in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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Per una filosofia dialogica e interculturale.
Note su Raimon Panikkar e Martin Buber (Roberto Taioli)


 

Raimon Panikkar

  

     Con sempre maggiore insistenza e profondità, l’esperienza di pensiero di Raimon Panikkar in questi ultimi anni è andata concentrandosi sul temi della interculturalità e del dialogo, offrendo un contributo alto al ripensamento della crisi del mondo attuale, come proposta di una nuova prassi, di un nuovo atteggiamento di fronte alla sempre più ardue sfide dell’umanità.. L’approccio di Panikkar al problema della relazione interculturale è essenzialmente di tipo olistico, poiché il pensiero analitico depositatosi nell’esperienza occidentale, si è dimostrato insufficiente nel comprendere la totalità delle voci, delle differenze, delle tonalità e delle angosce dell’uomo. Ciò non vuol dire per Panikkar proporre un nuovo paradigma alternativo e sostanzialmente speculare a quello occidentale, non si tratta di sostituire una ratio con un‘altra, perché in tal modo resterebbero inalterate e immutate le basi del problema. L’interculturalità chiama invece ad una trasformazione e metanoia radicale del modo di pensare e vedere l’alterità, ed è per definizione un pensiero senza paradigma, perché rinuncia a pensare per categorie antinomiche, generatrici di lacerazioni. E’ pur vero tuttavia che una filosofia interculturale oggi deve confrontarsi con le nuove forme dell’occultamento (che appaiono altresì come forme di relazione). Viviamo infatti in un relazionismo che solo apparentemente è tale, in quanto esso si nutre di un solo pensiero. Le basi filosofiche dell’interculturalità sono da Panikkar rintracciabili nella ricerca delle diversità e nella messa a nudo del nocciolo fecondo delle varie culture, anche di quelle dei dimenticati e degli esclusi, dei senza voce e dei senza volto che abitano la Terra. Questo senso dell’abitare e della ricerca di un fondamento profondo all’abitazione del mondo non è relativismo (come superficialmente è stato talora rimproverato a Panikkar) ma la percezione di un nesso profondo e vitale che unisce nella varietà dei volti il destino dell’uomo. Scrive Panikkar:  “interculturalità non significa relativismo culturale (una cultura non vale l’altra), né frammentazione della natura umana. Ogni cultura è cultura umana – anche se può degenerare. Detto più filosoficamente, ci sono invarianti umane, ma non ci sono invarianti culturali. La loro relazione è trascendentale: l’invariante  umana si percepisce solo in un determinato universo culturale. Tutti gli uomini mangiano e dormono, ma il senso del mangiare e del dormire non è lo stesso nelle diverse culture” 1.

      L’imposizione di invarianti culturali, cioè la sovrapposizione di  un modello culturale particolare presentato come universale e insostituibile, genera quella incapacità all’ascolto da cui scaturiscono l’odio e la guerra. Le culture stesse devono disarmarsi trasformandosi in esperienze di dialogo. L’interpellanza interculturale, in un mondo governato ancora planetariamente da un modello, si pone quindi come telos, orizzonte non ancora compiuto e pur in qualche modo operante e fungente nella vita dell’umanità. Vivere per questo telos significa trasformare la filosofia interculturale in carne e sangue della vita dell’umanità. Eppure noi viviamo già da sempre in questa interpellazione anche  se occultati ne sono i fondamenti e stravolte le radici. Diremmo husserlianamente che i materiali vivi (i plena), giungono a noi come mascherati in “vestiti di idee” (Ideenkleid) e quindi deprivati della loro evidenza. Panikkar affida alla filosofia il compito dell’esercizio critico che non si arena di fronte alle barriere del pensiero unico, essa ha in sè l’idea di una vocazione alla philisophia perennis, di un sapere non categoriale ma che vale come domanda, fonte, sorgente. In realtà il filosofo nel suo incessante lavorio che lo porta a trascendere continuamente i confini della sua esperienza e gli esiti del suo pensiero, realizza e presentifica in sé la dimensione della interculturalità e di una visione intermonadologica, traccia la strada, dice Panikkar, per una cosmovisione o una visione cosmoteandrica2 che amalgama Dio, uomo e mondo:

 

