Cristianesimo e nichilismo (Sergio Givone)

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Cristianesimo e nichilismo (Sergio Givone)

Intervista di Giancarlo Burghi

 

Per chiarire il concetto di nichilismo, possiamo partire dall'accostamento tra Nietzsche e Dostoevskij. Entrambi pensano il nichilismo come destino storico ineluttabile, a partire dalla morte di Dio, dunque come una vicenda interna all'evento cristiano. Con Nietzsche, in qualche modo, si imposta una sorta di identità tra cristianesimo e nichilismo.

Sì, Nietzsche pensa che il nichilismo sia figlio del cristianesimo. Non sapremmo, in fondo, dire il nulla del nostro essere al mondo - questo dice il nichilismo - se il cristianesimo questo nulla non l'avesse scoperto in Dio, in Dio che muore, in Dio che si fa nulla. Naturalmente Nietzsche, quando parlava del nichilismo come risultato del cristianesimo, pensava questo nesso come qualche cosa di negativo: il nichilismo che nasce dal cristianesimo è un nichilismo reattivo e risentito, è il nichilismo di chi non sa accettare la vita così com'è, fatta di bene e male, di essere e di nulla. Occorre passare, secondo Nietzsche, a un diverso nichilismo: un nichilismo anticristiano, che non guarda più al dover essere, ma che sia fedele all'essere, alla terra.

È perciò curioso come oggi, proprio a partire da Nietzsche, si parli di nichilismo in senso positivo, ma si ritrovi questa positività proprio nel rapporto che il nichilismo avrebbe - e che Nietzsche aveva sottolineato - con il cristianesimo. Si dice che nichilismo e cristianesimo sono la stessa cosa: bisogna essere nello stesso tempo cristiani e nichilisti, perché è stato il cristianesimo a insegnarci che l'essere al mondo è finito, è costitutivamente legato al nulla. Non è stato il cristianesimo a insegnarci che Dio stesso muore? La storia viene letta in una chiave nello stesso tempo cristiana e nichilistica, proprio sulla base di questa rivelazione. Ora, se è vero che Nietzsche e gli esiti del pensiero nietzscheano hanno dato luogo a questa interpretazione, diciamo così, positiva del nichilismo - o meglio, dell'identità di nichilismo e cristianesimo - c'è anche chi ha tracciato del nichilismo una ben diversa genealogia. Ed è stato Dostoevskij.

Anche Dostoevskij pensava che il nichilismo fosse qualche cosa come un destino. “Siamo tutti nichilisti”, diceva, non possiamo uscire da questa dimensione, dobbiamo renderci conto che è successo qualcosa - al di là di quella che può essere la nostra fede o non fede - che ci coinvolge tutti. Questo qualche cosa è appunto lo sfondamento dell'essere, che è necessariamente lo sfondamento della metafisica. Dostoevskij ovviamente non si esprimeva in questi termini, ma andava sicuramente in questa direzione quando, pur riconoscendo il legame del nichilismo con il cristianesimo, ne mostrava tutta l'ambiguità.

E ben lungi dal tessere quell'elogio del nichilismo - come fecero gli eredi di Nietzsche - cerca di proporre una interrogazione del fenomeno stesso, che sappia vederne l'ambiguità, cioè che sappia - dice - “gettare uno sguardo in entrambi gli abissi”. Uno sguardo che sappia, per esempio, vedere nel nulla la condizione della nostra vita, ma che sappia anche vedere l'errore, la cancellazione, l'insopprimibile angoscia che da questo errore, da questa cancellazione, derivano.

Approfondiamo la posizione di Dostoevskij. In che senso è riduttivo o addirittura errato interpretare in chiave di libertinismo la celebre affermazione di Ivan Karamazov, “Se Dio non esiste, tutto è lecito”? E in che senso lei dice che Dostoevskij porta l'ateismo dentro la fede, che è necessario che Dio esista perché ci sia il male, lo scandalo del male?

Bisogna considerare il fatto che Dostoevskij non è un filosofo. E questa è una fortuna, perché i suoi personaggi non sono soltanto degli interlocutori fittizi, a cui lui mette in bocca tesi, o che esprimono il pensiero dell'autore, o che si prestano a essere confutate, sempre alla luce di quello che è il vero pensiero dell'autore. I personaggi di Dostoevskij parlano a nome proprio. Nel caso di Ivan Karamazov, abbiamo a che fare con un pensiero, di fronte al quale non bisogna arretrare, ma seguire fino in fondo. Un pensiero che bisogna raggiungere sulle posizioni a cui Ivan lo ha portato: e lì, semmai, riconoscere che bisogna andare ancora oltre.

