|  |  |   Il pluralismo della verità 
(Raimon Panikkar) - a cura di Paolo Calabrò 
 
	Introduzione di Paolo Calabrò
	
	«The Pluralism of Truth» è un 
	articolo pubblicato da Panikkar nel 1990 sulla rivista di studi 
	interreligiosi «World Faiths Insight». L'articolo non è mai stato tradotto 
	in italiano prima d'ora ed è interessante per almeno due motivi. Il primo è 
	che, pur essendo il pluralismo un cardine della filosofia di Panikkar, 
	questi lo affronta dettagliatamente ben di rado (l'unica eccezione di 
	rilievo è il terzo capitolo del libro La torre di Babele. Pace e 
	pluralismo, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1990), 
	lasciandolo sullo sfondo o sorvolando sulle sfaccettature teoriche, cui 
	preferisce di solito altri temi fondamentali, come il dialogo o la pace. Il secondo motivo è che il 
	pluralismo, oggi, non è più solo una terza alternativa da porre accanto ai 
	più classici monismo e dualismo; il pluralismo è un nuovo sguardo alla 
	realtà che questo tempo ci richiede, se non vogliamo che l'incontro con 
	l'altro, il diverso -- che di fatto è già avvenuto ed avviene sempre più 
	frequentemente nella nostra società globale -- rischi di degenerare ogni 
	volta da incomprensione a scontro.1 
	Il pluralismo è l'atteggiamento che ci spoglia della presunzione di essere i 
	depositari della verità e colloca l'altro sul nostro stesso piano, fiducioso 
	che -- seppur non si arrivi a un'intesa, in sede teorico-dialettica -- sia 
	comunque possibile giungere a un accordo. Il pluralismo è la convinzione che 
	ci possa essere un posto per tutti e che la pace sia possibile (e tutt'altro 
	che utopica) nella misura in cui ci adoperiamo per «fare» questo posto 
	comune. Se è vero che ogni seria 
	dichiarazione di pace deve iniziare con l'elenco di ciò a cui si è disposti 
	a rinunciare, come scriveva Heisenberg un secolo fa, è anche vero che la 
	rinuncia non è sempre qualcosa di doloroso e mortificante: ad esempio, 
	rinunciare al proprio complesso di superiorità e alla imbarazzante 
	convinzione di essere gli unici ad avere ragione mentre tutti gli altri 
	hanno torto, può essere positivo e liberatorio. Il pluralismo non è né una teoria, 
	che codifica in anticipo tutto ciò che bisogna correttamente pensare, né un 
	mero slancio di generosità: come tutte le cose che coinvolgono l'essere 
	umano in prima persona, esso è una prassi che si alimenta a una teoria e una 
	teoria che sfocia in una prassi. Nel presentare ciò che il pluralismo è 
	(soprattutto la sua appartenenza all'ordine del logos quanto a quello 
	del mito) e ciò che non è (prendendo le distanze dal prospettivismo, dalla 
	pluralità, dalla pluriformità e dal relativismo), Panikkar propone un 
	approccio teorico che è qualcosa di più di un semplice modo di pensare: esso 
	è bensì un modo di essere, e di essere «all'altezza delle sfide del mondo 
	contemporaneo». Ho curato la traduzione dall'inglese 
	del testo; le note sono mie. L'articolo, visibile in internet all'indirizzo
	
	http://www.dhdi.free.fr/recherches/horizonsinterculturels/articles/panikkarpluralism.doc, 
	è apparso originariamente su «World Faiths Insight», n. 26, 1990, pp. 7-16, 
	rivista edita dal World Congress of Faiths,
	www.worldfaiths.org. La rivista ha 
	ora un nuovo nome, «Interreligious Insight»:
	
