Conferenza sugli Siva sutra (Raffaele Torella)

  in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

  home page   cerca nel sito   iscrizione newsletter   email   aggiungi ai preferiti   stampa questa pagina    
 

 

  SU DI ME
 Vita       
 Pubblicazioni

 Corsi, seminari, conferenze

 Prossimi eventi
 
  DISCIPLINE
 Filosofia antica       
 Mistica
 Sufismo
 Taoismo
 Vedanta              
 Buddhismo              
 Zen
 Filosofia Comparata
 Musica / Mistica
 Filosofia Critica
 Meditazione
 Alchimia
 Psiché
 Tantrismo
 Varia
 
  AUTORI
 Mircea Eliade       
 Raimon Panikkar
 S.Weil e C.Campo
 René Guénon, ecc.
 Elémire Zolla     
 G.I.Gurdjieff  
 Jiddu Krishnamurti
 Rudolf Steiner
 P. C. Bori       
 Silvano Agosti
 Alcuni maestri

 


Conferenza sugli Siva sutra (Raffaele Torella)


Università Cà Foscari, 22 aprile 2013


Prof. RIGOPOULOS
Buon giorno e ben trovati. Abbiamo l’onore di avere qui oggi il prof. Raffaele Torella, ordinario di Religioni e Filosofie dell’India, Indologia, Lingua e Letteratura Sanscrita presso l’università La Sapienza di Roma, ed è un onore e un privilegio soprattutto in occasione della presentazione di un libro così importante appena edito da Adelphi che ha per titolo “Gli aforismi di Śiva” - gli Śivasūtra con la Śivasūtravimarśinī il commento di Kṣemarāja. È un’occasione rara di poter colloquiare con uno dei massimi esperti di śivaismo kaśmīro e non solo, di poterlo interrogare e poter conversare con lui su questo testo così importante che fonda il non-dualismo śivaita ed è un testo che è alla base del tantrismo śaiva e non soltanto, quindi è un grande piacere averlo qui per noi tutti riuscire ad essere insieme, aver pensato all’incontro di oggi come una conversazione a tre con Federico Squarcini e me, sostanzialmente cercando di colloquiare distesamente offrendo degli spunti al prof. Torella per introdurci alla complessità, alla densità degli Śivasūtra di Vasugupta e alla sua tradizione commentaria. Io partirei proprio da una constatazione: chiunque abbia preso in mano questo testo avvicinandosi agli Śivasūtra di Vasugupta rimane forse sconcertato dalla laconicità, dalla densità di questi sūtra che letti uno dopo l’altro appaiono davvero anche a un indologo avvertito sostanzialmente incomprensibili senza la guida di un commento che ti prenda per mano e ti permetta di entrare nella selva oscura di questo testo. Quindi vorrei proprio iniziare chiedendo al prof. Torella di dirci qualche cosa rispetto a questa estrema laconicità e aforicità di questo testo e sul genere dei sūtra in generale e di Vasugupta in particolare.

Prof. TORELLA
Io vorrei invece iniziare ringraziando per la splendida e affettuosa ospitalità dei due amici qui presenti e in generale grazie sentitamente. La domanda che mi fa il prof. Rigopoulos è in effetti centrale. Se uno si legge gliŚivasūtra, e io li ho fatti mettere da soli anche se in India non esiste una tradizione degli Śivasūtra da soli, un poco come quello che succede con gli Yogasūtra, e quando nei rari manoscritti in cui voi trovate gli Śivasūtra da soli sono stati estrapolati dal complesso Śivasūtra commenti, uno se li legge dopo averli letti… non ha capito assolutamente niente. Allora la prima domanda che uno si fa è: quando si3 scrive un’opera la si compone perché si vuole diffondere del sapere altrimenti uno si risparmiava la fatica, scrivere un testo incomprensibile tanto vale non scriverlo. Per quale motivo l’India ha questo compiacimento nello scrivere opere incomprensibili che per diventare comprensibili hanno bisogno di un supporto, ovvero crea opere già zoppicanti che hanno bisogno di una stampella. Quindi quando uno scrive un testo sūtra scrive un testo già ipotizzando preveggendo davanti qualcuno poi gli metterà tutti questi supporti. È la domanda che mi sono posto in un altro mio libro “Il pensiero dell’India”, nell’introduzione ho dedicato per la prima volta in una rassegna del pensiero indiano un capitolo dedicato alla forma dei testi, ovvero perché i testi indiani sono fatti così. Io mi sono molto stancato nella mia attività di studioso di una dimensione descrittiva; mi rendo conto che descrivere le cose in maniera attendibile è molto importante, ma dopo aver descritto le cose ti rimane in bocca una gran voglia di andare avanti. Per quale motivo le cose in India sono così? dopo averle descritte perché sono così? Uno si rende conto che tutta la cultura indiana e ovviamente tutte le culture mondiali, nello svolgersi hanno in mente determinati obbiettivi che sono diciamo di carattere culturale sociale ecc. anche supponiamo di descrivere il Vedānta, che parte da un insieme di dottrine di credenze, per quale motivo il Vedānta crede a una cosa piuttosto che a un’altra, perché le mette insieme in quel modo, allora si comincia a delineare una strategia che in India è sempre molto ricca di a chi si rivolge il testo, a chi si rivolge una dottrina, per quale motivo dice questa cosa invece di dire quest’altra, chi sta cercando di chiamare a sé, da chi sta cercando di distanziarsi, per quale motivo; in questo rientra anche la questione della forma dei testi, quindi noi abbiamo in India molto diffusa questa tendenza a costituire una sūtra tradition, che di per sé non si regge in piedi, è piena di buchi, immaginatela come un formaggio fatto in gran parte di buchi, questi buchi sono dei buchi deliberati, i quali permetteranno al testo di vivere nei secoli. Quindi l’India sa benissimo che più un testo è preciso meno è longevo, più un testo è preciso più è legato al suo presente, più un testo diventa indeterminato più è in grado di sfidare i secoli, evocando chi di secolo in secolo lo riattualizzerà. Scrivere un testo sūtra vuol dire dare ad una certa tradizione culturale un fondamento difficilmente scalzabile che possa essere difficilmente reso inattuale e funga da baricentro ad una tradizione destinata a durare anche mille o duemila anni. Questa tradizione rimarrà sempre uguale? In questo errore di prospettiva sono caduti tutti i cosiddetti tradizionalisti alla Guénon alla Eliade ecc., i quali hanno preso alla lettera questo modo dell’India di porre se stessa come se l’India fosse una terra di verità atemporali, quindi esistono verità atemporali noi abbiamo detto una volta per tutte quello che si può fare dopo è semplicemente vagamente commentare e ripetere, ma ormai tutto è stato fatto. Ovviamente l’India, una delle più grandi civiltà dell’umanità, non è così ingenua. Gli indiani sanno benissimo di essere esseri storici e che l’uomo non può che essere un essere storico, è la sua condanna e la sua felicità quello di essere un essere storico quindi l’India nel cercare di dare l’impressione di avere tutta la verità alle spalle sta semplicemente giocando il gioco di chi vuole cercare di neutralizzare esorcizzare diciamo l’angoscia del presente, facendo finta che tutto è già stato detto e che quindi restino soltanto dei dettagli da definire. In questa strategia è abbastanza primario il sūtra, quindi tu fai un testo sūtra, questo testo sūtra rimane la base atemporale inscalfibile di una disciplina, la disciplina continua storicamente non dico ad evolversi, lasciamo stare il fatto di migliorare o peggiorare, continua a cambiare perché gli esseri umani cambiano, il cambiamento è quindi il vero e proprio sviluppo di una disciplina, in questo caso del non-dualismo kaśmīro, viene affidato a chi lo comunicherà nel futuro, quindi il commento ha questo compito primario di versare sempre nuovi contenuti all’interno di una griglia che però non viene mai messa in discussione, e questo è un modo che trovo anche molto attendibile anche molto ingegnoso, che però non va preso alla lettera. Ora, il termine sūtra è stato come potete immaginare dagli indiani stessi lungamente indagato e come fanno gli indiani spesso per indagare una parola un concetto ecc. la prima cosa che mi viene in mente è l’etimologia, la scienza dell’etimologia o forse è meglio la scienza dell’analisi semantica che in India dal VI secolo a. C. non si fa altro che etimologizzare tutte le parole chiave. Quando andiamo a vedere le etimologie correnti di sūtra, già capiamo molto su quello che l’India si aspetta dai sūtra, quella più corrente è dalla radicesūc che vuol dire “indicare”. Quindi il sūtra non sta a dichiarare delle cose ad asserire delle cose in maniera così chiara completa ecc., ma sta soltanto a indicare oscuramente qualcosa, alludere a qualcosa sarà poi il commentatore che deve svolgere dipanare questi fili. Un’altra etimologia molto meno nota, che è diffusa in ambiente jaina, è ancora forse più significativa di questa. Il sūtra viene messo in relazione con la parola sup la radice sup che vuol dire “dormire”. Ora, ovviamente, non c’è nessuna relazione etimologica dal punto di vista scientifico tra sūtra e sup, l’etimologia cosiddetta scientifica di sūtra che gli indiani lo sanno benissimo essendo i più grandi linguisti dell’umanità non possiamo stare noi a dare lezioni di linguistica o di scienza grammaticale agli indiani, lo sanno benissimo, ma a loro interessano anche altre cose. L’etimologia reale, diciamo così, è quella che vuol dire “tessere”, il sūtra è un tessuto è il filo di un testo e il testo del resto è una grande metafora europea che vuol dire tessitura, un ragno che tesse la sua tela, un tessitore che tesse usando dei fili. Secondo questa etimologia il sūtra si chiama sūtra perché è un testo che dorme, è un testo dormiente suptà è un testo dormiente in attesa che un commento lo svegli, quindi è una specie di testo virtuale il quale vive una sua vita virtuale al di fuori della realtà. Immaginate una bella addormentata nel bosco che aspetta il suo cavaliere che di secolo in secolo… ci sono testi che vengono commentati nell’arco di duemila anni e ogni volta si tira fuori dal testo qualcosa di nuovo. Quindi il sūtra sta lì in attesa che qualcuno lo riempia di contenuti in maniera ovviamente non arbitraria ma mantenendo un filo che lo lega a una scuola a una dimensione tradizionale. Il sūtra non viene mai commentato in termini arbitrari da un passante, ma viene commentato da qualcuno autorizzato da una appartenenza ad una certa linea spirituale, magari avversaria ma certamente con delle credenziali. Ecco, per concludere questa domanda molto significativa che mi ha fatto l’amico Rigopoulos, sempre nell’ambito jaina ad un certo punto si parla in scritture jaina medioevali immaginando una catastrofe cosmica che si sta avvicinando. I poveri monaci jaina dicono che facciamo? sta arrivando questa inondazione, una specie di fine del mondo, andiamo nella nostra biblioteca i testi sono tanti, dobbiamo scegliere: salviamo i sūtra originari, ovvero gli āgamadella tradizione jaina, o salviamo i commenti? Dopo un breve conciliabolo i monaci salvano i commenti e mandano a mare i testi originali, questo per capire l’atteggiamento della cultura indiana.

Prof. SQUARCINI
(sintesi) L’opera è composta in tre parti, da poco meno di cento sūtra, è commentata da Kṣemarāja e da Bhāskara, come ti appare la relazione tra le tre parti che formano il testo e le diverse interpretazioni dei due commentatori? 