Come viene inteso, di solito, questa affermazione di Ivan Karamazov: “Se Dio non esiste, l'unica possibilità è che tutto è possibile”? Nel senso appunto di un libertinismo che varrebbe allora come la prova che Dio deve esistere. Dio deve esistere come argine, come baluardo, come l'essere che impedisce questa caduta. Ma è davvero questo che ci dice Dostoevskij? E se invece Dostoevskij ci dicesse: attenzione, Ivan ha ragione, Dio non esiste: cioè non esiste quel Dio che noi ci immaginiamo, che noi ci fingiamo, solo per poter arginare questa potenza della libertà e dell'arbitrio che è in noi. Sì, gli uomini si sono sempre creati gli dèi a propria immagine e somiglianza, e hanno fatto di questi dèi i guardiani delle loro insicurezze, delle loro paure, delle loro angosce.

Ma perché hanno inventato questi simulacri, questi feticci? Perché non hanno saputo ritrovare Dio là dove Dio va ritrovato: cioè nella stessa potenza della libertà da cui gli dèi vorrebbero salvaguardarci, della potenza e della libertà e dell'arbitrio, che è Dio. Dio dunque non come l'argine, il baluardo, come l'essere che salva dal non essere; ma come l'essere che abbraccia il non essere, che porta il non essere dentro di sé. Dio come potenza della libertà. Ma se Dio è questo, è un Dio inquietante: un Dio che è amore e misericordia da un parte, ma terribile e addirittura vendicativo dall'altra. È un Dio dove davvero tutto è possibile. Ma allora Ivan ha ragione: il limite del suo pensiero consiste nell'intendere la cosa in un senso libertino, cioè di lasciar cadere l'accento sull'aspetto dell'arbitrio, piuttosto che sull'aspetto della libertà.

Il limite del pensiero di Ivan è di non aver saputo vedere tutta la carica di novità che c'era nella sua tesi, nella sua stessa affermazione. Si è fermato - lui che sembra così capace di andare a fondo nelle cose e di essere provocatorio, al punto di spingersi fino a questo limite quasi inoltrepassabile - si arresta su questo limite, che va oltrepassato nella direzione di un pensiero abissale - direbbe Dostoevskij - cioè di un pensiero capace di misurare, di guardare, di “gettare uno sguardo in entrambi gli abissi”. E qui i due abissi quali sono? L'abisso del libertinismo, cioè di un arbitrio che fa dell'uomo non solo il responsabile delle sue azioni, ma colui che può tutto in quanto non è mai veramente responsabile delle sue azioni; dall'altro l'abisso della libertà, in cui vale ciò che dice Ivan Karamazov, cioè che tutto è possibile: ma qui la possibilità va intesa in senso forte, nel senso che l'uomo è responsabile di tutto quello che fa.

Dostoevskij porta l'ateismo nel cuore stesso del cristianesimo. Questo non solo perché il cristianesimo è la religione del Dio che muore, ma perché il cristianesimo è la religione che nega il Dio che dà ragione del male nel mondo, della sofferenza, della negatività in tutte le sue figure. Il cristianesimo ci insegna a negare questo Dio: cioè insegna che là dove Dio fosse pensato come il fondamento, come colui che risponde al mistero e lo consegna a un principio di spiegazione - dove, del mistero, ma anche del male, anche della sofferenza, in definitiva, non v'è più nulla - là dove Dio fosse pensato in questi termini (come in definitiva lo ha pensato la tradizione metafisica: Dio, l'essere necessario), lì dovrebbe essere negato in nome del male, in nome della sofferenza che si pretende di spiegare. Ma che il cristianesimo abbia in sé un momento ateistico, che l'ateismo debba essere portato dentro il cristianesimo, non significa che l'ultima parola è quella dell'ateo, quella di Ivan.

Certo non bisogna arretrare. Bisogna andare oltre. Dostoevskij dice che l'ateismo è il penultimo gradino. Non colui che rifiuta l'ateismo, ma colui che lo ha portato, che lo ha attraversato, sa giungere a quella dimensione di fede che è la dimensione propriamente cristiana. Non dunque un passo indietro, rispetto all'ateismo, ma un passo in avanti. Avendolo conosciuto, avendo cioè esplicato quella che Dostoevskij chiama la “potenza della negazione”. Bisogna negare, e quindi accogliere, la verità di Ivan, anche se è una verità dimidiata, che si arresta: bisogna sapere negare Dio come principio e come ragione ultima di tutte le cose, per raggiungere quel Dio che non è principio, che non è ragione ultima di tutte le cose, che non viene a spiegare il senso della sofferenza, ma lo porta in sé, prende la sofferenza su di sé.

