Jean Klein, Intervista

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"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
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Jean Klein, Intervista

 

Mi piacerebbe parlare degli eventi che l’hanno portata al risveglio nella sua vera natura. Per iniziare dal principio di questo viaggio nella sua storia personale, le dispiacerebbe parlarci un po’ della sua infanzia? Fu un’infanzia felice? Già da ragazzo aveva questa serietà, o aveva sentimenti, azioni e reazioni come i suoi coetanei?

Ho avuto un’infanzia molto felice. Quando ero molto giovane, vivevo a Brno, in quella che a quel tempo era la Boemia, poi mio padre fu trasferito a Praga e in seguito a Vienna.

Viveva in città o in campagna?

Vivevo in città ma spesso andavamo in campagna. Mio nonno aveva una fattoria in Boemia, e ogni estate andavamo a trovarlo, amavo andare a cavallo.

Come era l’atmosfera in famiglia? I suoi genitori erano persone religiose o spirituali?

In famiglia c’era un’atmosfera molto armoniosa. I miei genitori amavano la musica, la pittura e la scultura. Mio nonno paterno suonava molto bene la viola. No, i miei genitori non erano persone particolarmente religiose, ma si dedicavano spesso all’apprezzamento estetico.

Che scuola frequentò da piccolo, andò alla scuola pubblica?

Si, ma ero più serio dei miei compagni ed ero contento nel trascorrere molto tempo da solo. Non mi piacevano gli sport competitivi, per esempio, e cercavo ogni modo per evitarli! Gli amici intimi erano sempre molto più grandi di me.

Quando iniziò a suonare il violino?

A circa sette anni. C’era sempre musica nelle nostre vite e ho amato la musica fin dall’infanzia. Uno dei miei zii materni era un ottimo chitarrista e quando avevo sei anni mi comprò una chitarra e per nove mesi mi dette lezioni. Mi piaceva molto e facemmo molta pratica, ma a quel tempo non c’era molta musica per chitarra e così mio padre mi dette un violino. Iniziai subito con dedizione, ero molto serio nella pratica e ho continuato a suonare tutta la vita. Quando avevo circa 14 o 15 anni, come molti adolescenti, iniziai a sentire un forte desiderio di libertà. Era un desiderio di essere libero da tutti i limiti, tutti i condizionamenti. Vivevo in una crisi costante.

Crisi è una parola forte, che cosa intende?

Forse crisi è un termine troppo forte, non intendo una crisi psicologica depressiva, ma una crisi nel senso di essere sempre aperto al cambiamento, al nuovo, ad essere sorpreso. Vivevo in una costante riflessione, iniziai ad investigare in molte cose, sempre con la necessità interiore di comprendere il funzionamento di me stesso. Inizialmente leggendo scritti mistici della tradizione Giudeo Cristiana, poi le mie esplorazioni si rivolsero maggiormente al sociale. A quel tempo ero molto influenzato dalle idee sulla non-violenza di Gandhi ed anche dall’anarchismo e dalle idee sull’autonomia di Max Stirner e John Henry Mackay. Si potrebbe dire che era il periodo dell’anarchia su diversi piani, ma sempre creativa, mai distruttiva. Inizialmente ero interessato a come vivevo con me stesso e poi a come vivevo nella società. Lessi Nietzsche, Dostoevskij, chiunque mettesse in questione il conformismo, e amavo Rilke.

E non è stato in questo periodo che l’idea dell’Ahimsa professata da Gandhi la portò ad essere vegetariano?

Sì a 16 anni, con grande costernazione da parte di mia madre!

Quando era bambino, ci furono dei momenti in cui fu cosciente di sé, cosciente di come funzionava? Perché spesso l’infanzia viene trascorsa in una sorta di sogno nebuloso e ci risvegliamo che siamo giovani adulti.

Ci furono molti momenti di consapevolezza, ma la mia prima vera presa di coscienza fu a circa nove o dieci anni. Stavo suonando il violino e il cane guaiva interrompendo la mia pratica. Acchiappai qualcosa e cominciai a colpirlo e mentre ero con il braccio alzato, vidi gli occhi del cane e realizzai improvvisamente ciò che stavo facendo. Questa fu la prima volta che mi accorsi di essere consapevole in modo bipolare, della mia reazione e dell’impatto della mia reazione. Mi resi conto che la reazione era basata su un senso di superiorità che era inesistente. L’impatto fu molto forte e mai più caddi in quella trappola. Il primo barlume di unità o piena consapevolezza avvenne verso i 17 anni. Stavo aspettando il treno, in un caldo pomeriggio estivo, la banchina era deserta e la campagna addormentata, tutto era silenzioso. Il treno era in ritardo e attesi senza attendere, molto rilassato e libero da tutto il processo del pensiero. Improvvisamente un gallo cantò e quel suono inusuale mi rese consapevole del mio silenzio. Non era il silenzio oggettivo di cui ero cosciente, come spesso succede quando ci si trova in un luogo silenzioso e un improvviso rumore enfatizza il silenzio intorno. Fui proiettato nel mio silenzio, sentii me stesso nella consapevolezza oltre il suono o il silenzio. In seguito, mi accadde diverse volte di provare questa sensazione.