Prof. TORELLA
Anche questa è una domanda importante. Leggere gli Śivasūtra da soli è un’esperienza molto interessante, perché anche non capire niente è un’esperienza molto…, succede spesso, sono testi molto spiazzanti anche molto belli esteticamente, anche se non capite che cosa vuol dire, come succede a volte nei Veda, ci sono dei passi di una bellezza folgorante dove però non capite che cosa voglia dire, si capisce però che non è un insieme di sūtra presi a casaccio, di sicuro è un certo numero di sūtra quindi brevi formulazioni presenti all’interno di circoli śākta. Sappiamo grossomodo che cosa vuol dire śākta: è una religione che vede al suo culmine il divino nella sua forma di energia piuttosto che nella sua forma di distacco o nella sua forma di assenza di attività, come tende a fare il Vedānta, quindi al culmine del reale noi vediamo un qualcosa che quando viene denotato viene sempre denotato attraverso dei nomi dinamici, nomi che vogliono dire movimento che vogliono dire vibrazione onda ecc. Questo è già piuttosto inusuale perché si dice normalmente che il pensiero indiano rifugga dal movimento, e quindi consideri il movimento una specie di mostro da esorcizzare e tutto ciò che è significativo e ontologicamente elevato la prima cosa che fa si sbarazza dell’azione e del movimento. Questo è vero solo in parte ovvero è vero soltanto se noi cancelliamo l’intera tradizione tantrica, la tradizione tantrica che poi finisce per diventare la tradizione dominante dell’India anche quando l’India non se ne rende conto, l’India attuale è profondamente tantrica molto più di quanto non pensi di esserlo, nel tantrismo invece è tutto il contrario, quindi il fatto che Dio sia dotato di attività non è una cosa che ci deve fare schifo, al contrario il fatto che Dio sia dotato di attività è l’essenza stessa della soggettività. Ora, la formulazione ricordata da Federico è molto ambigua perché intanto, come dicono i commentatori uno si aspetterebbe“Il sé è cosciente” [caitanyam ātmā], ma non il sé è coscienzialità, caitanyam è un astratto. Quando tu vuoi definire un’entità la definisci come? La definisci con un aggettivo non la definisci con un astratto derivante da un aggettivo. Dietro questa scelta ci sono delle motivazioni che ci portano rapidamente all’interno di uno dei mondi più delicati del pensiero indiano, ovvero l’interazione che c’è tra pensiero linguistico e pensiero insomma anche filosofico e religioso, quindi nell’usare un astratto c’è dietro una consapevolezza di filosofia della grammatica molto precisa su cui adesso non starò a diffondermi. Ugualmente problematica è la parola ātman. Ora, la parola ātman per noi è una parola scontata nel pensiero indiano, tutti quanti parlano ātman, Brahman ecc. ecc. Quelli che storcono il naso davanti alla parola ātman sono proprio gli śivaiti; per quale motivo agli śivaiti non piace tanto questa parola ātman? potremmo dire per converso per gli stessi motivi per cui al mondo brahmanico vedāntico ecc. non piace tanto la parola “io”. La parola io aham, io sembra troppo terra terra, sembra troppo legato all’umano, troppo umano che va necessariamente trasceso, ma trasceso non attraverso una gradualità ma superando un abisso, quindi noi diciamo “io” nel momento in cui siamo immersi in una specie di sogno, questo sogno non ci porta gradualmente verso il risveglio, ma bruscamente verso il risveglio. Una volta che noi usciamo dal sonno dell’io ci svegliamo alla consapevolezza dell’ātman ci accorgiamo che tutto quello che era io e così via era tutta una serie di piccole miserie e dimentichiamo, buttiamo tutto a mare, quindi buttiamo a mare tutta quella che era la nostra vita individuale passionale emozionale corporea ecc. e finalmente adesso siamo all’interno di questa bella casetta dell’ātman ci sentiamo molto bene ci sentiamo molto fieri di essere degli esseri ātman guardiamo tutto dall’alto, ma guardiamo dall’alto dopo aver cancellato tutto quello che ci serve. L’insegnamento del tantrismo è ben diverso, supponendo che ci sia un alto contrapposto al basso, e questo è tutto da verificare, perché in realtà così non si crede, il momento in cui tu arrivi al cosiddetto alto non sei autorizzato a buttare a mare tutto il cosiddetto basso altrimenti non hai capito niente, tu hai raggiunto l’alto il momento in cui non esiste più né un alto né un basso, in cui tu dall’alto di questa tua realizzazione vedi il tuo presente di essere individuale emozionale corporeo ecc. non cancellato ma semplicemente illuminato dal di dentro da una nuova consapevolezza, quindi questo è l’insegnamento del tantrismo. Perché non piace tanto la parola ātman? non piace tanto perché dentro la parola ātman c’è un sospetto che sento anch’io da tantrico in qualche modo , da tantrico acquisito, di reificazione, come se ci fosse una realtà già bella che costituita nella quale tu entri dentro e ti accomodi in questa realtà che già ha i suoi parametri e tu devi semplicemente versarti all’interno di questa realtà precostituita. Gli śivaiti amano molto di più un’altra parola, che è proprio la parola “io” aham che linguisticamente tutti sapete corrisponde all’εγω greco all’ego latino, parola che invece è molto bistrattata all’interno del pensiero indiano soprattutto quello brahmanico. Nell’āśram di Rāmaṇa Mahāṛṣi tuttora credo se a uno gli capita di dire per sbaglio la parola io mentre sta lì viene preso a mazzate viene preso a bastonate proprio fisicamente a bastonate. Quindi questo rifuggire da questa che è la realtà individuale ecc. è una delle caratteristiche che accomunano l’intero mondo brahmanico. Per quale motivo invece lo śivaismo non ha paura dell’ātman anche se non lo preferisce? intanto mette in evidenza il fatto che la parola ātman bene o male è maschile è una parola maschile, aham non ha genere non è né maschile né femminile né neutro, il momento in cui io nella mia realtà individuale adesso per esempio uso la parola io è come se lanciassi le mie radici verso un qualcosa che sotterraneamente mi congiunge a tutti gli altri io i quali formano insieme l’Io di Śiva, quindi anche se in una dimensione limitata il mio dire io è un atto di affiliazione energetica verso un qualcosa di imprevedibile legato all’energia legato alla creatività individuale che alla lontana mi mette in relazione con quello che è l’io nella sfera della realizzazione più alta e tra questo Io cosiddetto assoluto che è l’Io di Śiva e l’io provvisorio limitato quanto vogliamo che è il nostro io attuale non c’è quell’abisso che c’è tra ahaṁkāra e ātman ma c’è semplicemente una differenza di grado per cui partendo dal nostro io individuale noi possiamo percorrere questo percorso che ci porta… è un percorso aperto, immaginate è una circonferenza da ogni punto della quale si può spiccare il volo verso il centro. Ecco questo è il mondo armonico e integrato del tantrismo che si contrappone a questo mondo segmentato dei buddhisti prima di tutto e a questo mondo fatto di due facce che non comunicano che è il mondo in generale del Vedānta. Quindi la prima affermazione va presa molto… perché non ha detto “io” è coscienzialità? ancora probabilmente l’io non è apparso chiaramente all’orizzonte delle scuole śākta, quindi queste scuole śākta non hanno ancora una filosofia, hanno dei testi sapienziali sicuramente precedenti allo Yogasūtra [secondo me qui allude invece agli Śivasūtra] non hanno ancora una filosofia, ancora aspettano qualcuno che dia loro una filosofia. Questo qualcuno arriverà nel giro di un secolo e sarà Somānanda con laŚivadṛṣṭi ne parlavamo ieri sera, e questi Śivasūtra sono un insieme eterogeneo per cui immaginiamo un adepto frequenta questi circoli che hanno spesso una tendenza anche trasgressiva per cui quello che si facesse in questi circoli più o meno lo sappiamo, alcune sono cose abbastanza inquietanti, però insomma ci siamo ormai allontanati da quello che era lo zoccolo duro del tantrismo duramente trasgressivo il tantrismo del sesso del sangue della morte dell’alcol ecc. siamo già al tantrismo più spiritualizzato perlomeno interiorizzato. C’è un percorso indipendentemente dal modo in cui i due pensatori, questi due grandi autori, lo hanno organizzato? apparentemente sì, intanto pur appartenendo a due scuole diverse l’ordine è sostanzialmente lo stesso, sono abbastanza pochi quindi non si tratta di una specie di paniere di aforismi dai quali ognuno dei due ha scelto, è qualcosa di più, esisteva già una sorta di strutturazione, ci sono dei sūtra che ricorrono quasi uguali all’inizio e alla fine, questo quasi uguali ci fa capire che sono diversi modi di vedere un certo tema e ci fa supporre anche il tono generale di queste tre sezioni, che l’ultima sia più legata a un’esperienza che l’India conosce più da vicino ed è un’esperienza psicofisica in cui la realizzazione di tipo yogico si muove su linee possiamo dire a noi più note più tradizionali in cui si agisce in maniera costante, ripetitiva su qualcosa per ottenere dei risultati, il vero insegnamento profondo di queste scuole è basato sul rigetto della gradualità e sul rigetto della durata. Tutto ciò che è significativo avviene nell’istante, avviene nell’istante, un istante trasformativo. Questo modo di vedere l’iter spirituale ovviamente è appannaggio certamente di una schiera di eletti, quindi non tutti sono in grado di affrontare un iter che procede soltanto per salti violenti. Diciamo la gran parte degli adepti ha bisogno di restare in una situazione di credibilità di insegnabilità di avere dei punti di riferimento precisi, si capisce man mano che si va avanti che questi punti di riferimento precisi aumentano. I primi sūtra sono dei sūtra molto inaspettati, pensate che all’inizio dopo aver detto caitanyam ātmā, questa affermazione abbastanza così oscura se ne dice una ancora più oscura “Bhairava è slancio”, che cosa vuol dire, quando mai nel pensiero indiano è venuto in mente che l’Assoluto è slancio, che significa slancio? slancio è una parola molto pesante in queste scuoleudyamaḥ in cui yam ha il senso di una tensione yam ha poi tanti significati, ud è una tensione che ti porta verso l’alto ud/yam quindi dire l’assoluto Bhairava, che è la forma terrifica di Śiva, terrifica non in quanto vuole spaventare a tutti i costi ma perché il suo essere terrifico rappresenta la cifra dello stravolgimento di tutte le barriere che ti metti davanti, quindi tu tendi a farti una vita fatta di piccoli steccati di etichette, questo è bello questo è brutto, questo è buono questo è cattivo, arriva Bhairava nella sua forma terribile e ti travolge tutti questi steccati che ti sei fatto intorno, non lo fa per farti un dispetto ma al contrario lo fa per farti un piacere, per farti mettere al centro della realtà e non farti restare una specie di osservatore e di qualcuno che prende atto di come sono fatte le cose, sei tu che fai le cose, sei tu che dai a una cosa l’etichetta di puro e di impuro, quindi non c’è niente in sé che sia puro o impuro. Questo Bhairava che nella sua forma iconografica è spaventoso, ha tutti teschi, questo Bhairava viene definito con una parola, questa parola “slancio” e così si va avanti. Appena dopo troviamo un’altra formulazione estremamente ampia e ancora forse più inaspettata perché qui siamo partiti da una prima affermazione: l’Assoluto non è assenza di movimento, il contrario l’Assoluto è un movimento sottile che non cessa mai, quindi anche nella dimensione, questo lo dirà Somānanda, anche quando Śiva appare nella sua forma quiescente ovvero lo Śiva trascendente inarrivabile... se voi avete presente l’iconografia di Elephanta, che poi ho scoperto è un’iconografia molto più diffusa di quanto non pensassi, tutti l’avete vista immagino, una delle cose più belle che ci sono in India: la Maheśamūrti di Elephanta (Prof. Rigopoulos: è quella che appare sul testo…) quella l’ho fotografata io al ***** perché consideravo molto enigmatica questa icona davanti alla quale gli stessi portoghesi che erano degli iconoclasti non hanno avuto il coraggio di rovinarla, quindi quando sono arrivati nelle grotte di Elephanta loro che hanno sfigurato immagini in tutta l’India lì sono rimasti abbacinati davanti a questa forma. È una forma molto grande con una figura divina con gli occhi chiusi che è secondo me l’icona più alta della spiritualità chiusa in se stessa, quindi un dio assolutamente trascendente sereno tranquillo, ma lontanissimo nello stesso tempo, a fianco emergono dalla sua stessa figura due altre dimensioni una femminile sorridente amorevole e un’altra corrusca maschile bellicosa e quindi queste tre facce del dio sono le tre facce della Maheśamūrti che poi ritrovate in tante sculture del nord dell’India del VII o VIII secolo che poi è lo stesso periodo della Maheśamūrti. Quindi qui si parla della dimensione energetica lo slancio del dio ecc. Il passo successivo è un verso un sūtra altrettanto misterioso però su tutt’altro registro, che comincia subito a mettere le carte in tavola come se stesse mappando un territorio: “Al conoscere presiede lamatṛkā”. Anche questo che vuol dire? Questo sarebbe già più chiaro se uno conosce un po’ di tantra. Che cosa è la mātṛkā? La mātṛkā è una divinità alfabetica. Voi direte che cos’è una divinità alfabetica? È la Śakti, controparte di Śiva, consorte di Śiva nella sua forma alfabetica, fatta di fonemi, voi immaginate un dio fatto invece che di una sostanza spirituale fatto di suoni, un dio sonoro un dio fonematico, il dio fonematico il Bhairava fonematico è lośabdarāśī [insieme di fonemi], quindi noi abbiamo una specie di controparte, in realtà sono le stesse figure, figure con una loro controparte puramente sonora fatta di linguaggio, abbiamo Śiva da una parte, Bhairava da una parte, śabdarāśī, e abbiamo a fianco la Śakti che corrisponde a tutti i fonemi che formano l’alfabeto Sanscrito tradizionalmente considerati cinquanta, poi appare ben presto una seconda divinità femminile alfabetica ed è Mālinī in tutti i testi tantrici noi troviamo una presenza alla fine predominante di questa Mālinī e nel rifare da capo questo lavoro che come dico nell’introduzione, l’edizione precedente risale a dodici anni fa, ho trovato nuovi strati di testo che mi erano sfuggiti nella prima e probabilmente altri ne troverò in una eventuale futura edizione, uno di questi è il rapporto che c’è tra Matṛkā e Mālinī, questo lo dico per introdurre quello che stavo dicendo prima, Mālinī è fatta degli stessi fonemi dell’alfabeto Sanscrito ma tutti mischiati, impazziti, voi immaginate l’ordine normale tradizionale dei fonemi è di Matṛkā che è una divinità energetica ma tutta bella tranquilla, gli adepti tantrici non si interessano granché alla Matṛkā, si interessano molto di più a Mālinī, Mālinī è legata al potere è legata alla trasgressione è legata al momento in cui dalla realtà manifestata noi rientriamo verso l’Assoluto in questo pulsare continuo che va tra assoluto e manifestato in India, nel mondo tantrico indiano, perché Mālinī è detta bhinnayoni con le consonanti mescolate, si capisce dal Mālinīvijaya e da altri tantra anche dal Siddha…. si capisce che questa espressione bhinnayoni, yoni è il nome in codice delle consonanti può significare… significa le consonanti mescolate ma significa nel contempo “con la vagina trafitta” bhinnayoni che cos’è questa vagina trafitta? è il dio Bhairava, Assoluto, il quale turba sessualmente la sua controparte tranquilla Matṛkā, Matṛkā turbata sessualmente da Śiva si eccita ad un certo punto non ci capisce niente, tutti i suoi fonemi si mescolano in maniera arbitraria caotica in seguito a queste attenzioni sessuali di Śiva e viene fuori la forma energetica turbata violenta trasgressiva della dea nella sua forma caotica, per quale motivo c’è questo accentuare continuamente la presenza dell’alfabeto del linguaggio nel cuore stesso dell’Assoluto questa è una delle idee chiavi dell’India secondo cui noi non abbiamo un pensiero il quale si manifesta col linguaggio ovvero il linguaggio visto come uno strumento per comunicare il pensiero un docile strumento per comunicare il pensiero. L’India ha saputo fin dal tempo vedico che il pensiero non usa il linguaggio ma è il contrario, il pensiero senza il linguaggio semplicemente non esiste, quindi conoscere pensare vuol dire gettare intorno all’oggetto una griglia linguistica, altrimenti l’oggetto sarebbe destinato a restare al di fuori della coscienza, se noi possiamo portare l’oggetto all’interno della coscienza è perché disponiamo di questa griglia linguistica la quale in ultima analisi coincide con la coscienza, non esiste coscienza senza una sua articolazione linguistica, motivo per cui ai vertici del pantheon śivaita noi troviamo la suprema potenza chiamata tranquillamente “suprema parola”, a questo punto ti dice il sūtra proprio mette le carte in tavola “Al conoscere presiede la Mātṛkā” il che vuol dire, alla nostra capacità cognitiva presiede una dimensione linguistica senza la quale il nostro conoscere… e questo lo dice ai primissimi sūtra quindi in mezzo a questi slanci proprio di carattere scritturale spirituale c’è un’improvvisa puntualizzazione di tipo filosofico linguistico e questo ci fa capire come questo testo sia veramente continuamente in bilico e ha bisogno di qualcuno che lo fermi e ce lo polarizzi nell’una o nell’altra dimensione questo che poi esista una possibilità di interpretazione in termini di tre vie questo è probabilmente una forzatura, che ci sia però un senso di diversificazione di strade quali siano ancora non si capisce questo è chiaro quindi strade più immediate più travolgenti istantanee e strade più graduali ripetitive e questo è qualcosa che ha attraversato l’India non soltanto l’India brahmanica ma anche l’India buddhistica da sempre quindi una contrapposizione tra krama e akrama ciò che è successione e ciò che è privo di successione c’è una famosa disputa all’interno del buddhismo del tantrismo buddhista che ha visto mobilitato Kamalaśīla in cui ci si chiedeva ha un senso ricorrere a dei mezzi ha un senso ricorrere allo yoga ricorrere alla ripetitività alla gradualità, la risposta di queste scuole è un drastico no. Io sto facendo a Roma una serie di lezioni private soprattutto a maestri yoga su qual è la posizione yoga all’interno del tantrismo e stanno venendo fuori delle cose anche perché si parla di testi mai letti mai tradotti eccetera piuttosto nuove, quindi il tantrismo alto questo dello śivaismo e dello yoga non ha fatto un passo quello che chiama yoga quando usa questa parola è qualcos’altro che appartiene a questi primi, che appartiene a questa prima sezione…