Ed è la risposta - ancora timida, appena accennata - che Alesa dà a Ivan, nella famosa scena della bettola, in cui i due fratelli, ironicamente, ma neanche tanto, discutono dei grandi problemi. Ma è anche la risposta - risposta molto più forte e vigorosa - che dà Dmitrij il quale, innocente, sceglie, accetta la condanna come se fosse colpevole, in base per l'appunto al principio propriamente tragico della solidarietà di tutti nella colpa; e in base al principio della sofferenza come via alla riconciliazione con Dio.

Quello della sofferenza inutile è un tema decisivo in Dostoevskij. È come se il male potesse essere guardato e preservato nella sua drammaticità solo fuoriuscendo dalla filosofia, che lo giustifica, lo stempera, lo neutralizza - come del resto ha fatto anche la teodicea tradizionale. Professor Givone, il male può essere pensato solo all'interno di una rivelazione religiosa? In che senso la filosofia, in particolare il pensiero tragico, è ermeneutica dell'esperienza religiosa?

Non si può dire che il male può essere pensato solo all'interno di una dimensione religiosa, ma certo si deve dire che l'esperienza religiosa, contrariamente a quello che si crede comunemente - aiuta a comprendere, a mantenere desta la consapevolezza del male, della sofferenza e della negatività. L'esperienza religiosa non è una forma per sua natura di evasione, di edulcoramento del problema del male. E questo è veramente l'equivoco che Dostoevskij ci aiuta a dissipare. Si dice: il male c'è, la sofferenza è qualche cosa di cui tutti facciamo l'esperienza. Le religioni non sono altro che dei dispositivi, che l'uomo ha inventato e che ha utilizzato per sopportare, per elaborare l'insopportabile, per convivere con qualche cosa che se restasse allo stato di natura non sarebbe sopportabile.

Ma non è così: in realtà il supposto stato di natura della sofferenza e del male - cioè il fatto che il male non ha nessuna spiegazione, il fatto che la sofferenza è una sorta di retaggio con cui ciascuno di noi deve prima o poi fare i conti - questa idea di una naturalità, di una naturalezza del negativo, quest'idea profondamente irreligiosa, in realtà stempera il negativo, perché lo consegna alla natura, cioè a una condizione, non solo inoltrepassabile, ma che è la nostra e che noi non possiamo fare altro che accettare. La dimensione religiosa - e quindi le grandi religioni - elaborando il problema del male, è vero, hanno prospettato delle soluzioni a questo problema, ma lo hanno anche reso più acuto, più profondo. Hanno davvero aperto degli scenari, in cui il male cessa di apparire come un dato di natura, e viene invece inserito in una vicenda non soltanto storica ma addirittura cosmica, cioè in una vicenda che coinvolge l'uomo, la sua storia, ma anche il mondo tutto intero e il suo creatore.

La religione inserisce il problema del male in una vicenda, chiarendo questo problema infinitamente più grave e più difficile da risolvere. In che senso Dostoevskij ci aiuta a capire questo? Se non fosse neanche pensabile un paradigma altro - un paradigma di redenzione, di salvezza - radicalmente altro rispetto al mondo, in fondo la vicenda mondana sarebbe ricompresa appunto da quella naturalità di cui si diceva prima, e il fatto che noi soffriamo, che gridiamo la nostra insofferenza nei confronti della sofferenza, insomma lo scandalo del male, non sarebbe davvero scandaloso. Sarebbe un fatto, sarebbe un dato di natura, ma non uno scandalo. Dove il male appare davvero scandaloso? Là dove del male si chiede ragione a Dio.

Ma ecco il paradosso nel paradosso: se Dio desse ragione del male, Dio varrebbe, in definitiva, come quel principio di natura che svuota il male della sua problematicità, perché allora il fatto che noi soffriamo sarebbe semplicemente imputabile alla nostra cecità. (noi non sappiamo vedere le ragioni per cui soffriamo, ma c'è Dio e Dio contiene queste ragioni. E là dove, o prima o poi, Dio queste ragioni ce le dà, ecco che il male in definitiva non è più nulla, e noi ci rendiamo conto di soffrire e di aver sofferto solo perché eravamo ciechi). Paradosso nel paradosso: Dio, cioè l'essere, il principio in base al quale soltanto il male mantiene la sua scandalosità, potrebbe essere pensato anche come il principio che toglie la scandalosità del male, perché ne dà la spiegazione.

