in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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OCCIDENTE DOMINATORE

Achille Rossi incontra Raimon Panikkar

 

 

Raimon Panikkar, lei che è considerato come uno dei più grandi studiosi del dialogo interreligioso oggi viventi, che cosa pensa del problema che sta emergendo drammaticamente in questi mesi e cioè la crescente insofferenza delle masse islamiche verso l’Occidente, una insofferenza che è arrivata fino al terrificante atto terroristico che ha distrutto le twin towers a New York?
Non soltanto le masse islamiche, ma anche quelle indù, buddhiste e le masse in genere mostrano insofferenza dinanzi al dominio di una sola cultura, di una sola nazione e adesso di un solo stato. Perché parla esclusivamente di islamici?

Perché alcuni loro capi fanatici hanno dichiarato guerra all’America e all’Occidente.
Posta così, la domanda è tendenziosa: costringe a difendere o attaccare l’Islam o l’Occidente, accettando le regole del pericoloso gioco di contrapposizione che ha preso inizio nelle ultime settimane. Tutte le masse, non solo quelle islamiche, provano tale insofferenza. Esse avvertono lo scandalo di una società, quella occidentale appunto, realmente potente e apparentemente felice, che è riuscita a costruire un modo di vivere senza Dio: Dio è una ipotesi superflua. E queste masse si rendono conto, probabilmente in maniera piuttosto incosciente, che questo rappresenta uno scandalo nei confronti della loro fede, perché Dio non può essere assente da nessun affare umano. Non voglio naturalmente difendere l’integralismo, ma sottolineare soltanto il contraccolpo provocato in certe culture dal successo di una civiltà totalmente atea.

In Occidente l’Islam viene qualificato come la religione dell’intolleranza e identificato con la jihad, la guerra santa; alcuni addirittura ne traggono pretesto per proclamare l’impossibilità di integrare gli islamici nella cultura occidentale. L’Islam corrisponde davvero a questa descrizione oppure siamo di fronte a una caricatura?
Le caricature non sono completamente sbagliate. Io però potrei fare la stessa caricatura nei confronti del cristianesimo: storicamente il cristianesimo è stato più intollerante dell’Islam. Questo è un fatto accettato da tutti.

Però gli elementi dottrinali delle due religioni sono differenti: l’Islam predica la jihad, il cristianesimo il perdono del nemico. Queste differenze, secondo lei, sono solo apparenti o esistono realmente?
Anche nel Vangelo Gesù dice: non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Come queste parole di Cristo, anche il termine jihad deve essere interpretato: può significare crociata e può significare lotta interiore contro il male. Io non sono un ulema per parlare con sufficiente autorità dell’Islam, ma non posso negare che la jihad sia stata interpretata come una giustificazione della guerra santa.

Il fatto che nell’Islam non ci sia una netta distinzione tra diritto e religione, tra religione e politica, crea una difficoltà reale nei rapporti con l’Occidente. È possibile essere pienamente fedeli all’Islam e nello stesso tempo adottare il principio della laicità dello stato?
Nell’Islam la distinzione tra sacro e profano non è stata sufficientemente sviluppata, perciò i musulmani si trovano in questa situazione. L’Islam non ha potuto operare tale distinzione, perché negli ultimi secoli, a ragione o a torto, si è trovato sempre pressato dall’Occidente. Per conto mio, mi sento abbastanza indiano per non condividere né la visione monista né quella dualista della realtà: un potere ecclesiastico sopra tutti i poteri è tanto negativo quanto l’autonomia etica o uno stato completamente separato dalla sfera religiosa. Non si può frantumare la vita, occorre trovare una forma che accetti le distinzioni senza cadere nella separazione. Non è un caso che in duemila anni la cristianità abbia lasciato nell’ombra la Trinità: la Trinità è pura relazionalità e dunque un ostacolo alla giustificazione teologica del potere unico e assoluto della monarchia.

Quando si parla di laicità dello stato non si vuole stabilire una frattura tra vita e ispirazione religiosa. Si vuole soltanto sottolineare che lo stato non sposa una religione ben precisa, consacrandola come religione dello stato.
Si è fatta della religione una caricatura, fino a ridurla a un’altra ideologia e a un’istituzione. A quel punto, evidentemente, lo stato non può sottoscriverla perché anch’esso è un’istituzione. Qui comincia già la degenerazione del religioso: la religione non è un’istituzione, ma una dimensione umana. Che poi si sia istituzionalizzata è tutto un altro paio di maniche. Proprio per questo nelle religioni non monoteiste, come ad esempio l’induismo e il buddhismo, simili problemi non si pongono.

Secondo le tradizioni orientali, allora, come si può coniugare la vita civile con la presenza di una pluralità di confessioni religiose?
Senza nessuna difficoltà: le confessioni religiose sono e devono rimanere confessioni religiose.

E questo è il principio della laicità dello stato.
No, perché lo stato reclama autorità sopra tutte le manifestazioni esterne dell’individuo.

Lo stato assoluto, non lo stato contemporaneo!
Se in Francia tu metti in dubbio il processo di Norimberga commetti reato. In questo senso, quindi, non si può parlare di laicità dello stato. Tutte le cose si spiegano attraverso la loro evoluzione storica: dopo il cesaropapismo e le teocrazie era ovvio, naturale e sano che arrivasse questa reazione della laicità dello stato. Ma oggi, dopo due secoli, possiamo cominciare a pensare che questo non sia un dogma incontrovertibile.

