in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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RELIGIONE O CULTURA. COME L'OCCIDENTE È CADUTO NELLA TRAPPOLA DEL DUALISMO

Dialogo con Raimon Panikkar

 

 

Presentiamo una sintesi redazionale del dialogo con Raimon Panikkar tenutosi al Centro S. Domenico di Bologna, senza modificarne sostanzialmente la forma discorsiva.

 

C’è chi ha la certezza della fede; c’è chi è in ricerca o ha l’impressione di essere lontano da ogni esperienza religiosa, perché non segue la strada comune. Ma c’è un’unica strada per andare verso Dio?

 

Tutta l’anima, cioè la vita umana, è uno specchio di tutta la realtà. In ognuno di noi si svolge il destino dell’universo, in ognuno di noi, tempio dello Spirito Santo, si svolge tutta l’avventura del cosmo e anche di Dio. Noi siamo spettatori (tante volte sorpresi, altre volte depressi, sempre un po’ senza sapere come le cose si svolgeranno), ma siamo anche attori di questo grande dramma di tutta la realtà e, quindi, in quanto attori, svolgiamo un ruolo personale, non trasferibile ad altri.

Ciascuno è una dimensione che nessun altro può sostituire (e questo sarebbe il fondamento teologico dell’inferno, con la possibilità del rischio). Ma c’è di più, e questo a volte non lo crediamo sufficientemente: siamo anche autori dello stesso libretto della creazione.

Spettatori, attori e autori. Se questo è vero, l’aver confuso la fede con un tipo di certezza supercartesiana mi sembra uno degli sbagli della modernità - se mi si permette la parola, perché è molto polisemica. Se la fede è qualcosa di ultimo, non può avere un criterio al di sopra o al di fuori o differente dalla fede stessa; vivere nell’incertezza, vivere nella vulnerabilità - beati i pauperes spiritu - è precisamente la condizione umana, certamente la condizione cristica: perciò la Sua vita finì come finì. Voler la certezza a ogni costo è filosoficamente ingenuo.

Voler la certezza nell’ordine dell’amore, per esempio, è uccidere l’amore, ossia il criterio per il quale tu sei certo di una cosa è molto più importante della cosa stessa e, nell’ordine della conoscenza, implica aver dimenticato il mistero del conoscere, della gnosi. San Tommaso stesso dice che l’identità tra il conoscente e il conosciuto nella conoscenza piena è superiore all’identità logica di A = A.

Quindi, c’è qualcuno che vive la certezza della fede? Me lo domando, ma non ne conosco nessuno. Sarebbe farla dipendente dalla certezza razionale.

"C’è chi è in ricerca". E chi non è in ricerca? La fede non ha oggetto. Se avesse oggetto sarebbe oggetto di pensiero o di sentimento o di volontà. Questo oggetto sarebbe idolatria. É molto significativo che praticamente tutte le religioni dicano che l’idolatria è il peccato per eccellenza.

Ma la fede ha una relazione trascendentale con la credenza. Ognuno di noi è aperto al mistero, ognuno di noi è aperto all’incertezza, ognuno di noi soffre la condizione umana che è, precisamente, una condizione di fede, perché ci rende capaci sempre di più di qualcosa d’altro; perché l’uomo non è mai finito. É infinito, non finito. Questa capacità di qualcosa di più, questa apertura verso la trascendenza: questa è la fede.

Siamo esseri intelligenti, pensiamo e cerchiamo di avvicinarci al mistero, di formularlo di una forma o in un’altra, di articolarlo in modo che sia comprensibile anche agli altri e anche a noi stessi, in tanto in quanto può essere comprensibile: questo sarebbe la credenza.

La fede, perciò, non può rimanere mai in puro silenzio, ignuda, e quando si formula si esprime nelle credenze. É san Tommaso ad insegnarci: l’atto di fede non finisce nella proposizione, nelle dottrine, nelle formulazioni, nei dogmi, ma nella cosa stessa, nel mistero finale della cosa stessa. L’atto di fede non è degli enunciati. I dogmi sono canali che ci indicano la direzione per poter intravedere e alla fine arrivare.