…ogni filosofia che abbia superato l’ossessione analitica dell’età moderna è già un tentativo transculturale, in quanto noi filosofiamo  dialogando con l’altro e la filosofia diventa quindi interculturale – perché parlando con l’altro io oltrepasso l’ambito della mia cultura individuale ed entro già nel campo interculturale che a volte contribuisco a cercare.3

 

     La filosofia trova il suo compimento nel porsi come filosofia trascendente, perché le inerisce l’apertura, lo sporgersi ad un’ulteriorità che è oltre i confini della filosofia stessa come identità razionale. Questa vocazione intraculturale non è tuttavia scontata ma si realizza e si costruisce con fatica e pazienza entro il solco del pensiero occidentale. Secondo Panikkar nell’ambito della storia del pensiero umano si possono ravvisare due tendenze o atteggiamenti, una centrifuga o maschile, dinamica,  mirante alla oggettivazione e alla estrinsecazione e che si incarna nella volontà di dominio e di conquista, di possesso e di controllo, di manipolabilità e di fruizione, l’altra centripeta e femminile, passiva, affermatasi soprattutto  nel seno delle culture orientali,  incline verso l’interno, disposta alla recezione e all’accoglimento. Questo schema bipolare che Panikkar raccoglie nelle formule del plus ultra e plus intra, non pare tuttavia più adeguato a cogliere la complessità del mondo contemporaneo, anzi il suo permanere e perpetuarsi si preannuncia come foriero di pericoli e di minacce per l’avvenire dell’umanità. Quella che va cercata è una osmosi, una contaminazione.   Infatti solo una più alta forma di relazione ci potrà salvare, la fondazione di un nuovo dialogo che abbia in sé e ricomprenda le forme del logos e del mythos, le cui tracce sono presenti in tutte le culture. Logos e mythos sono quindi chiamati a collaborare in una nuova forma che non sia più di dominio ma di relazione. Panikkar parla di dialogo dialogale, preferendo questa espressione a quella di dialogo dialettico; il dialogo dialogale privilegia della dialettica il motivo del legein, dell’incontro fra due dialoganti che si scoprono nell’ascolto dell’altro, mentre il dialogo dialettico presuppone il funzionamento di una ratio esterna giudicatrice e legislatrice. Non si tratta di  sfumature filologiche ma di questioni vitali. Infatti il dialogo dialettico, soprattutto codificato nello schema hegeliano e poi in quello marxiano, prevede un andamento lineare, seppur attraverso l’operare di rotture, mentre il dialogo dialogale sembra voler accentuare il piano della profondità, di un ritorno ad un sentire che non sia disponibile ad un mero andamento orizzontale. Di qui in Panikkar l’importanza del mythos come sorgente profonda, radicata nel regno del precategoriale. Siamo più vicini, in Panikkar, alla iperdialettica di Merleau-Ponty,

che coglie l’Essere come “sistema a più entrate”, criticando la dialettica imbalsamata codificata nel pensiero hegeliano.

      In particolare nella filosofia di Panikkar il dialogo diaologico paradossalmente nega la dialettica perché non necessita di un motore esteriore. Il dialogo si dà così come forma di una comprensione filosofica in cui gli interlocutori sono implicati l’uno nell’altro e in nessun momento del processo compare un antecedente ed un successivo. Siamo su un piano di simultaneità perché non c’è una pienezza che si confronta con un vuoto in cui riversarsi ma l’incontrarsi di due vuoti che comunicano:

 

      Il dialogo è fondamentalmente l’apertura di me stesso a un altro, così che egli possa parlare e rivelare il mio mito che non sono in grado di conoscere da solo perché per me è trasparente, evidente. Il dialogo è un modo di conoscermi e di districare le mie opinioni personali dalle opinioni altrui  e anche da me stesso, perché si trova incagliata così profondamente nelle mie radici che mi riesce del tutto impossibile scorgerla. E’ l’altro che attraverso il nostro incontro, risveglia questa profondità umana latente in me in uno sforzo che oltrepassa entrambi. In un dialogo autentico questo processo è reciproco.4

 

        Compare così nel pensiero di Panikkar il tema del mito che va visto in relazione al logos. Il mito è infatti il racconto del nostro presentarsi e disvelarsi nell’incontro, come d’altra parte è  il presentarsi e il disvelarsi dell’altro a me.

