in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
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La vita, la morte e la perfetta felicità
(Carlo Puini)

 

La Vita e la Morte.

 

Un argomento che ricorre spesso negli scritti dei filosofi taoisti è il problema della vita, e, per necessaria conseguenza, il problema della morte.

Nel concetto taoista tutte le parti del cosmo non formano che un corpo solo. L’anima di esso, o la sua intima essenza, resta ignota al savio, il quale soltanto riuscì a sapere che la vita universale non è altro che un perpetuo avvicendarsi di trasformazioni, di fenomeni e di cose: e il fatto più evidente di questa vicenda, è il continuo, eterno alternarsi di vita e di morte.

Secondo le idee occidentali, la morte è l’antitesi della vita: vita e morte sono due termini diametralmente opposti, senza alcuna attinenza, assolutamente antitetici. In Oriente, taoismo e confucianesimo considerano la vita e la morte in istretta relazione tra loro, come due stadi necessari della vita universale sulla terra, e della vita individuale degli esseri. Le espressioni che noi usiamo più comunemente per sostituire la parola “morte”, sono, tra altre: “Il Sonno eterno”, “La partenza che non ha ritorno”. Il Taoismo usa invece per designare la morte, espressioni che significano precisamente il contrario ; tali sono: “Il Ritorno”, intendendo il ricominciare a vivere; “Il gran risveglio”, alludendo alla vita riguardata come tutta un Gran sogno.

Cercherò ora appunto di spiegare questi concetti così diversi da quegli che noi adoperiamo per indicare una medesima idea, stando ai testi sì filosofici e sì religiosi del Taoismo.

L’io è costituito delle parti che compongono il suo proprio organismo; il loro mantenersi congregate è la vita, il loro disgregarsi è la morte.

“La vita umana nasce da una certa condensazione di Etere primordiale: fin che tale condensazione persiste viviamo; quando essa si discioglie e disperde, la morte ci coglie”.

Chuang-tse usando un paragone assai materiale, procura di chiarire la sua idea: “Un fastello esiste come fastello fin che è legato e stretto; quando è sciolto non è più fastello. Così è dell’uomo: esso è uomo fin che tutte le sue parti, tutti i suoi organi sono collegati e coordinati insieme: cessata tale unione, cessa l’individualità umana. È da avvertire però che il fastello acceso come una face può trasmettere il fuoco a un altro fastello, innanzi che il primo sia del tutto disfatto e consumato, e così di seguito trasmettere il fuoco e la luce da fastello a fastello: i fastelli a mano a mano vengon composti e disfatti, come le persone vivono e muojono, appariscono e spariscono; ma il fuoco e la luce, o l’esistenza e la vita continuano perenni nel mondo”.

Il vivere della natura e il vivere degli individui consiste in questo interminabile alternarsi di fatti opposti in apparenza: così fu, sin dall’origine dell’universo.

“La vita e la morte sono fatti che si succedono necessariamente, come il giorno succede alla notte, e questa di nuovo al giorno, e così via con vicenda incessante”.

Il paragone tra la vita e la morte e il sorgere e tramontar del sole, si ripete più volte in Chuang-tse. “Vivere e morire è come andare e venire; l’Essere, l’io, resta; ma va e viene sulla terra, come uno entra in casa e ne esce, rientra, riesce e così via”.

Il medesimo concetto circa la vita e la morte espresso nei brani sopra riferiti, viene, in forma diversa, esposto parimente da Lieh-tse nel passo seguente: “Mentre Lieh-tse, insieme con un suo discepolo, recavasi a diporto, vede in terra, per via, un vecchio cranio. Lo raccatta, lo palpa, e accennandolo al compagno, così gli dice: «Soltanto io e costui sappiamo che non vi è sulla Terra né vita né morte; ma un eterno avvicendarsi di forme, prodotto dal continuo trasformarsi della materia. Le piante e gli animali e tutti gli esseri derivano l’un dall’altro, in virtù di cause esterne, le quali gli costringono a cambiar natura»”. Qui l’autore espone uno strano darwinismo, venti secoli più vecchio di Darwin, in cui dimostra come un tale animale possa, date certe circostanze, tramutarsi in un altro; come una tal pianta diventi un animale, e viceversa come un tale animale si muti in pianta, per arrivare finalmente all’uomo, il quale, secondo Lieh-tse, è derivato dal cavallo; poi continua: “venne in tal guisa al mondo il genere umano; e dopo la durata della sua esistenza sulla Terra, esso pure rientrerà nel meccanismo universale della natura. Tutti gli esseri emergono da questo universale meccanismo, e vi rientrano per una vicenda perpetua. Lo spazio infinito è colmo di semenze e di germi, che hanno più e diversi modi di evolvere”.