La domanda è se c’è un’unica strada. C’è un bel verso in una poesia di Machado: "non c’è cammino, il cammino si fa nel camminare". Ciascuno di noi, fortunatamente, è una strada unica e differente. Anche la vecchietta analfabeta, che sta recitando il rosario e sa che Cristo è morto per lei.

Tradotto un po’ più accademicamente vuol dire che per te stesso, per la tua unica esistenza c’è un cammino che è esclusivamente il tuo. Quando domandiamo se ci sono molte strade, cominciamo già a cadere nella trappola dell’oggettivazione: ognuno ha, è, una strada. Io non devo imitare Cristo, perché egli non è un modello da imitare. Io devo caso mai trasformarmi in Cristo, ed egli è una realtà da mangiare. Ma nell’Eucarestia io non imito e non mi trasformo in Cristo: se sappiamo cosa vuol dire mangiare, è Cristo che si trasforma in me e dunque la trasformazione è mutua.

Se perdiamo la dimensione mistica della realtà, tutto diventa allora oggettivazione, idee, dottrine che si possono discutere, ma che lasciano il cuore vuoto e la mente sempre insoddisfatta.

É la stessa cosa quando uno comincia a domandare: perché mi ami? Se io posso dare un perché, perché ti amo, non ti amo più; amo le ragioni dell’amore. Ti amo perché sei bella? Il giorno che smetti di essere bella, non ti amo più. Ti amo perché sei buona? Il giorno che me ne fai una, divorzio. Ti amo perché sei ricca? Se arriva la sfortuna, ti saluto. Se c’è un perché a qualsiasi atto umano reale non viviamo autenticamente, viviamo per il perché, per le altre cose: è l’inizio dell’alienazione dell’uomo.

In un recente convegno ad alto livello tra filosofi e teologi "credenti" e "non credenti", nella mia prolusione, dicevo che in ogni atto di conoscenza c’è allo stesso tempo la conoscenza dell’inconoscenza. Si conosce che non si conosce, che la conoscenza è limitata: perché nell’atto del conoscere c’è, allo stesso tempo, l’atto di non conoscere che riguarda ogni atto di conoscenza e viceversa.

Il secondo tema in discussione nel convegno era: Le confessioni di un agnostico. Io dissi che la differenza tra credenti e non credenti è una distinzione di potere. Ci sono quelli che credono in A e quelli che credono in B. Io credo in A e penso che quelli che credono in B sbaglino, ma la mia credenza, cioè A, non può essere il criterio per giudicare l’altro. Questo ricorda ancora il british/non british, white/non white. Ci sono diverse credenze e, in quanto credenze, possiamo discutere e io sono disposto a difendere razionalmente e con molti altri argomenti e atteggiamenti la mia credenza, e l’altro, da parte sua, fa la stessa cosa. Ma il credente in B è così credente come quello in A.

Quindi, c’è un’unica strada? Sì: c’è un’unica strada, ma unica per ciascuno. Anche qui Tommaso d’Aquino ci serve, quando dice che la coscienza personale è l’ultimo criterio per l’autenticità delle decisioni di una persona. Tante strade quanti uomini. Chi sono io per giudicare la strada del prossimo, quando sta scritto che io non devo giudicare il mio prossimo?

Se la teologia è teologia vivente, qualcosa di integrante e non soltanto una zuppa di cervello per discutere su dottrine, ma è quello che dà un atteggiamento cosciente ed intelligente alla nostra vita, non posso lasciare tutto ciò da parte e dire: costui non è d’accordo con me, quindi sbaglia. Io sbaglierei se seguissi quel cammino, che non è per me, ma non tutti i cammini sono per tutti i camminanti.

