in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Michel Hulin

 

SANKARA E IL VEDANTA

Sommario:

1. Le Upanishad
2. Chi era Sankara
3. Sankara come commentatore e teologo
4. Il pensiero filosofico di Sankara
5. Il principio pensante e non pensante:cit e acit
6. I continuatori di Sankara

 

DOMANDA: Lei ci ha parlato dei darsana. Vuole adesso, tornando al Vedanta, parlarci di Sankara ?

Per parlare di Sankara è necessario innanzi tutto riportarsi molto indietro nella storia della filosofia indiana, perché egli non si presenta come un rivoluzionario, come un pensatore che pretende a un ricominciamento, facendo "tabula rasa"del passato. Egli è inserito, al contrario, in una lunga tradizione, tradizione che è in primo luogo quella delle "Upanishad", di cui è il commentatore più celebre. Dunque mi sembra opportuno soffermarci sulle "Upanishad".

Le "Upanishad" sono un insieme di testi, gli uni in prosa, gli altri in versi, i più antichi dei quali risalgono all'inizio del I millennio a.C. Il termine "Upanishad" è di per se stesso rivelatore. E' rimasto a lungo oscuro per la filologia occidentale, ma si è finito per trovare l'accordo su un'interpretazione che posso riassumere brevemente così: le "Upanishad" sarebbero la scienza esoterica delle corrispondenze di ogni specie, che reggerebbero i diversi livelli della manifestazione. Più in particolare le "Upanishad" si presenterebbero come la scienza dei parallelismi, delle omologie, che si possono stabilire tra il corpo o più esattamente tra la persona umana, il sacrificio e il cosmo. Soprattutto nelle "Upanishad" più antiche un gran numero di passi ci mostrano che una certa realtà della persona corrisponde a una certa parte del sacrificio, corrisponde a una certa struttura del cosmo, nel senso, per esempio, in cui si può dire che il respiro dell'uomo corrisponde alle correnti cosmiche che fanno muovere gli astri, i pianeti o che l'occhio dell'uomo, con la luce che vi brilla, è omologo al sole, eccetera.

Come è stato possibile, a partire da queste premesse, delineare una metafisica? Perché dopo aver fatto corrispondere gli elementi costitutivi della persona, del sacrificio e del cosmo ci si è chiesti se non ci fosse un'origine comune di quelle corrispondenze, si è cercato in particolar modo, riguardo alla persona umana, se l'intimo principio della sua unità non dovesse essere, a sua volta, comparato a un altro elemento sottostante a tutti i fenomeni esterni, all'unità che sottostà ai fenomeni esterni.

Così si sono enucleate due nozioni assolutamente fondamentali, da una parte quella dell'atman, del "sé", di ciò che dall'interno unifica la persona, costituisce l'origine unica dei suoi atti, dei suoi pensieri, dei suoi comportamenti in generale. Dall'altra, prolungando la speculazione dei "Brahmana", sul sacrificio in particolare, la nozione di qualcosa che sarebbe come il fondamento nascosto dei fenomeni, il fondamento nascosto dell'organizzazione dei fenomeni in un cosmo unico, e si è chiamato brahman questa entità.

La mossa decisiva delle "Upanishad" è consistita, dopo aver messo in parallelo, l'atman e il brahman, nel superare la tappa seguente, cioè nel porre con una arditezza straordinaria il principio della loro unità. Da quel momento prendeva senso l'idea che la persona umana non fosse semplicemente un'entità minima, perduta nel divenire universale, ma che possedesse una dignità ontologica, perfettamente identica a quella dell'assoluto. Quindi le "Upanishad", almeno nelle parti più speculative dei testi, sono piene di una specie di ebrezza mistica, dell'allegrezza in cui si esprime la meraviglia di scoprire che, in un certo modo, l'interno contiene già l'esterno, che la persona umana è in un certo senso uguale alla totalità del cosmo.

Questa scoperta si è espressa prima in un linguaggio figurato, non ancora concettuale. Per fare un solo esempio, quando vogliono far comprendere che cosa è in realtà l'atman i pensatori delle "Upanishad" dicono, da una parte che risiede nel cuore, modo approssimativo per indicare che si trova al centro della persona, e dall'altra che è più piccolo del cuore stesso, più piccolo della centesima parte di un chicco di miglio. In altre parole, ci si sforza di orientare l'immaginazione verso la rappresentazione dell'infinitamente piccolo e poi, al contrario, si incoraggia l'immaginazione a slanciarsi nella direzione opposta, dicendo: questo atman, situato nello spazio del cuore, è al tempo stesso più grande del corpo, più grande della terra, più grande dello spazio tra la terra e il sole, più grande dello spazio tra il sole e gli astri più lontani. Questa specie di coincidenza dei contrari è il modo proprio dell'immaginazione di pervenire alla nozione di una entità che trascende lo spazio e trascende il tempo.