E allora ecco la necessità di pensare Dio altrimenti, cioè di pensare Dio come colui che non viene a togliere o a giustificare il male, ma piuttosto viene a salvarlo conservandolo. Qui siamo nell'ambito di un pensiero assolutamente paradossale: che cosa significa conservare il male e nello stesso tempo salvarlo? Cosa significa vedere nella sofferenza l'unica via di salvezza? Cosa significa concepire Dio come l'orizzonte dentro cui un tale pensiero si lascia pensare? Significa appunto offrirsi a quei paradossi, che sono i paradossi del pensiero religioso. Un pensiero religioso finalmente svincolato dalla sua pregiudiziale metafisica, quella per cui in definitiva Dio era identificato con l'essere (l'essere con l'essere necessario, dunque con l'essere che dà a sé e al mondo la propria giustificazione) e libera invece prospettive radicalmente alternative.

A questo proposito Sergio Quinzio afferma paradossalmente che il male è una sorta di invenzione ebraico-cristiana: l'uomo cristiano non è più rassegnato al male, ne avverte lo scandalo, diversamente dall'uomo pagano, che invece accetta il nascere, il morire, la sofferenza, come dati naturali. Quinzio ha indagato anche il rapporto tra nichilismo e cristianesimo e ha delineato una visione tragica del cristianesimo, per alcuni aspetti, vicina alla sua. Al pensiero tragico riconosce il merito di superare l'angusto pensiero razionalistico e metafisico, ma lo accusa di neutralizzare il dramma lacerante della contraddizione nel pensiero di questa contraddizione. Ci sarebbe in questa visione una verità ulteriore in cui la contraddizione si compone: cosa risponde a questa obiezione?

Cominciamo dal primo punto, quello che riguarda il rapporto tra paganesimo e cristianesimo, e il fatto che solo nella tradizione ebraico-cristiana il male conserverebbe la sua scandalosità. Questo è vero solo in parte, perché si potrebbe rovesciare questa affermazione e dire che, nella tradizione ebraico-cristiana, in fondo, il male non è più veramente tale, perché è proiettato su uno sfondo di redenzione già da sempre avvenuta, che appunto svuota il male della sua scandalosità. È in questa prospettiva che qualcuno ha detto che il cristianesimo è una religione fondamentalmente anti-tragica; mentre invece la tragedia accade, è accaduta storicamente, ma potremmo dire, sempre di nuovo accade, in una dimensione pagana della vita, cioè nella dimensione che non proietta la sofferenza e il male su uno sfondo di redenzione.

Allora io piuttosto distinguerei un cristianesimo antitragico - e dunque un cristianesimo in cui inevitabilmente il problema del male e della sofferenza tendono ad edulcorarsi - e un paganesimo antitragico, dove il problema del male e della sofferenza tendono a stemperarsi in una dimensione naturalistica, dove il male appartiene alla vicenda del nascere e del morire e non è veramente maligno. Ma, se è vero che ci sono un cristianesimo e un paganesimo antitragici, è anche vero che c'è un paganesimo tragico - qui non sono d'accordo con Quinzio - che ha un senso terribile della sofferenza e del male (basti pensare alla tragedia, che non stempera certo il male e il suo problema in una dimensione di naturalità); e c'è anche un cristianesimo - e qui Quinzio ha ragione - tragico, che fa valere questo elemento di scandalosità nei confronti di Dio stesso. Anzi in Dio vede colui che salvaguarda questa scandalosità, che tiene aperta la dimensione in cui il male appare scandaloso.

Però Quinzio dice anche: questo non è cristianesimo tragico - o meglio, non è pensiero tragico - perché il pensiero tragico è, a sua volta, una forma di evasione dal problema. Il pensiero tragico è quello che pensa - se capisco bene l'obiezione di Quinzio - la tragicità del reale, ma poi supera questa tragicità nel pensiero di essa. Io credo che Quinzio, quando parla appunto di pensiero tragico in questi termini, ne parla come se il pensiero tragico fosse pensiero dialettico: Quinzio imputa al pensiero tragico una sorta di hegelismo. È vero che c'è la contraddizione nelle cose e che questa contraddizione è fonte di sofferenza - dunque c'è una radice maligna nelle cose - ma il pensiero che pensa la contraddizione, la risolve anche, perché, per l'appunto, tesi e antitesi danno luogo a un superamento nel pensiero. Ma questo è razionalismo metafisico, questo è Hegel, questo non è pensiero tragico.

