenza del respiro sembra che abbia impedito uno sviluppo ulteriore della dottrina, che inoltre non comprende alcuna concezione escatologica e non utilizza alcune osservazioni già fatte in epoca antica sulle funzioni corporee, come la concezione dei cinque soffi o forze vitali che si pensa esistano nel corpo (respiro, soffio ascendente, soffio discendente, soffio trasversale, soffio generale) e che saranno oggetto di lunghe indagini nei sistemi classici di filosofia."

"Esistono poi tracce ben consistenti d'un'antica identificazione del primo principio con lo spazio etereo, che sembrò simbolo adatto dell'Assoluto forse per la sua onnipresenza, ma anche per la sua illimitatezza, la sua incorporeità e la conseguente indefettibilità (cfr. ad es. B. Up., 3, 8, 7; Ch. Up., 1, 9, 1). Ma particolarmente importante è il rapporto d'identità che s'ammette fra lo spazio etereo e lo spazio entro il cuore: come lo spazio tutto comprende, così nello spazio entro il cuore tutto è compreso, cielo e terra, fuoco e vento, sole e luna, lampo e stelle, ciò che si possiede e ciò che non si possiede, realtà e desideri (Ch. Up., 3, 12, 7-9; 8, 1, 3). Possedendo il cuore, dunque, tutto si avrà: e quando i sensi non più sono attivi e ogni facoltà dell'individuo sembra ritirata entro il cuore, tutto lì si ritrova nel sogno, il ricordo dell'esperienza vissuta e il presagio dell'avvenire.