L’umiltà è una virtù intellettuale che appartiene anche all’attività teologica. Tutti siamo in ricerca perché tutti siamo in cammino e il vero cammino della fede è il cammino, sempre, verso lo sconosciuto. Gregorio di Nissa commenta l’atto fondamentale della fede delle tre religioni adamiche: Abramo che lascia la città dei suoi antenati, dove da tempo immemorabile era vissuto. Abramo lascia la città con tutta la famiglia, i beni, i cammelli, le donne, gli schiavi e le pecore per andare verso la terra che Jahweh, lui dice, gli ha promesso; si strappa di là per ubbidire alla voce di Jahweh: "e allora Abramo ebbe la convinzione che aveva udito la voce del vero Dio, perché non sapeva dove andava".

Questo è il vero camminare. Altra cosa è prendere l’autostrada e andare a Milano; questo non è camminare. Clemente d’Alessandria descrive la fede come l’audacia della vita; e audacia vuol dire rischio e tante altre cose. Quindi, la questione deve essere: io, sono sulla strada dritta? A questo devo rispondere.

Monsignor Tessier - vescovo di Algeri - definisce così la missione: due uomini che si incontrano, che si scambiano le loro speranze, le loro attese e i doni che hanno ricevuto da Dio e camminano insieme nella direzione verso la quale Dio li ha condotti. Manca qualcosa?

Conoscete la discussione tra Pietro e Giovanni; Cristo dice: tu pensa alla tua coscienza e non occuparti di quella degli altri. Forse mancherebbe sottolineare il rispetto dell’altro. Ritenere l’altro, in quanto altro, un pagano, un non credente, non può mai essere una strategia diplomatica o un atto di condiscendenza per la convivenza. Dio, davanti ai peccatori e ai giusti, non fa queste discriminazioni. Questo dunque aggiungerei al bel paragrafo di Tessier.

É necessario lo scambio, il dialogo, la fiducia che la verità si fa precisamente nel dialogo, nello scambio, perché l’uomo non è un essere dialettico ma dialogico. Il dialogo è essenziale alla vita umana - noi non siamo monadi chiuse in un narcisismo individualista - ma anche alla cultura e alla religione. Noi non siamo i padroni della realtà, le religioni non hanno il monopolio della religione.

Che poi ci siano altri problemi di tipo dottrinale, di teologia cristiana o musulmana o di altro tipo, è cosa evidente: ma se noi parliamo a questo ultimo livello esperienziale, vitale, reale, non possiamo confondere quest’ultimo dramma dell’essere umano con tutte le nostre categorie di un altro ordine.

 

 É possibile nella diversità di cultura, rimanendo diversi, fare la strada verso il divino, verso Dio o verso il Cristo?

La società moderna si trova in fermento, in crisi, e la società italiana lo è in forma straordinariamente vivace e che vista dall’interno fa soffrire, ma, vista dall’esterno ha una irradiazione affascinante. Voi qui formulate in forma cruda quello che in una forma assai farisaica, piuttosto ipocrita, si formula in altri Paesi e non si dice. Qui si dice e si butta tutto fuori: ciò fa soffrire, ma allo stesso tempo ha una funzione catartica straordinaria: non c’è repressione o ipocrisia. Tutte le questioni di questa società moderna escono fuori, si vedono e se ne soffre e si discute e questo, per lo meno, è molto realistico. Quindi c’è un fermento culturale, non c’è una cultura unica. Ci sono sub-culture, ci sono tanti mondi che si incrociano gli uni con gli altri; non c’è bisogno di andare in Thailandia o in India, è sufficiente il tuo vicino, forse tuo figlio, forse mio fratello.

Evidentemente la cultura non è qualcosa di monolitico, è plurivalente, multiforme, ma forse non è soltanto un sistema ideologico. La nuova generazione ha un’ideologia diversa dalla generazione dei genitori: ma la cultura è qualcosa di più profondo.

 

Mi spiego con due episodi. Verso gli anni cinquanta, in una università del sud dell’India, venne un giovane ricercatore occidentale a parlarci della filosofia europea. Eravamo tutti seduti per terra, coi turbanti, e io stavo là come uno di loro, vestito all’indiana. Ci parlò di Heidegger, Husserl, Nicolai Hartmann, Sartre e Camus, persone quindi atee. E mentre ascoltavo pensavo tra me: costui è un missionario raffinatissimo, costui è uno stratega che, sotto sotto, instilla a piccole dosi un cristianesimo purissimo. Parlava come un cristiano intelligente.