Il pensiero tragico nasce precisamente dalla considerazione, dalla constatazione dei limiti del razionalismo metafisico. Là dove per Hegel - per questo il pensiero di Hegel è razionalistico e metafisico insieme - pensiero ed essere sono la stessa cosa, e dunque il pensiero risolve l'essere e le sue contraddizioni, invece per il pensiero tragico, il pensiero e l'essere non sono la stessa cosa. Il pensiero, certo, pensa l'essere, ci ragiona, cerca di avanzare delle ipotesi, indaga quello che è l'enigma, il mistero dell'essere, ma il mistero dell'essere resta fondamentalmente tale. Ecco perché il pensiero tragico, a differenza del razionalismo metafisico, a differenza di Hegel, mantiene questo suo legame con il mito, con la tradizione religiosa, e non pensa ad altro che al mito e alla tradizione religiosa, ma non risolvendoli in sé e quindi superandoli, bensì considerandoli come la fonte stessa del suo interrogare. Fonte inesauribile perché misteriosa, enigmatica. Questo carattere di irriducibilità del mistero e dell'enigma dell'essere, segna la differenza tra pensiero tragico e razionalismo metafisico.

Il nichilismo trova le sue origini, per lo meno etimologiche, nel concetto di nulla, a cui lei ha dedicato una avvincente storia. Un concetto che la logica e la metafisica hanno rimosso. Per lei si tratta di pensare il nulla in maniera diversa: questa è l'impresa ardita. E la vera alternativa - che poi è un'alternativa etica, metafisica e teologica - è tra l'ontologia della necessità, che dominerebbe in qualche modo la tradizione occidentale, e l'ontologia della libertà. In che senso?

Pensare il nulla è precisamente ciò che, secondo la tradizione metafisica, non va fatto. Non va fatto perché non è possibile farlo. Pensare il nulla è cadere in contraddizione, è pensare qualche cosa, quindi attribuire l'essere a qualche cosa che non è. Nella misura in cui io dico che il nulla non è o che il non essere non è, già entro in contraddizione perché attribuisco qualche cosa, sia pure il non essere, a qualche cosa che assolutamente non è, al non essere stesso. Ed ora l'idea profonda, l'idea che sta nel cuore del pensiero di Parmenide, il vero padre della metafisica: tu non penserai il nulla. Questo interdetto, questa proibizione di pensare il nulla, la ritroviamo, via via, in tutta la storia della filosofia.

La ritroviamo in Platone, il quale compie - come lui stesso dice nel Sofista - un parricidio, perché cerca di pensare il nulla, introduce il nulla nel discorso filosofico. Ma il parricidio, come Platone stesso dimostra, si risolve in un grande elogio, in un trionfo del padre, in un grande elogio di Parmenide, perché in realtà Platone dimostra l'impossibilità di pensare il nulla in quanto nulla. Il nulla può esser pensato soltanto come finzione, solo per analogia, serve per spiegare ciò che altrimenti non potremmo spiegare, cioè la molteplicità, quindi, in definitiva, il divenire. Ma, assolta questa funzione - una specie di finzione - del nulla non resta più niente nella scienza, che è l'erede di questa tradizione metafisica. La scienza pensa ciò che è, con i suoi strumenti agisce su ciò che è, sperimenta ciò che è, lasciando ciò che non è fuori del campo della sperimentazione possibile: i buchi neri, oppure i numeri razionali, sono finzioni platoniche, sono elementi introdotti nel discorso, che però non hanno nessun peso ontologico, nessuna realtà ontologica.

Là dove invece esiste una vera e propria ontologia del nulla, esiste come trasgressione dell'interdetto parmenideo. Questa ontologia del nulla la possiamo ricostruire attraverso alcune tracce: il nulla è il grande rimosso della storia della filosofia occidentale e quindi è chiaro che l'ontologia del nulla non può essere cercata che negli episodi marginali di questa storia. Ha lasciato soltanto delle tracce, non è stata elaborata una vera e propria ontologia del nulla o meontologia. Ma le tracce sono rivelative e ci fanno incontrare autori - che magari non interpreteremmo in questa chiave, ma che in questa chiave vanno interpretati - come Plotino, il quale sostiene che il nulla è al di là dell'essere, anzi ne è il fondamento, il non essere è il fondamento dell'essere e dunque converte l'essere nella libertà.