Si può aggiungere ancora che le "Upanishad" non costituiscono, beninteso, sotto questo aspetto, un inizio assoluto. Molti indizi ci inducono a pensare che un passato, una tradizione già antica di raccoglimento, di esercizi d'ascesi, di "yoga" ante litteram, ha trovato espressione in questi testi. Ciò che fino ad allora era stato oggetto di pratiche più o meno empiriche e selvagge ha trovato, ha cominciato a trovare la sua giustificazione. L'identità dell'"atman" e del "brahman" è apparsa come la chiave dei fenomeni di estasi, cercata fin qui a tentoni senza comprendere le loro autentiche condizioni di possibilità.

Un'ultima nozione vorrei ricordare, quella di karman e il correlativo samsara o "trasmigrazione delle anime". In effetti è nelle "Upanishad" antiche che quelle due nozioni cardinali del pensiero indiano classico appaiono la prima volta, per una ragione che non ha nulla di contigente. Infatti dal momento che i pensatori delle "Upanishad" avevano messo in luce l'essenziale eternità dell'"atman", la sua intemporalità, si trovavano a dover conciliare quella intemporalità di principio con i dati immediati dell'esperienza comune e cioè l'estrema limitazione della durata della vita umana. Hanno allora immaginato che l'anima, non avendo né inizio né fine, fosse affetta da una fondamentale ignoranza, anche essa senza inizio, senza età, che la spinge a incarnarsi, la fa trasmigrare indefinitamente di corpo in corpo e la fa compiere atti che ricevono nelle successive esistenze la loro retribuzione.

Questo in sintesi il capitale di nozioni che le "Upanishad" hanno trasmesso alle età ulteriori. Ma si deve sottolineare il fatto che si tratta essenzialmente di stimoli vigorosi, profondi, alla riflessione filosofica, ma non si può ancora, a questo stadio, parlare di filosofia propriamente detta, perché la sistematicità, la logicità, la ricerca di un accordo tra interlocutori in una controversia, che sono i presupposti della discussione e della ricerca filosofica, qui non si trovano ancora riuniti. E' per questo che nelle età successive si faranno dei commenti alle "Upanishad" con cui si tenterà di dare a quei testi, di proiettare su quei testi, forse, la coerenza, la sistematicità che non possedevano ancora. Al primo posto tra quei commentatori, non il primo in senso cronologico, ma colui che per primo ha lasciato la sua impronta nel tempo, troviamo il maestro Sankara, Sankaracaria.

 

DOMANDA: Ci può parlare di Sankara in particolare?

Sankara è vissuto probabilmente da qualche parte dell'India nel corso dell'VIII secolo della nostra era. Non sappiamo con certezza, né la data di nascita, né la data di morte. Sappiamo che discendeva da una famiglia di brahmani dell'India del Sud-Ovest, una regione che corrisponde a quella che oggi si chiama Mysore. Sappiamo anche dai racconti biografici, ma anche lievemente agiografici, che ci ha lasciato la tradizione, che ha abbandonato assai presto la sua famiglia ed è divenuto un "sanyasin", un "rinunciante", secondo una tradizione indiana già antica al suo tempo, e da quel momento la sua vita è diventata tutt'uno con la sua istruzione spirituale presso un maestro, cui sono seguite diverse peregrinazioni attraverso l'India.

La sua attività è stata da un lato un'attività di predicazione, di discussione con i sostenitori di altre dottrine, ma mentre costruiva la sua opera filosofica, i suoi commenti, si preoccupava al tempo stesso, dovunque passava di riformare l'induismo, di correggere certi abusi, certe degenerazioni del culto, che qua o là constatava. E si deve dire che una delle ragioni della sua estrema importanza, della celebrità che lo ha accompagnato fino ai nostri giorni è da cercare proprio in questa attività di maestro spirituale, di riformatore religioso, condotta in perfetto parallelismo con la sua attività filosofica in senso stretto.

Si sa che ha fondato in quattro parti dell'India, quattro "mat", quattro monasteri, la cui finalità era quella di difendere l'ortodossia della tradizione, preservare e diffondere i testi, istruire nuove generazioni di discepoli. Nella misura certamente limitata, in cui l'induismo contemporaneo dispone di autorità, di voci autorevoli, si può dire che sono i priori, i superiori di questi quattro monasteri, che ancora oggi portano il nome di Sankaracaria, a detenere quell'autorità. Sembra d'altronde che Sankara sia morto assai giovane. La leggenda vuole che sia morto a trentadue anni. Ma questo non sembra molto probabile data l'importanza degli scritti che ci ha lasciato. Sembra difficile credere che in una vita così breve abbia potuto redigere un'opera ccosì importante e al tempo stesso prodigare tante energie nella propaganda e nelle riforme religiose.