I filosofi taoisti sostengono che convenga lasciare l’uomo del tutto libero di agire conforme la sua indole e le sue inclinazioni, tenendosi soltanto ai dettami della natura. Uno statista che fiorì in Cina nel secolo VII avanti l’era nostra, il quale professava le opinioni di questa scuola, chiesto in qual modo migliore egli stimasse doversi condurre la vita, rispose: “In piena libertà; senza frapporre ostacoli, né il minimo impedimento al libero corso che la natura traccia e insegna a gli uomini; e soddisfacendo tutti i bisogni normali dei sensi. Frenare od impedirne la soddisfazione, guasta la compagine organica, allontana dalla schietta natura, conduce alla degenerazione, e provoca gli eccessi con desideri e sfrenate passioni. Questa è la principale cagione dell’infelicità umana. Seguendo dunque quella legge naturale emanata dal Tao, giova esaurire tutta la vita terrestre assegnata dal destino ad ogni persona; perciocchè è onesto e ragionevole obbedire alle sane necessità fisiche del corpo nostro. Ogni convenzione o legge sociale è freno malefico alle energie naturali, a cm è vita la libertà. Quanto a me, io preferirei vivere un giorno solo, ma libero; che cento anni soggetto alla tirannia delle leggi umane”.

Non bisogna però credere che Lieh-tse consigli la vita spensierata senza regola né modo. Il brano citato non è suo, ma da lui tolto ad un altro filosofo; il quale sebbene annoverato tra i filosofi taoisti, ha idee sovversive anzi che no. Lieh-tse invece insegna che colui il quale vuole vivere lunghi anni sano e vigoroso, deve moderarsi in ogni cosa; e Chuang-tse avverte, che “la vita consuma e logora la vita. L’esercizio delle nostre qualità, sia pure delle virtù, durante il nostro vivere, consuma gli organi materiali che sono strumenti per l’estrinsecazione della vita stessa: e il vivere consiste in un complesso di azioni fisiche, morali e intellettuali; cosicché si può dire che agire è morire. Non operare, o operare il meno possibile è il primo passo per attenuare le cause di morte. Accade della vita come d’uno strumento; se male adoperato si guasta presto e non serve più. Un tal beccaio che sapeva bene e con arte tagliare e squartare, si vantava d’adoperare da diciannove anni la medesima coltella; mentre ai beccaj inesperti ce ne vogliono una all’anno”.

Del rimanente Lieh-tse non dà gran valore alla vita. Egli narra circa un tal soggetto un dialogo tra il filosofo Yang-chu, e un suo interlocutore che merita essere riferito.

“Se vi fosse alcun uomo – vien chiesto da costui – che tenendo in gran pregio la vita, e amando fortemente sé stesso s’adoperasse a cercar modo di scansare la morte, vi riuscirebbe egli? No, risponde Yang-chu, perché niente in natura è eterno. E neanche avrebbe mezzo di prolungare la vita? Il Destino non lo consente. E poi, la vita è in sé tanto preziosa, e la nostra persona tanto degna d’amore, che si vegga ragione di prolungar l’esistenza? Il mondo corse sempre pel medesimo andazzo. Gli effetti delle passioni umane, lo stato dei nostri corpi, l’affaccendarsi delle genti, gli sconvolgimenti sociali e politici tutto fu in passato come è oggi. Quel che oggi si ode e si vede si ripete a sazietà da secoli a perpetuo tormento degli uomini. Dopo anni e anni d’una vita cosiffatta, coloro che non muoiono di dolore morrano di tedio.