Dopo ci siamo conosciuti e siamo diventati amici. Questa persona non è cristiana, è di origine ebrea, ma disdegna i suoi antenati, non ha nessun interesse per la religione e la teologia. É filosofo della forma più positivista che si possa immaginare, è intelligente, ha studiato questi autori, non crede assolutamente nella trascendenza in nessuna forma, ma quando parla in un altro ambiente, in un’altra cultura, tutto suona cristianesimo puro. Prova quello che aveva detto Karl Jaspers, che tutti noi occidentali siamo cristiani. Quindi ci sono culture diverse, ma in Occidente, per fortuna o sfortuna, i più irriducibili avversari del cristianesimo sono cristiani e non ne possono uscire. Il cristianesimo sta nei loro archetipi, nelle ossa, senza essere clericalismo. Tutto sta a vedere che cosa si intende per esistenza cristiana.

Il secondo episodio. Un signore svizzero era disperato perché tutte le sue teorie sull’educazione e la pedagogia avevano fallito con i suoi due figli. Non ricordo cosa gli dissi mentre mi accompagnava da un aereoporto ad un altro posto, ma l’anno successivo ci tenne ad accompagnarmi di nuovo e allora, con le lacrime agli occhi, ricordava quello che gli avevo detto e che, povero me, io non ricordavo; mi voleva ringraziare e mi diceva: "ho scoperto che mio figlio racconta a sua figlia le stesse storielle che io avevo raccontato a lui". Quindi, non tutto è visibile in un solo momento: la realtà cammina sotto fiumi molto più profondi.

Più che culture diverse, ci sono sub-culture, specie diverse della cultura più che bimillenaria che esiste in Occidente. La cultura è qualcosa di più di un’ideologia, perché gli archetipi profondi nell’anima di ciascuno formano la cultura più che le idee che uno ha. Non mi scandalizzerei dunque troppo di questa diversità culturale nel mondo attuale, perché tutta l’umanità, e l’umanità occidentale in forma speciale, oggi si trova in un momento di mutazione culturale, e uno dei grandi problemi è che l’aspetto intellettuale della religione a volte non segue questo stesso ritmo.

Una delle funzioni della teologia è di capire questo mondo che è in via di trasformazione. Quindi certamente la cultura può essere molto diversa in tutte le sue manifestazioni e le sue forme, anche se gli archetipi occidentali sono ancora assai forti e potenti (lo si può notare andando a vivere e a fare esperienza in profondità di un’altra cultura). Ogni cultura è una galassia, ogni cultura è un mondo a sé stante, ogni cultura produce anche i suoi criteri di verità, e quindi non è un’operazione corretta passare da questa ad un’altra cultura portandosi dietro tutti i paradigmi di turismo culturale o intellettuale o filosofico. Dal voler interpretare con i miei parametri, con le mie categorie ciò che vedo fare da altra gente nascono i malintesi profondi, e tante volte tragici, tra le diverse religioni. Questo è metodologicamente sbagliato, filosoficamente erroneo e teologicamente infecondo.

Potrei ora dire alcune cose circa la relazione tra cultura e religione, in tre punti:

- ogni religione è un fatto culturale. Le religioni non sono nate e non vivono in terra di nessuno: Israele o India, Africa o Grecia hanno una cultura che sviluppano, che interpretano, che assimilano, che formulano in una forma o in un’altra.

- ogni cultura è anche un fatto religioso. Ogni cultura ha la sua nascita da una visione, da un inizio che è qualcosa di definitivo, di finale, di trascendente, è un fatto religioso, un fatto ultimo.

- la cultura offre alla religione il suo linguaggio. Senza la cultura greca, per esempio, il cristianesimo non si sarebbe formulato o si sarebbe formulato con un altro linguaggio. Le categorie fondamentali con le quali il cristianesimo si è autocompreso e autoformulato sono quelle precristiane ed elleniche, molto poche sono le categorie, i parametri, i concetti ebraici. "Natura", "persona", anche "Dio" sono parole di un’altra determinata cultura.