La sua opera si compone essenzialmente di commenti a dieci "Upanisad" maggiori, più un commento alla "Bhagavadgita", più un commento ai "Brahmasutra", la prima sistematizzazione, sotto forma di aforismi, apparsa nell'ambito del "vedanta". Bisogna aggiungere un testo a parte, nel senso che non è un commento, ma un trattato autonomo, metà in prosa metà in versi, che si chiama "Upanisahasri" o "Trattato dei mille insegnamenti", un testo, sia detto di passaggio, che potrebbe servire benissimo di introduzione all'opera di Sankara, perché mette in scena un maestro e un discepolo, con il maestro che illumina per gradi il discepolo, partendo dalle domande che quello si pone, dalle difficoltà che incontra nell'assimilare i suoi insegnamenti.

 

DOMANDA: Professor Hulin, ci può illustrare il suo pensiero?

Il pensiero di Sankara non è del tutto assimilabile a quello di un puro filosofo, nel senso che siamo abituati a dare questo termine, in Occidente, almeno dopo Descartes. Si potrebbe dire anche, usando in mancanza di meglio le nostre categorie, che Sankara si presenta tanto come teologo quanto come filosofo.

Non è affatto un caso se la sua opera è essenzialmente quella di un commentatore. Egli stesso si considera innanzi tutto un commentatore, perchè Sankara e, in genere, quelli che si situano nella sua stessa tradizione ritengono che la verità ultima, in quanto tale, non può essere colta direttamente dallo spirito umano, e che, di conseguenza, gli deve essere fornita per mezzo di una rivelazione esterna, rivelazione costituita appunto dal testo del "Veda", di cui le "Upanisad" rappresentano in qualche modo la parte più propriamente filosofica.

Ciò che si potrebbe considerare come un semplice scetticismo o una dimissione della ragione, attiene invece strettamente al tema più importante della dottrina del "vedanta" e senza dubbio anche di quella upanisadica: alludo qui alla nozione centrale di "maya" o di "illusione cosmica". Questa nozione presuppone infatti che, al di là degli errori particolari, individuabili ed emendabili, che possiamo commettere tanto nella sfera pratica quanto in quella teorica, in ordine a qualsiasi problema, un'altra forma di errore, più essenziale, più avvolgente ci minaccia o meglio ci governa, quella che ci fa sentire come esseri finiti, limitati nel tempo e nello spazio.

Parlavamo poco fa delle "Upanishad" e dello scarto estremo, secondo quei testi, tra l'identità atman-brahman, da una parte, e la diretta esperienza sensibile dall'altra. Si può dire che la nozione di maya in un certo senso esprime la discrepanza così avvertita, esprime l'immensità dello scarto. "Maya" vuol dire che al di là di ogni errore particolare, noi viviamo dentro una forma di esperienza fondamentalmente falsa, erronea, che popolarmente talvolta viene paragonata al sogno. Più precisamente Sankara e gli altri ritengono che il linguaggio, o per meglio dire la maniera con cui il linguaggio - che del resto era stato già da gran tempo analizzato dai grammatici indiani - ripartisce il reale in cose e sostanze, in qualità portate dalle cose, in azioni esercitate dalle sostanze le une sulle altre, in conclusione, il linguaggio nella sua struttura stessa frammenta il reale.

In un certo modo nessun discorso che passa per il linguaggio - e per definizione tutti vi passano - nessun discorso in quanto tale è capace di restituire l'unità assoluta di tutte le cose, che le "Upanishad" dichiarano di aver scoperto. Si potrebbe dire che in un certo modo per "Sankara" la "maya" condiziona tutto il nostro linguaggio, e quindi, per contraccolpo, tutti gli orientamenti del nostro pensiero, di modo che, dirà "Sankara", non potremo mai neanche sospettare che qualcosa come il brahman esiste, e ancor meno scoprire la nostra identità profonda col brahman, se ci dovessimo valere soltanto dei nostri lumi. Di conseguenza l'idea stessa del "brahman" è qualcosa che ci deve essere dato dall'esterno. E qui incontriamo la grande idea di una "parusia" dell'assoluto.