Quando iniziò ad essere interessato più specificatamente alla filosofia orientale?

Il mio interesse per la filosofia orientale, nacque dalla lettura di Ghandi, ma in quel periodo molte persone erano interessate anche a Lao Tze, Chuan Tzu, Tagore. La filosofia orientale era nell’aria. Avevo amici che facevano parte della società teosofica e discutevano su questioni metafisiche. Ho sempre trovato la società teosofica troppo sentimentale, priva di precisione nel suo pensare, ma abbiamo avuto diverse discussioni vivaci. Poi mi arrivò tra le mani una copia del libro di Renè Guenon “Il Simbolismo della Croce” e questo fu un momento di svolta.

In che senso?

Fino ad allora, ero stato influenzato prevalentemente da idee non-strutturali, come ho detto. Ero profondamente anarchico, ma Guénon mi presentò una struttura che mi attrasse immensamente, perché era una struttura metafisica, non una struttura politica o sociale. Per me è stata una introduzione alla cosmologia. Egli parlava dell’integrazione dell’essere e faceva riferimento alla Tradizione.

In quanto opposta al tradizionale?

Sì, per Guénon la Tradizione è il principio trasmesso da maestro a discepolo, attraverso l’iniziazione. Questo risvegliò in me l’intuizione che era umanamente possibile divenire integrati nel tutto.

Fu influenzato da qualcun altro in questo periodo?

Leggevo Coomaraswami, specialmente le sue discussioni con Guenon sulla visione del buddismo, che portarono quest’ultimo a modificare la sua posizione. Lessi Aurobindo, e nel 1929 sentii parlare di Krishnamurti, e di come lasciò la Società Teosofica.

Fu toccato da questa sua scelta?

Ero interessato al motivo per cui la lasciò, simpatizzai con lui. Non ci fu mai un momento in cui volli aderire ad un sistema di idee o credenze. Leggevo al fine di comprendere maggiormente me stesso. Sono sempre stato interessato al funzionamento del corpo-mente, alla relazione tra biologia e psicologia.

Sì, sembra che lei fosse, fin da giovane, interessato a come funziona l’essere umano, alla relazione fra biologia e psicologia. Fu questo che la portò a studiare medicina?

Sì, il mio amore era la musica, e ho studiato medicina per far contento mio padre! Ma in fin dei conti risultò buono, perché i miei studi unirono la biologia e la psicologia, la relazione tra il pensiero, il sentimento e l’azione muscolare. La mia vita era molto intensa, prima della guerra. Ma la mia ricerca, sebbene fosse sincera, era ancora incentrata sulla personalità. Fu soltanto intorno ai 35 anni che diventai orientato. Libero da ogni precedente dispersione!

Quando era in India?

No, perfino prima di andare in India.

E dov’era durante la 2a Guerra Mondiale?

In Algeria e in Francia.

Durante gli anni della Guerra, la sua ricerca continuò?

Sì. Ma, certamente, era difficile in Algeria. E le relazioni personali in Francia non erano così semplici, se si considera l’attività che svolgevo allora. Ma non ho mai abbandonato l’esplorazione interiore.

A che tipo di attività si riferisce?

Diciamo, semplicemente, che faceva parte del retto agire di coloro che intendono sottrarsi all’oppressione.

Continuò a suonare?

Sì. Nel tempo libero, suonavo tre o quattro concerti da camera ogni anno. E organizzai un coro per bambini, in cui le mie figlie cantavano. Davo anche lezioni di musica.

E incontrò qualche personaggio interessante nel campo spirituale, in questo periodo?

Incontrai un inglese che era discepolo di Sai Baba. Sai Baba da Bombay. E mi parlò di varie tecniche di trasformazione praticate in India.

Che cosa la portò in India, dopo la guerra? Fu per conoscere una società dove c’era tradizione, la trasmissione della verità?

Sì, per me l’India era una nazione che integrava il sociale e lo spirituale nella vita quotidiana. Andare in India non era per trovare appagamento, ma per essere in un contesto che dava supporto alla ricerca. Mi resi conto che non avrei trovato ciò che cercavo perseguendo l’apprendimento e le esperienze. Ero anche completamente saturo del materialismo in Europa, che era particolarmente forte dopo la guerra. Avrei potuto andare forse in un’altra nazione, dove c’era un modo di vivere tradizionale. Ma l’India mi attraeva. Le letture di René Guénon certamente influenzarono questa scelta.