	www.interreligiousinsight.org. Il pluralismo della verità
1. La condizione umana1.1. Panorama geograficoVorrei riflettere sullo sconvolgimento 
geografico del mondo moderno. Fino a un secolo fa l'80% delle persone non si 
spostava di più di cinquanta miglia dal proprio luogo natale. Oggi in Nord 
America ogni famiglia cambia luogo di residenza ogni quattro anni e mezzo. 
Milioni di persone attraversano l'Atlantico. In otto ore si può essere a 
Kathmandu e qui, oggi, si ritrova un'enorme varietà di razze, lingue e 
religioni. Lo sconvolgimento geografico sfocia nel rimescolamento di popoli e 
culture, ma anche in tensioni e conflitti. Ora ci mescoliamo, siamo pronti a 
tollerare l'altro, non ci scandalizziamo più di niente, imitiamo, rifiutiamo o 
siamo turbati ma, dopo tutto, dobbiamo accettarlo e adattarci come possiamo. 
Cerchiamo la nostra strada all'interno di questa giungla di varietà d'opinioni e 
comportamenti d'ogni tipo. Siamo costretti ad avere a che fare con l'altro e 
così, a dispetto delle nostre rispettive maschere (che indossiamo per 
autodifesa), quasi non possiamo fare a meno di provare a capirci gli uni con gli 
altri. 1.2. Il problema della comprensioneIn altri tempi gli uomini comprendevano 
di non comprendersi reciprocamente. Essi comprendevano di non comprendere quei 
tipi esotici, quegli strani costumi e quelle religioni straniere, ma poiché non 
li incontravano ogni giorno, ciò non costituiva una grande sfida. Gli stranieri 
vivevano in terre incantevoli, giungle primitive o ghetti abbandonati, ma sempre 
lontanissimi, geograficamente o spiritualmente. Di quando in quando qualche 
antropologo ci raccontava delle storie, che trovavamo più o meno interessanti, 
simpatiche o irritanti. Le scaramucce avvenivano solo tra religioni vicine, 
spesso colorite di problemi economici e politici, o tra intellettuali 
preoccupati dalle conseguenze della discordia religiosa. Ora i problemi sono sotto i nostri occhi 
e noi abbiamo bisogno di comprenderli. Mi si passi l'unico, filosofico gioco di 
parole in lingua inglese che mi concedo: comprendere vuol dire «stare-sotto» 
alla cosa compresa, essere posseduti dal suo fascino, starne al di sotto in 
ammirazione, magari con scetticismo.2 
È un atteggiamento esistenziale, siamo davvero al di sotto del potere del 
rischioso atto di conoscenza (inter-legere). Come dicono esplicitamente 
le Upanishad e Tommaso d'Aquino (sulla scia di Aristotele), conoscere significa 
identificarsi con la cosa conosciuta. Oggi, a causa dello spostamento di 
significato della nozione di conoscenza, introdotto e diffuso dalle cosiddette 
scienze naturali moderne, il conoscere è stato ridotto alla capacità di 
prevedere, calcolare e dominare. In una parola, noi intendiamo per «comprendere» 
lo «stare sopra». Se noi «stiamo sopra», non facciamo che applicare le nostre 
categorie e sovrastrutture; ciò allo scopo di individuare l'oggetto, non più di 
capire la cosa. È forse necessario aggiungere qui una nota sulle categorie 
kantiane e sulla critica ante litteram di Shankara, con la sua nozione di
adhyâsa (imposizione dall'alto)? Sto solo gettando le basi per indicare 
che c'è un inevitabile problema epistemologico al fondo della nostra questione. Se noi «stiamo al di sopra», come una 
certa «conoscenza» scientifica che si pretende universale, approcciamo alla 
realtà da una posizione sovrastante le cose stesse. Non stiamo in ascolto delle 
cose, obbedendo loro; noi integriamo oggetti all'interno del nostro schema 
mentale. Noi «stiamo sopra» un piano più elevato: Ragione, Scienza, Rivelazione 
o qualunque altra cosa alla quale, ovviamente, «noi» abbiamo un accesso 
privilegiato. L'intelligibilità discende allora da un singolo principio 
superiore. D'altro canto, se comprendiamo davvero riconosceremo umilmente che, 
mentre noi accediamo ad una fonte di intelligibilità, altri possono similmente 
accedere ad altre fonti, o a flussi diversi della stessa fonte. La storia 
dell'umanità ci ha mostrato che l'Uomo ha molti modi di comprendere se stesso. 
Possiamo noi ignorare le diverse autocomprensioni umane e ritenere valida 
unicamente la nostra interpretazione? Possiamo individuare gli oggetti, ma qui 
non abbiamo a che fare con un oggetto, bensì con l'Uomo, la cui natura precipua 
è di essere dotato di autocomprensione, cosicché la conoscenza dell'Uomo include 
la conoscenza delle autocomprensioni dell'Uomo, e non soltanto la conoscenza 
delle nostre interpretazioni di un certo oggetto chiamato anthrôpos. 
Questo è il problema.  All'inizio del secolo, un siciliano 
venne catturato, ammanettato e portato in tribunale. Sembrava fosse innocente, 
ma non proferì al giudice una sola parola in sua difesa. Più tardi, quando 
l'avvocato gli chiese perché non avesse parlato, disse: «Come avrei potuto 
parlare con le mani legate?» Per lui la parola era ancora qualcosa di più del 
mero significato; era gesto. Come avrebbe potuto parlare senza utilizzare 
contemporaneamente la lingua e le mani? 1.3. Una comprensione universale?Abbiamo sofferto e ancora soffriamo 
talmente tanto a causa del fanatismo politico, religioso e culturale, che siamo 
legittimamente assetati di una comprensione universale. Un tipico esempio ne è 
la sindrome del villaggio globale. Pur nobile nell'intenzione, mi sembra solo un 
altro degno successore della mentalità colonialistica. Il colonialismo crede nel 