Troveremo questa stessa idea nei mistici, che arrivano a identificare Dio con il nulla e troveremo quest'idea nei romantici, i quali cercheranno di elaborare una vera e propria ontologia della libertà, cioè una concezione dell'essere come libertà piuttosto che come necessità, su base estetica. Perché su base estetica? Perché appunto l'arte ci permette di sperimentare il paradosso dei paradossi, il paradosso per cui l'essere, la verità dell'essere è, ma è sempre altra da sé. Le opere d'arte di che cosa parlano, se non della verità dell'essere? Questa verità dell'essere è sempre altra da sé, è addirittura contraddittoria rispetto a se stessa. Le opere ci parlano di questa contraddittorietà, ci presentano visioni del mondo antitetiche e tuttavia entrambe, nella loro antiteticità, espressive del vero, espressive del senso dell'essere. Dunque Plotino, la mistica, i romantici, insomma l'estetica, si situano nella prospettiva di una ontologia della libertà.

Nulla, libertà, Dio: in questa nuova prospettiva questi tre termini sono in relazione. Ecco, partiamo innanzi tutto dal primo binomio. Quello tra libertà e nulla. Che cos'è questa ontologia del nulla, che è anche poi ontologia della libertà?

Ontologia della libertà e ontologia del nulla sono strettamente collegate. Solo là dove il nulla è il fondamento dell'essere, cioè solo là dove l'essere è pensato come non governato dalla necessità, non predeterminato, non preceduto da qualche cosa che lo determini, quindi non fondato se non sul nulla, solo laddove abbiamo a che fare con un' antologia del nulla, l'essere si converte nella libertà stessa. Per capire questo punto, ci può aiutare un confronto fra due filosofi che sembrano appartenere allo stesso ambito di pensiero, ma di fatto pervengono a prospettive molto lontane, se non addirittura antitetiche. Mi riferisco a Heidegger, da una parte, e a Sartre, dall'altra, i quali hanno avuto il grande merito di reintrodurre nel cuore del dibattito filosofico il problema del nulla, e lo hanno fatto in modo molto diverso.

Mi limiterò a una descrizione schematica: Heidegger muove dal nulla, e cioè dal fatto che il nulla è questa sorta di evidenza primaria, di esperienza primaria che noi facciamo - “la chiara notte del nulla”, la chiama - nella quale la nostra vita si rivela per quello che è, destinata al nulla, segnata dalla nullità e dalla negatività. Ogni nostro progetto, il nostro stesso essere, sono legati, provengono, non si lasciano comprendere, se non a partire dal nulla. In Heidegger, il nulla come evidenza primaria converte l'essere nella libertà, appunto perché l'essere, essendo fondato sul nulla, non ha nulla se non il nulla stesso che lo determini, che lo costringa a essere, che lo faccia essere quello che è. In quanto fondato sul nulla, in quanto fondato su questa evidenza primaria, l'essere infine si rivela, ed è questo che propriamente “la chiara notte del nulla” rivela come la libertà. Dunque Heidegger parte dal nulla e il nulla gli permette di convertire l'essere nella libertà.

Sartre, al contrario, parte dalla libertà. L'evidenza primaria è la libertà: l'esperienza che noi anzitutto facciamo è quella di essere liberi. Ma in realtà noi - fa osservare Sartre - siamo tutt'altro che liberi, perché nasciamo non avendolo chiesto; abbiamo un corpo, questo corpo è il limite della nostra esistenza, anzi è la nostra stessa esistenza come predeterminata. E tuttavia - dice Sartre - noi siamo pur sempre liberi anche nei confronti del nostro corpo. Se lo abbiamo è perché l'abbiamo voluto, tant'è vero che possiamo non volerlo o possiamo negarlo. Esiste pur sempre il suicidio. Dunque anche nella determinazione più ferrea, quella che fa sì che io sono quello che sono - sono nato qui, anziché là, sono fatto così anziché in un altro modo - anche nella determinazione più ferrea, la radice è la libertà.

Dunque la libertà è l'esperienza primaria. Ma se la libertà è l'esperienza primaria, la libertà converte l'essere nel nulla, perché qualsiasi cosa io faccio è giustificata, è giustificata da me, cioè da nessuno, cioè dal nulla. Il nulla è l'esito: dunque che io - come dice in una frase celebre con cui si chiude L'essere e il nulla - che io guidi degli eserciti, trasformi gli Stati, persegua degli ideali sublimi o mi ubriachi in solitudine è la stessa cosa. È la stessa cosa, appunto perché la libertà converte l'essere nel nulla, la libertà è la radice fondamentalmente arbitraria dell'essere. Dunque l'essere, qualsiasi cosa alla fine viene al mondo, finisce con l'essere uguale a qualsiasi altra cosa.