"Secondo Ch. Up., 3, 19 e T. Up., 1, 7, al principio esisteva soltanto l'Asat, il non esistente; in tutta la sesta lettura della Ch. Up. invece si dice che tutto deriva dal Sat e si controbatte la teoria dell'Asat (6, 2, 1-2). Le denominazioni sono ben antiche: la teoria che il Sat si sia prodotto dall'Asat si ritrova in R. V., 10, 72, 2-3, contro cui sembra polemizzare la Ch. Up., anzi l'opposizione tra i due concetti è superata in R. V., 10, 129, 1-2 ("" Né il Sat c'era allora, né l'Asat""), dove, al di là delle coppie di contrari, tutto discende dall'Uno, che è quindi il vero principio. La scelta del termine Sat sembra significare che del primo principio non può dirsi altro se non che esiste; Asat sembra invece alludere non a un nulla assoluto, bensì a una sorta di caos precedente a ogni differenziazione e assolutamente incomparabile con la realtà attuale, dove l'ordine cosmico è la controparte celeste dell'ordinamento morale e sociale. Nella Ch. Up. la dottrina del Sat, che è l'Atman, l'essenza sottile identica nel microcosmo e nel macrocosmo, è sviluppata in un sistema completo degli elementi e delle loro combinazioni, estremamente importante per lo spirito da cui è animato il suo espositore Uddalaka Aruni. Si parte invero da un postulato, che è l'ammissione d'una unità originaria che è insieme spirito e materia; ma nelle successive osservazioni dei vari fenomeni che si producono dai tre elementi primordiali creati dal Sat, ossia calore, acqua, terra, c'è un rigore deduttivo e una spregiudicatezza tali (basti pensare alla derivazione del pensiero dal cibo e del respiro dall'acqua) che a ragione s'è parlato d'un atteggiamento parascientifico. Dal vario combinarsi dei tre elementi primordiali, cui sono attribuiti i colori rosso, bianco, nero, derivano tutte le cose: ora qualche cosa d'analogo è insegnato nel samkhya, sistema classico di filosofia che approderà a un sostanziale dualismo tra spirito e materia. Il Samkhya attribuisce alla materia tre qualità o modi di essere (guna): una volta rottosi l'equilibrio tra i guna, caratterizzati dagli stessi colori degli elementi della Ch. Up., s'inizia l'evoluzione e s'ottiene, a seconda delle infinite possibilità di combinazione, l'infinita molteplicità delle cose, che tuttavia risalgono all'unica materia originaria."
"Infine si hanno nelle Upanisad parecchie affermazioni che attestano come una posizione di privilegio fosse assegnata, almeno in certi ambienti, alla parola e al pensiero. Il pensiero (manas) è identificato con il Brahman in Ch. Up., 3, 18, 1 (altrove, ad es. B. Up., 4, 1, 6; Ch. Up., 7, 3, 2, l'identificazione è respinta perché insufficiente); quanto alla parola (vac) l'importanza a essa attribuita è testimoniata dalla frequentissima esaltazione della sillaba Om, che è l'essenza della parola, il suono per eccellenza. Anche queste concezioni sono antiche: il Veda è esso stesso parola e ""formulazione"" della parola è il Brahman, sicché è più che giustificato affermare che "" le speculazioni vediche... riposano su una sorta di primato della parola "". Di quest'ultima però si dice che una parte soltanto si realizza nel mondo, poiché la parte maggiore e migliore è celata nel mistero (R. V., 1, 164, 45; 8, 100, 11): si ha cioè una contrapposizione tra espresso e inespresso e l'affermazione che il primo non esaurisce l'infinita potenzialità del secondo. Nei Brahmana, a quanto sembra di poter ricavare dai dati in nostro possesso, la contrapposizione si verifica tra la parola e il pensiero, considerati il simbolo del limitato e dell'illimitato. E infatti al silenzio, che è per così dire il modo d'essere del pensiero, viene attribuita una parte importante nello svolgimento del sacrificio, di contro alle melodie, alle strofe e alle formule magiche; è con il pensiero che il sacerdote brahman, immobile e silenzioso, corregge gli eventuali errori dei sacerdoti recitanti, medica cioè i difetti della parola; e si afferma che due sono le vie del sacrificio, vac e manas, ma più spesso s'afferma che la parola segue il pensiero o al contrario che il pensiero nulla può se manca la parola 16. Il contrasto continua nelle Upanisad più antiche (vedi ad es. Ch. Up., 7, 3, 1: (( il manas è superiore alla vac""), mentre nelle Upanisad più recenti la differenziazione, a nostro avviso, è assai più sfumata, in quanto parola e pensiero sono considerati entrambi facies diverse, non opposte, della realtà: esistono cioè lo sabdabrahman, l'Assoluto in forma di suono, espresso o inespresso, e l'asabdabrahman, che è superiore al suono, pura trascendenza silenziosa (Brahmabindu Up., 17). Al secondo si giunge immergendosi nello"
"sabdabrahman, ossia soltanto esperimentando ciò che è conoscibile si perviene a ciò che sta al di là d'ogni possibilità umana. E questo è anche il punto d'arrivo di certe scuole tantriche, per le quali la conoscenza delle formule, che sono parola, è il mezzo indispensabile per giungere all'Assoluto, il quale nella sua ultima realtà è però silenzioso, quel silenzio originario che sembra regnare nella desolata solitudine cui allude B. Up., 1, 2, 1: ""Quaggiù al principio non c'era che il nulla. Tutto era avvolto dalla morte o dalla fame, perché la fame è la morte""."

Come s'è detto, le Upanisad vediche sono il punto di partenza e di riferimento di quasi tutte le speculazioni successive, che si rifaranno a esse come a un paradigma d'indiscussa autorità. Si è visto infatti che nelle Upanisad c'è il germe e talora, più che il germe, una prima formulazione di dottrine e di concetti che in seguito avranno larghissima fortuna. Vogliamo ancora accennare al caso della bhakti e del teismo con essa congiunto e alla dottrina del corpo sottile.

"La bhakti, ""devozione fidente"", in una divinità pronta a soccorrere il fedele che a lei si rivolga con totale abbandono, s'affermerà con la Bhagavadgita (II sec. a. C. ?) e conquisterà favore sempre crescente di santi e di folle nel primo millennio d. C. Il vocabolo sottintende una ""partecipazione '' dell'umano al divino: ma ciò implica tanto una omosostanzialità tra i due termini, quanto un desiderio del divino a lasciarsi partecipare."