monomorfismo della cultura, nel senso che c'è in definitiva una sola civiltà: 
«Ed ora ecco l'unificazione del mondo in un villaggio globale. Ora possiamo 
avere una teologia universale che realizzerà un piccolo confortevole buco per i 
musulmani, un altro per i non credenti, ed ognuno sarà felice perché noi ora 
siamo tolleranti, non imponiamo nulla, accettiamo tutto e c'è un posto per 
ognuno. Tutti vogliono una teologia universale basata sull'apertura, la 
tolleranza e l'autocritica». Fin qui tutto bene, ma è così facile essere 
veramente aperti al fanatico, tolleranti con l'intollerante e accettare la 
critica di coloro che non sono d'accordo con la nostra teologia universale? Tuttavia c'è sete di reale comprensione. 
Non possiamo vivere in compartimenti stagni. L'altro diventa un problema proprio 
perché entra nello spazio della mia vita ed è irriducibile al mio modo di 
vedere. Se un estremo è che noi abbiamo ragione e gli altri torto, l'altro 
estremo è che possiamo tutti entrare in un qualche tipo di villaggio globale. Io 
sostengo che non è dato a nessuno di noi di delimitare l'ambito universale 
dell'esperienza umana. In un villaggio ciascuno conosce ogni altro e le diverse 
dialettiche sono note. Sogniamo ancora che una televisione universale porterà 
«comunicazione» reale a 5, 2 miliardi di persone? C'è una inerzia della mente
ben visibile nella maggior parte degli odierni sforzi di trattare questo 
problema.3 Ho l'impressione che 
dovremmo vedere la realtà con uno sguardo radicalmente diverso. Questa è la sfida. 2. PluralismoTra questi due estremi, la parola 
«pluralismo» è emersa sempre di più come istanza di una terza posizione; questo 
è il secondo punto della mia presentazione. 2.1. Pluralismi accettatiEsiste un certo numero di pluralismi 
accettati oggi. Un filosofo può essere un buon filosofo, pur senza essere un 
epigono di Kant o d'un altro. Un filosofo può essere in disaccordo con un altro 
e tuttavia entrambi possono essere considerati buoni filosofi. Il pluralismo 
della filosofia è accettato. Anche il pluralismo teologico è praticamente 
riconosciuto. Infine, il pluralismo culturale è qualcosa di cui ci vantiamo, 
sebbene io non pensi che lo abbiamo raggiunto. Ciò che abbiamo è un certo tipo 
di tolleranza culturale che permette ai greci, ai pakistani e agli zingari di 
conservare il proprio folklore -- ma tutti loro devono pagare le tasse... ed 
accettare le nostre leggi e la nostra costituzione. Siamo in ogni 
caso pronti, teoricamente, ad accettare il pluralismo culturale. Il pluralismo 
religioso, che non può essere reciso dal pluralismo culturale, è probabilmente 
l'ultima e più difficile nozione da accettare. Essa tocca la nostra identità 
personale. 2.2. Preliminari al pluralismoAbbiamo preso coscienza della 
pluralità. È un fatto. Ma pluralità non è ancora pluralismo. Pluralità 
significa riconoscimento di modi, umori, colori differenti. È una nozione 
quantitativa. Un secondo passo è la pluriformità. 
Non ci sono solo differenze, ma anche varietà. Questa è una nozione 
qualitativa. Cominciamo a diventare sensibili alle varietà che non possiamo 
sottoporre a misura quantitativa. Il blu non è il verde e non c'è verso di 
sostenere che il verde sia più gradevole del blu. Non possiamo misurare ciò che 
è migliore, o più gradevole, e ciò dipende dal contesto. Ma questo non è ancora 
pluralismo. Il pluralismo compie un ulteriore passo 
rispetto al riconoscimento delle differenze (pluralità) e delle varietà (pluriformità). 
Il pluralismo ha a che fare con la diversità radicale. Due sono i passi 
che preparano questo passo ulteriore. Il primo passo è il prospettivismo. 
Chi ha familiarità con la favola indiana dei filosofi e dell'elefante nella 
stanza buia, ricorda come uno dei filosofi sostenesse trattarsi di qualcosa di 
simile ad un osso spolpato, mentre gli altri ritenevano che fosse una pesante 
colonna, una grossa scatola, una pelle rugosa e così via. Questo è un esempio di 
prospettivismo. Il prospettivismo è il senso comune. Le persone guardano da 
prospettive differenti, e bisogna rispettarle. La difficoltà risiede, come 
nell'esempio, nel fatto che qualcuno deve sapere che è un elefante. Se c'è 
qualcuno che conosce l'elefante, può dire che uno sta semplicemente descrivendo 
la zanna, un altro la zampa, un altro un'altra parte; ma se nessuno conosce 
l'elefante, come si può difendere il prospettivismo? Chi conosce l'elefante? 
Ovviamente «noi» seguaci del Vedanta, i cristiani, gli scienziati... «noi» 
conosciamo l'elefante! Il secondo passo è la relatività, 
da non confondere con il relativismo. Il relativismo fallisce il suo scopo; il 
relativismo è un agnosticismo che confuta se stesso. Non si può nemmeno sapere 
di non sapere. Se non ci sono criteri per giudicare, neanche il relativismo è un 
criterio. La relatività, d'altra parte, è una cosa molto più seria. La 
relatività ci dice che ogni cosa dipende da un insieme di riferimenti rispetto 
ai quali quel particolare caso, affermazione, situazione o fatto può essere 
espresso ed anche falsificato, verificato o quant'altro. Essa bandisce qualunque 
tipo di dichiarazione assoluta. Ma io arrivo a dire che il pluralismo, nel suo 
senso più profondo, compie un ulteriore passo; ciò che vorrei ancora descrivere 
con un sintetico abbozzo. 2.3. Descrizione del pluralismoProverò a riassumere ciò che intendo in 
sei punti. 
	