Ecco un doppio schema, uno schema diverso, due forme possibili di ontologia del nulla: in Heidegger il nulla, come evidenza primaria, converte l'essere nella libertà; in Sartre la libertà, come evidenza primaria, converte l'essere nel nulla. Una vera e propria ontologia della libertà su che basi può nascere? Su basi, appunto, heideggeriane, perché abbiamo visto Heidegger parte dall'ontologia del nulla e arriva a un'ontologia della libertà, laddove invece in Sartre abbiamo il movimento contrario, e dunque l'approdo è l'ontologia del nulla.

Professor Givone, approfondiamo l'altra relazione, quella tra Dio e il nulla. Il nulla, la negazione, si situa non solo all'interno dell'esperienza cristiana - l'esperienza che Dio è morto, è assente, che non salva - ma concerne la stessa vita divina. Il nulla insidia la stessa divinità, è una minaccia che attraversa Dio, il Dio impassibile della vecchia metafisica.

La tradizione metafisica ha allontanato lo spettro del nulla da Dio, ma - come abbiamo visto - c'è un'altra tradizione, la tradizione mistica, e anche la tradizione estetica, che hanno invece reintrodotto il nulla in Dio. La tradizione mistica. Qui si potrebbe ricordare l'idea cabalistica dello Tzimtzum , cioè del nesso che lega Dio e la creazione. Tzimtzum significa il ritrarsi di Dio. Dio crea ritraendosi, lasciando essere il mondo. Ma questa parola della mistica ebraica è la stessa parola che aveva usato Plotino, padre della mistica cristiana - lui che cristiano non era. Il poietés, il Demiurgo - in altri termini Dio - crea il mondo lasciandolo essere. E dunque avevano ragione i cabalisti a dire che questo lasciar essere - ma questo lasciar essere vuol dire lasciarlo essere nella sua libertà, quindi liberamente lasciarlo essere nella sua libertà - questo gesto è possibile solo attraverso un ritrarsi, un venir meno a se stesso, in qualche modo un venire a patti con la stessa negazione di sé e dunque un venire a patti con il nulla.

Ancora più radicali dei cabalisti e di Plotino - paradossalmente più radicali - sono stati certi teologi, uno in particolare, Bovillo, il quale ha espresso questo rapporto di Dio con il nulla in un modo felicissimo. Bovillo è un teologo vissuto nel Cinquecento e che ha scritto un libro, Liber de nihilo (Libretto sul nulla), che merita di essere ripreso. In esso Bovillo si chiede: se qualcuno ci salva dal nulla, chi può mai essere questo qualcuno se non Dio? Noi sappiamo di dover morire, sappiamo che la nostra vita è destinata a finire, a tramontare. Se mai qualcuno ci salverà dall'al di là di questo nostro tramonto, di questo nostro naufragio, chi se non Dio? Già - ma continuava Bovillo, che fin qui sosteneva tesi pienamente ortodosse - se è vero che Dio e nessun altro, che Dio ci può salvare dal nulla, è anche vero che il nulla salva Dio da se stesso.

Cosa vuol dire che il nulla salva Dio da se stesso? Che se in Dio non ci fosse il nulla, se Dio non avesse la possibilità di lasciar essere il mondo, dunque di consegnarsi al nulla, di autolimitarsi, di venire a patto con il nulla, Dio sarebbe quell'essere perfettissimo che è quanto di più antidivino ci sia. Dio sarebbe questa realtà tutta piena, questo essere dominato dalla necessità, che è tutto meno che Dio, a ben vedere. Dunque Dio è salvato da Dio stesso, Dio è salvato dal nulla che gli permette di abbandonarsi alle cose, di consegnarsi al divenire, di ritrarsi in una sua inaccessibile identità. Questo doppio movimento di Dio che si abbandona al divenire, di Dio che si ritrae in un suo mistero impenetrabile, è pensabile solo in rapporto al nulla.

Dunque Dio non garantito, ma in qualche modo minacciato dal nulla. Ma nel pensiero tragico anche l'ombra della colpa oscura la divinità: Dio uccide se stesso, il sacrificio diventa espiazione. Lei dice che il male non è semplicemente giustificato, conciliato da Dio, ma è assunto da Dio. Altri, ad esempio Vattimo - rifacendosi al Girard di La violenza e il sacro - rifiutano l'interpretazione del cristianesimo come religione del sacrificio, quindi l'idea di un Dio vittima. Lei non sembra d'accordo con questa lettura del fatto cristiano e vede in esso un vero sacrificio in cui vittima e carnefice coincidono: può parlarcene?