Prof. RIGOPOULOS
A proposito dell’ontologia della prospettiva adombrata dai sūtra e poi nel commento, caitanya o la coscienza come unità indissolubile si dice di luce prakāśa e di riflesso, consapevolezza riflessa vimarśa qui entrano in gioco due categorie centrali del pensiero tantrico śivaita prakāśa e vimarśa e si è sottolineato il loro incessante dinamismo che contrassegnerebbe proprio la potenza di libertà di Śiva questa svātantryaśakti che è forse la sua più autentica definizione, ecco in rapporto a questa dialettica che poi anche nell’introduzione spieghi tra Śiva relato e Śiva irrelato ti pongo una domanda forse troppo ampia ma un’interrogazione che ti vorrei porre in questi termini di nuovo qui torna un tema fondamentale nelle religioni e filosofie dell’India che è il tema della luce e del riflesso ti chiedo come dovremmo intendere come intenderesti prakāśa e vimarśa, cioè a dire spesso si parla della luce e del riflesso come metafora, ma sono una metafora sono piuttosto ciò che è detto al di là e oltre la metafora cioè a dire questo tema che ritorna continuamente nel pensiero filosofico indiano nel Sāṁkhya stesso nel Vedānta cioè l’idea di un Assoluto come pura luce, una luce che si rifrange che si specchia e che si riflette, questo tema portante del rapporto luce-riflesso che quindi implica anche l’orizzonte dinamico a cui prima facevi riferimento ecco mi piacerebbe sentirti riflettere a voce alta su questo tema della luce e del riflesso.