Se è come tu dici, meglio allora porre fine alla vita, che cercare di scansare la morte.

Uccidiamoci! v’è l’acqua, il fuoco, il ferro a nostra scelta.

 

Oibò! riprese Yang-chu, non importa prolungare la vita, ma non conviene affrettare la morte. Poichè siamo nati, sopportiamola pure la vita; prendiamo quello che essa ci può offrire di piacevole, e aspettiamo sereni la morte. Quando la morte verrà, accettiamola indifferenti, e lasciamoci condurre al dissolvimento finale. L’inevitabile destino d’ogni cosa quaggiù: perché trascorrere fra ansie continue il breve intervallo tra il nascere e il morire.

Nel mondo la diversità è nella vita, l’uniformità è nella morte. La vita ha diversità di savj e stolti, di nobili e plebei, di felici e sventurati, di ricchi e poveri; la morte non ha che uguale putredine, che si consuma e dissolve. La saviezza e la follia, la nobiltà e la bassezza, e le altre varietà di vita, non dipendono da volontà umana, come non ne dipendono la putredine e il disfacimento. Ciò non è che il fatale avvicendarsi di vita e di morte, traverso cui passa tutto ciò che esiste: tutti i saggi, tutti gli stolti, tutti i grandi, tutta la plebe. E gli uomini muojono ad ogni età: muojono i virtuosi e i perversi, gl’intelligenti e gl’idioti. Vivi sono Yao e Shun, morti sono ossa fetide; vivi sono Kie e Cheu, morti sono ossa fetide.  Chi conoscerà la diversità che fu, nell’uniformità del fetido ossame. Corri la vita; perché li trattiene l’oltre tomba?”

Se consideriamo non la vita dell’Essere in generale, ma la vita degli individui che appariscono e passano sulla terra, noi la troveremo sì breve, che s’intenderà come il nostro autore si maravigli che gli uomini la tengano in tanto gran conto. Chuang-tse osserva infatti: “Non solo è sì breve la vita dell’uomo sulla terra, ma se vogliam noi cercarvi un po’di tranquillità e di pace, non riusciremo a trovarne il luogo. Prendiamo pure, egli dice, la massima longevità di cent’anni raramente raggiunta: togliamone gli anni della fanciullezza, incosciente; quelli della vecchiaja, impotente; togliamone poi gli anni spesi per prepararsi a vivere, e poi molti passati tra fatiche ed affanni continui, affine di mantenere il nostro corpo; e quelli trascorsi tra malattie, sventure, casi dolorosi d’ogni sorta, e vediamo quel che rimane per godere un po’in pace la vita. Eppure è per un tale istante di pace, che gli uomini adoperano tutte le loro forze, sopportano tutti i dolori, compiono ogni sorta di azioni buone e malvage: La vita non ha pace – dice un altro filosofo di questa scuola – perciò tieni in pregio la morte, che pel savio è la pace.

Se gli uomini stimano la morte un male, egli è perché ignorano essere essa il riposo delle fatiche della vita. Di un morto, gli antichi dicevano ei ritornò, perocchè riguardavano il vivente come un viandante, che va senza pertanto sapere ch’ei va tornando a quella dimora donde egli venne”.

Il Taoismo cercherebbe dunque di provare, come lo fa il Buddismo, che l’uomo è in questo mondo la più infelice delle creature; ma le conseguenze che trae da tale affermazione, sono ben diverse da quelle che ne trae il Buddismo stesso.

Ecco in fine quel che ci dice C’huang-tse, del timore irragionevole che gli uomini hanno della morte. “Considerare con gioja la vita, e con terrore la morte, è l’errore in cui cadono comunemente gli uomini; i quali pertanto non sanno niente circa quel che loro avverrà lasciata ch’eglino abbiano questa terra. Quando la bella Ki venne rapita a forza per condurla sposa al re di Tsin, disperata, pianse amaramente. Ma giunta che fu a lui, e gustate seco lui le delizie della mensa e dell’amore, molto si pentì delle lacrime che aveva versate. Forse avverrà lo stesso a chi muore; il quale accortosi d’esser più felice morto che vivo, si pentirà anch’egli del forte amore che io avvinse alla terra.