Come viene recepito l’Islam in India, in un differente contesto culturale? Anche lì non dovrebbero essere state sempre rose e fiori. Quali difficoltà incontra nella società indiana?
I musulmani, a differenza degli inglesi che vi si sono introdotti dolosamente, sono entrati in India come conquistatori, quindi già con il piede sbagliato. La storia del rapporto fra India e Islam non è stata mai troppo pacifica, a cominciare dall’instaurazione del sultanato di Delhi fino all’enorme trauma della divisione con il Pakistan, che è costato due milioni di vittime. Tuttavia le relazioni umane fra indù e musulmani sono sempre state in genere molto buone. In India non c’è una chiesa, ma ci sono il popolo e le tradizioni; e siccome tutto resta a livello di relazioni interpersonali, la convivenza pacifica è molto più semplice.

Quando si parla di fondamentalismo in Occidente si pensa subito agli islamici, quindi agli uomini-bomba palestinesi, ai terroristi algerini e adesso ai talebani. In cosa consiste esattamente per lei, come storico delle religioni, il fondamentalismo: è un’espressione tipica dell’Islam oppure una degenerazione dell’atteggiamento religioso universale?
Fondamentalismo significa avere alcuni fondamenti, punti fermi imprescindibili, senza i quali si pensa che la vita non abbia senso. Bisogna vedere però a che livello uno ponga questi fondamenti, quale importanza attribuisca loro. Tutti siamo dunque in qualche modo fondamentalisti. Personalmente mi sento più minacciato e sono più critico nei confronti del fondamentalismo cristiano che non di quello islamico.

Perché?
Perché è più sottile, più intelligente, più pericoloso e ha più denaro. Invece che di fondamentalismo però preferirei parlare di fanatismo, che è l’assolutizzazione di una sola religione, di una sola cultura, di una sola forma di vita. Proprio per questo chi non conosce altre religioni all’infuori della propria ha la tendenza ad assolutizzare e a diventare fanatico. E quando un popolo vive per lungo tempo in isolamento tende a considerare la propria forma di vita come assoluta.

Lei è un sostenitore del dialogo fra le culture e della fecondazione reciproca. Altri studiosi teorizzano invece lo scontro fra le civiltà e gli avvenimenti di questi ultimi giorni sembrano dare ragione a loro. Quale atteggiamento bisognerebbe assumere per realizzare un dialogo vero?
Gesù non ha escluso nemmeno Giuda dall’ultimo banchetto. Perché allora non allestire un banchetto a cui invitare anche gli islamici per dialogare? Per me il dialogo non è una strategia diplomatica, ma appartiene semplicemente alla natura umana.

Come evitare lo scontro di civiltà di cui parla Huntington?
Dialogo e interculturalità costituiscono l’imperativo morale più importante della nostra epoca. Ognuno deve cominciare a capire che l’altro, il quale è portatore di idee per lui incomprensibili e inaccettabili, costituisce la rivelazione della sua contingenza, della contingenza di tutti gli individui e di tutte le culture.

Quali sono le condizioni per realizzare un fecondo dialogo interculturale?
Innanzitutto non bisognerebbe sentirsi autosufficienti. Se io mi considerassi autosufficiente, che sarebbe il primo passo verso l’assolutismo o l’assolutizzazione delle mie idee, non avrei bisogno dell’altro: ti rispetto, ti amo anche, dunque ti lascio percorrere indisturbato il tuo cammino. Questa è la concezione del Dalai Lama, il quale ritiene che le religioni siano linee parallele che procedono senza incontrarsi mai. Io penso invece che le religioni, come dimostra la storia, si incrocino continuamente, non necessariamente in maniera violenta; certamente però non sono linee parallele. L’esperienza deve farmi capire che io non sono autosufficiente e che in qualche modo ho bisogno dell’altro per completare o riconoscere meglio me stesso. In questo senso il dialogo è necessario.

Sul principio molti sono d’accordo, ma come tradurlo in pratica?
Come prima condizione, non sentirsi autosufficienti, né individualmente né come popolo. In secondo luogo, scoprire se stesso nell’altro: scoprire nello straniero parte di me stesso. Se io scoprissi nell’altro una parte di me, sarei più curioso di scoprire cosa pensa, cosa sente, proverei una forte spinta a conoscerlo. E non si conosce se non si ama e viceversa. Da tutto questo ovviamente nascerebbe il dialogo, la conversazione, lo scambio. Vorrei ricordare ancora un altro atteggiamento fondamentale: l’arte di saper ascoltare, che non è facile. Per capirti devo capire ciò in cui credi, e se non credo in qualche modo a ciò in cui credi non ti capisco veramente. Prendo un esempio dall’attualità di quest’ultimo periodo. Se io pensassi che i sostenitori del libero mercato sono solo esseri cattivi, egoisti, in malafede, non arriverei mai a comprenderli, a incontrarli. Anche in ciò che apparentemente ci ripugna c’è qualcosa da capire, su cui dialogare, con cui arricchirsi, a cui andare incontro.

 

 

Da: http://www.il-margine.it/archivio/2002/t3_4.htm

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