	Pluralismo non significa pluralità o 
	riduzione della pluralità ad unità. Che ci sia una pluralità di religioni è 
	un fatto. Che queste religioni non siano riducibili a un'unità di nessun 
	genere è anch'esso un fatto. Pluralismo significa qualcosa di più della pura 
	ammissione della pluralità e della mera illusione dell'unità. 
	Il pluralismo non considera l'unità 
	un ideale indispensabile, nemmeno se questa unità lascia spazio a delle 
	variazioni al suo interno. Il pluralismo accetta gli aspetti inconciliabili 
	delle religioni senza ignorare ciò che esse hanno in comune. Il pluralismo 
	non è l'attesa escatologica che alla fine tutto diventi uno. 
	Il pluralismo non approda ad un 
	sistema universale. Un sistema pluralistico sarebbe una contraddizione in 
	termini. L'incommensurabilità fondamentale dei diversi sistemi non può 
	essere oltrepassata. Questa incommensurabilità non è necessariamente un male 
	minore; essa potrebbe invece contenere una rivelazione della natura della 
	realtà. Nulla può racchiudere la realtà. 
	Il pluralismo ci rende consapevoli 
	della nostra contingenza e dell'opacità della realtà. Esso è incompatibile 
	con l'assunzione monoteistica di un Essere totalmente intelligibile, ovvero 
	con una coscienza onnisciente identificata con l'Essere. Tuttavia il 
	pluralismo non rifugge dall'intelligibilità. La posizione pluralista cerca 
	di raggiungere tutta l'intelligibilità possibile, ma non richiede l'ideale 
	di una comprensibilità totale della realtà. 
	Il pluralismo è un simbolo che 
	esprime un atteggiamento di fiducia cosmica che tiene conto della polarità e 
	della tensione tipiche della coesistenza tra religioni, cosmologie e 
	posizioni umane irriducibili. Esso non elimina né assolutizza il male o 
	l'errore. 
	Il pluralismo non nega la funzione 
	del logos ed i suoi diritti inalienabili. Il principio di non 
	contraddizione, ad esempio, non può essere eliminato. Ma il pluralismo 
	appartiene anche all'ordine del mito. Esso incorpora il mythos, non 
	ovviamente come oggetto del pensiero ma come orizzonte che rende il pensiero 
	possibile. Per esigenza di brevità non posso sviluppare questi punti come mi 
	è stato possibile altrove.4
	 3. Il pluralismo della verità3.1. La verità è al di là dell'unità e 
della pluralitàIl pluralismo non afferma né che la 
verità sia una, né che ce ne siano molte. Se la verità fosse una, non potremmo 
che rigettare la tolleranza di una posizione pluralista come forma di connivenza 
con l'errore. Potremmo, al più, sospendere il giudizio riguardo a questioni 
irrilevanti o discutibili. Ma come possiamo astenerci dal condannare ciò che 
giudichiamo un errore, o il male? Come possiamo rimandare decisioni pratiche, 
tanto più quando già il mero rinvio costituisce una acritica presa di posizione? Ma la verità non è neanche molteplice. 
Se ci fossero molte verità, cadremmo in una palese contraddizione. Abbiamo già 
detto che pluralismo non sta per pluralità, in questo caso pluralità di verità. 
Il pluralismo mantiene un atteggiamento a-dualistico (o advaita) che 
difende il pluralismo della verità in quanto la realtà stessa è pluralistica; 
ovvero incommensurabile sia con l'unità sia con la pluralità.5 
L'Essere in quanto tale, anche se compreso da, o coesistente con il logos 
o una intelligenza suprema, non ha bisogno di essere ridotto alla coscienza. In 
realtà, l'essere si specchia perfettamente nella verità, ma anche se la perfetta 
immagine dell'Essere è identica all'Essere, l'Essere non ha bisogno di venir 
esaurito nella sua immagine -- a meno che non si sia assunto in precedenza che 
l'Essere sia (solo) Coscienza.6 3.2. La verità non ha centroNei circoli teologici vi sono oggi 
interessanti discussioni sul cristocentrismo e sul teocentrismo, ovvero su quale 
altro centro sarebbe meglio individuare come riferimento per la teologia 
cristiana. Nei circoli sociologici ed antropologici, si dibatte di questioni 
come l'etnocentrismo, l'atteggiamento eurocentrico ed il tecnocentrismo. Tutte 
queste discussioni ammettono implicitamente che, ai fini del raggiungimento 
dell'intelligibilità, è necessario che vi sia un centro. Il centro, se c'è, è 
mobile. Io dico ai «cristocentristi» come ai «teocentristi»: «Tu hai ragione!», 
mettendo l'accento sul «tu», il contesto all'interno del quale il singolo 
teologo riflette. Non è necessariamente vero che la verità abbia bisogno sempre 
dello stesso centro. Vorrei raccontare la storia di un saggio 
rabbino che guidava una comunità molto tempo fa. Gli ebrei erano in polemica tra 
loro, così i membri di una delle fazioni andarono ad esporre le proprie 
lamentele al rabbino, che rispose loro: «Avete ragione! Avete ragione!» I membri 
della fazione avversa, avendo appreso ciò, andarono anch'essi dal rabbino a 
spiegare le proprie difficoltà. Il rabbino li ascoltò attentamente e concluse: 
«Avete ragione! Avete ragione!» Ovviamente la polemica riprese da capo. Così gli 
intellettuali e gli scribi della comunità, più addentro degli altri, formarono 
una piccola commissione ed andarono dal rabbino a dirgli, col dovuto rispetto: 
«Maestro, oggi hai detto che una delle due fazioni aveva ragione, e ieri hai 
detto che aveva ragione l'altra. È ovvio che non possono avere ragione 
entrambe». Il rabbino disse: «Avete ragione! Avete ragione!» Chi ha ragione? O 
solo il rabbino ha torto? La relazione tra le tre affermazioni è 
ovviamente dialettica. Ma la relazione tra i due gruppi di persone viventi in 
polemica non è dialettica. Il rabbino vide la completezza relativa di ciascuna 
posizione, sebbene ciò implicasse la mutua contraddittorietà delle affermazioni 
sul piano intellettuale, come rilevato dal terzo gruppo (non coinvolto sul piano 
esistenziale). Ciò che sto cercando di dire è che il 
pluralismo fa il suo ingresso quando scopriamo la mutua incommensurabilità degli 
atteggiamenti umani. È il riconoscimento dell'incompatibilità tra le credenze 
ultime. Dovremmo prendere sul serio le umane esperienze e gli scontri degli 
ultimi 8. 000 anni di storia, in cui ogni fazione riteneva di star facendo la 
cosa giusta, mentre l'altra pensava che non fosse così. Dovremmo ascoltare 
ancora una volta la saggezza di Salomone.7 
Le nostre soluzioni propongono sempre di tagliare il bambino in due, se non 
possiamo tenerlo tutto per noi. La verità, come il bambino, è nostra. Ma 
affinché il bambino continui a vivere, affinché l'umanità continui a vivere, 
affinché la polarità delle realtà umane continui ad essere, affinché la 
buonafede del popolo continui ad essere, affinché la libertà resti la più alta 
dignità, non possiamo giudicare solo in base alla Ragione. Salomone ci ha 
mostrato che il suo verdetto è quello corretto, perché quando interviene 
