«Gli involucri del "sé"; i cinque vayu o funzioni vitali» - IX capitolo di L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta (René Guénon)

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«Gli involucri del "sé"; i cinque vayu o funzioni vitali» - IX capitolo di L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta (René Guénon)


 

Purusha o Atma, manifestandosi come jivatma nella forma vivente dell’essere individuale, secondo il Vedanta, si riveste con una serie d’«involucri» (kosha) o «veicoli» successivi, che rappresentano altrettante fasi della sua manifestazione; sarebbe però completamente erroneo assimilare a «corpi» questi involucri, perché l’ultima fase soltanto è d’ordine corporeo. Del resto, non si può rigorosamente affermare che Atma sia in realtà contenuto in questi involucri, perché, per la sua propria natura, non è suscettibile di alcuna limitazione, né può essere condizionato da qualche stato di manife­stazione [Nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 8° Anuvaka, shruti 1, e 3° Valli, 10° Anuvaka, shruti 5, le designazioni dei diversi involucri sono direttamente riferite al «Sé», secondo lo si consideri in rap­porto a tale o talaltro stato di manifestazione].

Il primo involucro (anandamaya‑kosha, la particella maya significa «che è fatto di» o «che consiste in» ciò che specifica il vocabolo al quale è unita) è l’insieme di tutte le possibilità di manifestazione che Atma com­porta in sé, nella sua «permanente attualità», allo stato principiale ed indifferenziato. Si dice «fatto di Beatitudine» (Ananda), poiché il «Sé», in questo stato pri­mordiale, gode della pienezza del suo proprio essere, e non è affatto veramente distinto dal «Sé»; esso è supe­riore all’esistenza condizionata, che lo presuppone, ed è al grado dell’Essere puro: perciò è ritenuto come carat­teristica d’Ishwara [Mentre le altre designazioni (quelle dei quattro involucri se­guenti) possono essere considerate come caratterizzanti jivatma, quel­la d’anandamaya conviene, non solamente ad Ishwara, ma, per tra­sposizione, anche a Paramatma od al Supremo Brahma; perciò è detto nella Taittiriya Upanishad, 2° Valli, 5° Anuvaka, shruti 1: «L’altro Sé interiore (anyo’ntara Atma), che consiste in Beatitudine (ananda­maya), è differente da quello che consiste in conoscenza distintiva (vijnanamaya)». ‑ Cfr. Brahma‑Sutra, 1° Adhyaya, 1° Pada, sutra 12 a 19]. Siamo qui dunque nell’ordine in­formale; è solamente quando lo si considera in rapporto alla manifestazione formale, ed in quanto il principio di questa vi si trova contenuto, che si può dire che è la forma principiale o causale (karana‑sharira), ciò per cui la forma sarà manifestata ed attualizzata agli stadi se­guenti.