Il mito, che storicamente fu soppiantato dal logos, ricompare oggi nelle forme di una filosofia interculturale dove il dialogo non può darsi come precostituito da una ratio dominante verso un soggetto soccombente. In tal modo il dialogo è già falsato e viziato perché l’altro può essere raggiunto per assimilazione, cessando di essere alter e diventando alius, oggetto di una manipolazione. L’alter invece va interpellato e incontrato nella sua integralità d’essere portatore di un mythos, di qualcosa che mi manca e di cui ho bisogno, anche se ho poi rimosso il fondamento di questo bisogno che giace in me nascosto e inappagato. L’interculturalità è allora, dice Panikkar, il luogo del mythos perché “richiede apertura all’altro, dal momento che non possiamo decidere da soli quali sono le domande fondamentali – e neppure sapere se il compito ultimo della filosofia sia porre domande e decidere sulle risposte giuste”5. Essa riporta in superficie la pregnanza di un pensiero simbolico che non è né soggettivo né oggettivo ma essenzialmente dialogale e che si pone come alternativa o via media all’assolutismo monocentrico e al relativismo e frammnetarismo. L’abbandono della simbolizzazione, relegata nel pensiero occidentale alla sfera artistica o alla dimensione religiosa e non vissuta come un terreno di interrogazione incessante dell’essere, conduce alla costruzione di un modello artificiale di homo oeconomicus come consumatore di merci6 e quindi ad una feticicizzazione solipsistica, ad un edonismo solitario. L’astratto, il bisogno esterno artificiale, viene eretto a bisogno primario e quindi dato per concreto. Il concreto, l’uomo come soggettività unica e indeclinabile, viene scambiato per astratto. Nasce così per Panikkar una economia senza l’uomo,  perché ha rinunciato a rapportarsi ai soggetti concreti che operano nel processo e quindi funziona come una scienza astratta autoreferenziale. Ciò avviene ormai su scala mondiale e planetaria, attraverso la globalizzazione di un modello e la creazione di nuovi  e artificiali bisogni. Se smonteremo questo Moloch dell’uomo artificiale costruito nell’era della tecnoscienza recuperando al  patrimonio dell’umanità le risorse di un pensiero  simbolizzante che abbia in sé l’apertura alla verità di ogni uono e di ogni popolo, allora il dialogo sarà dialogico e non monologico. La filosofia interculturale, come abitudine all’apertura, ha una funzione di metodo, di difficile esercizio al dialogo, e di sorveglianza sulle false forme di dialogo entro le quali si celano nuove e più  sofisticate tecniche di nascondimento. “La filosofia interculturale libera la filosofia postparmenidea dalla sua gabbia mentale”7 ed aiuta al formarsi di un nuovo e più profondo senso dell’abitare dell’uomo, per cui il centro sia sempre da rifondarsi e ricostituirsi, soprattutto pone al cuore della riflessione e dell’azione il tema della relazionalità e di una verità sempre plurale.

      La cosmovisione o  visione cosmoteandrica non assegna ruoli fissi ed immobili ma decentra continuamente il punto di osservazione e di radicamento, per cui all’uomo il  mondo appare  regolato da  una concordia discors, feconda linfa di condivisione  e di coappartenenza.  Panikkar riprende così un’ideale di sapienza (che dal pensiero orientale attraverso i greci e i latini giunge sino al nostro Rinascimento), come recita la conclusione dell’ultimo mantra del Rg-veda: “Concorde  la vostra decisione, concordi i vostri cuori, / possano i vostri animi essere concordi, / che voi possiate a lungo dimorare insieme / in unità  e concordia”8 . L’umanità ha quindi davanti a sé un compito di ricomposizione di un telos che è andato perdendosi, soffocato via via dall’affermarsi sempre più invadente della ragione strumentale vista come attività separata dal contesto dell’essere umano e perseguente sue interne logiche. Una epistemologia, dice Panikkar, “avulsa da ogni ontologia”, 9 che si pone come logica dimenticando ed occultando il fondamento nell’uomo e nella natura.:

 