Alla metà degli anni cinquanta l’Associazione Teologica Indiana, che raggruppava tutte le confessioni cristiane, tenne una riunione nel nord dell’India, in un posto di difficile accesso. I tre o quattro relatori non arrivarono. Erano presenti almeno una decina di lingue indiane e praticamente tutte le confessioni cristiane. Allora, dopo che si seppe che nessuno sarebbe arrivato, io ebbi un’idea e dissi: siamo d’accordo che "tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivo" (Matteo 16, 18: la confessione petrina) è (parlando indiano) un mahâvâkya, cioè una formulazione sostanziale di che cosa sia il cristianesimo? Se sì, allora ripetiamo questa frase in teleghu, in malaialam, in tamil, in gujarad, in hindi eccetera:

- Dio. Che nome vogliamo usare per dire Dio? Non diremo un Dio falso, non diremo Shiva. Allora, cosa diremo? Ci deve essere un nome. Diremo Vishnu, o Varuna, o Rudra o il Signore? Se diciamo Dio in inglese, gli altri diranno che questo è il vostro Dio, non è nostro.

- Figlio di Dio. Oh, ma per l’immensa maggioranza delle religioni indiane tutti siamo figli di Dio e figli diretti di Dio, perché Dio non ha intermediari. E allora? Diremo figlio speciale di Dio? Altrimenti non sarebbe figlio di Dio?

- Cristo è una parola greca. Che vuol dire Cristo? É il Messia, ma che vuol dire Messia? Vuol dire quello che viene? Noi non aspettiamo nessuno. Quindi, "il desiderato delle montagne" qui non va. Allora diremo l’unto: tu sei l’unto di Dio, figlio unto di Dio. Ma tutti protestano perché non è quello che vogliono esprimere: questo termine si capisce troppo bene e tutti diranno di sì, ma non capiranno che si tratta di un’altra cosa. Che cosa?

Fu come una rivelazione. Mi accorsi che l’unica parola che poteva rendere l’idea cristiana, l’unica parola che si può tradurre esattamente in tutte le lingue, è tu. Tutte le altre sono accidenti: figlio, Dio vivo, unto, messia che verrà, che salverà. Tu. Senza questo incontro personale con un tu la religione è morta, la fede non esiste e il cristianesimo sparisce. Questo è il kerigma della fede cristiana.

Ogni religione ha dunque un aspetto culturale: la cultura offre il suo linguaggio, ma la religione offre alla cultura il suo contenuto ultimo, e questo in ogni caso, anche nella cultura più materialista e meno incline alla trascendenza. Sarà questa intuizione ultima che darà a una determinata cultura il suo contenuto. E questo quasi per definizione, in quanto la religione è quello che ci porta a dare un senso alla vita, qualunque esso sia.

 

 É possibile parlare non di una Chiesa, ma di una comunione di Chiese?

Prima di rispondere devo chiedere due cose: cosa si intende per "Chiesa"? E poi: in fondo, non è una tautologia? Ditemi che cosa vuol dire "Chiesa" se non comunione. Non credo che la Chiesa sia un club, di cui hai la tessera, hai pagato la quota d’iscrizione ed hai diritto a tutti i servizi. Se la Chiesa non è comunione, che cos’è?

La Chiesa è la comunione di Dio con tutto il mondo. Non è questo il mistero di Cristo che per amore al mondo stabilisce questa comunione, la più intima che dar si possa, che è l’incarnazione, che è comunione totale? Cristo non è metà uomo e metà Dio, non è nemmeno intermediario, egli è mediatore. L’intermediario è qualcuno che sposta dei beni su commissione, e ti serve per arrivare più in alto e ti aiuta. Tutto questo è molto umano, ma Cristo non è questo, non è un intermediario, è un mediatore. Tutto, completamente tutto, umano, assolutamente tutto umano come noi e totalmente, assolutamente divino (... pure come noi). Cristo è questo Dio in distensione temporale, estensione spaziale e intenzione di cammino. Dio si è fatto uomo, dicevano i padri greci, perché l’uomo diventi Dio. L’essenza della Chiesa è dunque questa comunione, non soltanto in orizzontale tra gli uomini, ma in verticale, con il divino.

