in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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(Yun Men)

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«La liberazione finale» - Da L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta
(René Guénon)


Edizioni Studi Tradizionali


 

La «Liberazione» (Moksa o Mukti), vale a dire questa universalizzazione definitiva dell’essere, fine ul­timo al quale tende, e di cui ultimamente abbiamo par­lato, differisce assolutamente da tutti gli stati che questo essere ha potuto attraversare per pervenirvi; infatti, essa è la realizzazione dello stato supremo ed incondizionato, mentre tutti gli altri stati, anche se elevatissimi, sono sempre condizionati, vale a dire sot­tomessi a certe limitazioni che li definiscono, che li fanno essere ciò che sono, e che propriamente li costi­tuiscono come stati determinati. Ciò può asserirsi tan­to per gli stati sopra‑individuali quanto per quelli in­dividuali, quantunque le loro condizioni siano diverse; lo stesso grado dell’Essere puro, che non è più nei limiti d’un qualsiasi genere d’esistenza nel senso pro­prio della parola, vale a dire di là dalla manifestazione sia informale che formale, purtuttavia implica ancora una determinazione, che, anche se primordiale e prin­cipiale, è sempre una limitazione. Tutte le cose, in tutte le modalità dell’Esistenza universale, sussistono solo per l’Essere, ed esso sussiste per se stesso; esso determina tutti gli stati di cui è il principio, e non è determinato che da se stesso; ma determinare se stesso è ancora essere determinato, dunque in qualche modo limitato, perciò l’Infinità non è un attributo che si ad­dice all’Essere, che non deve affatto esser considerato come il Principio Supremo. Ciò mette in buona evi­denza l’insufficienza metafisica delle dottrine occiden­tali, alludiamo a quelle stesse nelle quali vi è tuttavia una parte di metafisica vera [Alludiamo dunque soltanto alle dottrine filosofiche dell’antichità e del medioevo, poiché i punti di vista della filosofia moderna sono la negazione stessa della metafisica; ciò può tanto dirsi per le concezioni a carattere «pseudo‑metafisico» quanto per quelle che francamente dichiarano questa negazione. Naturalmente le nostre allusioni si riferiscono qui solamente alle dottrine conosciute nel mondo «profano» e non concernono le tradizioni esoteriche del­l’Occidente, che, per lo meno quando hanno avuto un carattere vera­mente e pienamente «iniziatico» non potevano essere così limitate, ma dovevano invece rappresentare metafisicamente un tutto compl­eto nel doppio rapporto della teoria e della realizzazione; queste tradizioni però sono state conosciute da una élite incomparabilmente meno estesa di quella dei paesi orientali]; poiché la loro unica meta è l’Essere, esse sono incomplete, anche teoricamente (non facciamo nemmeno lontanamente allusione alla realizzazione, che non vi è affatto concepita); e, come ordinariamente accade in simili casi, esse hanno la pessima tendenza di negare ciò che le oltrepassa, vale a dire proprio ciò che più interessa per la metafisica pura.