"La bhakti è quindi strettamente congiunta con il sorgere e l'affermarsi di divinità personali e trova le sue espressioni più tipiche da un lato nell'amore del devoto, spinto fino all'esaltazione mistica, dall'altro nella possibilità che ha il dio di discendere sulla terra per dare aiuto e protezione dal male e dai malvagi. I presupposti di queste concezioni si trovano già nelle Upanisad più antiche, nelle quali l'Assoluto, il Brahman-Atman nel quale tutto finisce e dal quale tutto promana come scintilla da fuoco, si configura talvolta come esterno alle cose (K. Up., 2, 5, 9-11), come un dio da adorare (Ch. Up., 3, 14), come l'interno controllore (antaryamin), come il dio degli dei, al cui comando si muovono cielo e terra (B. Up., 3, 7; 3, 8, 9). La transizione dal monismo al teismo è evidente soprattutto nella Svetasvatara Up., per la quale l'Essere Supremo è Rudra-Siva, il Signore datore di benedizioni che si manifesta a chi Egli sceglie (Svet. Up., 3, 20 = Kath. Up., 1, 2, 20 = Mahanarayana Up., 202). Il vocabolo bhakti compare poi nella stessa Svet. Up., 6, 23, che non a caso è stata quindi chiamata la ""porta d'ingresso dell'Induismo"". Che poi il teismo che s'affermerà nel Medioevo indiano sia il prodotto e il risultato dell'affiorare alla luce della storia di culti prearii e anarii e che pure le concezioni della bhakti e della grazia divina siano una reazione del sostrato indigeno è stato spesso affermato 17 e l'ipotesi in sé non è per nulla improbabile. In ogni modo bisogna guardarsi dall'attribuire al teismo indiano i caratteri del monoteismo giudeo-cristiano e la massima differenza è che in India non esiste il concetto di creazione ex nihilo: l'Assoluto, sia esso configurato come divinità personale o come potenza impersonale, è in India sempre causa efficiente e materiale dell'universo, che emana da esso e nel quale esso penetra (vedi ad es. B. Up., 1, 4, 7; Kaus. Up., 4, 20)."

Secondo una dottrina propria del sistema Samkhya ma che si ritrova, più o meno modificata, in quasi tutte le correnti indiane, intermedio tra il corpo grossolano, che si dissolve con la morte, e l'anima, immobile e immateriale, esiste un corpo sottile (suksma sarira). Esso è costituito dai cinque elementi sottili, rappresentanti la materia allo stato potenziale, è impercepibile, accompagna l'anima di esistenza in esistenza fin a che non sia raggiunta la liberazione e serve come supporto quasi materiale dell'organismo psichico e della personalità, costituendo il principio della continuità attraverso le varie esistenze determinate dal karman, delle cui engrafie esso è il portatore. Anche questa dottrina del corpo sottile è adombrata in B. Up., 4, 4, 2, dove si dice che alla morte abbandonano il corpo non soltanto l'anima, ma anche le opere compiute, la conoscenza e le forze vitali.

"Già s'è detto che con il nome di upanisad ci sono pervenute numerosissime composizioni di varia epoca: tra esse abbiamo fatto una scelta ristretta. Alcune ci sono sembrate interessanti per la forma o il contenuto, riassuntivo o esplicativo di determinate dottrine delle Upanisad vediche (Chagaleya Up., Kaivalya Up., Baskala-mantra Up., Pranagnihotra Up.); altre sono dedicate all'esaltazione di singole divinità del pantheon induista; altre infine espongono principi, metodi e pratiche del Yoga."

Le cosiddette Upanisad settarie (Atharvasiras Up., Mudgala Up., Ganapati Up., Devi Up.) non sono anteriori alla seconda metà del primo millennio d. C. e testimoniano la tendenza a recuperare, alla luce di concezioni nuove, il passato vedico, che viene interpretato in armonia con le esigenze proprie di determinate sette. Notevole attenzione viene rivolta in queste composizioni ai mantra, ossia alle formule magiche, che sono considerati rappresentativi delle divinità e analizzati secondo i principi d'una scienza che è sempre stata curata nell'India, ma che si precisa in un sistema minuzioso nei Tantra, cioè in quei testi di carattere dichiaratamente iniziatico costituenti le scritture sacre delle varie correnti religiose dell'India medievale.