      Una ragione “pura” suggerisce una ragione incontaminata dalle impurità di qualsiasi contatto con il resto dell’uomo, ossia il corpo, i sentimenti, l’amore… Ma è davvero pura la “ragione pura”? Può “funzionare” segregata da tutto il resto? Il dialogo sarebbe allora impuro perché non è monologo?9

 

     Questo modello, per cui è ragionevole solo ciò che è quantificabile e reversibile in una prassi materiale, procede per scissioni sempre più ampie disintegrando la totalità indivisa della vita e della natura in parzialità incomunicanti e in funzioni rigidamente separate. Avviene così l’oblio del ricco e fecondo spessore che fa da linfa al tutto. La stessa parola dell’uomo, il suo linguaggio degradano a meri fini comunicativi, in una impersonalità sempre più grigia. Nel linguaggio degradato e impoverito in linguaggio ordinario va smarrita la quaternità formata dal parlante, da colui cui si parla, da ciò che si dice e dal suono materiale. Il senso è il reagire e l’incontrarsi di queste quattro radici, non è mai nelle singole parole, anche perché quelle parole pronunciate in un altro contesto possono voler  dire altre cose. Le parole sono allora simboli e non solo segni, perché esse riflettono un mondo.  La parola è mediazione tra cielo e terra., tra  alto e basso e non solo comunicazione orizzontale. Essa, direbbe Panikkar, ha sempre alle spalle un mythos, una ancorazione profonda nella vita degli uomini che non  appare nel logoramento della comunicazione e dell’uso strumentale del linguaggio.  La filosofia interculturale assume su di sé il compito di far parlare e interagire i vari linguaggi intesi come miti nei quali si è rappresa in forma originale l’esperienza  di una parte dell’umanità che non è l’intera umanità.  Per una filosofia interculturale il linguaggio è il punto di partenza di una articolazione che non può risolversi tuttavia solo nel linguaggio; esso tuttavia è un nervo scoperto attorno al quale si gioca non poca parte della vicenda storica. Scomparsa di lingue, monolinguismo imperante, omologazione,  sono fenomeni non solo linguistici ma di rilevanza etica, culturale  Essi nascono da un impoverimento del mythos fondativo o addirittura dalla sua cancellazione. Gli uomini non sono più in relazione perchè uniti entro una stessa lingua. Non c’è meno incomprensione per il fatto che capiamo quello che ci viene riferito.  Una filosofia autenticamente interculturale che tende ad una ricomposizione e ad una dialogo dialogico, non può privilegiare  alcun linguaggio, religione o cultura. Non può depositarsi in una forma particolare e concreta che giunge a manifestazione.  Essa è come una semina che deve pervenire a maturazione, un telos che  è davanti a noi. Sul piano teoretico Panikkar parla  di relatività radicale, nella quale ogni acquisizione è sì relativizzata e ricondotta entro il proprio terreno di appartenenza, ma al contempo collocata nella vita del tutto, situata nella cosmovisione.  Questa relatività, scrive Panikkar, “ci salva dal solipsismo culturale e ci evita di cadere in una omeogeinizzazione monista che distrugge ogni diversità”10.

     .L’atteggiamento della filosofia interculturale è quello di una filosofia imparativa che potrebbe essere anche vista come riproposizione dell’ideale dell’enciclopedia delle scienze11, un‘enciclopedia perennemente in atto che ha il suo fine nell’umanizzazione profonda della cultura  e nell’incontro dei linguaggi.  Avviene così tramite le parole e le scienze l’incontro delle culture e la messa in comune di una finalità collettiva. Questa teleologia tuttavia per Panikkar non può essere solo il risultato della conoscenza (come anche Husserl segnalava nella Crisi delle scienze europee) ma della coscienza, la cui stratificazione è più ampia del conoscere. Panikkar scrive che “la coscienza è mitica, la conoscenza è logica”11, volendo segnalare nella  prima il radicamento della rappresentazione simbolica in una verticalità che è il mondo- della- vita, poiché si vede con l’occhio e si guarda con la mente. Queste due dimensioni del mythos e del logos sono tuttavia inseparabili e inscindibili, Panikkar non vuole restaurare un nuovo dualismo. Semmai lo sforzo del filosofo è quello di pensare questi due processi in una simultaneità per cui l’uno è legato all’altro e ogni attività è intessuta al suo interno di questi due strati; un equilibrio omeostatico si crea quando mythos e logos non si offrono come antitetici ma coessenziali nell’esperienza umana.