L’acquisizione o, per meglio dire, il possesso di stati superiori, qual che essi siano, non è dunque che un risultato parziale, secondario, contingente; quantunque questo risultato possa apparire immenso se paragonato allo stato individuale umano (e soprattutto a quello corporeo, il solo di cui gli uomini ordinari abbiano il possesso effettivo durante la loro esistenza terrestre), non è men vero che, in se stesso, è rigorosamente nulla se paragonato allo stato supremo, poiché il finito, an­che se è divenuto indefinito, in virtù delle estensioni di cui è suscettibile, vale a dire in virtù degli sviluppi delle sue proprie possibilità, resta sempre nulla se pa­ragonato all’Infinito. Un tale risultato non vale dun­que, nella realtà assoluta, che a titolo preparatorio all’«Unione», vale a dire come mezzo, non come fine; è dunque perseverare nell’illusione volerlo considerare un fine, poiché tutti gli stati di cui si tratta, non esclu­so l’Essere, sono illusori nel senso da noi definito fin dal principio. Altresì, negli stati in cui vi è ancora una distinzione, cioè in tutti i gradi dell’Esistenza, non escludendo quelli che non appartengono all’ordine in­dividuale, l’universalizzazione dell’essere non potrebbe essere effettiva; ed anche l’unione all’Essere Univer­sale, secondo come essa si compie nella condizione di Prajna (o nello stato postumo che corrisponde a questa condizione), non è neanche l’«Unione» nel senso pie­no della parola; se lo fosse, il ritorno ad un ciclo di manifestazione, anche nell’ordine informale, sarebbe impossibile. È ben vero che l’Essere è oltre qualsiasi distinzione, poiché la prima distinzione è quella del­l’«essenza» e della «sostanza», o Purusha e Prakriti; tuttavia Brahma, in quanto Ishwara o l’Essere Univer­sale, è detto savishesha, vale a dire «che implica la distinzione», poiché ne è principio determinante im­mediato; solo lo stato incondizionato d’Atma, oltre l’Essere, è prapancha‑upashama, «senza traccia alcuna di sviluppo della manifestazione». L’Essere è uno, o meglio è la stessa Unità metafisica; ma l’Unità racchiude in sé la molteplicità, poiché la produce per il solo dispiegarsi delle sue possibilità; perciò, nell’Essere stesso, si può considerare una molteplicità d’aspetti, che ne sono altrettanti attributi o qualifiche, quantun­que questi aspetti non vi siano affatto distinti in realtà, se non perché noi li concepiamo in tal modo; ma pure è necessario che essi vi siano compresi in qualche mo­do, perché ci sia possibile concepirveli. Si potrebbe dire anche che ogni aspetto si distingua dagli altri, in un certo rapporto, quantunque nessuno si distingua veramente dall’Essere, essendo tutti l’Essere stesso [Nella teologia cristiana, ciò può trovare riscontro nella concezione della Trinità: ogni persona divina è Dio, senza essere le altre persone. – Nella filosofia scolastica, si potrebbe dire la stessa cosa per i «trascendentali», di cui ognuno è coestensivo all’Essere]; vi è dunque una specie di distinzione principiale, che non è una distinzione nel senso in cui questa parola si riferisce all’ordine della manifestazione, ma ne è la trasposizione analogica. Nella manifestazione, la distin­zione implica una separazione; ma questa non è niente di positivo in realtà, poiché non è che un modo di limitazione [Negli stati individuali, la separazione è determinata dalla presenza della forma; negli stati non-individuali, deve essere determinata da un’altra condizione, perché questi stati sono informali]; l’Essere puro è invece oltre la «separa­tività». Così, quello che è al grado dell’Essere puro è «non‑distinto», considerando la distinzione (vishe­sha) nel senso in cui la comportano gli stati manife­stati; tuttavia, in un altro senso, si può ancora rilevare qualche cosa di «distinto» (vishishta): nell’Essere, tutti gli esseri (intendiamo le loro personalità) sono «uno» senza confondersi, e sono distinti senza separarsi [Ciò spiega appunto la principale differenza fra la veduta di Ramanuja, che mantiene la distinzione principiale, e quella di Shan­karacharya, che la oltrepassa]. Di là dall’Essere non vi è più distinzione pos­sibile, anche se principiale, quantunque non si possa nemmeno asserire che vi sia confusione; siamo di là dalla molteplicità, ma anche di la dall’Unita; nell’assoluta trascendenza di questo stato supremo, non uno di questi termini può più usarsi, neanche per trasposi­zioni analogiche, perciò è necessaria una parola di for­ma negativa, quella di «non‑dualità», secondo quanto precedentemente abbiamo spiegato; la stessa parola «Unione» è indubbiamente imperfetta, poiché evoca l’idea di unità, ma tuttavia siamo obbligati ad usarla per tradurre la parola Yoga, non avendone altre a no­stra disposizione nelle lingue occidentali.