l'amore, quando il bambino è il proprio, si preferisce perderlo, si preferisce 
addirittura essere calpestati, purché il bambino viva. Io sostengo che la 
situazione attuale richieda che ciascuno di noi possa dire «Non ti capisco molto 
bene, penso perfino che ti sbagli, ma il fatto che ti sbagli non mi dice granché 
sul mio essere nel giusto, o sul fatto che forse anch'io mi sbagli». Abbiamo bisogno di questo rapporto 
reciproco. L'incontro tra fedi diverse non è soltanto affare di dialettica. Esso 
richiede anche amore, dialogo e contatto umano. Apparteniamo gli uni agli altri, 
anche se i nostri codici e le nostre nozioni sono incompatibili. Il raggio e la 
circonferenza si appartengono reciprocamente pur essendo incommensurabili. Il 
pluralismo appartiene alla condizione umana. 3.3. La verità è polareL'intuizione che la verità stessa è 
pluralistica può essere descritta dicendo che nella sua natura è insita la 
polarità. La verità in quanto verità è essa stessa una polarità. Qualunque 
teoria filosofica della verità abbracciamo (corrispondenza, coerenza, 
pragmatistica e simili), una cosa rimane comune a tutte. La verità è sempre una 
relazione, sia essa soggetto/oggetto, o soggetto/predicato, 
conoscente/conosciuto, utilizzatore/utilizzato, ecc. Ce ne sono altre. Uno dei 
termini della relazione, esplicitamente o implicitamente, siamo noi. Uomini. 
Anche se parliamo della verità metafisica dell'Essere o della verità teologica 
della stessa divinità, noi umani non possiamo venir messi del tutto tra 
parentesi. Tanto più nel caso della verità religiosa. Noi siamo coinvolti 
nell'impresa. In altre parole, la verità contiene sempre un elemento di 
soggettività nel senso che noi, gli Uomini, siamo in qualche modo partecipi 
dell'affermazione, dell'entità, del processo, della faccenda che chiamiamo 
verità. La verità è sempre una relazione che fa riferimento a noi Uomini, per 
cui la verità è verità (e non solo oggettivamente vera). Ora, se il giudice sono solo io, o solo 
noi, appartenente ad una cultura con una certa collocazione spaziotemporale, 
questo io o questo noi non può esaurire l'intera relazione. Questo per due 
ragioni: primo, questo io o noi è limitato ed è impossibile sapere se conosca o 
meno completamente l'altro lato in questione. Secondo, il soggetto (io, noi) è 
in se stesso inoggettivabile e senza alcuna garanzia che non cambi. Noi siamo 
uno dei poli della relazione, e non possiamo essere «sicuri» di non cambiare. 
Non possiamo avere controllo su noi stessi che dal polo oggettivo, che a sua 
volta è relazionato a quello soggettivo. Un chiaro esempio ne è la cosiddetta 
evoluzione del dogma. Se i soggetti cambiano le proprie percezioni e i propri 
presupposti, le «verità oggettive» del dogma devono cambiare di conseguenza, 
proprio affinché la relazione possa rimanere costante. Se questo giudice non è «noi» ma un 
intelletto infinito, a parte il fatto che potremmo avere solo un'interpretazione 
umana limitata di questa intelligenza assoluta, non vi è nessuna qualsivoglia 
necessità che questo intelletto infinito conosca tutto l'Essere. Non c'è nulla 
di nascosto ad una intelligenza infinita; essa è onnisciente e, come tale, ciò 
che conosce è la Verità. Si potrebbe anche concedere che essa sia proprio la 
fonte della verità, cosicché questa verità è precisamente ciò che l'intelletto 
divino conosce. La verità sarebbe quindi originariamente dalla parte del 
Soggetto, non subendo condizionamenti da parte di alcun oggetto. Ciò andrebbe 
tanto più a favore di un pluralismo della verità, in quanto la Verità 
dipenderebbe completamente dalla Divina Compiacenza e non vi sarebbe nessuna 
fondazione oggettiva di una «identica» verità permanente o, piuttosto, 
l'identità verrebbe privata di qualsiasi punto di riferimento per affermare se 
stessa come tale. Non potremmo dire se la verità sia una o più. La posizione tradizionale sosterrà ad 
oltranza che la verità è una perché questo intelletto infinito non può cambiare. 
Tale linea argomentativa implica già l'identificazione dell'Essere con la 
Coscienza. Ma questa è un'assunzione gratuita che non consegue dall'accettazione 
di una Coscienza infinita. La Coscienza divina, in realtà, dovrebbe conoscere 
Tutto, ovvero tutto ciò che è conoscibile, ma non tutto ciò che appartiene 
all'Essere deve necessariamente essere conoscibile, a meno che non 
identifichiamo preventivamente l'Essere con la Coscienza. Un'intelligenza 
infinita non ha limiti nel suo ambito: niente le è inintelligibile, ma nulla 
impone che quest'ambito sia totalmente identico alla realtà. In breve, potrebbe 
ben darsi che la Realtà abbia un lato opaco, inaccessibile all'Intelligibilità. 
Nel linguaggio cristiano la Divinità non può essere ridotta ad un Logos 
infinito. Vi «è» anche una Fonte apofatica. Vi è anche lo Spirito, né inferiore 
a, né diverso dal Logos, ma non riducibile agli altri due. La Verità di Dio, il 
logos, per dirlo paradossalmente, non è l'Intero Dio, poiché Dio essendo Verità, 
Logos e Verità infinita, Dio «è» solo questo. «È» Trinità. Potremmo formulare il pluralismo della 
verità in un modo più vicino al buddhismo e allo yoga. Potremmo allora 
commentare il citta-vrttinirodha, o la cessazione di tutta l'attività 
mentale, come nell'inizio dello Yogasûtra, oppure lo àkimcanya âyatana, 
o la permanenza nella non-esistenza, come nel buddhismo primitivo. In entrambi i 
casi il mentale viene superato e l'intuizione ultima si trova al di là della 
dialettica quadripartita (fatta da A, non-A, A e non-A, né A né non-A). La 
verità non è soppressa, ma la sua dimora (âyatana) non è più competenza 
del linguaggio. Sei così stupido da credere davvero che la tua opinione sia 
quella giusta e tutte le altre siano sbagliate?, suggerisce con discrezione il
Suttanipâta.8 Queste ultime considerazioni sono 
soltanto modi di esprimersi di certe scuole particolari. E tuttavia quasi tutte 
le teologie, come Ibn 'Arabi ha così significativamente sottolineato con la sua 
teoria dello jam'al-diddayn (coincidentia oppositorum) , 
sono costrette a riferirsi al Divino utilizzando linguaggio antinomico e 
paradossi: la verità di un'affermazione va contraddetta da un'altra affermazione 
ugualmente vera. La verità non può avere un'espressione unica ed univoca, 
rimarca al-chaykh al akbar (il più grande maestro), com'è chiamato dalla 
tradizione. Questo è il punto, secondo noi, che concerne direttamente il 
problema della verità religiosa nell'incontro tra le religioni. Vorrei enunciare 
ora alcuni dei corollari, tralasciando di approfondire l'intrinseca polarità 
della verità ed il fatto che siamo quanto meno parzialmente coinvolti in uno dei 
poli. 4. A mo' di conclusioneIl pluralismo della verità implica, tra 
gli altri, i seguenti corollari: 
	