     Lo spezzarsi dell’equilibrio determina devastanti fratture. Si ergono così i paradigmi, costruzioni categoriali che sono di ostacolo al dialogo e che anzi nei loro esiti estremi lo negano.La filosofia interculturale è quindi comprensione dei simboli che sono vivi in una determinata cultura, giacchè quest’ultima non è rappresentabile solo attraverso il concetto che essa dà di sé. Il concetto ci conduce infatti in un universo  univoco, mentre il mito è polisemico e ammette una pluralità di interpretazioni. Pone domande, mentre il concetto fornisce risposte. L’appartenenza al mythos genera solidarietà, coesione e senso di comunione ma il mythos come struttura aperta deve essere dialogante e pronto all’ascolto di altre formazioni simboliche che si offrono all’interpretazione.

      Un’ermeneutica interculturale è attenta quindi al mito dialogante, vero argine contro il pericolo del fanatismo. Così come i logoi non devono isolarsi e autoriprodursi  (con il pericolo del dogmatismo della ragione, della scienza e delle tecnocscienza), anche i miti sono in correlazione l’uno con l’altro e tutti nel dialogo concorrono alla formazione della coscienza simbolica universale.  Questa connessione profonda Panikkar la chiama correlazione a-dualista: mythos e logos “si appartengono l’un l’altro, ma non devono essere confusi”12. Così viene peraltro superata la minaccia sempre incombente di una reductio ad unum che è la chiusura del dialogo. Così va combattuto per Panikkar il modello culturale dominante che affida alla scienza e alla tecnoscienza la rappresentazione del mondo. Essa  si offre come una rappresentazione parziale anche se pare  evidente. Un universo compreso nell’ordine della scienza non è tuttavia l’ordine del mondo, ma una faccia del suo manifestarsi, anche se ci viene presentata come l’unica possibile. La critica alla tecnoscienza che affiora nella riflessione di Panikkar non è tuttavia critica tout court della scienza. La tecnoscienza è semmai il prodotto perverso e feticizzato dello scientismo ed è la scienza che ha rinunciato al suo ruolo di umanizzazione del mondo. Il mythos è allora un antidoto alla burocratizzazione tecnicistica del mondo poiché riporta in primo piano l’ideale di una cosmovisione, di un mondo articolato e complicato, abitato da tante voci e da tanti volti.  Alla comprensione di una cultura diversa si accede quindi aprendosi al suo mito fondativo, con un atteggiamento che Panikkar chiama di nuova innocenza.

      Riprendendo una formulazione che appartiene anche a Emmanuel Lévinas e a Martin Buber, Panikkar assume la differenza tra alter e alius, tra una visione relazionata ed una oggettivata dell’altro. Tuttavia alla visione relazionata dell’altro si accede con uno sforzo globale che postula la conoscenza amante e l’amore conoscente, una disponibilità all’accoglimento che chiede  la spoliazione o, come dice Panikkar, la trasformazione dello status quo in un fluxus quo, in un transito, un cammino verso un’armonia cosmica sempre nuova e mai perfetta, nella quale anche le religioni, come forme del religare, rivestono una posizione rilevante. L’homo religiosus è un uomo che si pone nella relazione. Le religioni, nella visione di Panikkar, non dividono ma aiutano gli uomini  a sentire la comune stoffa. La scoperta della mia parzialità e radicale contingenza mi accomuna alla parzialità e contingenza dell’altro che è per me alter, fonte di conoscenza  e di amore. Si pongono qui le basi di un hieros gamos, di un matrimonio sacro, un patto tra uomo e uomo e natura:

 

In questo hieros gamos la realtà non è divisa, non è frammentata in parti, ma semmai sussiste  nella propria a-dualità, che è quella di una connettività radicale. L’altra cultura non è una parte di un ego autocentrato, ma neppure ci è aliena: noi siamo correlati. Questa relazione non appartiene all’eteronomia né all’autonomia, bensì alla “ontonomia” nella quale il nomos dell’on appartiene al nostro mito comune (in ogni caso concreto).13

 

Pensare l’ontonomia è vivere nell’ontonomia, abitarla; lungi dal riproporre un modello univoco di mondo, essa è  forse per Panikkar  la “terza via” o meglio la via per il superamento armonico di perduranti dualismi e laceranti conflitti dalla cui soluzione dipende in gran parte il destino  dei singoli intrecciati nell’umanità. Essa è un ponte gettato tra le sponde opposte dell’autonomia e dell’eteronomia, categorie ancora prigioniera di un pensiero duale e non relazionale. 