D’un sogno lieto il risvegliarsi è doloroso; d’un affannoso sogno è sollievo il risveglio. E la vita è davvero da stimarsi sogno. Chi sogna non s’avvede di sognare; anzi tiene per vero quel che gli accade sognando; soltanto al risveglio s’accorge d’aver sognato.

Ora, il Gran risveglio (la morte) ci farà accorti del Gran sogno (la vita). Gli stolti sognando si stimano desti, e tengon per certo essere principi o servi o chi si sia; ma tutti sogniamo, io e tu; io che ti dico che tu sogni, sogno pur anche”.

 

La Perfetta Felicità.

 

Si può trovare nel mondo la felicità perfetta? V’è egli modo di mantenere viva la propria persona? Se questo è possibile, che cosa dobbiamo fare per ottenerlo? a che dobbiamo attenerci? ch;e cosa dobbiamo sfuggire ?dove stare? come com’portarsi? che cosa amare? che cosa odiare ? Sono le domande che Chuang-tse fa a sé stesso, incominciando quel capitolo del suo libro, che intitola appunto “Della perfetta felicità”.

“Quel che il mondo apprezza e ricerca son le ricchezze, gli onori, la longevità, la benevolenza; e le cose che lo allietano sono le proprie comodità, i buoni cibi, il vestir conveniente, la bellezza, la musica. Le cose poi che ha a noja o teme sono la povertà, la bassezza, la morte precoce, la malevolenza; e sono cause di dolore, se il corpo non trova riposo sufficiente, se la bocca non ha buoni cibi, se la persona non ha da bene abbigliarsi, se l’occhio non scorge nulla di leggiadro, nè l’orecchio piacevoli suoni. Siffatte manchevolezze sono per gli uomini cagione di dolore e apprensione. Gli stolti! Essi non pensano che al corpo soltanto.

Il ricco s’affatica per aumentare quei suo tesoro, che egli in vita non riuscirà a consumare; cosicché non per sè stesso s’affatica, ma per gli altri. L’ambizioso di onori passa notte e giorno a pensare e ripensare come potrà acquistarseli, meritevole o no; e neanche lui s’affanna per sè stesso, ma per chi sa chi.

L’uomo è nato per tormentarsi sempre; fino il vecchio che sta continuamente in timore della morte, è pur lui da compiangere, sebbene mostri d’aver paura di qualcosa che egli ignora che sia.

Il glorioso milite per le sue eroiche gesta ha la lode del mondo; ma è felicità vera la lode? Non so se sia davvero meritata una tal lode; ma anche se lo è, io non la stimo felicità.

Sarà anche bene che il leale ministro, quando le giuste censure non sono dal sovrano ascoltate, non si ostini a contendere seco lui.

Tse-hiu volendo discutere col suo Signore per giustificare i consigli che avevagli dati, incorse nella più crudele delle morti. Di qui, è vero, la fama che lo esaltò a’ posteri; ma all’onesto magistrato qual bene gliene venne?

Merita proprio il conto di rovinarsi il corpo e lo spirito per guadagnare una fama postuma, della quale non giungerà a noi notizia alcuna! una fama che costa il sagrifizio di tutta la vita, e che non sarà d’alcun refrigerio alle nostre ossa dopo la morte.

Io non son riuscito a intendere qual relazione vi sia tra le azioni degli uomini e la felicità che per esse cercano acquistare. Vedo le turbe correre affannose verso quel che stimano felicità, e sì rapide corrono come se temessero di non raggiungere la meta. Eppure ciò che tutti costoro chiamano felicità, a me non sembra tale; e dubito forte che la Felicità sia di questo mondo.