Il secondo involucro (vijnanamaya‑kosha) è formato dalla Luce (nel senso intelligibile), direttamente riflessa, della Conoscenza integrale ed universale (jnana, la par­ticella vi implicando il modo distintivo) [La parola sanscrita jnana è identica al greco GnwsiV per la ra­dice, che, d’altronde, è anche quella del vocabolo «conoscenza» (da co‑gnoscere), e che esprime un’idea di «produzione» o di «genera­zione», poiché l’esame «diviene» ciò che conosce e si realizza appun­to per questa conoscenza]; esso è altresì composto delle cinque «essenze elementari» (tanma­tra), «concepibili», ma non «percettibili», nel loro stato sottile; e consiste nella congiunzione dell’intel­letto superiore (Buddhi) alle facoltà principiali di percezione che procedono rispettivamente dai cinque tanma­tra, ed il cui sviluppo esteriore costituirà i cinque sensi nell’individualità corporea [Il vocabolo sharira s’applica propriamente a partire da questo secondo involucro, soprattutto se si dà a questa parola, interpretata per i metodi del Nirukta, il senso di «dipendente dai sei (principi)», vale a dire da Buddhi (o d’ahankara, che direttamente ne deriva e che è il primo principio d’ordine individuale) e dai cinque tanmatra (Manava‑Dharma‑Shastra, 1° Adhyiya, shloka 17)]. Il terzo involucro (mano­maya‑kosha), nel quale il senso interno (manas) è unito con il precedente involucro, implica specialmente la co­scienza mentale [Con questa espressione vogliamo intendere qualche cosa di più, quanto determinazione, della coscienza individuale pura e semplice: si potrebbe dire che è la risultante dell’unione del manas con ahan­kara] o facoltà pensante, che, come prece­dentemente abbiamo detto, è d’ordine esclusivamente individuale e formale, ed il cui sviluppo procede dall’ir­radiazione in modo riflesso dell’intelletto superiore in uno stato individuale determinato, che è qui lo stato umano. Il quarto involucro (pranamaya‑kosha) com­prende le facoltà che procedono dal «soffio vitale» (pra­na), cioè i cinque vayu (modalità di questo prana), nonché le facoltà d’azione e di sensazione (queste ultime già esistevano principialmente nei due precedenti invo­lucri, come facoltà puramente «concettive», quando, d’altra parte, non poteva essere affatto questione di alcu­na specie d’azione, e nemmeno di percezione esteriore). L’insieme di questi tre involucri (vijnanamaya, mano­maya e pranamaya) costituisce la forma sottile (suksh­ma‑sharira o linga‑sharira), in opposizione a quella gros­solana o corporea (sthula‑sharira); ritroviamo qui dunque la distinzione dei due modi di manifestazione for­male, di cui già più volte abbiamo parlato.

Le cinque funzioni od azioni vitali sono chiamate vayu, quantunque non siano propriamente l’aria od il vento (che è il senso generale della parola vayu o vata, dalla radice verbale va, andare, muoversi, che abitual­mente designa l’elemento aria, di cui la mobilità è una proprietà caratteristica) [Ci riferiremo, a questo proposito, a quello che abbiamo detto in una precedente nota in merito alle differenti applicazioni della parola ebraica Ruahh, che corrisponde abbastanza esattamente al sanscrito Vayu], tanto più che si riferiscono allo stato sottile, non a quello corporeo; ma, come di­cemmo, esse sono modalità del «soffio vitale» (prana, o più generalmente ana) [La radice an si ritrova, con lo stesso senso, nel greco anemoV «soffio» o «vento», e nel latino anima, il cui senso proprio e primitivo è esattamente quello di «soffio vitale»], rilevato principalmente in rapporto alla respirazione. Queste funzioni sono: 1° l’a­spirazione, vale a dire la respirazione ascendente nella sua fase iniziale (prana, nel senso più stretto della pa­rola), che attira gli elementi non ancora individualizzati dell’ambiente cosmico, per farli partecipare, per assimi­lazione, alla coscienza individuale; 2° l’ispirazione di­scendente in una fase successiva (apana), per la quale questi elementi penetrano nell’individualità; 3° una fase intermediaria fra le due precedenti (vyana), che, da una parte, consiste nell’insieme delle azioni e reazioni reci­proche, prodotte dal contatto fra l’individuo e gli ele­menti ambienti, e, d’altra parte, nei diversi movimenti vitali che ne risultano, la cui corrispondenza nell’orga­nismo corporeo è la circolazione sanguigna; 4° la espirazione (udana), che proietta il soffio, e lo trasforma, di là dai limiti dell’individualità ristretta (cioè ridotta alle sole modalità che sono comunemente sviluppate per tutti gli uomini), nel campo delle possibilità dell’individualità estesa, considerata nella sua integralità [La parola «espirare» significa contemporaneamente «ricacciare il soffio» (nella respirazione) e «morire» (quanto alla parte corporea dell’individualità umana); questi due sensi sono entrambi in rapporto con l’udana di cui si tratta]; 5° la digestione, o l’assimilazione sostanziale intima (sama­na), per la quale gli elementi assorbiti divengono parte integrante dell’individualità [Brahma‑Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 8 a 13. ‑ Chhandogya Upanishad, 5° Prapathaka, 19° a 23° Khanda; Maitri Upanishad 2° Prapathaka, shruti 6]. È nettamente specificato che non si tratta d’una semplice operazione d’uno o più organi corporei; ciò infatti non dev’essere considerato solamente per le funzioni fisiologiche analogicamente corrispondenti, ma anche per l’assimilazione vitale nel suo più vasto senso.