Che intendiamo per Chiesa? Sacramentum mundi, come dice il Vaticano II (nell’originale greco è anche più bello, mysterion tou kosmou, il mistero del cosmo).

Se parliamo di un ordine giuridico: questo è un altro discorso, non è il discorso dell’essenza della Chiesa. Uno è il discorso dell’ecclesiologia, un altro è il discorso dell’amministrazione che va rispettato, perché le leggi del traffico, le tasse e tante altre cose permettono la convivenza umana; e la Chiesa, che è anche società, deve avere tutte queste altre cose, e sarebbe irreale pensare che non esistano o che possano essere superflue: l’anarchismo, alla fine, conduce sempre al caos.

Ma, Chiesa, ecclesia, che vuol dire concilium, congregazione, comunione, è tutto un’altra cosa, è un sacramento, un mistero. Nell’ordine giuridico si può parlare della comunione delle Chiese, delle Chiese che stanno in comunione con un’altra. Io non avrei nessuna obiezione, né nella forma singolare, né in quella plurale, ma dovremmo però chiarire di che si parla.

 

 Religione e cultura

C’è una frase di Goethe che forse potrebbe essere come il motto, il lemma della modernità sul tema religione e cultura: "chi possiede Scienza e Arte ha anche la Religione, chi non possiede nessuna di queste due, abbia la Religione" (Wer Wissenschaft und Kunst besitz / hat auch Religion / wer jene beiden nicht besitz / der habe Religion). Tutte le conoscenze sono sottomesse alla critica razionale e questa critica sostituisce le credenze religiose che finora si avevano perché la cultura era cultura religiosa e la religione era la religione di una cultura determinata.

Questa è la frattura operata dall’Illuminismo, che tollera le credenze, spostandole a un piano inferiore e tante volte le ridicolizza. La reazione della religione, in questo caso della religione cristiana, è dello stesso ordine: è di opporsi e di affermare la propria appartenenza ad un piano superiore, non inferiore.

Si stabilisce così un dualismo, che mi pare micidiale, d’una cultura laica da una parte e d’una cultura religiosa dall’altra. E questo ci porta alla situazione attuale della civiltà occidentale. La religione è stata esclusa dalla cultura in quanto qualcosa di normale e di universale. Da un punto di vista esterno, risulta veramente incomprensibile, scandaloso anche, che la religione non si insegni nelle scuole, che non appartenga alla pedagogia, all’istruzione e all’educazione. Sembra che gli uni e gli altri siano d’accordo che la religione è qualcosa di settario, di particolare, di tanto speciale da non poter essere all’ordine del giorno nell’educazione della gioventù.

Che si sia accettato il concetto di religione come setta, che si sia accettato che la cultura scientifica è universale, una ricerca della verità, e che la cultura religiosa è invece dubbiosa, settaria e dogmatica, questo è un fatto che ha accompagnato la storia del cristianesimo degli ultimi secoli.

Guardando dall’esterno ci si chiede: a che cosa ci si riduce, allora, la nostra cultura? A un insieme di conoscenze frammentate, separate l’una dall’altra. Nelle scuole non si insegna il silenzio, non si insegna a aprirsi alla realtà senza preconcetti (che è l’essenza della preghiera), non si insegna ad avere la consapevolezza della contingenza, non si insegna la mistica che è aprirsi a qualcosa con esperienza diretta e che non è né sensuale, né intellettuale, ma che dà la consapevolezza che ci sia un qualcosa di più. Non si insegna tutto questo: che si insegna, allora? A far denaro? La competitività? E poi uno si stupisce che questa società sia quello che è. Sembra che tutto questo sia tabù.