"Le Upanisad del Yoga comprendono una ventina di opere d'epoca indeterminata, comunque piuttosto tarda. Esse sistemano, in una veste simile a quella delle Upanisad vediche, dottrine e regole del Yoga, ossia di quel metodo d'approfondimento e di realizzazione spirituale che nell'India è antichissimo, è d'origine probabilmente prearia, è diffuso presso tutte le correnti religiose ed ha il suo testo normativo classico nel Yogasutra di Patanjali (sec. IV d. C. ?). In queste Upanisad è da vedersi un tentativo d'inserire nel contesto brahmanico, fornendo trattati che si pretendeva riallacciare alla tradizione sacra, la teoria e la pratica d'un procedimento fondamentalmente estraneo alla civiltà vedica, come quello che predicava una via di salvezza individuale, mentre la società vedica è rigidamente strutturata in un insieme dove a ognuno è riservata una funzione precisa. Ricordato già nelle più recenti delle Upanisad vediche (T. Up., 2, 4, Kath. Up., 2, 6, 11, Svet. Up., passim) e d'altra parte preannunciato da certe pratiche attestate nei Brahmana, come il silenzio rituale e la preghiera silenziosa, la meditazione, la trasformazione interiore provocata da esercizi fisici (ma non si tratterrà piuttosto di concezioni tipicamente yogiche penetrate già in ambiente vedico?), Yoga significa ""controllo"", e poi ""metodo"" per controllare le funzioni del corpo e della mente"
"e raggiungere uno stato d'isolamento da tutto ciò che è legato con la materia. Spesso, e ciò specialmente nelle Upanisad del Yoga, la liberazione è identificata con la gioia e la pace che si godono nell'unione con il Signore Supremo, sia egli Siva o Visnu, e in tal modo si giustifica anche il significato di ""congiungimento, unione"" spesso assegnato al vocabolo."

"Secondo le dottrine del Yoga 18 esiste una gerarchia di mondi, ai cui estremi stanno il nostro mondo e il mondo del Brahman, al di là d'ogni definizione e d'ogni concezione. È a quest'ultimo che aspirano coloro che sanno. Il traguardo da raggiungere non è quindi diverso dalla meta delle Upanisad vediche o dei sistemi teisti; diverso e proprio del Yoga è invece il sistema di tecniche che devono tagliare i legami che tengono prigioniera l'anima. Secondo il Yoga infatti il corpo, che è reale ed è anzi il mezzo della salvezza, ottenibile con la disciplina del corpo e del pensiero, è strettamente congiunto con l'anima, che, estranea per natura al corpo, ne è tuttavia condizionata anche se a sua volta influisce su di esso per mezzo della buddhi, ossia dell'intelligenza che riflette la sua luce sulla ragione individuale, inducendola a riconoscere la necessità della liberazione e la possibilità di trovarla nella pratica del Yoga. Ben rappresentative dei rapporti tra anima e corpo sono le frequenti similitudini che rappresentano l'anima come il passeggero che divide fino alla fine del viaggio il destino del cocchio e del cocchiere, che sono rispettivamente il corpo e la mente, oppure come l'uccello che è tenuto prigioniero da un filo legato a un'ala. L'anima è parte dello spirito universale, chiamato Sommo Signore, Brahman, Siva o Naràyana-Visnu: particolarmente interessante è la denominazione dell'anima universale come Narayana, ""colui che viene nell'uomo"", che ha il merito di rendere evidente uno degli elementi più significativi del Yoga, ossia la presenza nel cuore dell'uomo del Signore, ciò che lo lega strettamente ai movimenti devozionali ispirati alla bhakti, così come a questi lo lega il pensiero che l'illuminazione può avvenire, oltre che per il merito accumulato in molte esistenze anteriori, per la grazia del Signore. Caratteristica del Yoga è la concezione che il distacco dalla materia e l'ascesa alla perfezione avvengono nel senso non d'una rinuncia, bensì nel senso d'una sublimazione delle capacità e delle virtualità proprie dell'individuo e ciò si realizza per mezzo di tecniche fisiche e psichiche minutamente articolate e fruttuose di risultati estremamente interessanti."