Sotto la forma delle parole vediche è l'assoluto stesso, è il brahman, che si abbassa, per così dire, al nostro livello, che si mostra a noi nella sua pura essenza, e ci invita a congiungerci con esso. Quelle che vengono chiamate le "grandi parole" upanisadiche, di cui il celebre "tat tvam asi" "tu sei tutto questo" costituisce l'archetipo, sono interpretate come la cifra della nostra condizione, la chiave di volta di ogni possibile riflessione, punto di arrivo ultimo, verso il quale siamo indotti a procedere. Dunque il pensiero di Sankara, pur facendo posto, lo vedremo subito, pur dando fiducia alle potenzialità della ragione, ritiene che la ragione non si può mettere in cammino se una luce, per così dire, non brilla dall'altro capo del tunnel, se il suo punto d'arrivo non le è indicato in anticipo dalle parole upanisadiche.

Quindi in un certo modo il percorso filosofico di Sankara e del "vedanta" in generale sarà un'insieme di metodi, messi a punto per stabilire una relazione sempre più stretta tra due logiche apparentemente incompatibili, la logica dell'unità, della non dualità, più esattamente del "advaita", che costituisce il punto d'arrivo, e la logica della pluralità indefinita, che è naturalmente caratteristica della forma di esperienza strutturata dalla percezione sensibile, strutturata dal linguaggio, nella quale si compie il nostro sviluppo. E' perciò che Sankara si presenta al tempo stesso come un commentatore e come un pensatore autonomo. Non si tratta di due ruoli eterocliti, ma dello sforzo di esegesi del "Veda" e delle "Upanishad" da una parte, e dello sforzo di riflessione razionale pura dall'altra, colti nella loro integrazione reciproca, fermo restando che il primato spetta alla rivelazione vedica.

 

DOMANDA: Qual è, dal punto di vista della ragione, il pensiero di Sankara?

L'aspetto propriamente razionale del pensiero di Sankara risalta con evidenza fin dall'introduzione che ha scritto alla sua opera più importante, il commento al "Brahmasutra". In modo caratteristico, prima di abbordare il primo aforisma, il primo "sutra", Sankara fa precedere il suo commento da una esposizione, che, in certo modo, riassume tutto il successivo orientamento del suo pensiero, o che almeno lo contiene in germe. Questa esposizione è imperniata sulla nozione di "adyasa", che si può tradurre con "sovrapposizione", il fatto di lasciar apparire l'uno sull'altro in trasparenza, per così dire, due principi, del resto, assai lontani l'uno dall'altro.

Sankara parla della sovrapposizione del "cit" e dell' "acit", letteralmente ciò che pensa, ciò che è cosciente e ciò che non pensa, ciò che non è cosciente. Concretamente che cosa significa la sovrapposizione reciproca del "cit" e dell'"acit"? Sankara parte da una definizione a priori di questi due principi. Da un lato quello che corrisponde a ciò che chiamiamo soggetto. E Sankara ha un termine tecnico assai simile al nostro quando dice: quello che si enuncia attraverso la nozione di "io", che parla in prima persona ed è sempre dal lato dell' "io", di colui che parla, che pensa, eccetera. Dall'altro lato quello che si enuncia alla terza persona, il "tat", il "ciò", l'oggetto, ciò su cui il soggetto riflette o che percepisce, eccetera. In che consiste allora la sovrapposizione? C'è sovrapposizione nella misura in cui, malgrado la loro assoluta distinzione di essenza, i due principi appaiono in realtà uniti, saldati, quasi confusi l'uno con l'altro, in una esperienza centrale. A partire di qui Sankara sviluppa il suo metodo che è l'esperienza dell'incarnazione o, se si preferisce, il fatto per il soggetto, per il principio spirituale puro, per l'io, in ciò che ha di assoluto, di sentirsi immediatamente coordinato e solidale con un particolare segmento della manifestazione, ciò che viene chiamato, che egli stesso chiama il corpo, anzi "corpo proprio". Questo fenomeno del corpo proprio, che si trova al centro di molte correnti del pensiero contemporaneo, possiamo dire, io credo, senza anacronismo, senza esagerazione, che è il vero punto di partenza di Sankara, almeno quando si considera l'aspetto più propriamente razionale della sua dottrina.