Quale era il suo stato mentale in questo periodo, prima di partire per l’India? Fu questo il periodo in cui divenne orientato? In cui la sua ricerca divenne più incisiva?

Sì, perché non trovavo libertà e pace negli oggetti e nelle situazioni. Dato che non trovavo pace in oggetti e situazioni giunsi ad uno stop nell’accumulare conoscenza ed esperienze. E fui portato a una ricerca molto profonda. Come posso trovare appagamento, se non negli oggetti? Ho vissuto per molto tempo con questa domanda. In un non-sapere. Ci fu un lasciar andare ogni cosa che non era essenziale. Che non faceva riferimento alla bellezza interiore, alla libertà interiore. Sentivo un’enorme energia e intelligenza in quel periodo. Questo portò gioia nel vivere, un entusiasmo per la vita e una grande serietà nella ricerca. Risvegliò in me un desiderio di stabilizzarmi in questo non-conoscere, di trovare un aiuto alla mia ricerca.

Sta dicendo quindi che prima di questo periodo di intensa ricerca, lei considerava l’intelligenza in relazione alla conoscenza, mentre in seguito incominciò a vederla in relazione alla non-conoscenza?

Sì, esattamente. Sono sempre stato un serio ricercatore. Ma ora ero un discepolo della vita, della verità. Fu il periodo di molte intuizioni, e della trasposizione spontanea di queste a livello dell’esistenza. Questo tenne viva la fiamma.

Ha detto che desiderava un supporto nella ricerca. Da dove sorgeva il desiderio di una guida?

C’era ancora la mancanza di un appagamento totale, e sentivo che la mia ricerca era ancora condizionata dal credere in un ricercatore. Conoscevo la coscienza relazionata agli oggetti, ma non la coscienza libera dagli oggetti. Non immaginavo quale forma questo aiuto potesse prendere: uomo o donna, sogno o uccello. Ero semplicemente aperto alla vita, attendendo, senza sottovalutare niente di ciò che la vita mi presentava. E poi ho sentito una sicura chiamata che mi ha portato in India.

Quindi quando andò in India non era influenzato dalle idee di Guru e discepoli?

Assolutamente no.

Conosceva qualcuno in India?

Mi erano stati dati riferimenti di alcune persone che vivevano là.

Guru o intellettuali?

No, non Guru. Artisti, insegnanti, intellettuali, persone che generalmente erano interessate a tutti gli aspetti della vita. Fui anche introdotto da Mrs Lansberry, che era la direttrice della Società Buddhista di Parigi a un bhikku theravada a Ceylon. E questa fu la prima persona che contattai.

Quanto tempo stette in Ceylon?

Prima di andare in India, la nave si fermò a Colombo. Rimasi subito positivamente colpito da Ceylon. Non c’era violenza da nessuna parte. Si poteva toccare il silenzio. La trovai così meravigliosa: i templi, il grande Buddha disteso, e dato che ero stato introdotto al venerabile Rahula, il capo del sangha theravada, durante le mie due settimane di permanenza ci si incontrò spesso per parlare. Ebbi una buona impressione, e quando qualche mese più tardi, mi stabilii a Bangalore, mi dettero l’indirizzo di un musicista di vina, e cantante. Gli scrissi, e mi rispose. Con sorpresa seppi che veniva a Bangalore per vedermi. Quando arrivò ero ad un concerto che ascoltavo la bellissima voce del mio amico. Qualcuno mi disse che il venerabile Rahula era fuori ad aspettarmi. Andai a salutarlo e lo invitai al concerto, ma non volle venire. Pensava che la musica fosse una distrazione. Sebbene stetti fuori con lui, non ero contento di questo punto di vista ristretto. Ancora sentii una restrizione e un senso di mancanza di libertà. Se ne parlò i giorni seguenti, ma lui non seppe rispondere alla mia domanda interiore in modo soddisfacente: una distrazione da cosa? E per chi? Io sentivo istintivamente che tutta la bellezza era una espressione della Bellezza assoluta.

Dopo quell’incontro scambiammo qualche lettera, ma non dimenticai quella profonda delusione. Presentava una vita interiore di bellezza, ma rifiutava le sue espressioni.

Sembra dunque che lei avesse già un forte sentimento di verità, di libertà e di discriminazione interiore, perché non fu preso dalle sue ragioni, apparenza e personalità, o dal suo vivere ritualistico.

Sì.

Quindi visse a Bangalore per qualche tempo?

Sì, circa 3 anni. E ho conosciuto molte persone interessanti. Ciò che mi sorprendeva era che, mentre in Francia, dopo la guerra, le conversazioni ruotavano attorno al buon cibo e agli oggetti raffinati, in India, anche se era una nazione così povera, nessuno parlava di queste cose. Le conversazioni riguardavano la vita spirituale, i sogni e la bellezza in generale.