	La verità religiosa di una 
	particolare tradizione può essere appropriatamente compresa solo all'interno 
	della tradizione che l'ha elaborata. Ciascuna tradizione ha il suo 
	linguaggio.9 
	A partire da un certo sistema 
	intellettuale religioso, è legittimamente possibile criticarne un altro, 
	purché si giunga ad un'area comune nella quale il dialogo e la critica 
	abbiano senso per entrambe le parti. È necessario parlare, almeno 
	parzialmente, la stessa lingua. 
	In ogni dato momento della storia 
	dell'umanità esistono mythoi prevalenti che permettono la critica 
	interculturale e transreligiosa delle opinioni consolidate. Si può 
	agevolmente affermare che il sacrificio umano e la schiavitù siano 
	comunemente e senz'appello ritenuti aberranti. Ma ci sono oggi problemi 
	scottanti che nessun approccio meramente intellettuale dovrebbe minimizzare. 
	A meno di non cavillare sulle parole, la violenza va evitata ad ogni costo? 
	Dio è un'ipotesi necessaria ad un mondo giusto? L'odierno capitalismo è una 
	forza disumanizzante? Possiamo avere le nostre forti opinioni in merito, ma 
	non dovremmo presentarle come «verità» non negoziabili.  Il pluralismo della verità ci apre gli 
occhi, in primo luogo, sulla contingenza: io non ho una visuale di 360 gradi; 
nessuno ce l'ha.10 In secondo 
luogo, e questa è la nozione più audace, la verità è pluralistica perché la 
realtà stessa è pluralistica, non essendo un'entità oggettivabile. Noi soggetti 
siamo altrettanto parte di essa. Non siamo solo spettatori del Reale, ma anche 
co-attori e perfino co-autori di esso. Questa è precisamente la nostra 
dignità umana.  Ritengo che questo breve abbozzo, nella 
sua imperfezione, tocchi un problema essenziale dell'autentica natura della 
Realtà, e che questo toccare la natura della Realtà rimbalzi, per così dire, 
sulla natura di tutte le nostre imprese. Questo terzo millennio del mondo 
Occidentale, che lascia presagire un mutamento nella nostra situazione, esige da 
noi un'idea di ciò che significa essere umano, di ciò che significa 
essere divino, di cosa sia il mondo in cui viviamo e del quale 
condividiamo la responsabilità. Copyright © 2008
Raimon 
Panikkar Raimon Panikkar. «Il 
pluralismo della verità». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia 
[in linea], anno 10 (2008) [inserito il 30 luglio 2008], disponibile su World 
Wide Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [38 KB], ISSN 
1128-5478. 
	Note
		
