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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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Raimon Panikkar
Passaggio in Asia


di Mauro Castagnaro

 

Perché il Vangelo ha attecchito poco in Asia? Come superare i "dubbi" che Roma ancora nutre verso i teologi del continente? Le prospettive della riflessione ecclesiale in Oriente esaminate da uno degli esponenti più originali del dialogo tra cristianesimo e religioni asiatiche.

«Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo induista, ma tutto occidentale e tutto orientale. Così come, facendo un paragone irriverente, potrei dire che Gesù non è stato metà Dio e metà uomo, ma pienamente divino e totalmente umano, come afferma il Concilio di Calcedonia». Si presenta così, quando gli si chiede conto della sua storia familiare e della sua fede, Raimon Panikkar. Nato a Barcellona da madre cattolica e padre induista, ordinato sacerdote nel 1946 e incardinato nella diocesi di Varanasi, in India, è famoso come filosofo cattolico impegnato da una vita nel dialogo interreligioso. Di lui, ottantatreenne, colpiscono non solo il viso incredibilmente giovane e sorridente, ma soprattutto le parole, dense di una spiritualità che, mentre si richiama costantemente ai Padri, sembra sempre annunciare il futuro.


«Sono convinto che la grande sfida del terzo millennio per la Chiesa sia l’Asia», dice, «perché il cristianesimo in questa parte del mondo si trova, forse per la prima volta, di fronte a una provocazione metafisica, mistica, di profondità. Il cristianesimo ha avuto grande successo – umanamente parlando – in Africa e America latina, ma non in Asia, perché le culture di questo continente costituiscono una sfida al filone abramico in cui finora esso si è sviluppato. La tradizione abramica è forse la più profonda della storia dell’umanità, ma non è l’unica, e, per avere qualche ragion d’essere al di fuori di essa, il cristianesimo deve rinunciarvi e morire alla sua pretesa di verità assoluta, confidando nella risurrezione. È lo Spirito Santo che dice: "Se vuoi risorgere, muori a te stesso, alla tua occidentalità, che non è tutto". Se Cristo è per tutto il mondo, come io credo, allora il cristianesimo deve ripensare sé stesso in profondità».

  • Ma il cristianesimo può sganciarsi dalla matrice abramica?

«Nel Vangelo è detto: "Voi siete il sale del mondo". Vogliamo che tutto diventi sale o che il pesce e il riso siano più saporiti? Dice Gesù: "Prima di Abramo io ero". Quindi Cristo è nato anche in Oriente, in una forma certo misteriosa, non storica, perché io non nego che Gesù fosse un ebreo, figlio di Maria, venuto alla luce a Betlemme duemila anni fa. Però il Gesù risorto è il Cristo, e in Cristo, come ricorda Paolo, non c’è giudeo né greco, né uomo né donna. Il mistero di Cristo supera le nostre mentalità, anche quella cristiana, e noi cristiani non dobbiamo ridurre il suo messaggio alla nostra misura, appropriandocene».

  • Qual è il contributo specifico che l’Asia può offrire al cristianesimo?

«L’opzione per la mistica, per la terza dimensione della realtà, per il superamento del mito della storia. Bisogna aprire il terzo occhio, come dicevano i teologi del 1200, e non ridurre tutto a un illuminismo con sopra una verniciatura di fede. Questa è la sfida».

  • Con l’opzione per la mistica non si rischia la fuga dai problemi concreti? Le grandi tradizioni culturali e religiose asiatiche non paiono in grado di risolvere gli enormi squilibri sociali del continente.

«Chi ha creato questo divario tra i ricchi e i poveri? Non certo gli asiatici. Forse è vero che l’Asia non si preoccupa del sociale, ma è falso che lo faccia l’Occidente. Chi spende ogni giorno 100 milioni di dollari in armamenti? Un secolo fa il 78% degli abitanti degli Stati Uniti erano agricoltori, oggi lo è solo il 2%, che però potrebbe nutrire tutta l’umanità. Ma non lo fa. Perché non è redditizio. Il messaggio di Gesù è attuale: "Non si possono servire due padroni, Dio e il denaro". Optare per la mistica non vuol dire non optare per i poveri, ma non assolutizzare il sociale».

Le Chiese asiatiche sono davvero ancora troppo ricalcate su quelle occidentali?