Secondo la fisiologia del Yoga, esiste nel corpo umano una rete di 72.000 nadi o canali, attraverso le quali fluisce il prana. Questo non è il respiro, o meglio non è soltanto il respiro, ma una specie di energia vitale: sono citati infatti cinque prana, soffi vitali che sono probabilmente tutt'uno con i cinque elementi cosmici (terra, acqua, aria, etere, fuoco) che agiscono all'interno dell'individuo, abbandonandolo soltanto alla morte. Delle nadi tre sono più importanti: sushumna, Ida e Pingala. La prima corre lungo la colonna vertebrale, le altre due salgono avvolgendo la prima come i serpenti del caduceo e hanno il loro sbocco nelle narici, mentre la Susumna arriva alla sommità del cranio.

"Trattenendo il respiro (e la pratica di questo esercizio è tipica del Yoga) si fa sì che le forze vitali rimangano nel corpo e provochino il destarsi della Kundalini. Questa è la forza cosmica presente in ogni uomo e giace, sotto forma di serpente arrotolato (da ciò il suo nome) alla base della spina dorsale, là dove s'originano le tre più importanti nadi. Destata, la Kundalini si rizza, diventa luminosa e sonora e, fischiando come un serpente, si eleva lungo la Susumna. Su questa sono posti, abitati da varie divinità, sette cakra, ""centri"" o meglio ostacoli, situati rispettivamente alla fine della colonna vertebrale, all'altezza dei genitali, dell'ombelico, del cuore, della gola, dell'interciglio e alla sommità della testa, nella regione della fontanella, ove s'apre il brahmarandhra, ossia ""l'apertura verso il Brahman"". Ogni cakra, che è simile a una ninfea, contiene il germe di varie attività e capacità e viene fatto sbocciare dalla Kundalini, che lo perfora continuando la sua ascesa e acquistando particolari poteri, collegati con le attività e capacità contenute. Finalmente, superato il Brahmarandhra, la Kundalini si ricongiunge con la Sakti, ossia l'energia individualizzata nell'uomo si riunisce o si riconosce identica con l'energia cosmica, mitologicamente rappresentata dalla Gran Dea, paredra di Siva."
"Tutta questa ""fisiologia mistica"", sembra voler significare che il perfezionamento deve essere graduale, che ogni virtualità latente nell'uomo deve e può essere spinta all'estremo e poi superata in un'ascesa continua che non ammette soste e compiacimenti, che infine il perfezionamento è conseguenza del dominio del corpo e dello spirito, ottenuto con l'esercizio di pratiche fisiche e psichiche che sottintendono un'analogia o un'identità tra spirito e materia: la convinzione nell'Uno è veramente la caratteristica principale della speculazione indiana. "