Prof. TORELLA
Diciamo che vimarśa non viene inteso come riflesso quindi il rapporto luce-riflesso è un rapporto affiancato a quello di prakāśa-vimarśa ma non coincide con prakāśa e vimarśa, ci porterebbe verso un’altra dimensione ugualmente interessante. E da dove nasce questa cosa che diventerà poi in India corrente all’interno di tutte le scuole tantriche quindi luce da una parte, uno immagina luce come un aspetto statico l’aspetto potremmo dire quasi di contenuto contrapposto invece a vimarśa che è l’aspetto dinamico vimarśa è il momento in cui si prende consapevolezza e si agisce sui contenuti, quindi immaginiamo a livello più basso non a livello assoluto anche se dobbiamo sempre tenere presente che questo alto e basso… c’è una parte del Parātrīśikavivaraṇam il grande commento di Abhinavagupta ad un breve tantra, che è meno di questo, un tantra di trenta versi che è dedicato alle sedici diverse etimologie della parola anuttara che vuol dire letteralmente senza superiore ciò che non ha nulla al di là, alcune di queste etimologie sono bellissime sempre etimologie come dicevamo prima etimologie molto creative e alcune di queste prendono anuttara nel senso di non ciò rispetto al quale non c’è niente di uttara ovvero di trascendente che viene dopo ma anuttara come il non-trascendimento ovvero non c’è niente che vada trasceso tutto quanto va semplicemente vissuto per quello che è senza inserirlo in gerarchie, quindi il momento in cui noi diciamo questo è bello questo è il primo gradino secondo il terzo il quarto noi abbiamo fatto un percorso ascendente, Abhinavagupta ci mette in guardia da questi percorsi ascendenti che creano gerarchie e mettono etichette alla realtà, anche quello che a te sembra il gradino di partenza che poi tu devi superare non credere che sia così, anche il gradino di partenza ha la stessa dignità del gradino successivo, quindi non ci dev’essere un trascendente, ora tutta la filosofia del tantrismo indiano finisce per assumere le categorie elaborate dai nostri amici śivaiti intorno al IX – X secolo soprattutto con la scuola del riconoscimento, la scuola della Pratyabhijñā è in questa scuola in cui noi troviamo per la prima volta questa opposizione tra prakāśae vimarśa non le troviamo in Somānanda quello che sarebbe in teoria il fondatore della scuola pratyabhijñā ora la scuola del riconoscimento chi si vuole occupare di queste scuole non può non affrontare i testi difficili della scuola pratyabhijñā ora l’opera principale della pratyabhijñā è di Utpaladeva e si chiama “Le stanze del riconoscimento del Signore”. È un’opera di carattere strettamente filosofico epistemologico pienamente tantrica però un tantrismo speculativo, opera complessa a cui io ho dedicato un lavoro che sta per essere ristampato in India, edizione critica e traduzione in inglese di questo testo con l’auto-commento dell’autore in questo testo emerge per la prima volta prakāśa e vimarśa allora sempre restando in questo percorso più interpretativo che descrittivo che è quello che mi interessa di più ora oltre a cercare di capire che cosa volessero dire questi due termini per cui alla fine vimarśa è l’aspetto appropriativo quindi io ho una certa conoscenza nel momento in cui io percepisco un oggetto questa percezione dentro di me dell’oggetto questo illuminarsi dell’oggetto al mio interno è il momento della luce seguito da un appropriarmi intellettualmente in maniera analitica in maniera consapevole di questo contenuto cognitivo questo è uno dei significati di prakāśa e vimarśa. Per quale motivo nasce questa opposizione che avrà poi così grande fortuna prakāśa è Śiva vimarśa è Śakti quando mi sono posto questa domanda man mano il discorso s’è fatto sempre più complesso perché in India come tutti quanti voi sapete non c’è niente di semplice probabilmente in nessuna civiltà c’è niente di semplice nell’India ancora peggio perché è tutto più complicato quindi quando ai miei studenti all’inizio dell’anno do un po’ di catechismo agli studenti nuovi, dico due o tre cose, una di queste riguarda il modo incisivo di parlare e di scrivere, è vero che noi siamo abituati a parlare, anch’io mi rivolgo a me stesso che in fondo non faccio altro che parlare, una delle prime cose che dico loro è che se una cosa può essere detta con dieci parole voi ditela con otto questo è uno dei primi, seconda cosa è non esiste la semplicità, la semplicità è semplicemente il frutto dell’incapacità di cogliere la complessità il che non vuol dire che le cose complesse non possano essere espresse con chiarezza e questo vale maggiormente per le cose dell’India che sono tra le più incasinate che esistano, quando si va a vedere la genealogia di questi due termini che poi diventeranno pane quotidiano lo sanno anche i ragazzini kashmiri parlano di prakāśa e vimarśa dietro noi abbiamo un grande fantasma questo grande fantasma è il più grande linguista dell’umanità ed è Bhartṛhari, grammatico filosofo del V secolo è sicuramente la mente più lucida che nella storia dell’umanità abbia affrontato il linguaggio in tutti i suoi aspetti semantico linguistica-storica filosofia del linguaggio insomma una delle grandi menti dell’India in questa opposizione prakāśa e vimarśanella forma satyavamarśa è presente in Bhartṛhari, qui finirei per parlare troppo a lungo di questo terreno su cui nho lavorato molto diciamo solo che Utpaladeva, il grande filosofo dello śivaismo prima ancora di Abhinavagupta si trova a dover creare delle coordinate della visione del mondo śaiva esprimendola in termini teoretici; nel fare questo come dicevamo prima si trova a fare delle scelte ovvero a dichiarare guerra a qualcuno e a cercare alleati in altri settori spesso poi anche questa dichiarazione di guerra è fatta al fine di rassicurare o di attrarre dei potenziali alleati che hanno paura di quelli, allora dicevamo io faccio guerra a quelli attacco quelli voi venite qui che vi proteggo io questa strategia che è molto chiara se uno la sa vedere è quella che fa sì responsabile dell’attaccare i buddhisti da parte dello śivaismo e nello stesso tempo attaccando i buddhisti stringere le fila dei fedeli śivaiti che però non sono ancora śivaiti advaita fa vedere che loro sono in grado di fronteggiare il grande prestigio intellettuale dell’epistemologia buddhista medioevale che spopolava in questo spazio e in questo tempo e far capire che loro i seguaci delle scuole Nyāya Vaiśeṣika che di religione erano tutti śivaiti ma non śivaiti di questa… fanno capire che loro non riusciranno mai a spuntarla nei confronti dei buddhisti a meno che loro non si mettano, non si nascondano in un certo senso o non entrino nelle fila loro e quindi parte questo gioco al massacro contro la filosofia buddhista con dei fini precisi egemonici per ingrossare le fila di tutte queste masse sparpagliate le quali sarebbero state destinate ad essere delle vittime filosofiche dei buddhisti se non armandosi delle armi di queste scuole sofisticate pratyabhijñā riconoscimento ecc. qual è il principale argomento contro i buddhisti? il buddhismo viene visto come in realtà è come una visione di un mondo segmentato un mondo fatto di istanti con un abisso tra un istante e l’altro, quindi una realtà fatta di punti-istanti non comunicanti quindi una realtà discreta frammentata alla quale lo śivaismo oppone che cosa oppone il suo contrario una realtà integrata un circolo di fiamme continuo che gira su se stesso che cancella ogni differenziazione del reale e permette anche una grande libertà di movimento all’interno del reale perché non c’è nessun steccato che separa una cosa dall’altra le cose non hanno un’etichetta per cui sono quello e rimangono per sempre quello le cose sono in grado di essere continuamente riformulate rimodellate ricreate quindi sono due visioni del mondo proprio opposte da questo punto di vista frammentate nel mondo dei buddhisti e integrato e continuamente… diciamo un mondo che si muove a spirale quello dello śivaismo. A questo punto Utpaladeva ha bisogno di un modello interpretativo molto prestigioso da opporre a quello dei buddhisti sceglie il modello del linguista filosofo Somānanda, nel momento in cui Somānanda, scusate Bhartṛhari (c’è un motivo perché dico Somānanda invece di Bhartṛhari)… possiamo dire… vedete come ci stiamo allontanando da una dimensione puramente religiosa come è questa, ma allontanando in parte perché la dimensione teoretica in queste storie è sempre sotto pelle per cui c’è sempre un gioco continuo tra i due piani quindi noi in modo in una sorta di archetipo o paradigma della frammentazione dei buddhisti e della integrazione degli śaiva è rappresentata epistemologicamente dall’abisso che separa il momento della percezione diretta che secondo i buddhisti è l’unico momento in cui il reale viene a contatto con noi quindi noi abbiamo un momento in cui la diretta percezione fa rispecchiare dentro il nostro conoscere integralmente il reale momento privilegiato in cui noi tocchiamo il reale che ha il solo difetto però di non essere usabile ovvero di essere un momento talmente vivido che non può entrare nel gioco della nostra realtà quotidiana, per poterlo utilizzare questo momento in cui il reale si rispecchia dentro di noi dobbiamo farlo affievolire dobbiamo spegnerlo in che cosa nel pensiero concettuale, quindi il pensiero concettuale toglie luce al reale toglie addirittura dignità al reale però ci rende liberi ci mette in grado di lavorare sul reale e quindi noi abbiamo questo abisso che separa il pensiero discorsivo dal pensiero non discorsivo. C’è un passo bellissimo che ho messo in evidenza in qualche mio lavoro che si trova in uno dei grandi commenti di Abhinavagupta questo testo che si chiama “Stanze del riconoscimento del Signore” è un commento molto analitico difficile in 1200 pagine Sanscrito fittissimo difficilissimo lui fa una similitudine bellissima secondo me per far capire che cos’è questo momento della diretta percezione nei confronti invece della elaborazione concettuale. Parla di un uomo che viene dalla campagna, quest’uomo viene dalla campagna e si trova in città entra in un palazzo rutilante di luci dove c’è una festa bellissima con cibi raffinatissimi tutto quanto shining al massimo dopo il primo momento che si trova in questo palazzo meraviglioso che sarebbe il palazzo della percezione diretta lui si sente un po’ a disagio e comincia a dire sì beh qui è tutto bellissimo è sopra le righe ma io mi sento un po’ a disagio e allora va in cerca del portiere perché non riesce più a uscirne fuori da questo palazzo chiede al portiere di portarlo fuori da questo palazzo che è fin troppo bello nel quale lui è talmente bello non riesce a vivere non riesce e vuole ritornare al suo villaggio perché lì bene o male le cose insomma funzionavano erano un po’ orizzontali ma insomma… il portiere ci dice alla fine di questa metafora Abhinavagupta è il pensiero discorsivo quindi lui si rivolge al pensiero discorsivo per uscire dal festival bellissimo ma alla fine insostenibile della percezione diretta con tutte le sue luci abbaglianti. Quindi questo è quello che succede nel mondo dei buddhisti. Bhartṛhari oppone a questa visione del buddhismo una visione diametralmente opposta: secondo Bhartṛhari anche nel momento della più immediata percezione noi abbiamo già un’articolazione linguistica quindi quello che sarà il pensiero discorsivo che viene dopo non è un salto di qualità non è un abisso che abbiamo superato ma è semplicemente un progressivo svolgersi di un seme, di un germe che era già presente anche nel momento della percezione sensoriale apparentemente più immediata e questo secondo Bhartṛhari è per due motivi, primo perché è chiaro che il conoscere prende non solo la forma ma ha bisogno di una struttura linguistica per aver luogo, questa struttura linguistica noi l’abbiamo non soltanto quando abbiamo la consapevolezza diretta del linguaggio ma prima c’è una occulta struttura linguistica che progressivamente si dipana si scioglie si articola, quindi noi abbiamo da una parte il mondo frammentato dei buddhisti e dall’altra parte il mondo epistemologicamente integrato di Bhartṛhari e Bhartṛhari nel parlare di questo usa proprio le parole prakāśa e vimarśa e ci dice che se all’interno del momento della percezione diretta ovvero del prakāśa non esistesse già questa articolazione linguistica per quanto ancora non tangibile la stessa luce non potrebbe risplendere na prakāśa prakaśeta la luce non risplenderebbe. Abbiamo qui tutto il pensiero śivaita già in qualche modo ante litteram esplicitato a livello epistemologico. Utpaladeva molto saggiamente prende questo blocco di un grande pensatore come è Bhartṛhari lo fa proprio e lo usa come strumento anti-buddhista per i motivi che abbiamo esposto prima. Questo è un po’ quello che c’è dietro a prakāśa e vimarśa.

Prof. SQUARCINI
L’altra questione che volevo sollevare e inerente alla visione di questo testo riguardo al legame al mondo, ad esempio rispetto al Vedānta, se vediamo il secondo sūtra del primo dischiudimento c’è un vincolo tra la conoscenza e il legame e lo stesso nel secondo sūtra del terzo dischiudimento dice la stessa cosa, solo che nel primo caso il sūtra è legato a caitanyam mentre nel secondo è legato a cittam la domanda verte su quale può essere l’origine del nostro condizionamento.