«Nelle Chiese dell’Asia c’è un disagio, anche se un po’ inconsapevole. Tutti vogliamo essere cristiani, cattolici, apostolici, romani, ma il vestito ci risulta un po’ scomodo. Tuttavia lo "strip tease" non va bene. D’altra parte anche il Vangelo dice che non serve rattoppare l’abito logoro. La teologia asiatica sottolinea molto la kenosis, l’annichilimento di Cristo. Optare per la mistica significa accettare che la realtà non si esaurisce con la storia. Finora non abbiamo preso sul serio le tradizioni asiatiche, che sono mistiche e metafisiche. E questo vuol dire meditazione, contemplazione, amore, superamento – non negazione – della ragione, che in fondo è il vero significato della metànoia».

 

Nelle Chiese d’Asia ci sono esperienze in cui questo si realizza?

«Ci sono gli ashram cristiani, dove paradossalmente si dimostra che quanto più ci si separa da schemi importati, tanto più si incontrano le radici stesse del cristianesimo. Parlando di contemplazione, infatti, riscopriamo i Padri della Chiesa. Poi c’è la riflessione teologica, soprattutto in Corea, India, Sri Lanka e Thailandia. Purtroppo i teologi asiatici avvertono una sfiducia nei loro confronti, per cui non riescono né osano dire tutto quel che pensano. Oggi è molto importante fidarci gli uni degli altri. Perché devi diffidare della mia fede cristiana se non parlo come te? Magari sbaglio, ma se mi dai un po’ di fiducia, prima sbaglierò meno, poi entreremo in un dialogo nel quale ci correggeremo e feconderemo a vicenda. Ciò vale per le culture, per le religioni e dentro lo stesso cattolicesimo».

La dichiarazione Dominus Jesus pare rivolta ai teologi asiatici, quando critica «le teorie di tipo relativistico che giustificano il pluralismo religioso...».

«Perché c’è questa paura? Se io, come cattolico, credo che la Pasqua è già venuta, e non solo Cristo, ma il mondo è risorto, non dovrei avere paura. Il pericolo del relativismo esiste, ma la vita stessa è un rischio. Solo chi è morto non corre rischi. E il rischio è parte della scelta cristiana: quando gli apostoli lasciarono tutto per seguire Gesù, decisero di rischiare. La fede è rischio, è il coraggio della vita. Certo, poi serve la prudenza dell’autorità. Io ho bisogno che essa mi consigli e mi corregga, ma non ho bisogno della sua sfiducia, perché mi scoraggia; o del suo controllo repressivo, perché non mi fa sentire libero e mi spinge a estremizzare le mie posizioni. C’è una bellissima preghiera di Tagore che dice: «Dio, tu mi hai legato con la mia libertà». Questo è il cristianesimo. E se il teologo non è libero, non è un teologo. Se c’è un dialogo effettivo, si dà spazio alla creatività. Certo, la novità fa paura, ma davanti a una svolta ci vuole "magnanimità", come diceva Gandhi».

 

Come vede la diffusione nei nostri Paesi di nuovi movimenti religiosi che si richiamano all’Oriente, vanno sotto il nome di New Age e sono forse alla base delle critiche postume rivolte dalla Santa Sede alle opere del gesuita Anthony De Mello?

«Come filosofo sono consapevole della fragilità concettuale delle opere di De Mello. Se si prendono queste storielle come una formulazione dogmatica, la Chiesa ha ragione a dire che il risultato è superficiale o fuorviante. Ma se si utilizza la conoscenza simbolica, queste storielle toccano il cuore e forse cambiano la vita. Anche Gesù non parlava con "idee chiare e distinte", ma in parabole. Dobbiamo reimparare la conoscenza simbolica. Non per niente la fede è detta il "simbolo" degli apostoli, non la dottrina. I concetti hanno il loro valore, ma la "concettolatria" è la più sottile delle idolatrie. Non fa riflettere che questo Occidente, considerato così razionalista, abbia reagito tanto positivamente a un uomo che raccontava storielle? Nella New Age si sente un’influenza dell’Oriente sull’Occidente, ma ci siamo mai preoccupati dell’influenza dell’Occidente sull’Oriente? Per ogni mille buddhisti in Occidente, ci sono milioni di cristiani in Oriente, e questo, visto da là, crea problemi. Non si deve aver paura della diversità. In Italia oggi si temono i musulmani, ma in India hanno paura dei cristiani. Dobbiamo liberarci dall’eurocentrismo e dall’etnocentrismo».