Non era tentato dai famosi insegnanti del sud dell’India?

No. Non ero particolarmente interessato a trovare un insegnante. Non ci pensavo. La vita era il mio insegnante. C’erano molti maestri famosi, ma la loro popolarità, invece di attrarmi, mi respingeva.

Questo mi fa pensare all’abate Zeno, uno dei padri del deserto, che disse: “Non diventare discepolo di un uomo con un grande nome”.

Aveva proprio ragione!

E come incontrò allora il suo maestro sconosciuto?

Alcuni degli amici che conobbi, e con cui parlai di pace di libertà e di gioia avevano una guida spirituale. Un giorno incontrai il loro insegnante, e in questo incontro e negli altri seguenti gli feci molte domande. Domande che espressero tutta la mia serietà nella ricerca del vero centro.

Sembra che gli abbia dato subito fiducia.

Ero aperto nei suoi confronti. Ero colpito dalla sua assenza di sforzo. Dalla sua umiltà. Non cercava mai di convincere, o di impressionare. In lui non c’era nessuna influenza egoica. Tutte le sue risposte venivano da una dimensione transpersonale, eppure era evidente la sua gentile disponibilità. Ero colpito, anche, dalla sua affermazione che noi potenzialmente siamo, dobbiamo solamente realizzarlo. Non vedeva mai nessuno come ignorante. Non dava presa alla mia personalità.

Mi dette molte risposte, ma durante alcune settimane in cui non lo vidi divenni consapevole che tutte le mie domande erano una fuga e un’evasione dalla domanda fondamentale. La crisi esistenziale che avevo sempre vissuto divenne più acuta, e vissi con questo sentimento di non aver formulato la domanda fondamentale, una domanda che non ero capace di formulare. Poi ebbi l’opportunità di incontrarlo nel luogo in cui viveva, una piccola stanza nel college di sanscrito a Bangalore, di cui era docente. Due altri giovani indiani erano presenti, e stavano parlando delle Karika di Gaudapada, e della Mandukiaupanishad. Il discorso verteva sui quattro stati di coscienza: veglia sogno, sonno profondo e turya. Egli disse che turya non è, propriamente, uno stato da cui si entra e si esce. E’ piuttosto un non-stato, quando se ne diventa pienamente consapevoli. E’ l’assenza di noi stessi, che corrisponde alla nostra totale presenza. Quindi ci fu un silenzio. Gli altri studenti uscirono, e improvvisamente lui mi guardò e mi chiese: “Conosci te stesso?”. Ero un po’ disturbato da questa domanda, perché non capivo bene che cosa intendesse. Non trovavo alcun modo per osservarla. Esitando, dissi: “Sì,” perché pensavo, conosco il mio corpo, i sensi, la mente molto bene. E lui mi disse: “Tu sei il conoscitore del tuo corpo, dei tuoi sensi, della tua mente, ma il conoscitore non può essere mai conosciuto, perché tu sei quello, e non c’è nessuno a conoscerlo. E non può mai diventare un oggetto di osservazione, perché è la tua totalità”. Queste parole ebbero un impatto molto profondo su di me. Ebbi una intuizione della realtà, in quel momento, perché mi bloccò le facoltà intellettuali. Rimanemmo in silenzio. E poi me ne andai.

E questo impatto rimase anche quando arrivò a casa?

Lasciò un’eco molto forte in me. Di libertà dalle vecchie credenze. Andai a casa, e ci vissi insieme, libero da tutte le concettualizzazioni. E mi sentii risvegliato in questa non-conoscenza. Era completamente nuovo. Non c’era assenza di conoscenza.

La vita cambiò, o continuò come al solito?

La vita continuò: mangiare, incontrare persone, ma c’era ora un sentimento di essere al di là delle attività quotidiane. In seguito ho visto molte volte Pandiji, e capii che era il mio maestro, perché un impatto così profondo può solo provenire dal maestro. Quindi, vede, è lui che trovò me. Mentre io non lo stavo cercando.

Nella sua ricerca fu mai convinto che un giorno avrebbe conosciuto la sua vera natura?

Sì, dopo il primo incontro con lui in Bangalore. Non lo concettualizzai mai. Non divenne mai uno scopo. La parola “illuminazione” non entrò mai nei miei pensieri. Certamente Pandiji non usò questo termine. Era semplicemente un sentimento vitale, senza formulazione, di essere libero da me stesso, libero da tutte le restrizioni, le idee, libero dalle conoscenze riguardo la libertà.

Avete mai trascorso del tempo vivendo insieme?

Sì. Per tre o quattro mesi.

E’ importante vivere con il Guru?

No, non è importante. Stette a casa mia puramente per ragioni pratiche.