"Il Yoga classico comprende otto ""membri"", ossia otto pratiche fondamentali che bisogna arrivare a compiere senza sforzo per giungere allo stato d'isolamento 19. Essi sono: 1) yama, ""proibizioni"": non nuocere, non mentire, non rubare, non essere lussurioso né avido; 2) niyama, ""obblighi"": purezza materiale e morale, serenità, equanimità, studio, devozione; 3) asana, ""positure"", che debbono essere ""stabili e gradevoli"", sicché il corpo non sia d'ostacolo agli esercizi successivi; 4) pranayama, ""controllo del respiro"": controllando prima e diminuendo poi, fino addirittura a sospenderlo per periodi più o meno lunghi, il ritmo respiratorio, che è strettamente collegato con gli stati di coscienza, il yogin può ricreare le condizioni del sonno ed esperimentare così, in piena lucidità, certi stati di coscienza ordinariamente inaccessibili, nonché giungere a dominare tutta l'attività organica, fisica e psichica, che dipende dalla circolazione dei soffi vitali in tutto il corpo; 5) pratyahara, ""ritrazione dei sensi"", che consiste nel neutralizzare l'attività sensoriale, sottraendola alla presa degli oggetti esteriori; 6) dharana, ""fissazione"" del pensiero su un oggetto circoscritto o un simbolo ben determinato, soprattutto la sillaba Om, con lo scopo di rallentare l'attività mentale; 7) dhyana, ""meditazione""; 8) samadhi, ""enstasi"" o raccoglimento perfetto, quando il yogin rientra completamente in se stesso e, avendo arrestato ogni"
"funzione anche mentale, raggiunge l'isolamento completo da ogni condizionamento fenomenico, è un jivanmukta, ossia, pur essendo ancora in vita, è già liberato. Gli ultimi tre stadi sono distinguibili con difficoltà e in fondo rappresentano soltanto gradi diversi sulla scala del perfezionamento. Il raggiungimento d'ogni successivo grado è accompagnato dal possesso di forze e capacità eccezionali, quali la levitazione, sulle quali i testi si diffondono ampiamente. A dispetto della ""fisiologia mistica"" alcuni fatti osservati nei praticanti il Yoga e afferenti sia al dominio dello spirito sia al controllo delle funzioni fisiche, come la riduzione del ritmo cardiaco e lo stato di catalessi, la sopportazione di condizioni esteriori e di diete inconcepibili, sono certamente straordinari e sono degni degli studi più attenti di medici e psicologi. I ""poteri"" o ""perfezioni"" (siddhi) sono tuttavia soltanto il segno che una nuova tappa è stata raggiunta e non devono essere ricercati per se stessi in quanto il loro esercizio rivela una volontà di potenza che lega al mondo ed è perciò il perfetto contrario dello scopo del Yoga, che vuole che il cocchio del corpo si disgreghi perché il passeggero non sia più implicato nell'agitazione incoerente dei cavalli dei sensi e nei tentativi velleitari, maldestri o contraddittori di quel cocchiere che è il pensiero. "



Note all'introduzione :

1. La Muktika Up., d'epoca medievale, enumera 108 Upanisad considerate canoniche, ma si conoscono i nomi di almeno trecento. Upanisad furono scritte in ogni tempo: esiste anche una Allàh Upanisad, che si studia di conciliare Induismo e Islamismo. Anche nel secolo scorso i seguaci di Ramakrishna esposero la dottrina del loro maestro in una Ramakrishna Upanisad.

"2. Sankara (ad esempio introduzione al commento di B.Up.) interpreta Upanisad come ""testo che permette di distruggere l'errore"" ovvero ""testo che permette di giungere al Brahman"", ma la spiegazione non regge a un serio esame etimologico. L'interpretazione più semplice del termine è certamente quella di ""dottrina segreta"" (cfr. A. B. KEITH, The Religion and Philosophy of the Veda and Upanishads, Cambridge, 1925, pp. 489 sgg.). Mentre H. OLDENBERG ( Die Lehre der Upanishaden und die Anfange des Buddhismus, 2a ediz., Gottingen, 1923,"
"pp. 137 sgg.) intende il termine come equivalente di upasana, ""venerazione"" rivolta a ciò che è l'essenza di tutto l'esistente, parecchi studiosi (vedi per tutti L. RENOU, L'Inde classique, t. I, Paris, 1947, p. 299 e cfr. A. MINARD, Trois enigmes sur les cent chemins, II, Paris, 1956,  925 a) intendono Upanisad come ""equivalenza, correlazione mistica"", sottolineando uno dei caratteri distintivi di questi testi, che collegano apparizioni e fatti lontani giustapponendoli e identificandoli secondo un qualsiasi motivo. Secondo P. THIEME, Upanischaden, Stuttgart, 1966, p. 83, il termine Upanisad significa "" venerazione"", ossia riconoscimento della vera natura d'una cosa, cui si giunge attraverso una serie d'identificazioni successive."
"3. Mentre una volta si riteneva fuor d'ogni dubbio che le Upanisad vediche fossero precedenti alla predicazione del Buddha, la quale sarebbe stata uno sviluppo di pensieri upanisadici, ora si sottolinea la possibilità d'un'evoluzione indipendente e parallela di diversi correnti religioso-filosofiche (vedi RENOU, op. cit., 588). Del resto nessuna allusione alle Upanisad si trova nel canone buddhista (cfr. P. HORSCH, Buddhismus ,und Upanisaden, in ""PRATIDANAM"", The Hague, 1968, pp. 462-477)"
4. Vedi E. FRAUWALLNER, Geschichte der indischen Philosophie, I. Band, Salzburg, 1953, p. 47.