Ma che cosa c’è, a suo parere, dietro questa ricerca "a Oriente"?

«C’è un bisogno insoddisfatto di spiritualità, di gioia; c’è la ricerca di qualcosa che tocchi davvero il cuore... A queste domande non si può rispondere esclusivamente con precetti morali o dogmi dottrinali, che a tanti risultano incomprensibili. Non sarà forse uno schiaffo dello Spirito Santo per risvegliare tanti cristiani?».

Se credo di possedere la verità, come posso realizzare un dialogo interreligioso autentico, non diplomatico o irenistico, ma che non sia neppure votato all’eclettismo?

«Io non sono favorevole ai "cocktail di religioni". Condivido la critica al relativismo, ma altra cosa è la relatività, cioè la consapevolezza che qualsiasi affermazione io faccia ha un senso in relazione a un contesto. Io non posso giudicare i testi della filosofia e teologia indiane senza conoscere il loro contesto. Chi pensa di possedere tutta la verità non è tomista né cristiano: san Tommaso d’Aquino afferma che noi non possediamo la verità, semmai la verità possiede noi. Il pluralismo è l’ammissione della mia contingenza, per cui io non ho il monopolio della verità né posso capirla tutta: il mistero di Dio ci supera infinitamente. Il pluralismo è la guarigione dall’assolutizzazione, cioè dall’idolatria. È il riconoscimento della relatività e della bellezza straordinaria di tutte le tradizioni, per cui ciascuno deve seguire il proprio cammino. La Bibbia racconta che quando gli uomini vollero creare una religione unica, un governo mondiale, Jhwh distrusse la torre di Babele. Non serve una sola elefantiaca istituzione, ma piccole capanne, dove possiamo conversare e arricchirci reciprocamente. Eppure la globalizzazione, cui non credono più né i cristiani né i seguaci delle altre religioni ("Un Dio, una patria, un re"), oggi viene proposta dai cosiddetti laici: una democrazia mondiale, un capitalismo mondiale, una Banca mondiale. Qui vedo il senso storico del risveglio dell’Asia: in un continente vittima dell’invasione tecnocratica, forse tocca a quei piccoli gruppi secondo cui la vita ha un’altra dimensione resistere a questa omologazione della realtà e salvare il mondo dalla catastrofe».

 

Raimon Panikkar è autore di una quarantina di libri, tra cui Il Cristo sconosciuto dell’induismo, La Trinità e le religioni del mondo e Il silenzio del Buddha. Per molti anni docente di Studi religiosi all’Università di Santa Barbara, in California, oggi vive in Catalogna. Poche settimane fa ha ricevuto in Italia il "Premio Nonino".
 

Convinto difensore della pace, Panikkar ha affrontato il tema da un punto di vista filosofico nel libro La torre di Babele. Pace e pluralismo (edizioni Cultura della pace, 1990). In esso l’autore polemizza contro quello che definisce "pacifismo colonialista", prodotto dalla "ragione armata" dei Paesi ricchi. Secondo Panikkar, a offrire una soluzione potrà essere soltanto un modello culturale complesso e pluralista.

Gli sviluppi della teologia asiatica postconciliare hanno preoccupato spesso, in anni recenti, la Congregazione per la dottrina della fede, spingendola a mantenere sotto osservazione alcuni autori, quando non a prendere provvedimenti disciplinari. L’accusa, formulata dal cardinale Joseph Ratzinger soprattutto a partire dal 1996, fino al documento Dominus Jesus dello scorso settembre, è quella di un relativismo che negherebbe l’unicità del ruolo di Cristo nella storia della salvezza. 

Tra i teologi asiatici colpiti da misure disciplinari da parte del Vaticano, il più noto è forse Tissa Balasuriya, dello Sri Lanka, scomunicato nel 1997 e riammesso alla comunione ecclesiale l’anno successivo. A suscitare perplessità sono state inoltre le opere di pensatori come Aloysius Pieris, Michael Amaladoss, Samuel Rayan. Anche taluni europei che si sono confrontati con la questione della salvezza nelle religioni non cristiane sono finiti nel mirino dell’ex Sant’Uffizio. L’ultimo caso è quello del gesuita Jacques Dupuis. 

 

 

Da: http://www.stpauls.it/jesus/0104je/0104je40.htm

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