Bisogna innanzitutto intendersi sul concetto di sacrificio. Certo che se lo si rapporta ad una concezione religiosa, per cui Dio è l'Onnipotente, colui che dispone in modo autoritario e violento dell'essere, proprio perché è il principio metafisico che governa l'essere tutto intero, allora certamente il sacrificio ha un carattere violento e autoritario, anzi fa ricadere l'esperienza religiosa in quelle forme naturalistiche di religiosità, che non sono cristiane. Altra cosa è pensare il sacrificio nella prospettiva del pensiero tragico, dove - lo abbiamo appena visto - di Dio tutto si può dire meno che sia il principio, l'essere che ha una sorta di onnipotenza che lo fa identico alla necessità, l'essere che governa la realtà tutta intera, il padrone. Il pensiero tragico non pensa Dio in questo modo. Il pensiero tragico pensa a Dio come libertà, come colui che consegna il mondo all'uomo, rimettendosi e rimettendo il mondo totalmente nelle mani dell'uomo.

Allora, da questo punto di vista, che cos'è il sacrificio? È tutto meno che la violenza di un oscuro “principio delle origini”, violento e autoritario, che si eserciterebbe nei confronti dei suoi sottoposti. Non abbiamo a che fare con una imperiosa richiesta di questo principio, ma al contrario, con un consegnarsi di questo principio - cioè di Dio come libertà - all'esperienza della morte, all'esperienza del nulla. Nel sacrificio cristiano è Dio che si consegna liberamente alla propria passione. Questo recita giustamente la liturgia: “consegnandosi liberamente alla propria passione e morte”.

Dio, proprio perché è libertà, perché originariamente non è il principio assoluto che domina il mondo secondo necessità, può consegnarsi liberamente alla propria passione e morte, può consegnarsi liberamente al nulla, alla potenza della negazione. Ma allora, cos'è il sacrificio che non è sacrificio? È sacrificio perché Dio si auto-sacrifica: consegnarsi alle potenze della negatività, consegnarsi liberamente, che cosa significa se non sacrificarsi? Si tratta perciò di sacrificio, ma di un sacrificio assolutamente altro rispetto a quello di un padrone, che esige il sacrificio dal proprio sottoposto.

Il vero equivoco allora è quello di Vattimo, che continua a pensare il Dio del pensiero tragico come il Dio metafisico, e per questo può definirlo “l'ultimo grande equivoco metafisico” e vedere in esso un residuo dell'immagine naturalistica, minacciosa del Dio della vecchia metafisica. Ma il Dio metafisico è l'esatto contrario del Dio del pensiero tragico: è il Dio secondo necessità, il Dio fondato, il Dio principio di ragione. Invece il Dio del pensiero tragico è il Dio secondo libertà, infondato, talmente infondato da consegnarsi al nulla e da rimettere la sua creazione all'uomo, che ne dispone totalmente al punto da farsene totalmente responsabile.

Ma, di nuovo: questa assunzione di responsabilità, è qualcosa di cui solo il pensiero tragico dà ragione, perché le categorie che la spiegano sono quelle di colpa, sono - in termini teologici - quelle di peccato. Sono precisamente le categorie che Vattimo dissolve perché, nella sua interpretazione del cristianesimo - cristianesimo uguale nichilismo - il cristianesimo è completamente svuotato di questo elemento appunto costitutivo del cristianesimo stesso, che è la colpa, il peccato; così come è svuotato dell'altro elemento costitutivo del cristianesimo: l'espiazione della colpa e del peccato. Dunque non c'è più colpa e non c'è più redenzione. Ma che cristianesimo è - io domando - un cristianesimo che non conosce più il peccato e che quindi non conosce perché non può conoscere più la redenzione?

Vattimo risponderebbe: un cristianesimo nichilistico. Ma io continuerei: un cristianesimo totalmente appiattito sulla realtà così com'è. E fare l'elogio del cristianesimo è come fare l'elogio del nichilismo. Ma fare l'elogio del cristianesimo e l'elogio del nichilismo, in questa prospettiva, è la stessa cosa che fare l'elogio in definitiva della realtà così com'è. Nei confronti di questo cristianesimo, io non posso non ritorcere l'accusa che Vattimo rivolge al pensiero tragico, quando parla appunto del “grande equivoco nichilistico”.

 

Da: http://www.caffeeuropa.it/attualita01/133laicita-givone.html

 

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