Come trascuravate questo tempo insieme?

Lui insegnava al college tutto il giorno. Talvolta mangiavamo insieme, e ogni mattina mi bussava alla porta, molto presto, e sedevamo insieme in silenzio. Qualche volta parlavamo delle scritture, perché essendo un uomo della tradizione spesso, parlando, faceva riferimento alle scritture. Ma non lo faceva mai arbitrariamente. Ogni volta che parlava in questo modo era il momento giusto per farlo. Era esattamente il momento in cui ne avevo bisogno. C’era veramente un sentimento di unità. Non ero consapevole di un me e di un lui, nella nostra relazione. C’era vero amore. E non nel modo in cui siamo soliti intenderlo. Era il modo più elevato di vivere l’amore. La sua presenza era continuamente colma di un sentimento caloroso.

Usò mai il contatto per la trasmissione?

Quello non era il suo modo, con me. Comunicavamo fondamentalmente attraverso lo sguardo. Talvolta mi toccava una spalla o una mano. Ma la nostra vicinanza era molto più vicina del contatto fisico. Passeggiavamo anche insieme. Era un ammiratore, e questo incontrò la mia natura artistica. Amava la musica, e il canto. E poteva imitare il suono di qualunque uccello.

Le insegnò qualche disciplina o esercizio durante questo periodo?

Solo di essere consapevole quando il condizionamento si insinua nella vita quotidiana. Enfatizzava il problema dei sogni ad occhi aperti, e del costruire strategie. Enfatizzava anche che non bisognava spingere via il condizionamento, ma solo vederlo chiaramente. E mi rammentava di far riferimento costantemente alla prima intuizione della verità, la prima non-esperienza.

Intende di ricordarla?

Entrare consapevolmente in essa, non ricordarla intellettualmente. E’ presenza, non una memoria.

Le insegnò qualche esercizio di yoga?

No, non era in programma quando sedevamo insieme, mi faceva prendere consapevolezza di certi schemi. Conoscevo già alcune posizioni yoga e se mi vedeva mentre le eseguivo, talvolta mi correggeva, il più del tempo sedevamo. La nostra vicinanza, la nostra meditazione non era mai intenzionale, egli enfatizzava solo la consapevolezza libera dagli oggetti e non il cercare di diventare una persona migliore. Per lui fare le cose intenzionalmente era una difesa. La sua presenza era sufficiente – e i suoi insegnamenti, il modo in cui mi portava la verità per mezzo di parole che enfatizzavano il silenzio. Egli enfatizzava il silenzio dopo gli insegnamenti, il silenzio in cui la comprensione diventa viva, libera dalle parole.

Pensava spesso al suo maestro?

Non ci pensavo, perché non potevo personificarlo, oggettivarlo. C’era un forte sentimento di unità. Non ero assolutamente attaccato alla sua presenza fisica. Qualunque cosa dicesse era una perla, io la coglievo come una perla e vivevo con essa. C’erano molti momenti in cui eravamo felici di essere insieme, senza parlare, senza pensare. La sua presenza era la mia presenza e la mia presenza era la sua. Il suo essere era la trasmissione. In un vero maestro questo è ciò che la trasmissione è. Ogni trasmissione intenzionale è sentimentalismo, romanticismo.

Spesso ha detto che le piace essere messo all’angolo con le domande, ha fatto questo anche lei con il suo maestro? Gli faceva molte domande?

Sì, molte domande! Ci portavano sulla soglia del pensiero, spegnevano il pensiero.

È stato mai curioso riguardo alla sua vita privata al suo ruolo d’insegnante o di uomo o magari come marito o padre come si relazionava con gli altri studenti?

No, mai. Non ho mai posto domande personali e non ho mai parlato di lui in modo personale. Era una relazione sacra, era un’unione profonda e seria. Non ho mai dubitato per un momento della sua integrità.

In questo periodo anche se lei sapeva intellettualmente che non c’era niente da raggiungere, da ottenere, continuava a sentire e a comportarsi come se ci fosse qualcosa da raggiungere?

No, non pensavo assolutamente di diventare o raggiungere; potrei forse dire che c’era ancora un residuo di energia eccentrica, energia per divenire. Ma ogni volta che ero con Pandiji, la sua presenza canalizzava l’energia che era dispersa.

Allora è importante stare un po’ di tempo con il maestro?

Oh sì.

Perché lei spesso sembra sminuirlo.

Non è la durata ciò che è importante ma la qualità del tempo trascorso insieme.

Quindi il fatto che lei sia stato con il suo maestro per circa tre anni, che Krishna Menon incontrò il suo maestro forse per 40 minuti e che qualcuno ha conosciuto lei per circa vent’anni o più, non ha niente a che fare con l’accensione della scintilla? Non si può uno essere uno “studente” per troppo tempo?