		Cfr. A. Rossi, Introduzione al 
		testo di S. Calza, La contemplazione. Via privilegiata al dialogo 
		cristiano-induista, San Paolo, Milano 2001, p. 13: «Il secolo appena 
		cominciato sarà il secolo dell'«altro». Se le culture umane hanno potuto 
		vivere finora in un relativo isolamento, d'ora innanzi non sarà più 
		possibile. Uno degli effetti dello sviluppo tecnologico è di aver 
		abolito le distanze e di aver offerto agli uomini del nostro tempo 
		l'occasione di incontrarsi. L'altro, lo straniero, colui che chiama Dio 
		con un altro nome e vede il mondo con altri occhi, è già in mezzo a 
		noi»; nonché C. Eberhard, intervento alle pubbliche lezioni presso la 
		Facoltà universitaria Saint Luois di Bruxelles dal titolo «Du l'univers 
		au plurivers de la globalisation. Fatalité, utopie, alternative?», 7 
		marzo 2008, per il quale «non si tratta di un gioco intellettuale 
		gratuito, perché la ristrutturazione del nostro vivere-insieme provocata 
		dalla globalizzazione ci obbliga a riflettere su questi temi» (parafrasi 
		di P.C.). 
		
		Difficilmente traducibile in 
		italiano. Letteralmente: «understand» («comprendere»); «under» 
		(«sotto»); «stand» («stare»). 
		