 

Martin Buber

 

      Il tema dell’alter e dell’alius che fa da sfondo al pensiero di Panikkar nell’articolarsi della filosofia interculturale, riemerge anche nella riflessione di Martin Buber. L’opera teoretica ove tale questione è compiutamente sviluppata, con esiti significativi anche in termini di proposta etica,  è il libro Io e  Tu14, uscito nel 1923. Tema di questo libro è lo studio  dell’incontro o, come dice Buber, della relazione che si costituisce sempre entro un fondale ove ci poniamo come soggetti o oggetti della relazione. L’intero problema si gioca entro il presentarsi di alcune parole fondamentali che non compaiono mai isolate ma sempre in coppie, in un legame inscindibile di avvolgimento e di reattività, e che non sono solo forme linguistiche  e grammaticali ma schemi pratici (insiemi direbbe Sartre) fondati e incardinati nel mondo. Queste aggregazioni o coppie sono il nesso io-tu e io –esso delimitanti l’orizzonte di senso, poiché nulla può accadere al di fuori di tale articolazione. La coppia io-tu in particolare per Buber fonda e costituisce il luogo del dialogo e della relazione, mentre la coppia io-esso descrive il venir meno della relazione, il degradarsi e depotenziarsi dell’incontro nelle forme della oggettivazione e della subordinazione. Infatti il tu della prima coppia si dispone in una posizione non contrapposta all’io, a differenza dell’esso che nell’altra coppia funge da elemento ordinatore rispetto al primo:

 

Le parole fondamentali sono dette insieme all’essere.

Quando si dice tu, si dice insieme della coppia io –tu.

Quando si dice esso, si dice insieme l’io della coppia io-esso.

La parola fondamentale io-tu si può dire solo con l’intero essere.

La parola fondamentale io-esso non può mai essere detta con l’intero essere. 15

 

     Il correlarsi io-tu determina il nascere di una totalità condivisa, mentre il confronto io-esso dà luogo a separazione e distinzione. Nel primo rapporto opera un telos mobile e  intenzionale, nel secondo ci imbattiamo in concrezioni rigide, compatte, invalicabili. L’esso è infatti l’anonimo, il seriale, l’impersonale, l’inautentico che mi si oppone e che infrange l’unità del mondo.  L’analisi della sfera io-tu conduce ad individuare una relazione di reciprocità (il mistero della reciprocità), per cui l’altro si pone a me come soggetto e non alterità oggettiva. Posso, dice Buber, osservare un albero sotto tanti punti di vista, collocarlo nel mondo botanico, geometrico, tattile, visivo ed estetico, posso  sezionarlo e ridurlo ad un concetto, un numero, cioè ad una serie di oggettivazioni separate dall’unità. Posso anche ricomporlo e ritrovarlo in me come insieme, come atto unitario e globale che entra in me e con me si confonde e mi sorprende per la sua esclusività:

 

Tuttavia, per volere e per grazia insieme, può anche accadere che, osservando l’albero, io venga coinvolto nella relazione con lui, e allora l’albero non è già più un esso. La forza dell’esclusività mi ha afferrato. 16

 