Prof. TORELLA
Effettivamente uno potrebbe andare oltre come sei andato tu nella lettura di questo testo e esplorare dei terreni incolti, incolti anche dagli autori stessi, dall’autore stesso… prima considerazione che possiamo fare è che noi siamo abituati a pensare all’uomo come animale razionale la Grecia ci ha insegnato che l’uomo spontaneamente è un essere pensante e spontaneamente va verso la cognizione quindi il conoscere rappresenta la naturalità e allora uno attrezzato da questa considerazione il pensiero occidentale l’ha fatta propria Cartesio Usserl ecc. arriviamo al mondo indiano, certamente nel mondo indiano troviamo formulazioni del genere soprattutto formulazioni che ci portano a considerare l’elemento portante all’interno della soggettività non dico soggettività umana o divina ma soggettività almeno meta-cognitiva ovvero quello che noi chiamo il soggetto l’India ha bisogno di aggiungere qualcosa e quindi dice quale soggetto il soggetto agente o il soggetto conoscente aggiunge qualcosa per cui quando noi parliamo di soggetto e basta all’India non è sufficiente, dovremmo mettere ātman o … gran parte dell’India soprattutto l’India brahmanica è concorde sul fatto che dire soggetto vuol dire dire implicitamente soggetto conoscente quindi il soggetto è caratterizzato dal fatto di conoscere jñātṛ tanto per usare una parola sanscrita. Gli śaiva non sono mica tanto d’accordo su questo anche perché nel mondo vedāntico attribuire al soggetto questa qualifica centrale di conoscente corrisponde la sottrazione e l’eliminazione della qualifica di agente quindi il soggetto conoscente vero e proprio lo dicono sempre i testi brahmanici non è attivo è akriyā è soltanto un soggetto... Andiamo a vedere quello che succede nel mondo tantrico non solo śivaita ma anche vaiśnava e troviamo che invece il soggetto per eccellenza è kartṛcioè io sono soggetto in quanto agisco non in quanto conosco, a questo punto si aprirebbe un altro possibile snodo del nostro discorso che è l’incontro scontro tra conoscere e agire nel mondo tantrico, primato della conoscenza o primato dell’azione? Quando dico primato della conoscenza posso tradurre anche primato del rito o primato della gnosi? Quindi come vedete le biforcazioni poi partono all’impazzata diventano tante. Quindi noi nel mondo tantrico abbiamo sicuramente una identificazione del soggetto con kartṛ con il soggetto agente non con il soggetto conoscente nel mondo brahmanico abbiamo una sola eccezione che ci può sembrare anche inattesa e chi è che sostiene la centralità del kartṛ nel soggetto? sono proprio i fondamentalisti cosiddetti indiani laMimāṁsā, questa è l’unica scuola indiana che esce dal coro dei fautori del… e afferma che l’io è un io in quanto sacrificante ovvero in quanto operatore di un atto sacrificale e quindi all’interno della falange brahmanica abbiamo quella che dovrebbero essere proprio la śivasenā i fondamentalisti più aggressivi che sono quelli dellaMimāṁsā che sostengono invece la centralità dell’azione dell’azione però sacrificale quindi io sono io in quanto sacrifico. Nel mondo tantrico le cose poi vanno… se uno legge i testi attentamente le cose diventano ancora più complicate ancora più interessanti perché nella gerarchia delle potenze la potenza d’azione non viene prima ma come uno potrebbe dire il soggetto è il soggetto in quanto è soggetto agente io mi aspetterei che quindi la potenza di azione sia la potenza primaria no la potenza d’azione è una specie di ultima potenza a superarla in qualche modo tra virgolette ontologicamente sono altre potenze più indeterminate più trasparenti della potenza d’azione… la potenza di conoscenza viene gerarchicamente prima della potenza d’azione la potenza di conoscenza è a sua volta trascesa da una potenza ancora più trasparente ovvero ancora più indeterminata potete immaginare quale sia: la volontà; la volontà sta dietro sia all’azione che alla conoscenza ed è considerata una potenza gerarchicamente più alta e questo ce lo dice anche lo Śivasūtra quando ci dice che la più alta potenza è la potenza di volontà śaktitā se invece noi andiamo a leggere invece la Śivadṛṣṭi questo grande testo filosofico religioso che viene ancora prima di Utpaladeva, che ne è il commentatore, troviamo delle note ancora più coinvolgenti. Somānanda, che è l’autore, non si accontenta della volontà prima ancora della volontà lui vede un’altra potenza ancora prima della volontà e questa potenza viene chiamata tecnicamente aunmukhya che vuol dire il puro atto di essere protesi verso protensione verso… questa protensione verso puntini puntini è il primo incresparsi della coscienza il primo dinamismo, voi immaginate una coscienza la quale rappresenta la prima potenza secondo Somānanda chiamata con un termine che ha delle forti connotazioni estetiche nirvṛti quindi una coscienza la quale ha quel senso di appagamento che è l’appagamento che noi sperimentiamo dopo una forte esperienza estetica e vediamo come l’estetica entri sempre più profondamente all’interno dell’esperienza religiosa proprio a partire da questi testi straordinari, quindi noi vediamo che per il tantrismo non è l’essere conoscente il quale rappresenta il nucleo della soggettività quindi l’essere in quanto conoscente in un certo senso nei meandri dell’essere agente ma è l’essere desiderante in cui l’agire non si rapprende ancora in un’azione definita ma si identifica con questo dinamismo che fa alzare il capo unmukka vuol dire protendere la testa verso l’alto mettendosi in una sorta di situazione di attesa dell’azione che verrà (prof. Rigopoulos: quindi uno slancio) uno slancio esattamente sempre un ut cioè in grado di levarsi quindi possiamo dire tranquillamente che all’uomo conoscente del mondo brahmanico il quale uomo conoscente voi potrete capire che è anche più tranquillizzante per una ideologia la quale tende a dominare una realtà composita come quella indiana se quindi metti un uomo conoscente che sta benissimo un uomo conoscente soprattutto se questa conoscenza siamo noi a trasmettergliela noi brahmini ecc. se tu metti al centro dell’uomo l’uomo desiderante insomma bisogna stare in campana come si dice a Roma perché poi l’uomo desiderante poi difficilmente si presta a restare all’interno degli schemi che sei tu a dargli quindi il tantrismo risponde appunto al mondo brahmanico anche in termini ideologici in termini di tentativo di sostituire un’egemonia con un’altra proprio minando una di queste diciamo proprio di questi meccanismi di de-egemonizzazione sostituendo quindi all’uomo con essenza conoscente un uomo con essenza desiderante. Ora, dopo essere partiti molto da lontano, tornando alla domanda di Federico la parola in questione era ajñānaṃ e non jñānaṃ perché il manoscritto e anche nella recitazione se io dico caitanyam ātmāla parola finisce con una ā lunga e subito dopo dico jñānaṃ in sanscrito la ā finale di ātmā potrebbe benissimo essere la fusione della ā finale di ātmā con la a iniziale negativa di jñānaṃ tutte e due sono possibili quindi io mi posso inventare che la conoscenza è un legame e lì posso prendere tutta una serie di snodi molto interessanti, quello che hanno in mente queste scuole invece è un discorso molto mirato, mirato nei confronti dello Śaiva Siddhānta ora lo Śaiva Siddhānta è una sorta di versione mild dello śivaismo ancora molto vicina al mondo brahmanico è un primo distacco dal mondo brahmanico che però non lo mette sostanzialmente in discussione soprattutto dal punto di vista sociale e la presenza della casta all’interno dello Śaiva Siddhānta è fortissima quindi Abhinavagupta rimprovera ai pensatori dello Śaiva Siddhānta una ossessione della casta mentre il tantrismo tenderebbe ad eliminare ogni divisione di casta sulla carta, lo Śaiva Siddhānta nemmeno sulla carta lo pensa, quindi un maestro śaivasiddhāntin può iniziare un adepto soltanto se l’adepto è di casta uguale o inferiore quindi un maestro śaivasiddhāntin che ad esempio è uno kśatriya non può iniziare un brahmino che viene lì e chiede io voglio diventare uno śaivasiddhāntin non può iniziare un tale adepto. Lo Śaiva Siddhānta è una delle forze dominanti del Kashmir in cui sorge lo śivaismo quindi lo śivaismo ha bisogno di distinguersi dallo Śaiva Siddhānta e nello stesso tempo respingere oltre quello che un distacco dal mondo smārta ovvero quella che è la cosiddetta ortodossia brahmanica che rimane un po’ lo zoccolo duro della società kashmira lo Śaiva Siddhānta è noto è presentato dagli śivaiti non dualistici come una religione centrata sulla ritualità incentrata sul rito, per quale motivo lo Śaiva Siddhānta ha questa possiamo dire anche in questo caso ossessione del rito che noi troviamo anche nel Sāṁkhya viṣṇuita nel Pāñcarātra ecc. ma troviamo molto di meno in queste scuole qui il discorso sarebbe molto lungo cerchiamo di restringerlo un po’ all’interno di certi termini. Quello che dicono i dottori śivaiti dello Śaiva Siddhānta è che noi abbiamo una anima individuale la quale sì coincide unicamente con Śiva però ha delle forze che hanno condizionato costretto depotenziato questi poteri quindi queste forze sono codificate in tre tipi di forze, da una parte ne abbiamo una che fa pensare un po’ al nostro peccato originale, è una cosa che c’è da sempre la quale copre quelle che sono le potenze che noi condividiamo con Śiva in primo luogo conoscenza e azione le contrae senza distruggerle le rende affievolite per cui noi abbiamo sì un conoscere e un agire però enormemente depotenziato rispetto a quello divino però della stessa qualità e abbiamo altre due fonti di depotenziamento ora dicevo dello Śaiva Siddhānta questa specie di macchia originale che noi abbiamo è qualcosa di sostanzialmente fisico tra virgolette ed essendo qualcosa di concreto dravya in sanscrito ha bisogno per essere rimossa di qualcosa di altrettanto concreto ovvero un’azione rituale quindi noi abbiamo bisogno di un rito il quale cancelli fisicamente proprio, tanto è vero che una delle iniziazioni prescritte dallo Śaiva Siddhāntachiamata anche pratyaya dīkśā oppure tuladīkśā è anche abbastanza ingenua si prende l’iniziando e lo si pesa prima dell’iniziazione, lo si ripesa dopo e lo si trova più leggero magari quel poveretto ha fatto una sudata, questo essere più leggero è perché è stato cancellato fisicamente il mala questa macchia che copriva quindi è stata rimossa questa sostanza, la macchia è stata rimossa, per rimuovere una sostanza c’è bisogno di un’azione. Il mondo non dualistico dello śivaismo si muove su prospettive totalmente diverse e questo lo troviamo formalizzato forse per la prima volta nel Mālīnivijayottara che dice non questa macchia non è un fatto, un fatto concreto che va lì a coprire una cosa, è soltanto un nostro interiore atteggiamento che va modificato attraverso una pura e semplice presa di coscienza di non alterità nei confronti del divino, quindi quello che dice subito all’inizio è una presa di distanza immediata nei confronti del Śaiva Siddhānta e dice guardate mala, viene adoperata la stessa parola, la maculazione, la macchia non è un dravya ma è una pura e semplice mancanza di conoscenza, la quale va rimossa non attraverso un’azione rituale concreta eccetera ma va imossa semplicemente modificando il nostro atteggiamento mentale interiore noi pensiamo di essere limitati in realtà siamo liberi e la nostra limitazione consiste soltanto nel presumerci limitati, questa è una grande bordata che disattiva tutto l’universo rituale l’universo in cui si muove lo Śaiva Siddhānta demolendo l’intero edificio rituale dello Śaiva Siddhānta ed evocando tutta un’altra serie di mezzi, mezzi che sono molto più come diceva ieri il prof. Rigopoulos una cosa che l’aveva colpito era che nello Śivasūtra c’è l’assoluta mancanza del rituale di questo magari potremo parlare dopo, effettivamente qui di rito non si parla si parla di altre cose, cose imponderabili, certamente non di rito. Ci sono dei mezzi per raggiungere…? certamente ci sono dei mezzi, ma dei mezzi talmente sottili talmente sofisticati per cui anche lo yoga viene visto come un qualcosa di troppo grezzo per lavorare su questi meccanismi c’è un meraviglioso passo del Mālinīvijayavārtikam di Abhinavagupta che dice lo yoga non serve io l’ho ricordato in più di un’occasione nei miei scritti lo yoga non è un mezzo per raggiungere l’anuttara ovvero questa dimensione dell’assoluto per questa dice esattamente Abhinavagupta ci serve una navicella mossa da un vento leggero intendendo un’onda il prāṇa dello yoga sottoposto al controllo delprāṇāyāma ecc. quindi è un percorso che richiede strettamente una lievità una leggerezza una naturalezza che non è quello dello yoga e alla fine di questo passo c’è un’espressione che io credo sia nata nella letteratura filosofica religiosa dell’India espressione che è veramente meravigliosa nel momento in cui ci si attacca come fanno spesso questi autori contro i due caposaldi dello yoga, i due caposaldi che sono diventati anche quelli della Gītā ovvero il praticante e l’aspirante alla liberazione deve avere vairāgya e in certi casi si parla di nirodha in certi casi di un controllo compressione tappe in cui è possibile produrre nirodha e vairāgya ci vuole distacco quindi distacco non-attaccamento la risposta di Abhinavagupta come spesso succede è paradossale quindi ci vuole distacco? al contrario ci vuole attaccamento e quindi crea alla fine di questo breve passo ma densissimo crea questa espressione anādara virakti che io ho tradotta con un distacco virakti equivale a vairagya insomma per chi di voi conosce il sanscrito an-ādara: praticata in elegante souplesse quindi voi immaginate un distacco praticato in souplesse quindi non immaginiamo la scena che sta lì [con sforzo] ma un distacco che vive, che è vissuto in termini di leggerezza, per cui la leggerezza è una delle chiavi per cui intendere lo śivaismo, io ho fatto una conferenza a Torino al festival di Torino spiritualità su un tema analogo, sul sorriso nello śivaismo e qui siamo in questa chiave anche se poi ovviamente c’è l’elemento trasgressivo brutale di queste scuole ma questo è un altro discorso quindi questa sicuramente era ajñāna  ajñāna ma lui si trova perché lui fa proprio riferimento alla risposta su che cos’è l’āṇavamala e qual è l’antidoto all’ānavamala che non è qualcosa di concreto ma è semplicemente un fatto cognitivo e come fatto cognitivo non ha bisogno di un’azione per essere rimosso ha bisogno semplicemente di un atto interiore di auto-riformulazione.

Prof. RIGOPOULOS

Sul versante epistemologico questa è un po’ la mia ultima domanda, ecco negli Śivasūtra si dice proprio fin dall’inizio che i pramāṇa cioè i mezzi di conoscenza non possono condurre a questo riconoscimento dell’unica realtà, che i pramāṇa sono sostanzialmente inidonei, tutti i pramāṇa e l’altro sūtra straordinario a proposito di bellezza anche estetica sottolinea come non di meno questa esperienza dell’assoluto inteso come prakāśa evimarśa deve realizzarsi per esperienza ordinaria evidentemente e tu hai coniato questo “meravigliato assaporamento” come traduzione di vismaya camatkāra che è sostanzialmente la condizione mi verrebbe da dire del liberato in vita cioè colui che fa l’esperienza hic et nunc qui ed ora della realtà non duale di Śiva comeprakāśa vimarśa e che assapora istante per istante concepito come un continuum che è immerso che è parte di questa realtà pulsante vibrante e qui questo straordinario meravigliato assaporamento è una sorta di trasfigurazione della realtà per cui tutto è Śiva in effetti. Ora ti domando: se appunto non vi sono pramāṇa che conducono a questa esperienza ovvero se pure c’è questa dialettica upāya-anupāya “mezzo non-mezzo” in particolare la seconda sezione da quello che capisco leggendo è particolarmente dedicata al tema del mezzo che però poi in qualche modo va trasceso perché in qualche modo il mezzo rimanda alla condizione che inibisce quella naturalità quella leggerezza di cui prima parlavi ad esempio mi viene in mente che si parla di guru upāya il mezzo è l’*******, ecco se potessi illuminarci su questa sorta di dialettica tra questa esperienza di meravigliato assaporamento che è un esito è una realtà che connota l’esperienza del liberato e di nuovo in fondo torniamo a questo discorso tra graduale e subitaneo upāya anupāya allora c’è un mezzo non c’è un mezzo, se i pramāṇasono utilizzabili dobbiamo forse riferirci a una sorta di yogipratyākṣa?