Non è questione di tempo, può succedere in ogni momento della vita, ma ci sono persone che hanno un intelletto lento, una comprensione lenta, o che sono bloccati in garage, può anche essere che abbiano una mente così condizionata da anni di cattiva educazione che la mente ha perso la sua acutezza ed è simile a una mente lenta.

A questo punto, credo, aveva già una certa libertà dagli impegni familiari e finanziari.

Sì, organizzai precedentemente la mia vita per rendere questo possibile.

Sa che molte persone si chiedono se organizzare le loro vite per essere più liberi dagli impegni e dalle responsabilità sociali. Lei crede che un ricercatore serio della verità dovrebbe fare questo?

Uno dovrebbe fare tutto ciò ciò che gli è possibile per realizzare questo per un po’ di tempo. Questo di solito significa rinunciare alle comodità materiali, abbandonare un certo stile di vita, vivendo nella maniera più funzionale: cibo e riposo.

Sentiamo spesso dire, “prima farò soldi e poi mi ritirerò dedicandomi alla ricerca della verità”.

Questo deriva da una mente calcolatrice. È un’affermazione dalla completa ignoranza. Non c’è niente di funzionale in questo modo di ragionare. È solo un posporre. Il momento giusto non viene dalla mente. Quando sentiamo l’urgenza di abbandonare il mondo competitivo, il desiderio è molto forte. Naturalmente non si evitano le vostre responsabilità familiari, ma si vedono in un modo diverso. Il ragionamento di fare abbastanza soldi per ritirarsi è una fuga da ciò che appartiene al momento presente.

E per chi ha diversi bambini per esempio, e semplicemente non può cambiare il suo lavoro?

Ciò che è importante è che sentiate il bisogno interiore di essere, poi ciò che vi circonda – ciò che vi appartiene – si dispone di conseguenza. L’esistenza su questa terra dà ad ognuno l’opportunità di conoscere la vita e di risvegliarsi nella vita. Ciò che cerchiamo è ciò che ci è più vicino.

Vorrei sapere perché, sebbene il suo insegnante non abbia mai enfatizzato lo yoga, lei ne perseguì lo studio, presumibilmente perché aveva ancora interesse nella relazione tra biologia e psicologia. Fu questo il motivo per cui andò a imparare lo yoga con Krishnamacharya?

Si, ma non ero assolutamente attratto da lo yoga dal punto di vista ginnico. Volevo essere più consapevole del corpo, volevo che il corpo diventasse più sottile, più energizzato, più espanso. Era per l’amore di sentire un corpo elastico ricettivo ed era una bella persona da incontrare.

Era questo prima o dopo il risveglio?

Oh, prima.

E come incontrò Dibianandapuri?

Su un autobus, a Bangalore. Era nello stato di mauna (silenzio).

Scendemmo alla stessa stazione ed egli tirò fuori dal suo dhoti una piccola lavagna e scrisse chiedendomi da dove venissi e che sentiva che ero suo fratello. Io dissi, “come potrebbe essere altrimenti?” poi egli scrisse, “se ha il tempo, camminiamo un po’ insieme,” così camminammo e parlammo (lui con la sua lavagnetta). Egli viveva in un piccolo tempio di Shiva appena fuori Bangalore e c’incontrammo spesso. Egli era originario di Puri e aveva vissuto per lungo tempo in Kashmir. Parlammo dell’insegnamento Kashmiro, di come in questo insegnamento si enfatizzi il corpo energetico e non quello fisico. Questo era il mio principale interesse, ero già consapevole del corpo energetico. E consideravo quello come il corpo reale, e non la struttura scheletrico-muscolare. Dibianandapuri confermò ed espanse la mia intuizione ed esperienza. Dava priorità al corpo energetico e mi mostrò come tutte le posizioni potessero essere eseguite indipendentemente dal corpo fisico.

Vide altri maestri del livello di Pandiji mentre era in India?

Vidi Krishna Menon 4 o 5 volte, e lo trovai molto abile in vidya vritti, la formulazione di ciò che non può essere formulato. Un essere assolutamente meraviglioso.

E Ramana Maharshi?

Sfortunatamente non l’ho mai incontrato perché lasciò il corpo qualche mese prima che io arrivassi in India.

Quando quindi era discepolo di Pandiji non si sentì mai attratto da altri insegnanti di per ulteriori chiarimenti?

In me non c’era assolutamente quel desiderio. Non andai in India a cercare un maestro, il maestro trovò me. C’è solo un maestro. Presto giunsi alla convinzione che non c’è niente da insegnare e che ciò che stiamo cercando non appartiene a nessun “maestro” o insegnamento. Quindi perché cercare qualcuno? E’ la presenza del guru che ci mostra che non c’è niente da insegnare, perché il maestro è stabilito nell’ “Io sono”. Compresi quindi che solo l’ “Io sono”, può portare all’ “Io sono”, non una mente o un corpo.