Sankara si interroga al tempo stesso sul miracolo e sullo scandalo del fenomeno dell'incarnazione e del corpo proprio, nel senso in cui ciascuno di noi ha coscienza non soltanto di essere puramente e semplicemente se stesso, ma di comportare ogni specie di determinazioni, per esempio il fatto di essere grande o piccolo, bello o brutto, il fatto di occupare un certo posto nel mondo, di appartenere ad una certa casta, di essere giovane o vecchio, eccetera, eccetera, determinazioni di ogni specie, di cui Sankara, in un passo decisivo, mostra che traggono origine dal fenomeno del corpo proprio. E nella linea di questa interrogazione mostra anche che l'esistenza per noi di scopi nella vita, di interessi positivi, di desideri o, al contrario, l'esistenza di timori, di paure, di pericoli, è puramente legata al fenomeno del corpo proprio. Il corpo proprio è la presa di possesso da parte del soggetto, di un insieme di determinazioni biologiche, fisiche, che diventano più che sue proprietà, che si amalgamano col suo essere e gli permettono da un lato di agire nel mondo, di far presa sul mondo, ma all'inverso consentono anche al mondo esterno di aver presa sul soggetto, che viene così a trovarsi implicato nell'intera rete delle cause e degli effetti. Di conseguenza il soggetto non si avverte più nella sua assolutezza, ma solo nella sua particolarità, affetto da qualità e da difetti, da una molteplicità di determinazioni, insomma. Sviluppando e sistematizzando in una serie di movimenti successivi questo tema iniziale, Sankara mostrerà che l'idea indiana del "samsara", della reincarnazione, - del "karman" e della conseguente reincarnazione, - prende senso nel quadro della incarnazione. Ma, lo ripeto, per lui si tratta in qualche modo di estraneità assoluta, di scandalo.

Sankara dedicherà molto tempo a mostrare l'abisso ontologico che separa il "cit" dall'"acit", il principio pensante dal non pensante. Quindi la sua filosofia consisterà nel mostrare da una parte l'origine di questa sovrapposizione: come questa situazione, che in linea di principio non dovrebbe aver luogo, ma che di fatto è presente, si è potuta produrre e, correlativamente, per quale via sarebbe possibile ridurla - dato che è evidente che si possono, si devono far rientrare nel quadro della sovrapposizione, esperienze, esistenze passate e servitù, nel senso di dipendenza riguardo alle circostanze esterne, quindi fondamentalmente, sofferenza e trasmigrazione.

Si ricollega pure a questa idea di sovrapposizione una teoria delineata un po' prima di Sankara, da alcuni suoi predecessori, come Gaudapada, nel suo commento alla "Mandukya-Upanisad" e che sarà destinata ad avere fortuna nel "vedanta": la teoria dei quattro livelli della coscienza. Li possiamo enumerare: lo stato di veglia ordinario, l'esperienza del sogno, l'esperienza del sonno profondo e infine un quarto tipo di esperienza misterioso e singolare, che non si comprende che in antitesi ai primi tre. Per ciò che concerne i primi tre, si possono definire come modi particolari di sovrapposizione. La coscienza vigile, la coscienza ordinaria della veglia non esprime né più né meno che l'identificazione essenziale dell'io o, se si preferisce, del sé, dell'"atman" con il corpo preso nel senso ordinario del termine, con i sensi e i poteri che sono suoi propri. Nella misura in cui mi sento completamente solidale con il corpo nel bene e nel male, io sono nello stato di veglia e tutti gli altri con i quali sono in rapporto in questo stato di veglia hanno la stessa esperienza. La condizione di sogno è compresa anch'essa come una forma di sovrapposizione, di identificazione con il corpo, non più con il corpo nel senso ordinario della parola, ma con il "corpo sottile". In genere i filosofi indiani intendono con questo termine le strutture sottili, nascoste, inaccessibili dell'esperienza immediata, contenute nel corpo, in quell'involucro esterno che è il corpo, e che sono responsabili della percezione, sono le potenze sensoriali della comunicazione verso l'interno dei messaggi dei sensi, del giudizio, eccetera. Tutte queste strutture, tutti questi poteri mentali, dal punto di vista vedantico e indù in generale, non appartengono affatto all'io o al sé in quanto tale, sono funzioni mentali, funzioni biologiche, in un certo senso, esprimono il rapporto dell'uomo e del mondo: solo nella misura in cui si isolano queste entità dal resto del corpo, si è indotti a parlare di corpo sottile. D'altronde si immagina che è proprio a questo livello che gli atti lasciano le tracce di ciò che sono stati. Quindi nel sogno ci identifichiamo soltanto con il corpo sottile, nella misura in cui non sappiamo più troppo bene che cos'è, né dove si trova il corpo grossolano, il nostro corpo nel senso ordinario del termine. Stesi sul nostro letto, ci immaginiamo su un aereo, su un campo di battaglia o in qualsiasi altro luogo e, di conseguenza, ci sentiamo sì sempre più legati a un corpo, ma questo corpo è solo quello dell'immaginazione, del desiderio, della memoria, eccetera. In questo senso parliamo dunque di identificazione con il corpo sottile. Nel sonno profondo il "vedanta" sostiene che il principio spirituale non è soggetto a eclissi, ma in un certo modo lo attraversa e vi resta presente. Qui, poichè manca il sogno, viene meno l'identificazione con il corpo sottile, ma misteriosamente, il sentimento che non si può esistere senza il corpo, che si deve pur esistere da qualche parte, anche se si è totalmente incapaci di dire dove, sussiste ed è la nozione che i vedantin chiamano "corpo causale". E' infine la speculazione vedantica, al di la di questi tre corpi,di questi tre livelli di identificazione,di questi tre livelli di sovrapposizione, ha immaginato che un'altra forma, radicalmente diversa di esperienza dovesse essere possibile, in seguito all'esperienza dell'estasi o come risulato ultimo del percorso spirituale, proposto dal "vedanta", proprio nella realizzazione del fine più autentico, dell'identificazione dell'"atman" con il "brahman". Una volta scomparso ogni sentimento di essere congiunto con un corpo, di essere solidale con un corpo, si incontrerebbe uno stato che non possiamo neanche immaginare, uno stato di cui non abbiamo alcuna rappresentazione. E' perciò che, almeno in un primo tempo, viene chiamato semplicemente il "quarto", quello che è al di là degli altri tre, perché corrisponderebbe a qualcosa di inaudito, qualcosa di cui non avremmo idea, se la rivelazione vedica non ci avesse istruiti in anticipo della sua possibilità e della sua infinita desiderabilità, dato che, attraverso la cessazione della sovrapposizione, esso rappresenta ciò che si chiama "liberazione", il superamento definitivo della continua oscillazione tra la speranza e la disperazione, tra il piacere e il dolore.