Andandomene un giorno verso lo Stato di Ts’u, per la strada vidi in terra un teschio scarnito, che pareva mi mostrasse la sua triste figura. Con la frusta del mio cavallo lo colpii; poi mi venne vaghezza d’interrogarlo : Messere – gli dissi – chi foste? E che cosa vi ridusse a tale? vi uccise forse la vita sregolata e lo stravizio? o forse, uomo pubblico, cadeste vittima di qualche pubblica calamità? o vi uccise il ti-morso di qualche azione malvagia? vi uccise la miseria? vi uccisero gli anni?

Scendeva la notte ed io mi acconciai a passarla in quel luogo; e distesomi alla meglio in terra, e fattomi capezzale di quel cranio, mi addormentai. Era alta la notte, quando mi apparve in sogno quel medesimo teschio, che, come fosse vivo, mi disse: Tu volesti far mostra d’essere buono inquisitore, con le tue dimande; ma tutto quello che dicesti si appartiene alla vita che tu vivi: per noi morti le tue parole non hanno significato. Vuoi tu piuttosto sapere da un morto ciò che sia la morte? Certo che lo voglio – risposi subito. E il teschio cominciò: Tra i morti non vi sono né re né sudditi; non padroni né servi; non gli affanni quotidiani né il tedio: nostra è l’eternità e la quiete: tutta la felicità dei felici della terra, non basterebbe a farti intendere quella che noi godiamo. Io sorrisi a quelle parole, e gli risposi reciso: “Io non ti credo; anzi son certo che se io avessi potestà di ridar carne alle tue ossa, e forma al tuo corpo disfatto, e di farti rivivere con tuo padre, tua madre, tua moglie e i tuoi figliuoli nella tua casa, nel tuo villaggio, mi pregheresti con istanza di ricondurti alla luce. A queste parole, il teschio, dimenando le mascelle con un suono di nacchere, tosto rispose: Come t’inganni, meschino mortale! Nessuno di noi morti lascerebbe quest’arcana, stupenda quiete, per tornare all’agitarsi affannoso degli uomini”.

Il medesimo capitolo di Chuang-tse ci fa sapere che anche a Lieh-tse, come più sopra ho avuto occasione di riferire, la vista d’un cranio suggerì simiglianti considerazioni. Viaggiando egli un giorno, si fermò per riposarsi, e prendere un po’ di ristoro, sul margine della via che percorreva. Quando lì presso vide un cranio, avanzo di qualche antica tomba distrutta. Lo prese, lo palpò; poi voltosi a un suo discepolo che lo seguiva, dissegli: Soltanto io e lui, accennando il teschio, sappiamo quei che altri non sanno circa la vita e la morte!

La pace del sepolcro è dunque la perfetta felicità pel nostro filosofo taoista. Egli non la trovò nella vita, in nessuna delle condizioni umane sulla terra, e nemmeno la vide dove gli uomini con lena affannata corrono a cercarla. Non si rivolse nemmeno al Cielo, né pensò a cercarvela lassù.

Questo modo d’intendere l’oltre tomba è del tutto in contraddizione con quei che insegna l’altra parte del sistema taoista, di cui ho già esposto parzialmente le idee sostanziali. Il Taoismo non filosofico, composto d’alchimia, astrologia, magia, medicina, pratiche dello Yoga, insegna l’arte di vivere: vivere più a lungo che sia possibile, vivere eternamente sia in cielo tra gli astri, sia per l’aria, sia sulle vette delle montagne, o sia pure sulla terra, ed anche come spiriti irrequieti, tormentatori dei mortali: basta vivere, qualunque forma di vita essa sia, e avere la piena coscienza di vivere. Chuang-tse e Lieh-tse, i principali filosofi del Taoismo, insegnarono, come abbiam visto, ben altra dottrina; e questa diversità separa nettamente il Taoismo filosofico dal Taoismo diventato religione.

 

(tratto dal Testo "Il Taoismo"

di C. Puini – Fratelli Melita Editori

Si rimandano i lettori all’opera completa)

 

Da: http://www.societa-ermetica.it/primavera%202003/taoismo_fine_txt.htm

 

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