Prof. TORELLA
Beh questo sarebbe l’argomento adatto per un seminario perché i temi che ha toccato il prof. Rigopoulos sono nevralgici, ognuno nevralgico e ognuno porta tutta una serie di snodi. Io mi sono occupato della questione delloyogipratyākṣa come sai e sono tutti quanti strettamente connessi partiamo dal primo che in un certo senso è il più semplice ovvero i pramāṇa possono dimostrare Śiva questo viene negato all’inizio dellaĪśvarapratyabhijñākārikā dimostrare un qualcosa vuol dire che un mezzo di conoscenza considerato epistemologicamente valido nel mondo indiano supponiamo percezione inferenza ecc. serve a portare alla luce qualcosa che prima era oscuro quindi noi prima di conoscere l’esistenza che ne so del fuoco grazie all’inferenza vedevamo solo un fumo questo fumo ci consente grazie al fatto che noi in passato abbiamo avuto tante esperienze che ci hanno permesso di stabilire l’invariabile concomitanza tra fuoco e fumo ci permette di stabilire che noi vediamo adesso un fumo è come se vedessimo un fuoco quindi questo atto di inferenza ci porta alla conoscenza qualcosa che prima non c’era prima di fare questo lavoro cognitivo noi non sapevamo che lì c’era un fuoco lo sappiamo adesso quindi il fuoco viene portato ad essere in qualche modo come terminologia sanscrita noi abbiamo da una parte un mezzo di conoscenza il pramāṇa che è un sādhana che è un realizzatore un operatore e qualcosa che deve essere realizzato dal sādhana ovvero sādhya nel mondo śivaita non è possibile chiamare sādhya Śiva perché Śiva è il contrario è siddha cioè qualcosa che è stabilito fin dall’inizio e non ha bisogno che arrivi qualcuno a portarlo alla luce perché è qualcosa che è la nostra stessa luce è la luce del pramāṇastesso per cui non è una luce che abbia bisogno di essere accesa (Prof. Rigopoulos: era già accesa) è il presupposto della luce che c’è negli ****** per cui poi il discorso si complica quando uno ha consapevolezza di quello che c’è nel pensiero linguistico indiano viene fatta una differenziazione costante tra siddha e sādhya che sono termini completamente diversi quindi siddha e sādhya, siddha è quello che caratterizza i nomi sādhya è quello che caratterizza i verbi il nome è tale in quanto è un’entità ormai conclusa in se stessa un’entità chiusa ha dei confini ha una dimensione ormai acquisita in qualche modo questa dimensione acquisita rappresenta la negazione del movimento, la negazione dell’energia, immaginiamo un nome è un oggetto che ha smesso di crescere è un oggetto che ha smesso di evolversi ha raggiunto una coincidenza con una forma in questo contesto parlare di siddha vuol dire introdurre un termine limitativo mentre sādhya ciò che è continuamente in corso come l’azione verbale è l’incarnazione stessa del movimento dell’energia della potenzialità quindi noi potremmo dire che a un realtà come Śiva sta bene siddha dal punto di vista primo e sta bene sādhya da questo punto di vista secondo quindi questo per quanto riguarda la dimensione se un pramāṇa può farci conoscere Śiva. Quello che dice Utpaladeva è che noi non dobbiamo portare alla luce qualcosa che prima non fosse ma semplicemente pulire un po’ questo specchio è il riconoscimento, togliere un po’ di polvere e far sì che questa realtà che non ha mai cessato di essere tale sia riconosciuta verbalmente e nel nostro comportamento all’interno della realtà ordinaria è quella che nella epistemologia buddhista è la distinzione tra vijñānakāyasādhana quindi non è che tu provi la conoscenza di qualcosa ma ne provi la sua applicazione, consapevole nella realtà ordinaria questo si lega in maniera indiretta ma mica tanto ad un’altra questione di cui mi sono occupato in passato che parte proprio dai tantra ci sono i tantra i quali molto spesso quasi sempre si presentano come un dialogo tra un dio che chiede e una dea che risponde o viceversa quindi a seconda dell’orientamento che ha il tantra se è un tantra trasgressivo un tantra di sinistra il dio è ignorante chiede lumi alla dea se invece è un tantra di destra più sullośaivasiddhānta ecc. o tantra di questi intermedi è la dea che chiede e Śiva Bhairava o chi volete le risponde se non che vai a leggere i commentatori degli antichi leggono questo dialogo e leggono “la dea disse” devi uvācacaspita,ogni commentatore tantrico soprattutto questa gente qui gente di alta cultura questi non sono dei commentatori come tantrici da strapazzo che se ne vanno in giro semplicemente a copulare con le loro adepte nei campi di cremazione ecc. questa è gente all’interno della camera più segreta della cultura indiana teniamo presente che il pensiero estetico indiano nasce in questo ambiente quindi senza le grandi scuole kashmire tantriche noi non avremmo il pensiero dell’estetica indiana o lo avremmo in maniera molto ridotta e imperfetta quindi anche il commentatore tantrico è nutrito di tutta una serie di elementi culturali primi tra i quali è la consapevolezza del pensiero linguistico e grammaticale quello che dicevamo ieri questo povero americano Nemec che si fa questo libro… che traduce la Śivadṛṣṭi di Somānanda con il commento di Utpaladeva testo culturalmente molto ricco avendo un tipo di preparazione di competenza molto unilaterale non in grado di muoversi tra epistemologia retorica linguistica ecc. ecc. che emergono continuamente in questi testi e con cantonate pazzesche insomma ora i commentatori indiani più d’uno si dicono ma se io uso il perfetto per dire devi uvācanon è strano? Il perfetto nella speculazione linguistica indiana a partire da Pāṇini ma già prima di Pāṇini ha due caratteristiche precise è un passato ormai concluso un passato irrecuperabile confinato in un tempo ormai esaurito ed è qualcosa al di là della mia diretta esperienza ora posso io dire che la dea che è la mia stessa anima che è il cuore della realtà che pulsa intorno a me sia presentata come qualcosa che appartenga ad un passato irrecuperabile e al di fuori della mia diretta esperienza se è lei il cuore della mia esperienza da questo tipo di speculazione che è consapevole di tutte le applicazioni di uso grammaticale che c’è sul concetto di perfetto se ne parte una speculazione di tipo filosofico religioso che semplicemente cambia i termini del pensiero linguistico in pensiero religioso come spesso succede nel mondo indiano quindi in questo caso abbiamo un altro caso della presenza continua all’interno che non può essere provata perché è la nostra stessa carne e sangue come se dovessimo provare noi stessi questo testo e diciamo queste scuole a partire appunto dal Mālinīvijayottaratantradistingue dei mezzi, ora il momento in cui uno parla di un mezzo vuol dire che sta evocando un upeya ovvero la parola per mezzo in sanscrito è upāya che è un avvicinamento verso un andare verso se tu dici andare verso immediatamente hai stabilito una distanza una distanza tra te che vai e ciò che devi raggiungere invalidando in qualche modo questa coincidenza di fondo che c’è tra te e l’Assoluto tu sei il punto di partenza sei il punto d’arrivo nel momento in cui parli di mezzo hai creato una indebita divaricazione diciamo, questi tre upāya sonoupāya via via più sottili quello che dicevi tu del secondo capitolo… quindi lo yoga viene subito liquidato e il momento rituale viene subito liquidato nel primo upāya, diversamente da quello che si crede normalmente da quello che si può leggere in manuali in cui si parla di queste scuole non è che ogni upāya sia autonomo come si dice normalmente cioè un adepto di scarse capacità diciamo deve praticare lo yoga deve praticare il rito perché poveraccio più di tanto non può fare quindi in questo modo lui arriverà alla liberazione no secondo queste scuole, e i testi sono chiarissimi in questo, arrivato al momento più alto del mezzo più basso l’adepto deve scavalcare questo mezzo e penetrare nel successivo quindi non deve fare per la gerarchia come a dire tu sei un povero disgraziato devi fare i gradi, sei un povero disgraziato d’accordo allora devi partire dal basso ti devi progressivamente avverare ma alla fine di questo training che va bene per i poveri disgraziati insomma tu devi saltare nel mezzo della potenza dello śaktopāya in cui abbiamo un gioco molto più sofisticato in cui l’elemento fisico ha pochissima importanza ormai e si gioca sulle emozioni si gioca sulle passioni si gioca su un raffinamento interno sottilissimo sostanzialmente questo anādara virakti questo distacco praticato in elegante souplesse dopodiché si arriva al culmine di questo secondo upāya si switcha nel mezzo divino il mezzo divino è quello che è rappresentato dall’udyama upāya quindi questa specie di slancio che ti mette in sintonia con l’Assoluto in maniera molto naturale (prof. Rigopoulos: è quello del camatkāra vismaya quello che ti esita… prof. Torella: infatti è questo) poi c’è una possibilità che il mondo indiano contempla sempre io credo in maniera un po’ ipocrita alla fine ovvero di un mezzo che non sia ovvero un non-mezzo io ho avuto una piccola disputa con Alexis Sanderson sulla traduzione di anupāya che secondo Alexis anupāya vuol dire una compenetrazione priva di mezzo è sempre così ma in realtà anupāya è usato nei testi, e io ho fatto tutta una serie di dimostrazioni, proprio comekarmadhāraya è un non-mezzo quindi un mezzo che è un non-mezzo anche qui la tradizione linguistica ci soccorre e se uno legge Jayaratha il commentatore di Abhinavagupta si accorge che Jayaratha ha in mente Pāṇini un certo modo in cui Pāṇini commenta l’uso della negativa (prof. Rigopoulos: naṃtatpuruṣa in cui la negazione non vuol dire un pratiṣedhya o una negazione che intervenga sul verbo o che intervenga sul nome capovolgendogli il significato ma significa anche dire tu sei un non-brahmino non vuol dire tu sei un kṣatriya tu sei uno śūdra ma può voler dire qualcos’altro cioè tu sei un brahmino che però non raggiunge quegli standard che possono permetterti di chiamarti a pieno titolo brahmino quindi l’anupāya secondo Abhinavagupta è un mezzo che pur in qualche modo restando un mezzo perché alla fine esseri umani siamo e abbiamo bisogno di leve pur restando un mezzo è un mezzo talmente sottile impalpabile che praticamente non raggiunge quel livello di coagulazione che ce lo possa far chiamare tranquillamente un mezzo quindi è talmente sottile come mezzo che possiamo chiamarlo un non-mezzo però tenendo presente il significato di an nella speculazione linguistica questo non-mezzo è espresso in poche opere indiane e pure in queste che vengono citate da Abhinavagupta è laŚivadṛṣṭi questo testo che è caduto nelle mani inesperte di questo americano e poi un altro testo importante che è l’Ūrmimahāśastra il grande trattato dell’onda pervenuto in uno solo manoscritto di cui ne ho una copia sono stati manoscritti in nepalese ed è uno dei pochi trattati pochissimi credo perché non ne vengono citati altri e fanno capo alla scuola più trasgressiva che noi troviamo in queste scuole śivaite ovvero il krama di cui non abbiamo ancora parlato e di cui ci sono sicuramente echi negli Śivasūtra il krama contempla nel livello più alto della realizzazione spirituale una cosa che si chiama pura e semplice saṃpratti che vuol dire trasmissione noi abbiamo una liberazione che prevede una coltivazione interiore nel riquadro nello stesso tempo delle śakti dellekālī cioè tutte le dee kālī che formano le ruote vengono percorse in maniera proprio a spirale dall’adepto fino ad arrivare al mulinello parossistico anche accompagnato da pratiche trasgressive soprattutto sessuali abbiamo un livello secondo che viene chiamato livello ātaṇa in cui non abbiamo nessuna pratica neanche di tipo sofisticato sottile ecc. ma abbiamo una pura e semplice informazione racconto da parte del maestro il maestro ti racconta la tua liberazione e tu sei liberato dalle parole del maestro abbiamo un terzo livello che è poi quello che coincide con l’anupāya ed è un livello in cui il maestro non ti dice neanche niente tu camminando per strada in una calle di Venezia incontri uno di questi maestri incroci lo sguardo per un secondo e sei istantaneamente liberato questo è il vero e proprio non-mezzo che però è presente soltanto in alcune scuole trasgressive come la scuolakrama di cui si sa relativamente poco anche se un certo numero di testi è pervenuto soprattutto in Nepal e ********. Qui c’è un po’ di tutto tutti e tre mescolati variamente sono pervenuti in questi aforismi il fatto che siano stati messi così sistemati in queste tre vie eccetera questa è chiaramente una forzatura ******* ma questa forzatura fa parte del testo se noi vogliamo un testo preciso quello non è lo Śivasūtra che è un testo che invita qualcuno nel futuro a forzarlo.