Anche Dio è diventato qualcosa di così partigiano che non si può nemmeno pronunciare. E sia, non pronunciamo il nome di Dio, se il nome di Dio risulta partigiano, ma la religione non si può nemmeno identificare con Dio. Ci sono tante altre religioni per cui il concetto di Dio non ha senso. Quindi Dio non è necessario per essere religioso. Il buddhismo, ad esempio, non ha Dio però è religioso. Dentro la mistica cristiana si relativizza gran parte di questa nostra concezione di Dio. L’ultima forma con cui possiamo arrivare alla conoscenza di Dio è la nescientia, il non sapere.

Ebbene, tutto questo è settario? E la religione non appartiene alla cultura e alla cultura normale dell’uomo? Da qui nasce il divario tra religione e cultura: io sono scienziato, ma poi la domenica, con mia moglie, sì, preghiamo. É una schizofrenia che mette da una parte la scienza e dall’altra parte una cosa che è privata perché gli altri potrebbero esserne disturbati. La religione, invece, è parte integrante della cultura, e ogni cultura è impregnata di spirito religioso.

Forse il problema grave, e dobbiamo domandarcelo, è un altro: non sarà che, a ragione o a torto, abbiamo dato l’impressione, non soltanto ai politici, ma anche alle nuove generazioni, che la religione sia qualcosa di settario, che pretenda un certo monopolio di esclusività? Non sarà che frammentando l’ortodossia in tante piccole formulette, una specie di microdossia che non è eterodossia, abbiamo dato sociologicamente l’impressione che essere cattolico sia essere settario, che essere religioso sia essere irrazionale, che essere pio - come suggerisce anche la stessa degradazione della parola - voglia dire essere un sentimentale, più o meno superstizioso? Non sarà che noi dobbiamo domandarci se non siamo in gran parte responsabili di questa situazione? Vorremmo risolverla toccando gli altri e toccando le cose, senza domandarci se la nostra visione personale non sia già dualistica (sono uno scienziato, ma l’aspetto religioso me lo tengo per me, per i miei momenti di intimità)? Non sarà che abbiamo già accettato che la religione sia solo un po’ di folklore, un po’ di morale (che va bene allo Stato, soprattutto se si spiega che si deve obbedire alle sue leggi), ma che in verità sia qualcosa che è tanto intoccabile per dire che non serve a niente?

Quindi il problema religione/cultura è molto più profondo, è il problema forse del male della nostra civiltà. Una religione che non incida sulla cultura e dunque anche sul modo di mangiare, sulla politica, su tutto, non fa parte della cultura: e allora perde la sua vitalità, serve per quando hai un guaio, quando ti vuoi sposare o quando muori o in momenti simili. Quindi, forse noi stessi abbiamo una concezione della religione priva di vita.

E anche una cultura che non dia posto alla religione perde il suo contenuto vitale e ultimo e allora, ecco, evidentemente, la depressione e tutte le fughe più tragiche di cui siamo testimoni nella nostra società, dal rischio folle di fare pazzie, alle droghe, all’alcool ai suicidi e tante altre cose. Se la religione non ci dà l’allegria della vita e la vogliamo soltanto conservare o tenere nascosta per momenti intimi o per altra cosa, se abbiamo ancora questo rispetto umano che sembra quasi un complesso di colpa, se noi stessi ci lasciamo prendere da questo spirito, allora i frutti sono questi.

Nella teologia ortodossa, il primo attributo della divinità è la bellezza, prima della verità. Dio è il bello, poi, se volete, il vero. Il mio suggerimento è che tra religione e cultura la relazione non possa essere dualista, ciascuno per conto suo, perché così si spacca l’uomo e si vive in una sorta di schizofrenia culturale, religiosa e umana.

Non dimentichiamo che la frammentazione della conoscenza ha portato alla frammentazione del conoscente fino a punti che arrivano già alla follia. Se io voglio essere uno scienziato cosciente che non scrive senza responsabilità devo sapere quello che i miei colleghi hanno scritto, ad esempio, su quella piccola parte della biologia micro o macromolecolare. Diversamente, non sarei onesto, perché non faccio avanzare la scienza che deve accomunare tutta questa enorme quantità di scienziati che sono affascinati da questa ricerca.