"5. Vedi ad es. B Up, 2, 1 (= Kaus. Up, 4); 6, 2 (= Ch. Up, 5, 3 sgg.); Ch. Up., 1, 8-9; 5, 11 sgg.; Kaus. Up., 1."

"6. Questo punto di vista è stato sostenuto con particolare impegno da R. GARBE, Die Wersteit des Brahmanen oder des Kriegers?, in ""Beitrage zur indischen Kulturgeschichte"", Berlin, 1903, pp. 1 sgg. Contra, vedi soprattutto OLDENBERG, op at, pp. 143 sgg., e KEITH, op cit., pp. 493 sgg."

6 bis. Le Upanisad commentate da Samkara sono le seguenti: B.Up., Ch.Up., T.Up., Ait.Up., Isà Up., Kena Up., K.Up., M.Up., Pr.Up., Svet.Up., Mà.Up. Qualche dubbio esiste per l'attribuzione del commento alla Svet.Up.

"7. I commentatori indiani collegano il vocabolo brahman con la radice brh, ""essere forte, crescere, rendere forte '', e lo intendono come designazione d'una forza misteriosa, d'una sorta di fluido magico che conferisce poteri straordinari a chi lo possiede. Secondo P. THIEME, (""Z.D.M.G. "", 102 [1952], PP. 91-129 = Kleine Schriften, Wiesbaden, 1971, pp. 100-138) il significato originario della parola è ""formulazione"" della verità (cfr. medio persiano brahm,  forma). Poiché la formulazione non esiste al di fuori del modello, fissato una volta per tutte nei Veda, brahman è l'inno del Rgveda o l'incantesimo dell'Atharvaveda, anzi ogni espressione mistica e sacra. Fra le varie proposte d'interpretazione ricordiamo il collegamento con l'irlandese bricht, ""formula magica""; l'equiparazione con l'avestico baresman, ""fascio d'erbe"", proprio del mago; l'accostamento al greco flegma , che sottolinea, forse eccessivamente, il rapporto tra Brahman e luce-fuoco; la presunta vicinanza al latino flamen, che presenta però gravi difficoltà sul piano linguistico. Per tutta la questione si veda: J. CHARIENTIER, Brahman, Uppsala, 1932; L. RENOU-L. SILBURN, Sur la notion de brahman, in ""J.A."", 237, 1949, pp. 7-46; J. GONDA, Notes on Brahman, Utrecht, 1950; il già citato articolo di THIEME; M. MAYRHOFER, Etymologisches Worterbuch des Altindischen, s.v., II, 452. Da Brahman, neutro, occorre distinguere il maschile brahman, che indica il sacerdote "" medico "" del sacrificio. Brahma poi è il dio in cui si personifica l'Assoluto."

"8. Cfr. G. BONFANTE, Microcosmo e macrocosmo nel mito indoeuropeo, in ""Die Sprache"", V, 1959, pp. 1-8. Da quest'ordine di idee, dall'attribuire cioè ai fatti cosmici gli stessi connotati dell'esperienza terrena individuale, deriva anche il concetto della ""rimorte"" (punarmrtyu) nell'altra vita, in cui alcuni vedono una prima formulazione della dottrina del ciclo delle esistenze."

9. La dottrina del fuoco (per la quale vedi soprattutto FRAUWALLNER, op. cit., pp. 60 sgg.) è esposta nella sua forma finale e più completa nel terzo e nel quarto
libro della B.Up Protagonista dei vari dialoghi che sono riferiti nei libri è Yajnavalkya, il quale, sostenitore d'una dottrina sostanzialmente idealistica, vien rappresentato come avido di ricchezze e di onori: e ciò per deliberato proposito, come ha acutamente notato il THIEME (Upanischaden, p. 85), per evitare l'impressione che la dottrina apparisca il frutto d'un entusiasmo misticamente staccato da ogni concretezza.