La forma corporea o grossolana (sthula‑sharira) è il quinto ed ultimo involucro, quello che corrisponde, per lo stato umano, al modo di manifestazione più esterio­re; è l’involucro alimentare (annamaya‑kosha), compo­sto dei cinque elementi sensibili (bhuta), a cominciare dai quali sono costituiti tutti i corpi. Esso si assimila gli elementi composti che ha ricevuto dal cibo (anna, pa­rola derivata dalla radice verbale ad, mangiare) [Questa radice è quella del latino edere, ed anche, quantunque in una forma più alterata, dell’inglese eat e del tedesco essen], secer­nendo le parti più fini, che stanno nella circolazione or­ganica, ed escretando o rigettando le più grossolane, tranne tuttavia quelle deposte nelle ossa. Come risultato di questa assimilazione, le sostanze terree diven­tano la carne, quelle acquee il sangue, quelle ignee il grasso, il midollo ed il sistema nervoso (materia fosfo­rica); poiché vi sono sostanze corporee nelle quali la natura di taluno o talaltro elemento predomina, quan­tunque tutte siano formate dall’unione dei cinque ele­menti [Brahma‑Sutra, 2° Adhyaya, 4° Pada, sutra 21. ‑ Cfr. Chhan­dogya Upanishad, 6° Prapathaka, 5° Khanda, shruti 1 a 3].

Qualunque essere organizzato, che sta in una siffatta forma corporea, possiede, ad un grado di sviluppo più o meno completo, le undici facoltà individuali di cui ab­biamo precedentemente parlato; come già ugualmente l’abbiamo detto, queste facoltà sono manifestate nella forma dell’essere dagli undici organi corrispondenti (avayava, designazione che è del resto riferita anche allo stato sottile, ma soltanto per analogia con quello gros­solano). Per Shankaracarya [Commento sui Brahma‑Sutra, 3° Adhyaya, 1° Pada, sutra 10 e 21. ‑ Cfr. Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 3° Khanda, shruti 1; Aitareya Upanishad, 5° Khanda, shruti 3. Quest’ultimo testo, oltre le tre classi d’esseri viventi enumerate negli altri, ne menziona una quarta: gli esseri nati dal calore umido (swedaja); ma questa classe può essere riferita a quella dei germinipari], si distinguono tre classi d’esseri organizzati, secondo il loro modo di riproduzione: 1° i vivipari (jivaja o yonija, od ancora jarayuja), cioè l’uomo ed i mammiferi; 2° gli ovipari (andaia), cioè gli uccelli, i rettili, i pesci, gl’insetti; 3° i germinipari (udbhijja), che comprendono contemporaneamente gli animali inferiori ed i vegetali, i primi, mobili, che na­scono principalmente nell’acqua, mentre i secondi, che sono fissi, nascono abitualmente dalla terra; tuttavia, secondo certi passi dei Veda, il cibo (anna), cioè il vege­tale (oshadhi), procede anche dall’acqua, poiché è la pioggia (varsha) che fertilizza la terra [Specialmente vedi Chhandogya Upanishad, 1° Prapathaka, 1° Khanda, shruti 2: «i vegetali sono l’essenza (rasa) dell’acqua»; 3° Prapathaka, 6° Khanda, shruti 2, e 7° Prapathaka, 4° Kanda, shruti 2: anna proviene o procede da varsha. ‑ La parola rasa letteralmente significa «linfa», e, come già dicemmo, significa anche «gusto» o «sapore»; del resto, in francese ugualmente, le parole sève, «linfa», e saveur, «sapore», hanno una stessa radice (sap), che è nello stesso tempo quella di savoir, «sapere», per l’analogia che esiste fra l’as­similazione nutritiva nell’ordine corporeo e quella cognitiva nell’or­dine intellettuale e mentale. ‑ È d’uopo significare che la parola anna designa qualche volta l’elemento terra, l’ultimo nell’ordine dello svi­luppo, e che deriva anche dall’elemento acqua, che immediatamente lo precede (Chhandogya Upanishad, 6° Prapathaka, 2° Khanda, shruti 4)].

 

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