Nel mondo ogni giorno le riviste scientifiche pubblicano 52.000 pagine nuove. Io avrei bisogno di 150 anni per leggere la mia piccola parte. Quindi, qualcosa non va in questo sistema. Dobbiamo cominciare a pensare che forse questo non è il metodo per conoscere. Non possiamo dire che scienza e religione siano la stessa cosa. No, le due sono diverse, ma inseparabili perché formano un tutto, ma per avere la visione del tutto noi abbiamo bisogno di un’altra epistemologia e io sarei di nuovo con Tommaso che non conosce l’epistemologia, perché difende una vera ontologia critica di sé stessa, che è cosa molto diversa.

La soluzione sarebbe una relazione non dualista tra cultura e religione.

 

Il terzo occhio

La parola metanoia significa conversione nel senso più profondo. Questa parola così evangelica ha una storia straordinariamente interessante e quasi ironica. Fate penitenza, dicevano le traduzioni dei nostri nonni; poi, siccome questo non è troppo simpatico, non abbiamo fatto penitenza. Diciamo pentitevi, ma non è neanche di moda. E allora i più moderni dicono che metanoia vuol dire convertitevi. Ma conversione a cosa? Gli esegeti ci danno l’idea di uno Spirito Santo dotato di una certa ironia, visto che Cristo non ha scritto niente e l’unica volta che l’ha fatto è stato sulla sabbia.

S. Tommaso cita tre grandi saggi dell’umanità, che non hanno scritto niente: Pitagora, Socrate, Gesù (e Buddha, aggiungo io). E una delle ragioni è perché tutto quello che si scrive si può interpretare in venti forme diverse. Come dicono gli inglesi, anche il diavolo può citare la Scrittura a suo conto. E una delle ragioni è perché scrivere è sempre scrivere sulla sabbia. In secondo luogo, perché il cristianesimo non è la religione del libro, ma la religione della parola, e la parola è qualcosa di vivo che si deve udire: il tu, di cui dicevo, di Matteo (16, 18) è legato alla parola.

Osservate il rapporto che c’è tra traduttore e traditore: tutta la Bibbia è traduzione, tutta la Bibbia è tradizione, tutta la Bibbia è tradimento. É la religione della parola che scopre il Dio vivo, il Cristo vivo, la parola che è fin dall’inizio. Altrimenti si è allora uno scriba, un erudito, un dottore della legge.

 

Metanoia è precisamente il richiamo alla mistica: trascendete il nous, trascendete il mentale, non negatelo. Trascendere il mentale: questa, forse, è la potenza dell’amore e della fede: non negare il mentale, ma tutto non viene dato soltanto nell’ordine del mentale. Trascendere il mentale senza negare il mentale vuol dire precisamente aprirsi a quello che non soltanto i lama tibetani, ma anche i Vittorini della buona Parigi del XII secolo chiamavano il terzo occhio: l’occhio della fede. Forse si vuole da noi che superiamo il mentale, che trascendiamo il mentale, che ci apriamo a questo mistero che non ha nome e che ha tutti i nomi. E allora il 90% delle antinomie che ci rovinano l’esistenza, che ci danno fastidio, spariscono. Allora uno comincia ad arrivare a questa semplicità delle cose fondamentali e anche a questa gioia che, ahimè, tante volte i cristiani hanno perduto, a questa pace e a questo messaggio di gioia, non perché abbiamo risolto nell’ordine mentale tutti i problemi dell’esistenza, ma perché al di sopra c’è ancora un’altra cosa e quest’altra cosa, nel termine più semplice, è precisamente il mistero della vita.

E la vita, qualsiasi esperienza si sia avuto della vita, è sempre una resurrezione. E, allora, uno sta in buona compagnia con il Risorto.

 

 

Da: http://www.il-margine.it/archivio/1995/c6.htm

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