 

DOMANDA: Torniamo alla nozione di cit e di acit. Non trova che c'è qualcosa di contraddittorio nella nozione di acit?

Certo ci troviamo all'interno di una dottrina che si qualificherà più tardi di "advaita", letteralmente di non "dualità". Le "Upanisad" e, nel loro solco, il "vedanta" insegnano che in ultima istanza tutte le cose sono uno, che non c'è altro che il brahman e che le anime individuali non hanno realtà permanente, che trovano la loro vera realtà nel brahman e che anche il mondo esterno è contenuto nel brahman. Ora il "brahman" sarà considerato sempre sotto la forma di una coscienza infinita. Il "vedanta" ulteriore definirà il "brahman" spesso come sat, ossia "essere", cit, "pensiero" o "coscienza" e ananda, "felicità". Ora come si colloca l'acit, il non pensante, ciò che è inerte, materiale, in questa prospettiva? La contraddizione sarebbe radicale e il "vedanta" non sarebbe un filosofia degna di questo nome se, appunto, l'acit, il non pensante, godesse di una realtà indipendente, insuperabile. In questo caso ci troveremmo nel quadro di una filosofia sì, ma dualista. E invece siamo in un quadro di non dualità. Ciò comporta che l'acit, il non pensante, non può avere che una realtà apparente e provvisoria o, in altri termini, che è a quel famoso difetto di cui siamo, fin dal principio, avvertiti, a quella "maya" o "avidya", come anche vien detta, ignoranza o misconoscimento, di cui la rivelazione vedica ci ha avvertiti in anticipo che i nostri poteri di percezione, di ragionamento, di linguaggio sono affetti, è a quel difetto di visione, per così dire, che si deve ricollegare l'apparente dispiegarsi delle molteplici forme sensibili. Allora, per far capire la possibilità di una cosa del genere, il "vedanta", e Sankara in particolare, ricorrono, almeno a titolo di artifizio provvisorio, come strumento pedagogico, a quelli che si chiamano tradizionalmente in sanscrito "nyaya", esempi che aiutano la comprensione delle cose, parabole che guidano lo spirito verso ciò cui accennano. Il "nyaya", uno dei "nyaya" più largamente usato in questa prospettiva, sarà quello della corda e del serpente. A volte noi vediamo muoversi nell'ombra qualcosa che presenta delle curve, dei meandri, e, poiché in genere siamo avvertiti dal fatto che in India i serpenti si trovano un po' dappertutto, in modi inaspettati, e del pericolo che rappresentano, vedendo quella corda nella penombra la pigliamo per un serpente, temiamo di essere morsi e indietreggiamo colti da terrore. Poi in un secondo tempo, guardando la cosa più da vicino, vediamo una certa rigidezza, un colore che naturalmente non è quello del serpente e ne concludiamo che abbiamo avuto una paura ingiustificata, che avevamo preso una corda per un serpente. Ma per tutto il tempo, eventualmente pochi secondi, o pochi minuti, in cui l'illusione e la paura sono stati reali, in un certo modo abbiamo creduto, in buona fede, di avere a che fare con un serpente. Era come se avessimo un serpente davanti a noi ed è solo retrospettivamente che neghiamo la sua esistenza. E' la relazione che il "vedanta" chiama "vivarta", cioè "produzione illusoria". Avviene che, a partire dalla corda, sola cosa reale, si produce una specie di trasformazione provvisoria e apparente di quella corda, che ai nostri occhi passa per un serpente. Non c'è una corda da un lato e un serpente dall'altro. C'è una corda che non abbiamo riconosciuta, che abbiamo scambiata per un serpente. Sankara, allora, applica questo paradigma al rapporto tra il mondo sensibile, l'acit e il brahman. Il mondo sensibile non è altro che il brahman, è il brahman stesso visto, per così dire, di traverso, il brahman stesso misconosciuto. Non c'è creazione nel senso realista del termine, non c'è una misteriosa trasformazione o deflagrazione del brahman nella forma della realtà sensibile esterna, c'è invece il fatto primario della nostra "avidya", della nostra ignoranza, per la cui influenza il brahman appare ai nostri occhi sotto quella forma deflagrata e dispersa. Ma in realtà, prima che si formi, mentre permane e dopo che si è dissolta la nostra illusione, il brahman rimane totalmente immutato, totalmente estraneo a quel processo illusorio, che non ha realmente luogo nella realtà delle cose, che si svolge per così dire nella nostra testa, nella rappresentazione. E' chiaro che ho enunciato così solamente