DOMANDE DEL PUBBLICO

D. Può dire qualcosa sullo Śivaśastranamasahasraṃ?
R. Questo non ha una dimensione propriamente tantrica fa parte della dimensione più ampia dello śivaismo purāṇico *** all’interno di tutte le tradizioni tantriche e non medioevali noi abbiamo dei *** che sono delle litanie con mille nomi che qualificano un dio una dea ecc. se uno legge i mille nomi di Viṣṇu e i mille nomi di Śiva ce ne saranno ottocento che sono gli stessi per cui tutto dipende da come sono commentati se diventano… da una parte sono un elemento della dimensione religiosa individuale per cui alla mattina uno si legge questi… dall’altra parte possono essere elaborati da un commentatore ****** ci sono testi inaspettati profondi sottili per cui alla fine sbagliando certamente questa dimensione più essoterica rappresentata dalla tradizione dei purāṇa ecc. mi lasciano un po’ indifferente, sono viziato dalle altezze… questi vanno bene per una dimensione medio popolare ma non me lo vedo un Abhinavagupta che legge il Namasahasraṃ 

D. Partendo dal presupposto che ci sia un passaggio dall’anuttara all’ānanda dal punto di vista fonematico ciò che è scritto riguardo alla ruota delle potenze, la conoscenza e l’azione ha un collegamento una parte in questo movimento di energie?
R. Beh il collegamento è totale nel senso che in ogni principio noi abbiamo tutti gli altri quindi non c’è una divisione un’etichettatura alla fine dal punto di vista così provvisorio noi possiamo identificare i vari principi ma noi sappiamo che all’interno di ogni principio noi vediamo un radicamento profondo che lo implica con tutti quanti gli altri quindi una delle dottrine di base di questa scuola è proprio quella che è stata formulata molto prima che si chiama sarvam sarvātmatam tutto ha come essenza di tutto per cui nella potenza di volontà c’è la potenza di ideazione c’è addirittura il desiderio c’è la terra e così via quindi qui nell’anuttara che sarebbe la potenza suprema Śiva c’è già in nuce tutto quello che sarà lo svolgimento futuro in forza proprio della libertà che caratterizza la… la parola chiave di queste scuole se proprio dobbiamo cercarne una è proprio quella menzionata dal prof. Rigopoulos la parola è svātantrya libertà un giapponese una volta mi scriveva per chiedermi sostanzialmente una specie di catechismo dello Śivaismo del Kaśmīr voleva che gli indicassi le dottrine più importanti alla fine gli ho risposto guarda questa cosa non si può fare per lo śivaismo perché lo śivaismo kashmiro Abhinavagupta in particolare hanno anche un grande senso dell’humor credono non vogliono che tu li stia troppo a sentire quando cominciano a fare queste descrizioni delle quali i buddhisti si compiacciono moltissimo tutti ‘stidharma 120 130 ecc. Abhinavagupta le fa la pagina dopo li cambia la pagina dopo ancora quindi non vi state a rompere le scatole con queste… quello che ci interessa non è tanto questo catechismo ma quanto la libertà di muoverci tra le cose non la catalogazione delle cose ma… quando anche questo evocato e citato prima dal prof. Rigopoulos si parla di un trascendimento del reale ma nello stesso tempo un recupero di quello che tu hai trasceso questa è una delle grandi chiavi interpretative mentre nel mondo brahmanico noi assistiamo ad un percorso verticale per cui tu passi dai vari stati veglia sonno sonno profondo arrivi al quarto stadio che è quello della liberazione dopo che sei arrivato immaginate uno che sale in cima su una scala arriva all’ultimo gradino oh a che bello sono all’ultimo gradino e mo’ che faccio? Sta lì appollaiato come un fesso sull’ultimo gradino… questo è il modo in cui uno śivaita vede.. e alla fine all’adepto śivaita non gli si chiede di percorrere un cammino ascensionale trascendendo e quindi negando via via i gradini che sta percorrendo stabilendone la provvisorietà oppure un basso livello un inferiore livello ontologico l’unica realtà è quella che ti permette di passare da un gradino all’altro il gradino è meno importante del tuo passo in avanti e indietro quindi nel momento in cui tu sei arrivato al quarto stadio per lo śivaita non è il momento finale spesso viene evocato anche in termini di paura come se fosse un momento in cui uno sfondo di grande vuoto si apre davanti a te ed è quella che viene chiamata nello Svacchandatantra ātmavyakti pervasione dell’ātman alla quale deve far seguito la śivavyakti ovvero la capacità una volta arrivati a quel gradino alto di scendere in basso e di recuperare in basso tutto quello che hai provvisoriamente lasciato non c’è niente da lasciare e non c’è niente a cui aspirare c’è da muoversi come una spirale (prof. Rigopoulos: mi veniva in mente mentre spiegavi questo alla categoria dei sahaja questa naturalezza o naturalità che in qualche modo richiama a questa condizione per cui mutatis mutandis mi verrebbe da dire tutto è santo cioè tutto è trasfigurato in qualche modo…) sì in questo convegno a Roma che c’è stato recentemente su Uomo e Natura sui rapporti tra l’elemento naturale e l’elemento umano nel mondo indiano nella prolusione datta all’inizio c’era questa messa in evidenza visto che l’India come abbiamo detto e come sappiamo tutti è uno dei mondi culturali più complessi più pieni di contraddizioni di cose molto feconde insomma e punti di vista molto diversi prima in India si è pensato tutto si è detto tutto e il contrario di tutto anche l’opposizione tra ciò che è naturale e ciò che è non naturale in India prende come al solito dimensioni inattese perché da una parte noi abbiamo una tradizione prakṛta sanscrita ovvero ciò che è artefatto raffinato perfezionato che viene sentito nel mondo indiano molto superiore a ciò che è naturale ciò che è naturale la parola per naturale è prakṛtanel mondo indiano visto come dravya ecc. molto spesso ha un connotato di rozzo di banale di volgare ecc. contrapposto a quello alto spirituale eccetera però l’India conosce anche un’altra opposizione tra ciò che èsatyaka e ciò che è kṛtārtha che è nato ciò che è profondamente vero contrapposto a tutto ciò che è costruito quindi anche qua abbiamo due opposizioni diverse polarizzate in modo molto diverso a seconda delle scuole nel nostro caso della scuola śivaita la bilancia pesa dalla parte del satyaka rispetto a ciò che è costruito.

D. Scuole tradizionali misteriche, verità storica annullamento della storia o  riconoscimento della storia, cita Guénon e Eliade, la forma o la sostanza della storia, cita il Mahanirvāṇatantra il tantra della grande liberazione, il dispiegarsi delle varie ere, i vari yuga l’uomo del kaliyuga non può conoscere la verità come quello delle altre ere, quindi la verità va appresa in un’altra forma ma è la forma che cambia o l’essenza?
R. Intanto tutti sappiamo che il Mahānirvāṇatantra è un tantra per modo di dire un’opera tardissima forse del XIX secolo io non la metterei neanche tra le opere tantriche comunque quello che dice è una cosa che viene ripetuta in tanti testi per cui anche se lo dice un testo squalificato come il Mahānirvāṇatantra uno lo può prendere in considerazione, quindi d’accordo nelle varie ere noi abbiamo varie possibilità dell’essere umano e questo lo dicono anche i nostri autori per cui quello che nel kṛtayuga tu potevi chiedere a un uomo tu non lo puoi chiedere adesso devi individuare altri mezzi altre strade, mi chiarisca se lei faceva riferimento allo stato delle cose indiane o al modo in cui Guénon Eliade ecc. hanno interpretato le cose indiane. D. volevo spezzare una lancia a favore di questi autori invece di ritenere come in genere si ritiene che questi autori vogliono annullare la storia dando una priorità assoluta a questa verità metafisica. R. annullare la storia è un fatto storico quindi io essere storico ho anch’io un desiderio di annullare la storia però devo rendere conto che anche questo mio artificio è un fatto storico per cui io annullo la storia e in un certo senso posso salvare anche Guénon e anche Eliade con un certo disagio posso salvarli nel senso che li considero manifestazioni storiche quindi il loro leggere in questo modo scorretto io direi la storia dell’India o del pensiero religioso indiano è esso stesso un fatto storico che io rispetto c’è un momento in cui il mondo occidentale ha guardato al mondo indiano cercando certe cose facendosele dare facendosi rassicurare costruendo una propria identità utilizzando il materiale indiano preso e usato ai propri fini quello che non mi sta bene di Eliade, io tanti anni fa ho scritto un saggio su Eliade un breve saggio che magari sta anche qui in biblioteca, in un convegno fatto a Roma su Eliade mi è stato chiesto di esaminare appunto il contenuto di Eliade sul tantrismo che apparentemente è una delle autorità conosciute, io in quell’occasione mi sono letto non soltanto i contributi di Eliade ma mi sono letto anche i diari di Eliade e altre cose di carattere metodologico eccetera il giudizio mio di studioso del tantrismo sul contributo di Eliade è molto severo, in questo articolo c’è una specie di dialogo ideale tra me ed Eliade ovvero io che gli faccio certe rimostranze e lui che mi risponde e io mi faccio rispondere con le parole che lui ha usato nell’uno o nell’altro testo **** e quello che salta fuori intanto quello che rimprovero a Eliade questo c’entra poco con la sua domanda però in questo campo tu devi accedere alle fonti e questo va bene per tutti i campi io parlo da filologo intendendo la filologia come si diceva ieri nel senso più ampio quindi la filologia è quella scienza che ti permette di occuparti di testi utilizzando una serie di strumenti i quali non sono solo strumenti di tipo estrinseco come fa il filologo che si mette lì con tutto il suo apparato che poi alla fine non ci capisce niente non è in grado di elaborare filosoficamente il testo che lui ha stabilito poi ci si chiede anche se tu il testo non lo capisci profondamente come fai a stabilirlo e questo si vede tornando all’americano di prima lui ha stabilito un testo che non ha capito per cui l’ha stabilito malissimo perché gli mancava quella elaborazione filosofica e quella consapevolezza filosofica che ti permette di entrare nel testo, Eliade ha rinunciato a conoscere il sanscrito anche se lui fa finta nelle sue opere di conoscere il sanscrito ma fa solo finta lui non ha mai citato un’opera che non sia stata tradotta da qualcuno, nel diario lo dice espressamente tra le righe ma non nelle opere scientifiche nel diario dice io ero andato in India per conoscere il sanscrito apprendere le scritture poi ha detto c’est un ocean è un oceano io non ce la faccio non ce la faccio lui si ritrae e dice preferisco leggere i testi interpretare i miti allora uno si chiede bello mio tu vuoi leggere i testi ma per uno che non sa il sanscrito leggere i testi interpretare i miti che cosa vuol dire occuparsi di quello usare il materiale predigerito da altri ma uno studioso può fare una cosa del genere? Altra domanda lui ha una intolleranza quasi di tipo fisico nei confronti della filologia quello che gli offre le sponde a Eliade è che il filologo per lui è una specie di ape operaia, ape operaia la quale prepara del materiale che gli ****** elaborano ecc. ecc. quello che rispondevo è che lui faceva un esempio con una ******** una cosa molto carina, che fa tutti gialli ambientati in una Oxford molto rassicurante ecc. e c’è una frase di ****** che parla dell’ape che prepara il miele affinché qualcun altro lo mangi capito e quello che io rispondevo a Eliade in questo dialogo ideale caro Eliade tu sei un studioso della storia delle religioni non ti chiedo di padroneggiare tutte le filologie dato che tu ti occupi di questo di quest’altro ma almeno una perché padroneggiare una filologia ti permette di avere la sensazione della densità del messaggio scritto alla fine noi ci occupiamo di testi scritti diciamo di testi scritti o non scritti la filologia anche una sola filologia ti permette proprio di percepire una volta per tutte la densità dei testi e la delicatezza con la quale vengono usati, il modo in cui ci puoi entrare dentro non come un elefante in un negozio di cristalli come fa spesso lui terza e questa è più vicino alla risposta alla sua domanda che cosa vuol dire capire che cosa vuol dire capire un fenomeno religioso che cosa vuol dire capire in generale io me lo sono tante volte chiesto che cosa vuol dire capire ad esempio capire vuol dire ridurre un qualcosa di individuale a qualcosa di generale? Questa è un’ipotesi possibile o è soltanto un momento io alla fine per capire ho dato una risposta mia dopo essermi quasi arreso davanti a che cosa voglia dire capire poi ho pensato che forse per la mia storia personale capire vuol dire esaminare una serie di fatti questi fatti sono apparentemente irrelati una specie di caos che tu hai davanti capire vuol dire ricostruire la struttura nascosta di cui questi fatti partecipano vedere come quel giochetto vi ricordate da bambini c’era Pinocchio, tu spingevi da sotto e Pinocchio s’afflosciava se lasciavi Pinocchio saliva su quindi capire per me come risposta provvisoria è individuare una struttura che dia un significato a fatti apparentemente irrelati quindi quando io scrivo qualcosa miro a questo presento tutta una serie di fatti li interpreto li descrivo poi nella fase finale presento al mio lettore il modo in cui questi fatti possono animarsi vivere all’interno di una struttura comunicante quello che rimprovero a Eliade non è tanto il fatto di individuare sempre strutture comuni archetipi quanto a non considerarli come un vero strumento di interpretazione dell’unico reale che è il reale storico cioè il momento in cui tu davanti a una molteplicità del reale hai messo in evidenza questi modelli archetipi come li vogliamo chiamare questo dovrebbe essere il momento penultimo non l’ultimo lui alla fine sta sempre a crogiolarsi nella contemplazione di questi archetipi che ha tirato fuori la realtà non è fatta di archetipi è fatta di dimensioni individuali dei quali partecipano gli archetipi il momento successivo dev’essere quello una volta che tu hai individuato la dimensione condivisa il modello la dimensione archetipica ritornare alla realtà storica individuale animarla della consapevolezza di questa realtà condivisa che ha con tante altre cose ma assaporarla in quella che è la sua dimensione quello che lui non fa è proprio darti il senso dell’assaporamento delle infinite risposte che l’essere umano ha dato a problemi che hanno sicuramente una dimensione condivisa ma hanno anche tutta la serie di soluzioni personali individuali storicamente individuate, per fare questo però tu hai bisogno anche nel caso dell’India del tantrismo di accedere ai testi se tu continui a leggere quello che t’ha detto ******* quello che t’ha detto… come fai, al tempo in cui Eliade ha scritto Yoga. Essai ecc. e testi successivi negli anni ’30 ’40 ecc. i testi della kashmir series [K.S.T.S. Kashmir Series Text and Studies] sullo śivaismo kashmiro erano belli che letti erano uscite già monografie importanti è vero che lui a Calcutta ha preferito insidiare la figlia sedicenne dell’ācarya di Dasgupta piuttosto che imparare il sanscrito non dico che abbia fatto male insomma no ma poteva fare l’uno e l’altro e invece lui si è buttato sulla povera figlia di… e Dasgupta giustamente l’ha preso a calci nel sedere però non c’era mica solo Dasgupta il sanscrito lo poteva imparare in qualche un altro modo c’aveva una borsa due anni è andato lì invece poverino si è spaventato davanti all’oceano del sanscrito si è spaventato ma cambia mestiere…