		Per Panikkar «l'inerzia della 
		mente è superiore a quella della materia»: R. Panikkar ed al., Pace e 
		disarmo culturale, l'altrapagina, Città di Castello (PG) 1987, p. 
		11. 
		
		Per la nozione di «mito», 
		termine tecnico della filosofia di Panikkar, cfr. ad es. R. Panikkar, 
		Myth, Faith and Hermeneutics, 1979 [tr. it. Mito, fede ed 
		ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000]. 
		
		L'advaita (o a-dualità, 
		in italiano) è l'idea della relazionalità, della distinzione senza 
		separazione. Essa è irriducibile al monismo (per il quale tutto è uno) 
		come al dualismo (per il quale esistono sostanze eterogenee e separate). 
		Nella sua visione cosmoteandrica (cfr. Id., La realtà cosmoteandrica, 
		Jaca Book, Milano 2004), la coscienza, il cosmico e il divino sono tre 
		dimensioni della realtà reciprocamente irriducibili. Non c'è l'una senza 
		l'altra, ma non sono la stessa cosa. Cfr. anche Id., Saggezza stile 
		di vita, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI), pp. 
		79-80: «Non esiste nessun Dio senza uomo, nessun uomo senza mondo, 
		nessun mondo senza Dio. Questi tre si appartengono. [...] La vera 
		visione della realtà scopre in ogni essere, in ogni piccola cosa, sia il 
		Divino che l'umano e il materiale. La chiamo visione cosmoteandrica».
		
		
		Panikkar ha spesso riassunto 
		questo risultato dicendo che il Pensiero non si identifica con l'Essere: 
		cfr. ad es. Id., L'esperienza filosofica dell'India, p. 94.
		
		
		L'episodio cui Panikkar si 
		riferisce è narrato in 1Re 3,16-28. 
		
		Cfr. R. Panikkar, «Politica e 
		interculturalità», p. 146, in R. Panikkar ed al., Reinventare la 
		politica, pp. 3-30: «Io non posso dire cos'è l'uomo, senza sapere 
		quello che l'uomo pensa di sé. Ma se io penso che l'uomo sia una cosa e 
		poi trovo l'ultima donnetta dell'ultima isola dell'ultimo arcipelago che 
		ne dice un'altra, la mia antropologia è falsa, perché lei pensa di sé 
		una cosa diversa e lei è tanto uomo quanto lo sono io e, a meno che io 
		non abbia già codificato l'uomo e dica «l'uomo è questo» anche quella 
		voce deve essere ascoltata. Questa è la base filosofica del pluralismo, 
		che ogni essere umano, e molto di più ogni cultura, essendo autori della 
		propria autocoscienza, ci dicono quello che l'essere umano è».
		
		
		«Poiché il testo è tale sempre e 
		soltanto in funzione di un determinato contesto, in che senso è 
		possibile avere affermazioni universali nel momento in cui non esistono 
		contesti universali?»: Id., La realtà cosmoteandrica, cit., p. 
		35. 
		
		«Non esiste certo una 
		prospettiva globale. Ogni prospettiva è limitata, ma esiste sempre la 
		possibilità di uno scambio e anche di un ampliamento di prospettive e il 
		dialogo interculturale mira proprio a questo»: Id., Pace e 
		interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, Milano 
		2002, p. 9. Cfr. anche Id., «Instead of a Foreword: An Open Letter», p. 
		VII, in D. Veliath, Theological Approach and Understanding of 
		Religions. Jean Daniélou and Raimundo Panikkar: a Study in Contrast, 
		Kristu Jyoti College, Bangalore 1988, pp. V-XIV: «Più trasparente è la 
		finestra attraverso la quale vediamo la realtà, meno siamo coscienti 
		che, dopo tutto, stiamo guardando attraverso una finestra. È necessario 
		l'altro per ricordarci della nostra finestra - sebbene io non stia 
		dicendo che tutte le finestre siano ugualmente pulite. [...] Ci sono 
		delle finestre, e qualcuno deve pur assumersi l'impopolare compito di 
		ricordarci del nostro mito - che noi diamo per scontato» (traduzione di 
		P.C.). 
		   Da:
	
	http://mondodomani.org/dialegesthai/rpa01.htm   
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