il nerbo dell'argomentazione. Sankara la sviluppa con ben altra precisione e sistematicità e ancor più i suoi successori. Dunque è stato indicato un inizio di risposta: c'è sovrapposizione del cit e dell'acit, ma quella sovrapposizione non è possibile che sulla base dell'illusione prima, che ha lasciato il brahman dispiegarsi, per così dire, ai nostri occhi sotto un aspetto che non è il suo. A questo punto la via è tracciata per tentare - con ogni specie di metodi, gli uni razionali, che mostrano l'impossibilità di pensare fino in fondo nella sua coerenza la molteplicità, gli altri d'ordine più spirituale, che mirano ad interiorizzare, a meditare, a ruminare lungamente le famose "grandi parole", il "tat tvam asi", e altre ancora - per tentare, dicevo, di portare a coincidenza, un giorno, fatto e diritto. A quel modo che si produce, il dissolversi del serpente nella corda, con la sua sparizione, da un istante all'altro, non mediante una graduale ritrasformazione in corda, ma come per uno scatto, quando a un momento dato ci si accorge dell'illusione, allo stesso modo, ci promette Sankara, quando avremo compreso a fondo i presupposti della dottrina, il mondo sensibile che sembrava la sola cosa reale intorno a noi, ci apparirà in un modo al quale non possiamo dare per ora un vero significato intuitivo e a cui di conseguenza dobbiamo credere come ad una possibilità realizzabile nell'avvenire, ci apparirà come la maschera dietro la quale si nasconde brahman, o piuttosto l'aspetto particolare che il brahman ha preso per noi, come correlato della nostra ignoranza e della nostra illusione. In maniera più astratta e al di fuori di questo paradigma, la nozione di molteplicità sensibile, come risultante di una illusione fondamentale, ma pure assai lunga e tenace ed estremamente difficile da "ridurre", ha condotto Sankara sul piano dell'epistemologia, a distinguere in ultima istanza tre livelli di realtà, e se si vuole, anche tre livelli di verità delle asserzioni in rapporto a quei livelli di realtà. C'è quello che si chiama il "pratibhasika", ossia ciò che ha una realtà puramente apparente. Nell'esperienza sensibile, in riferimento a questo tipo di esperienza, il famoso serpente di poco fa è un esempio di qualcosa di "pratibhasika", di puramente apparente. Anche il sogno, nella misura in cui si mostra incompatibile con il contesto dell'esperienza sensibile, ci fornisce un altro esempio di dato puramente apparente. Al contrario la corda e l'insieme della realtà sulla cui relativa permanenza ci intendiamo nell'esperienza ordinaria, rappresenteranno la realtà empirica, quella che Sankara chiamerà "vyavaharika", termine sanscrito che significa ciò che è alla base di ogni nostra convenzione. "Vyavahara" significa "trattato", "commercio", "regola del gioco". Dobbiamo avere credenze comuni nella realtà delle cose, nella loro presenza, nella permanenza delle loro qualità, nella solidità delle convenzioni sociali, di cui il linguaggio stesso è una forma, per poter intenderci e per condurre i nostri affari umani. Si tratta dunque di una verità che non è completamente disprezzata e in un certo senso, d'altronde, lo stesso insegnamento spirituale è obbligato ad iscriversi in questa pratica intersoggettiva. Ma c'è qualcosa al di là e ciò che è al di là, ciò che esiste come verità suprema è evidentemente l'assoluta unità. Se riprendiamo l'esempio della corda e del serpente, in rapporto al serpente la corda e dell'ordine del "vyavahara", della realtà empirica solida, e ciononostante sappiamo di poter risalire più in alto della corda stessa. La corda è fatta di un certo materiale, di canapa, per esempio, e la canapa rimanda ai suoi elementi costitutivi: acqua, terra, eccetera, almeno secondo le concezioni indiane, e, passo passo, si risale così da una causa materiale ad una causa materiale più alta, fino al "brahman" stesso. Il brahman ci apparirà allora come la causa materiale suprema, e in un certo senso si potrà dire che la corda e tutto il resto è uscito da lui, ancora una volta, non per una genesi o una creazione reale, ma per una specie di affermazione, di prolungamento dell'ignoranza metafisica e quindi per un altro verso si ritiene che possa essere riassorbito in lui. Questo terzo livello di verità, di verità ultima, è ciò che si chiama "paramaharthika", nozione di "verità ultima" che traduce questo termine.