Per quanti anni visse in questo modo, incontrando Pandiji?

Per circa tre anni.

E poi lasciò Bangalore e andò a Bombay?

Sì, andai in visita.

E durante questo soggiorno avvenne l’illuminazione?

Sì, fu un rovesciamento totale dallo stato condizionato residuo allo stato e incondizionato. La consapevolezza si espanse completamente e sentii me stesso nella globalità.

È questo era successo anche in precedenza?

No. C’erano stati dei barlumi, ma questo fu qualcosa di più di un barlume, non c’era più possibilità di ritorno, trovai il mio reale terreno.

Si rese subito conto che sarebbe stato permanente o lo scoprì nei giorni successivi?

Dato la qualità del cambiamento non ci fu dubbio che non potevo essere più preso dalla dualità, e questo fu confermato nei giorni e settimane che seguirono. Sentii una rettificazione nel mio corpo e del mio cervello, come se tutte le parti avessero trovato il loro posto giusto, la loro posizione più comoda. Vedevo tutti gli eventi quotidiani apparire spontaneamente nel non-stato, nella mia assenza totale, la reale presenza.

Può dirci esattamente quali erano le condizioni fisiche e mentali prima di questo momento: la soglia?

Per due anni, c’era stato un ritrarsi di tutta l’energia comunemente usata nel divenire: così che quando un volo di uccelli attraversò il mio orizzonte, invece che perdermi nell’oggetto, l’oggetto si perse in me ed io mi trovai in una consapevolezza libera da tutti gli oggetti, Questa volta ciò che ammiravo, gli uccelli, si dissolse nella mia ammirazione, nella presenza, E l’ammirazione si dissolse nell’Ammirato. Prima che apparissero gli uccelli, ero stato in un profondo e prolungato stato di essere aperto all’apertura, trovai me stesso come apertura, identico all’apertura. L’apertura era il mio essere, non c’era più dualità.

C’era qualche altra differenza tra questa volta e le altre volte in cui aveva guardato un volo d’uccelli?

Prima c’era ancora un osservatore che osservava qualcosa. In quel momento ci fu semplicemente un osservare senza un osservatore. Precedentemente mi era diventato spontaneo vivere nella pura percezione degli oggetti, non vivere nella mente divisa. Per molto tempo ho ignorato il sorgere di tutte le qualificazioni.

Ignorato?

Appartiene all’approccio tradizionale e anche a quello del mio maestro, mai rifiutare o indulgere il sorgere delle qualificazioni, ma semplicemente ignorarle, ed eventualmente dimenticarle. Né ricercare la libertà, né evitare la non libertà, La mente cessò semplicemente di avere un ruolo eccetto quello puramente funzionale.

Mi sembra di capire che era pronto per il momento?

In altre parole il momento mi stava aspettando!

Come è cambiata ora la sua vita?

Non c’è più identificazione con tempo e spazio, corpo, sensi e mente, tutti gli avvenimenti appaiono nella consapevolezza.

Ci fu un cambiamento nelle sue relazioni?

Non c’erano più relazioni dato che se non c’è più un “Io”, non c’è nemmeno l’altro.

Questo non-stato può essere descritto in qualche modo?

È amore dove la mente è dissolta nell’amore.

Aveva fretta di ritornare a Bangalore e riincontrare Pandiji?

No, gustavo la totale libertà, libertà da tutto il fare. Rimandai tutti i progetti e stetti a Bombay un’altra settimana o quasi.

Come fu l’incontro seguente con Pandiji? Fu pieno di lacrime di gioia e di gratitudine?

Egli non era mai stato assente, quindi non c’era fretta di rivederlo. Egli non fece mai notare, né mai menzionò qualcosa a riguardo, sebbene si fosse accorto di un cambiamento. Lo capivo dal suo modo di parlare. Non avrebbe mai parlato dell’Esperienza col rischio di farne uno stato. Francamente, lacrime ed emozioni dopo un fatto del genere mostrerebbero che esso non è altro che uno stato mentale. Per quanto riguarda la gratitudine, questo sentimento per lui ci fu fin dall’inizio, non ci fu emotività nel nostro incontro, solamente un’unione gioiosa, ed un sorriso non espresso portato dalla comprensione che il ricercatore è il cercato ed è sempre così molto vicino.

Cosa stimolò il suo ritorno in Europa?