D. Su un testo di Abhinavagupta se viene commentato
R. Non viene commentato nel senso che è presente un commento il commento si chiama ****vārtika alMālinīvijayottaratantra questo è uno dei testi più importanti di queste scuole, Abinavagupta lo tiene in gran conto e gli dedica un commento molto difficile un commento in versi che è una delle opere più interessanti e anche meno note di Abhinavagupta *********** usa queste espressioni e nell’usare queste espressioni lui fa riferimento a come ci ha insegnato il maestro il problema è chi sia questo maestro quindi lui mette in relazione questa pratica della anādara virakti all’insegnamento di un certo maestro e io ho un forte sospetto che questo maestro sia Vāmanadatta il quale è l’autore di una operetta veramente inusuale nel panorama anche del tantrismo che io ho edito e tradotto un’opera kashmira del X secolo precedente ad Abhinavagupta questa opera si chiama Svabodhodayamañjari che trovate anche tradotta in italiano però anche prima della mia edizione nella traduzione di Raniero Gnoli come appendice al Vijñānabhairava e questo Svabodhodayamañjari che vuol dire io mi sono preso il gusto di tradurre i titoli dei testi sanscriti leggere il testo senza conoscerne il titolo non c’è gusto in questo caso è “Il mazzolino di fiori del sorgere della propria intima coscienza” è un gruppetto di versi un’opera breve e che presenta che cosa dice all’inizio si attacca contro nirodha e virakti io voglio presentare un altro modo di fare distacco eccetera e si mette a descrivere delle cose stranissime in cui noi vediamo che i sensi le facoltà sensoriali vengono arruolati contro la mente quindi tutto ciò che è emozione sensazione e passione viene utilizzato per creare una sorta di spazio all’interno della mente che induca la mente o a cancellarsi o a ritirarsi dietro le quinte e quindi la scena viene occupata interamente da fattori emozionali dilatati è un ribaltamento che può portare anche a una vera e propria cancellazione anche se... io ho fatto un corso a Roma dedicato ai maestri yoga una serie di lezioni sulle parole chiave dello yoga perché chi pratica lo yoga ha sempre a che fare con citta vṛtti nirodha samādhi ecc. che sono tradotte nei modi più vari uno di quelli come potete immaginare mi stia proprio sulle scatole è la traduzione che ha coniato Eliade, pure Eliade il sanscrito non lo sai che ti inizi a fare…, traduzioni creative enstasi una traduzione più cretina (D. però Raniero Gnoli la riconosce) fa malissimo, e anche Corrado Pensa in una sua traduzione dove ci sono tra l’altro anche diversi errori, io ho tradotto tutte queste parole chiave, tradurre estasi vuol dire non aver capito niente della dinamica della parolasamādhi proprio all’interno della… come ci siamo regolati con le parole chiave all’interno degli Yogasūtra… primo le parole non esistono da sole le parole esistono all’interno di un discorso di un contesto che è il contesto degliYogasūtra il contesto di Yogasūtra è un contesto più ampio che è formato da Yogasūtra più il bhāṣya i quali vivono in simbiosi allora tutte queste parole all’interno del complesso Yogasūtra e Bhāṣya i quali non vivono nelvacuum ma vivono all’interno del lessico più esotico e religioso dell’India e allora bisogna esaminare queste parole all’interno del generale lessico filosofico dell’India il quale a sua volta non vive nel vacuum ma è circondato dall’uso letterario dall’uso verbale solo dopo che tu hai esaminato tutti questi livelli questo sasso nello stagno man mano si amplia sei in grado di ritornare e sentire tutti gli echi presenti all’interno della parola vi assicuro che la coniazione di questo estasi io vi assicuro e ancora mi meraviglio che venga coniato ripetuto e tornando al testo di cui si parlava questo testo presenta un modo diverso di creare il nirodha che viene tradotto generalmente come soppressione eliminazione ecc. non vuol dire soppressione eliminazione perché se noi parliamo di soppressione e eliminazione noi andiamo verso una dimensione molto specifica che è quella (cita un testo medievale sullo yoga) della liquidazione della mente lo Yogasūtra non vuole assolutamente liquidare la mente ma vuole creare un blocco nirodha inteso come un blocco un blocco di qualcosa ma non cancellando le né le vṛtti, le vṛtti rimangono non vanno cancellate la mente non va eliminata nello yoga ci mancherebbe altro quindi in questo caso sono operazioni non di soppressione della mente ma di ampliare il palcoscenico della mente facendo uscire di scena quelli che sono gli usuali fattori e mettendocene degli altri questi altri sono messi in maniera estremamente sofisticata utilizzando i sensi i sensi che sono considerati nel mondo indiano capito il senso oddio bisogna controllarli leggiamo la Kāthopaniṣad e qui i sensi nel mondo śivaita non sono dei cani in chiesa i sensi sono semplicemente la forma in cui la divinità la potenza si manifesta le kālī divine sono potenze dei sensi quindi l’udito è una dea capito la dea si nutre si suoni in questo caso la vista è un’altra dea ancora che si nutre di immagini quindi in tutto questo noi non dobbiamo scartare un bel niente dobbiamo utilizzare il materiale energetico immenso che noi abbiamo e non considerarlo una specie di scarto da buttare nel cestino dell’esperienza quindi questo senso questo anādara è utilizzare queste cose in maniera di lasciarle fluire non solamente in maniera pragmatica ma proprio utilizzando del materiale che noi altrimenti sprechiamo avendolo a disposizione.

D. Lei ha accennato al tema della parola anche dell’emanazione fonematica dell’universo perché ci sia il suono ci vuole qualcuno che lo ode il suono non esiste come oggetto di una percezione quando si parla della parola che viene identificata con la divinità e con la realtà e con il cosmo stesso ma in quanto suono questa parola è oggetto della percezione di chi di cosa?
R. La parola udibile come sai è soltanto l’ultimo livello del linguaggio quindi noi tendiamo a considerare il linguaggio in ultima analisi come linguaggio udibile ma l’India lo considera come ben sai in modo più ampio il linguaggio udibile è l’ultima spiaggia. Nei Veda il famoso verso che ci dice che il linguaggio è formato da tre dimensioni tre piani delimitati della parola i quali sono nascosti nella caverna e non vibrano, non date retta alle traduzioni di engayanti che è sbagliato perché engayanti è intransitivo in quel contesto è naingayam e soltanto il quarto è udibile voi immaginate questa parola e ci accorgiamo che nell’universo della parola per tre quarti è inudibile e a noi ci tocca soltanto nelle nostre umane transazioni il quarto livello tutto il resto rimane udibile come struttura interiore ecc. per cui l’elemento suono viene indagato il linguaggio poi alla fine la nostra comunicazione è fatta di suoni però viene dato molto più rilievo alla dimensione pre-sonora del linguaggio che fa parte del linguaggio che è antico così quanto ne fa parte la dimensione sonora una delle cosa che ci ha insegnato già la speculazione linguistica indiana e la riprende invece il tantrismo e l’articolazione sul mantra e sul cosiddetto prāṇuccāra e che non esiste una differenza sostanziale ma questo lo sapevano già in tempi remoti tra soffio vitale e suono quindi il momento in cui comincia a sorgere in noi il desiderio di esprimere qualcosa della comunicazione quindi secondo gli indiani la parola non nasce in bocca come sembra anche dalla terminologia indiana e indo-europea per cui pro-nunciare ovvero pro in avanti le parole che indicano in India pronunciare hanno tutte questo famoso ut davanti uccarana è un andare verso l’alto non andare davanti che cosa vuol dire andare verso l’alto vuol dire che il momento in cui nasce la parola è la pancia quindi la parola non nasce in testa non nasce in bocca nasce molto prima nasce in una sorta di rimescolamento interiore che coincide con un desiderio un desiderio di comunicazione che ti nasce per l’appunto in pancia è in pancia che agisce vivakṣā il desiderio di esprimersi che mette in movimento una colonna una colonna che è fatta di prāṇa di energia vitale è quella lì che si manifesterà poi nel soffio ecc. man mano che il prāṇa sale uc in alto dentro di noi questa energia vitale vira verso la sua dimensione di suono quindi suono e energia vitale è la stessa cosa soffio e suono sono la stessa cosa quindi quando si tratta di questo, di questo punto si indaga anche nella dimensione sonora dopo però aver indagato la dimensione prāṇica la dimensione proprio energetica fisica dei suoni soltanto a questo punto si può parlare di suono udibile e una delle tante cose veramente incredibili che vengono fuori da questi testi è come i fonemi… noi siamo abituati a sentire i fonemi come fenomeno ultimo quindi il mattone del linguaggio ecc. ecc. vi andate a leggere il Parātṛśikāvivaranaṃ vengono fuori delle cose veramente dell’altro mondo in cui vabbè il discorso diventa complicato troppo complicato per farlo in questo scampolo di tempo diciamo alla fine che c’è un’espressione che si trova nel Tantrāloka che si chiama varna saṃvid come tradurla? Coscienza fonematica che cavolo significa coscienza fonematica lo si capisce dal Parātṛśikāvivaranaṃ vuol dire in sostanza che il linguaggio a un livello ancora molto pre-suono che cos’è in realtà è l’ossatura stessa della coscienza per cui la coscienza contiene al suo interno una dimensione una struttura fonematica che ne costituisce che cosa, ne costituisce il dinamismo quindi la coscienza è dinamica quindi non è una cosa che sta lì a gambe spalancate con gli occhi spalancati immaginiamo un assoluto che sta lì immobile eccetera la coscienza è come divorata dai fonemi che ha dentro questo lo dice chiaramente Abhinavagupta per chi lo sa cogliere quindi i fonemi il linguaggio nella sua dimensione non udibile sono una specie di bomba ad orologeria buttata nella pancia della coscienza se la coscienza è attiva è perché ha questa presenza indigesta in qualche modo dei fonemi al suo interno che ne determina il continuo turbamento e la continua attività e in ultima istanza rappresentano la sua dimensione energetica ecco questo l’ho analizzato anni fa in un articolo sul giornale dei filosofi si vede che man mano che si sale verso l’alto in queste scuole tutto quanto tende a unificarsi tutto si unifica si arriva a principi sempre più ampi si vede che quando si arriva più in alto il linguaggio non si comprime è l’unica cosa che rimane non compressa tutt’al più viene ammassata in una di quelle divinità alfabetiche di cui vi dicevo prima viene contratta gli spazi vengono eliminati in parte ma non ridotti all’unità perché il linguaggio è intrinsecamente molteplicità è molteplicità altrimenti non potremmo usarlo, il linguaggio è fatto di differenze e fatto di … quindi il fatto che stia all’interno della coscienza è il motore che permette alla coscienza di negare se stessa e di esprimersi dinamicamente, ecco il linguaggio è analizzato anche in questi… avrei molte altre cose da dire su questo….

Prof. RIGOPOULOS
Vorrei ringraziare moltissimo il prof. Torella che ci ha dato vismaya camatkāra stupefatto assaporamento di quasi tre ore, siamo stati sākṣin e al tempo stesso all’interno delle sue parole immersi nella sua conversazione da sentirci completamente partecipi di quello che ci veniva insegnato e di questo gli sono e gli siamo tutti profondamente grati.
_________________________
registrazione e sbobinatura:
purnananda@virgilio.it

oṃ śrīgaṇeśāya namaḥ

 

Da: http://www.purnanandazanoni.com/346ivas363tra.html

 

 

 

TORNA SU