 

DOMANDA: Dopo Sankara, quali sono state le più importanti linee di interpretazione dei suoi continuatori?

Innanzi tutto Sankara ha avuto molti continuatori. Non è il solo commentatore dei "Brahmasutra", di cui la storia ci abbia conservato il nome o le opere, anzi la sua scuola è stata la più feconda, la più ricca, e forse si può dire che ancora oggi, in India, è la sola viva. Quindi un'immensa letteratura si è sviluppata dall'opera di Sankara e dai suoi commenti. In maniera alquanto schematica, credo che si potrebbe ripartire i suoi discepoli, i suoi continuatori in due tendenze, se non in due scuole ben determinate. Certi tra loro hanno messo l'accento sull'aspetto essenzialmente interiore dell'esperienza spirituale, sul fatto che è sempre in un dato individuo, nella sua interiorità, nel suo spirito che riposa l'"avidya", il misconoscimento essenziale, e che di conseguenza il percorso spirituale, dove ha luogo, è un'avventura puramente interiore. E' in se stesso che l'individuo apprende a cambiare il suo sguardo sul mondo e a passare dalla forma ordinaria dell'esperienza all'intuizione dell'identità tra "atman" e "brahman".

Dunque questa scuola o questa tendenza mette innanzi tutto l'accento sull'aspetto individuale, soggettivo, proprio a ciascuno, dell'"avidya", dando vita a forme di pensiero idealistiche, soggettivistiche, persino solipsistiche, assai nette. La seconda linea di interpretazione non è assolutamente opposta alla prima, ma piuttosto esprime per così dire, una sensibilità differente. In questa seconda linea di interpretazione si accorda più importanza al fatto della ripartizione della "maya" in una molteplicità di individui, all'esistenza o meno, a livello della verità empirica, di una molteplicità di soggetti, e si tende a vedere questa presenza di fatto dei soggetti individuali, che il "vedanta" chiama "jiva", come qualcosa che procede direttamente dal "brahman". Ciò comporta che si parlerà allora più di "maya" che di "avidya", più di illusione cosmica universale, che procede dal "brahman", che di ignoranza, problema personale che ognuno dovrebbe risolvere per suo conto.

In questa prospettiva si tende a dare insomma più consistenza alla "maya". La "maya" non diventa tanto una specie di entità seconda, ma resta una entità intimamente legata al "brahman", e il cui rapporto al "brahman" è visto sia come positivo che come negativo. La "maya" diventa così una specie di "sakti", di potenza creativa del "brahman", e in certi autori ci si avvicina, forse un po' pericolosamente, a un quasi-dualismo di fatto. Si può aggiungere del resto che questa linea di interpretazione forse è più popolare della prima perchè coincide molto facilmente con una struttura che ha molto risalto e permanenza nell'induismo preso nella più larga accezione, nell'induismo religioso, col fatto che tradizionalmente ciascuno dei grandi dei dell'induismo non può essere considerato per sé, ma deve essere sempre associato, come divinità maschile, a una entità femminile, a una sposa, a una paredra, designata in India come "sakti". Nella misura in cui la "maya" è compresa come "sakti" del "brahman", un ponte, una passarella almeno è lanciata verso le dottrine teiste tradizionali. E a questo riguardo non deve meravigliare il fatto che la seconda linea di interpretazione sia diventata maggioritaria nell'"advaita", anche se forse è la prima che ha fornito i pensatori più originali e più profondi.

 

Da: http://www.esonet.org/encyclopedia/Veda/Articoli/Sankara.htm

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