La Liberazione, con le facoltà ed i poteri che im­plica in qualche modo «per sovrappiù», e perché tutti gli stati, con tutte le loro possibilità, si trovano necessariamente compresi nell’assoluta totalizzazione dell’es­sere, ma che, lo ripetiamo, si debbono considerare co­me risultati accessorii ed anche «accidentali», non come costituenti una finalità propria, la «Liberazio­ne», diciamo, può essere ottenuta dallo Yogi (o meglio da colui che diviene tale appunto perché l’ha ottenuta) con l’aiuto delle osservanze indicate nello Yoga‑Sha­stra di Patanjali. Essa può anche essere facilitata dalla pratica di certi riti [Questi riti sono del tutto paragonabili a quelli che i Musulmani classificano col nome generale di dhikr; essi si fondano princi­palmente, come già l’abbiamo indicato, sulla scienza del ritmo e delle sue corrispondenze in tutti gli ordini. I riti chiamati vrata (voto) e dwara (porta) rappresentano la stessa parte nella dottrina parzialmente eterodossa dei Pashupata; sotto forme differenti, tutto ciò è in fondo identico o per lo meno equivalente allo Hatha‑Yoga], come pure di diversi modi particolari di meditazione (harda‑vidya o dahara‑vidya) [Chhandogya Upanishad, 8° Prapataka]; ma s’intende naturalmente che tutti questi metodi sono solamente preparatori, non veramente essenziali, poiché «l’uomo può acquistare la Conoscenza Divina anche senza osservare i riti prescritti (per ognuna del­le diverse categorie umane, in conformità ai loro ri­spettivi caratteri, e specialmente per i diversi ashrama o periodi regolari della vita) [D’altronde, l’uomo che ha raggiunto un certo grado di realizzazione è chiamato ativarnashrami, vale a dire di là dalle caste (varna) e dagli stadi dell’esistenza terrestre (ashrama); non una delle distinzioni ordinarie si riferiscono più ad un tale essere, poiché ha effettivamente superato i limiti dell’individualità, anche se non è ancora pervenuto al risultato finale]; si trovano infatti nel Veda molti esempi di persone che hanno negletto i riti (lo stesso Veda paragona questi riti ad un cavallo da sella che aiuta un uomo a raggiungere più facil­mente e più rapidamente la sua meta, che però sempre può raggiungere anche senza quest’aiuto) o che non hanno potuto compierli, e che tuttavia, in virtù della loro attenzione sempre concentrata e fissata sul Supremo Brahma (ciò che costituisce la sola preparazione realmente indispensabile), hanno acquistato la vera Co­noscenza che Lo concerne (e che perciò è ugualmente chiamata Conoscenza «suprema»)» [Brahma-Sutra, 3° Adhyaya, 4° Pada, sutra 36 a 38].

La Liberazione è dunque effettiva solo quando implica essenzialmente la perfetta Conoscenza di Brahma; inversamente, questa Conoscenza, per essere perfetta, suppone necessariamente la realizzazione di ciò che abbiamo chiamato l’«Identità Suprema». Perciò, la Liberazione e la Conoscenza totale ed assoluta sono veramente una stessa ed unica cosa; se si dice che la Co­noscenza è il mezzo della Liberazione, si deve aggiun­gere che il mezzo ed il fine sono qui inseparabili, poiché il frutto della Conoscenza è in se stesso, contrariamente a quello dell’azione [L’azione ed il suo frutto sono altresì ugualmente transitori e «momentanei»; mentre la Conoscenza è permanente e definitiva, come il suo risultato, che non può essere distinto dalla Conoscenza stessa]; del resto, a questo pro­posito, una distinzione del mezzo e del fine è un sem­plice modo di dire, indubbiamente inevitabile quando bisogna esprimere queste idee in linguaggio umano, sempre nella misura in cui sono esprimibili. Se dun­que la Liberazione è considerata come una conseguenza della Conoscenza, è bene precisare che essa ne è una conseguenza rigorosamente immediata; Shankaracharya dice nettamente: «Non vi è altro mezzo per ottenere la Liberazione completa e finale che la Conoscenza; solo questa infatti scioglie i vincoli delle passioni (e di tutte le altre contingenze a cui è sottomesso l’essere indivi­duale); senza la Conoscenza, la Beatitudine (Ananda) non può essere ottenuta. L’azione (karma, che questa parola sia intesa nel suo senso generale o riferita spe­cialmente al compimento dei riti), non essendo oppo­sta all’ignoranza (avidya) [Certuni vorrebbero tradurre avidya o ajnana con «nescienza», non con «ignoranza»; confessiamo di non comprendere chiaramente la ragione di questa sottigliezza], non può allontanarla; ma la Conoscenza dissipa l’ignoranza come la luce le tenebre. Allorché l’ignoranza che nasce dalle affezioni terrestri (e da altri vincoli analoghi) è allontanata (e quando con essa sono anche scomparse tutte le illu­sioni), il «Sé» (Atma), per il suo proprio splendore, brilla lontano (attraverso tutti i gradi dell’esistenza) in modo indiviso (penetrando tutto ed illuminando la totalità dell’essere), come il Sole diffonde la sua luce quando la nuvola è fugata» [Atma-Bodha (Conoscenza del Sé)].