     La relazione è un fatto di immediatezza e non un’articolazione concettuale, si realizza come incontro non mediato da alcun mezzo, in uno stato di sospensione che è simile a quello reso possibile dall’epochè fenomenologica. Il tu mi incontra per grazia, scrive Buber, e non si trova nella ricerca. Reca quindi con sé quei tratti di stupore, di sorpresa e di innocenza propri di una rivelazione e di una visione che coglie la parola fondamentale (Grundworte) con tutto l’io. Tutto l’io quindi, nel suo unicum di corporeità e di spiritualità, percepisce il tu come coappartenente al mio mondo, come parte del mio mondo che è anche il suo. Siamo pervasi da una stessa corrente e chiamati ad un comune transito, “ciò che sta di fronte ‘si incarna’: il suo corpo emerge dai flutti del presente senza spazio e senza tempo alla riva dell’esistenza”17. Diversamente l’io della coppia io-esso si disperde nel mondo della molteplicità e degli oggetti ed è da essi travolto. Il suo altro non è più un tu ma un aliud che gli si oppone come sottrazione, impoverimento, caduta e che alla fine lo governa. Egli non vive più nel presente come apertura, varco, sorpresa, ma è vissuto nel passato come ripetizione, estraniazione. Siamo così davanti a due mondi che non comunicano più, ad una duplicità tra essenziale ed oggettuale. Tutta la pars destruens del pensiero di Buber è volta alla critica del mondo dell’esso come forma inautentica della relazione. L’esso è infatti sempre presente anche se talora camuffato e mascherato e rappresenta l’incombente destino di ogni relazione:

 

Nel fatto che ogni tu nel nostro mondo debba diventare un esso, sta la sublime malinconia della nostra sorte. Per quanto il tu fosse presente in modo esclusivo nella relazione immediata, appena essa ha smesso di operare, o è stata interrotta da un mezzo, il tu diventa oggetto tra gli oggetti, forse un oggetto rilevante, e tuttavia sempre uno di essi, determinato e limitato.18

 

     Ogni tu quindi tende a degradarsi e nel suo mondeggiare a ridursi a cosa, a ritornare nel regno della cosalità. Nel linguaggio di Buber dobbiamo dire che il mondo si dà in uno scambio ininterrotto di attualità e latenza19, i cui confini sono sempre ridisegnabili e  rideterminabili. e che il telos nuovamente ricompare dentro il punto di crisi e di rottura dell’oggettivazione. Resta quindi sempre aperta la vita della dialettica che non è mai meramente progressiva e lineare. Semmai dovremmo dire che per Buber la struttura relazionale originaria (“All’inizio è la relazione”) va continuamente riproposta e riformulata, ma che non è scontato e predeterminato il suo processo. La coppia io-tu si disloca nel flusso della reciprocità, tratteggia un paesaggio che non è ordinabile e misurabile e che richiede il sentimento per affiorare alla luce, l’ebraico Hitlahabut, estasi e gioia stupita dinnanzi al miracolo sempre riaperto della creazione e della relazione. Qui il tempo che  è andato smarrendosi si ritrova. Ma dandosi al mondo ed emergendo dalla latenza, la relazione intercetta  e incontra il mondo dell’esso, la consistenza di un mondo e di un orizzonte che ci è dato come precostruito. L’esso esiste, con tutta la sicurezza e l’evidenza di cui è capace, poiché il suo ritmo è quello dell’accrescimento e dell’accumularsi e la sua forza quella dell’assorbimento e della  classificazione. La sfida della relazione si presenta come un eterno processo di un divenire che ogni volta deve affermarsi come possibilità e apertura e dove è appunto possibile la reversibilità dell’esso nel tu, come opzione e telos della storia:   

 

Una volta iniziato il processo di relazione, il singolo  tu deve divenire un esso. Entrando nel processo di relazione, il singolo esso può diventare un tu.19

 

     Davanti al moltiplicarsi degli apparati e alla folla del loro riprodursi e ripresentarsi in nuove forme e in nuove maschere che spesso hanno il potere persuasivo e pervasivo degli idoli, la riproposta della relazione come estrema radicalità (la pars construens), fa sorgere la speranza che un nuovo ordine del mondo sia possibile; non un mondo ordinato, scrive Buber, che sarebbe il mondo così come lo trovo. L’esso mi attornia e senza l’esso l’uomo non può vivere ma, ecco il monito di Buber, colui che vive solo con l’esso non è l’uomo. Occorre quindi una nuova e più alta dialettica, uno sforzo del pensiero che si sottragga al dominio di una direzione. Un pensiero che non sia orizzontale ma neanche solo circolare, un cammino labirintico ove la parola “varrà nella signoria sui morti”20 , è la relazione; essa è la via:

 

La storia è un approssimarsi pieno di mistero. Ogni spirale del suo cammino ci conduce al tempo stesso a una più profonda perdizione e a una più fondamentale conversione. Quell’evento, che da parte del mondo ha nome conversione e da parte di Dio ha nome salvezza.21

 

 

     In questo sapiente impasto tra teoresi e visione si sparge a noi la parola di Martin Buber.