Potevo rimanere e insegnare in India, ma sentii in qualche modo che appartenevo all’Europa e ritornando ero abbastanza interessato a ritornare per vedere da questa nuova visione senza qualificazioni ciò che avevo precedentemente visto e qualificato. Anche Pandiji mi consigliò di ritornare perché sentì che l’Occidente aveva bisogno di me. In un certo modo il suo ruolo era concluso per me. Sapevamo che avremmo sempre avuto in comune l’essere e l’amicizia. Non c’era ragione per rimanere. Così lasciai il mio migliore amico ed una nazione che amavo.

E come trovò l’Europa? Questo deve essere stato intorno al 1957 vero?

Si, trovai una totale assenza di sacralità,1’assenza di amore. Trovai odio e competizione, pretese e richieste, mi ricordo del sentimento, “c’è qualche speranza che queste persone scoprano la vita? C’è una scintilla?” il materialismo sembrava lo stesso di prima che andassi in India, ma ora lo vedevo più chiaramente e ne vedevo le sue cause.

Sembra una situazione deprimente a cui ritornare!

No, non deprimente. Deprimente per chi? Era semplicemente un fatto, vedevo le cose com’erano senza nessuna qualificazione, mi era chiaro che questi fatti erano prodotti dall’identificazione con ciò che in realtà non siamo.

Il vedere le cose così come sono la ispirò a insegnare, e trovò quella scintilla?

Fino a quando c’è un essere umano, c’è una scintilla. Anche in un assassino ci sono momenti in cui egli non è un assassino, l’insegnamento fu risvegliato in me dal vedere le cause.

Come iniziò a insegnare?

Le persone mi si avvicinarono non mi sono mai preso per un maestro quindi non ho mai cercato studenti, l’insegnante appare solamente quando gli viene richiesto di insegnare.

Quando introdusse l’insegnamento corporale, e perché?

Circa un anno dopo esser tornato dall’India, trovai necessario estendere l’insegnamento a livello psicosomatico. Incontrando le persone, divenne apparente che l’identificazione con ciò che non siamo è confermata e rinforzata dalla contrazione a livello psicosomatico. L’io-concetto è solo una contrazione sul livello del corpo-mente, Non è più reale di una cattiva abitudine, è una difesa contro l’essere nessuno.

Nel conoscere il corpo-mente, uno può scoprire più chiaramente la natura dell’identificazione, e quindi lasciar andare. Il corpo rilassato è una mente rilassata. In un corpo-mente rilassato, siamo aperti a ricevere, disponibili, accoglienti, aperti all’apertura. Il corpo-mente rilassato, luminoso, energetico, sattvico è un’espressione prossima alla reale natura. È quasi impossibile per un corpo-mente condizionato essere ricettivo alla verità, aperto alla grazia. Può succedere che la verità penetri oltre tutti i condizionamenti dato che l’insight nella nostra vera natura, fondamentalmente non ha niente a che fare con il corpo o la mente Ma è estremamente raro. Il mio insegnamento anche a livello del corpo era solo per favorire la discriminazione e per aiutare i miei amici ad essere disponibili all’insight globale. Certo mi veniva spontaneo anche di insegnare tutto ciò che sapevo, che includeva la conoscenza del corpo, ma ciò che più contava era la disponibilità.

E come trova l’Occidente più di trent’anni dopo il suo ritorno?

Vive ancora fondamentalmente sul livello della competizione, della quantità e del divenire, ma ci sono momenti poetici, momenti di bellezza.

Si ritiene discendente di un lignaggio di maestri?

In un certo senso sì, l’approccio alla verità appartiene a una certa corrente, ma non ci sono entità nè lignaggio.

Non era quindi interessato in chi fosse stato il maestro del suo maestro?

Nell’insegnamento del mio guru ho visto l’insegnamento del suo guru, ma quando l’insegnamento è forte non c’è riferimento al passato, C’è solo eterna presenza, Che cosa significa “lignaggio”? E’ ancora un qualcuno in cerca di sicurezza in qualcosa.

Ritiene di appartenere a una certa tradizione?

Una tradizione di ricercatori della verità. Advaita non è un sistema, una religione, una tecnica; non è nemmeno una filosofia. E’ semplicemente la verità.

E la verità è trasmessa senza riferimenti a un sistema o tradizione?

Sì.

Il suo insegnamento è stato paragonato a quello di qualche maestro Chan, a Chuang Tzu e l’insegnamento Taoista. Lo sente come un valido paragone?

Sì, perché questi insegnamenti riguardavano solo ciò che uno non è e questo apre il discepolo alla verità di ciò che è. È solo per caso che chiamo Advaita la corrente del mio insegnamento.

Viviamo in un periodo turbolento e come lei ha detto nel regno della quantità. Pensa che ci sia speranza per l’essere umano?

Non c’è solo speranza, c’è la certezza che un giorno vivremo nella bellezza. Veniamo dalla bellezza e la bellezza non può altro che cercare la bellezza.

 

Da: www.samveda.it/articoli/jean-klein-la-prefazione

 


 

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