Uno dei punti di maggior rilievo è il seguente: l’a­zione, qual che essa sia, non può affatto liberare dal­l’azione; in altre parole, essa non potrebbe portare dei risultati che dentro il suo proprio dominio, che è quel­lo dell’individualità umana. Perciò non è per virtù dell’azione che si può superare l’individualità, considerata d’altronde qui nella sua estensione integrale, poiché non pretendiamo affatto che le conseguenze dell’azione si limitino alla sola modalità corporea; si può riferire, a questo riguardo, ciò che abbiamo detto precedentemente della vita, effettivamente inseparabile dall’azione. Da ciò risulta immediatamente che la «salvezza», al senso religioso inteso dagli Occidentali, essendo il frutto di certe azioni [L’usuale espressione «fare la propria salvezza» è dunque perfettamente esatta], non può essere assimilata alla Liberazione, ed è altrettanto necessario dichiararlo espressamente ed insistervi, che la confusione fra l’una e l’altra si verifica costantemente nelle interpretazioni degli orientalisti [L’Oltramare specialmente traduce Moksha con «salvezza» da un capo all’altro delle sue opere, senza neppure sospettare, non diciamo della differenza reale che qui abbiamo indicata, ma neanche della semplice possibilità d’una inesattezza in tale assimilazione]. La «salvezza» è propriamente il conseguimento del Brahma‑Loka; preciseremo pari­menti che per Brahma‑Loka bisogna intendere qui esclusivamente la dimora di Hiranyagarbha, poiché gli aspetti più elevati del «Non‑Supremo» oltrepassano le possibilità individuali. Ciò s’accorda perfettamente con la concezione occidentale dell’«immortalità», che è appena un prolungamento indefinito della vita indi­viduale, trasposta nell’ordine sottile, e che si estende fino al pralaya; abbiamo già spiegato che ciò è appena una tappa nel processo di krama‑mukti; ancora la pos­sibilità d’un ritorno ad uno stato di manifestazione (d’altronde sopra‑individuale) non è definitivamente eliminata per l’essere che non ha oltrepassato questo grado. Per procedere più oltre e per liberarsi interamente dalle condizioni di vita e di durata inerenti al­l’individualità, è aperta una sola via, quella della Co­noscenza, sia «non‑suprema» che conduce ad Ishwa­ra [Vi è appena bisogno di dire che la teologia, anche se comportasse una realizzazione che la rendesse veramente efficace, invece di restare semplicemente teorica, come essa lo è infatti (purché tuttavia non si voglia considerare una tale realizzazione come costituita dagli «stati mistici», ciò che è solo parzialmente vero e sotto certi riguar­di), sarebbe sempre integralmente compresa in questa Conoscenza «non‑suprema»] sia «suprema» che realizza immediatamente la Liberazione. In quest’ultimo caso, non vi è più bisogno di considerare, alla morte, un passaggio attraverso diversi stati superiori, ma sempre transitori e condizionati: «Il “Sé” (Atma, poiché allora non può più trattarsi di jivatma, essendo svanita ogni possibile di­stinzione e «separatività») di colui che ha raggiunto la perfezione della Conoscenza Divina (Brahma‑Vidya), e che ha, per conseguenza, ottenuto la Liberazione fi­nale, lasciando la sua forma corporea, ascende (senza traversare stati intermediari) alla Luce Suprema (spi­rituale) che è Brahma, ed a Lui s’identifica in un modo conforme ed indiviso, come l’acqua pura, confonden­dosi col lago limpido (senza tuttavia affatto perder­visi), diviene in tutto ad esso conforme» [Brahma‑Sutra, 4° Adhyaya, 4° Pada, sutra 1 a 4].

 

 

 

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