 


 

1 R. Panikkar, Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, a cura di Milena Carrara Pavan, Jaca Book, Milano, 2002, p. 13, d’ora in riportata con la sigla PI. . Sul tema del disarmo delle culture si veda R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, a cura di Milena Carrara  Pavan, Rizzoli, Milano, 2003.

2 R.Panikkar, La realtà cosmoteandrica, a cura di Milena Carrara Pavan, Jaka Book, Milano, 2004. La visione cosmoteandrica si costruisce per Panikkar rimuovendo e superando il principio di Parmenide, visto come dogma a fondamento di tuta la filosofia occidentale. Sulla critica a questo stesso principio, vedasi anche in PI, cit. p. 41.

3 p. 20.

4 R. Panikkar, Mito, Fede ed Ermeneutica, titolo originale Myth, Faith  and Hermeneutics, traduzione dall’inglese di Silvia Costantino,  edizione italiana a cura di Milena Carrara  Pavan, Jaca Book, Milano, 2000,  p. 243.

5 PI, p. 37.

6 Sul tema della violenza delle merci, vedasi il libro di Giorgio Nebbia, Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitalismo, Jaca Book, Milano, 2002..

7 PI, p. 43.

8 I versi del mantra sono presi dalla raccolta I Veda, a cura di R. Panikkar,  ed. italiana a cura di Milena Carrarsa Pavan, Rizzoli, Milano, 2001, vol.ume secondo, p. 1071.

9 PI, p. 46 L’uso del termine ontologia va visto in Panikkar non come durezza e rigidità dell’essere, data peraltro la sua polemica con il principio parmenideo. Per ontoloogia ci sembra che Panikkar voglia intendere la ricerca del fondamento in cui si gioca la relazione uno-tutto, un terreno di inerenza e di avvolgimento.

9 p. 46.

10 PI, p. 58.

11 L’ideale enciclopedico inteso come telos dell’umanità compare in Leibniz e in Husserl e  ritorna in Enzo Paci, di cui vedasi Idee per una ecnciclopedia fenomenologica, Bompiani, Milano, 1973.

11 PI., p. 66.

12 p. 74.

13 p. 122.

14 M. Buber, Ich und Du, trad. it. Io e Tu, in Il pensiero dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, Edizioni San Paolo, Cinisello Balasamo (Mi), 1993, d’ora in poi riportato con la sigla PD.  Il dialogo è sempre riempimento di un vuoto e costruirsi di una relazione, ricerca di risposta ad una mancanza. Buber ne parla nella sua autobiografia, facendo riferimento alla propria esperienza personale allorché visse da bambino l’assenza della coppia genitoriale a causa del divorzio degli stessi e al suo affidamento ai nonni,paterni; vedasi a riguardo M. Buber, Incontro. Frammenti autobiografici., a cura di David Bidussa,  Città Nuova Editrice, Roma, 1998. Per uno studio dell’autobiografia buberiana rimando al mio saggio Alterità, senso di Dio e dialogo nell’autobiografia di Martin Buber, in “Testimonianze”, anno XLVI, n. 427, gennaio-febbraio 2003, pp. 116-121. Per uno studio complessivo dell’opera di Buber vedasi la monografia di Clara Levi Coen, Martin Buber, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Fi),  1991.

15 PD, p. 59.

16 p. 63.

17 p.69.

18 p. 71.

19  Scrive Buber: “Ogni  relazione reale nel mondo si compie nello scambio di attualità e latenza, ogni isolato tu deve trasformarsi nella crisalide dell’esso, per poter di nuovo mettere le ali. Ma nella pura relazione la latenza è solo il prender fiato dell’attualità, in cui il tu rimane presente. Il Tu eterno è tale per natura; solo la nostra natura ci obbliga a trascinarlo nel mondo e nel discorso dell’esso” ( PD, p. 131).

19 p. 83.

20 p. 145.

21 p. 146.

 

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