"10. Mentre nella B.Up. s'ammettono tre stati dell'Atman (veglia, sonno con sogni, sonno profondo senza sogni) in seguito (Ma. Up., 7) s'ipotizzerà un ""quarto "" stato (caturtha o turrya), che è al di là del sonno profondo e nel quale l'esperienza dell'unità assoluta è cosciente. Il ""quarto "" è completamente staccato da ogni contatto con ciò che è umano, trova la sua corrispondenza nell'indistinta risonanza nasale che permane dopo la pronuncia della lettera finale della sillaba Om e a noi sembra immaginato per assolutizzare, senza possibilità di ritorno, lo stato di distacco proprio del sonno profondo, salvando nel contempo la coscienza, che l'esperienza assicura essere la parte essenziale e più vera dell'esistenza. Uno stato simile al sonno è quindi considerato l'ultima, verissima realtà, ma a questa concezione si giunge indagando sul sonno come immagine della morte, non esaltandolo perché si vuole comunque uscire dalla vita, come sembra affermare R. C. ZAEHNER, Hindu Scriptures, p. X."

10 bis. Così Anquetil Duperron tradusse il versetto 3, 2, 9 della M.Up. e lo prepose come motto all'Oupnek'hat, in esso ravvisando la quintessenza della mistica upanisadica.


"11. Cfr. il mio articolo, citato in Bibliografia, ""Di alcune caratteristiche delle Upanisad più antiche ""."

"12. Ad es. Ch.Up., 3, 14, 1 e forse Pr.Up., 3,10. La concezione perdura ancora nella Bhagavadgita, 8, 5 e nel canone buddhista (Majjhimanikaya, 120). Cfr. FR. EDGERTON, The hour of death, in "" A.B.O.R.I. "", VIII, 1927, pp. 219-249."

13. Cfr. su questo argomento soprattutto H. V. GLASENAPP, Le religioni dell'India, Torino, 1963, pp. 98 sgg. Vedi anche P. HORSCH, Vorstufen der indischen Seelenwanderungslehre, in
Asiatische Studien , XXV, 1971, pp. 99-157.

13 bis. Per la dottrina della jivanmukti vedi specialmente gli articoli di J. F. SPROCKHOFF, citati in Bibliografia.

14. Secondo i commentatori indigeni, colui che conosce agisce naturalmente in modo morale. È probabile che questo pensiero si basi (o si rafforzi) sull'antica convinzione che si diventa ciò che si conosce, quindi conoscendo l'Assoluto, che è perfezione, si diventa perfetti.

"15. Vedi ad es. B.Up., 6, 1; Ch.Up., 5, 1; Kaus.Up., 2, 13. In B.Up., 1, 3 e Ch.Up., 1, 2 il racconto è deformato da un intervento sacerdotale."

16. Vedi L. RENOU, La valeur du silence dans le culte védique, In ( J.A.O.S. ), 69, 1949, PP. 11-18.

"17. Cfr. da ultimo R. N. DANDEKAR, in ""Historia Religionum"", vol. II, Leiden, pp. 289 sgg."

"18. Per le dottrine del Yoga e le Upanisad relative cfr. M. ELIADE, Techniques du Yoga, Paris, 1948 (trad. italiana: Tecniche dello Yoga, Torino, 1952, ristampa, 1967); dello stesso, Patanjali et le Yoga, Paris, 1962; J. VARENNE, Upanishads du Yoga, Paris, 1971."

"19. Si distinguono varie forme di Yoga: Mantrayoga, Layayoga, Hathayoga, Rajayoga. Il primo si preoccupa del retto uso delle formule sacre e delle giaculatorie. Il secondo si propone la ""dissoluzione "" del pensiero nello spirito universale e specialmente tratta del risveglio della Kundalini. Il terzo predica gli ""sforzi violenti"", ossia le severe discipline dei movimenti e del respiro, come indispensabile premessa degli esercizi di meditazione. Il Rajayoga infine è la sintesi suprema delle varie pratiche."

 

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