in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Sono indù ?

Raimon Panikkar

 

1.

 

Spesso mi hanno domandato di parlare senza ambiguità e dire con chiarezza se io sono un indù oppure no. Comprendo lo spirito cartesiano che suggerisce una simile domanda. Solitamente la domanda è così indiretta e dialettica che passo un brutto momento prima di poter dare una risposta sensata, e quella non mi mette perfettamente a mio agio. Ma intendo provare a darne una in queste pagine.

Comincerò con il sottolineare tutta la violenza, il più delle volte inconscia, delle domande così brusche e di tanti questionari che costringono a entrare nell’abitudine di colui che pone la domanda, stabilendo le condizioni e le categorie da utilizzare per costringere nel campo generalmente stretto dell’inchiesta. C’è un dialogo memorabile di Buddha in cui dice a un monaco inquisitore che dovrebbe starsene tranquillo poiché lui, il monaco Radha, non conosce ciò su cui interroga (allorquando vuole sapere, a partire dalla sua costruzione mentale, se il nirvana esiste o no).

Ma una volta che la domanda ha infranto l’innocenza, la domanda permane – e noi non dovremmo eludere la risposta.

Se la persona chi mi interroga è cristiana, so molto bene che se rispondo di sì, ne dedurrà che non sono cristiano – e se è al corrente che sono un prete cattolico, presumerà che sono un apostata, che non sono più cristiano.

Se dico "no", non sarei sincero e questa non sarebbe più una vera risposta.

Lo spirito occidentale, che ha impregnato la mentalità cristiana, è generalmente dominato (non riesco a trovare un termine migliore) dal "sacrosanto" principio di non-contraddizione (è il caso di S. Tommaso d’Aquino), secondo cui, se confesso di essere indù non posso essere cristiano, presumendo che i due siano contraddittori. Ora, si può comprendere meglio che se la domanda è stata lanciata in modo polemico, non avrei tempo per spiegare che vi sono differenti maniere di pensare e che il mondo intero non appartiene al ceppo abramico, d’altro canto così straordinario. Nella pura logica c’è perfetta contraddizione tra essere indù ed essere non-indù, ma non necessariamente tra un indù e un cristiano, nemmeno, strettamente parlando, tra essere e non essere indù, a meno che non postuliamo l’univocità dell’essere e la subordinazione dell’essere alla logica. A è contraddittorio rispetto non-A, ma l’essere, a dire il vero, non si riduce ad A (né a non-A) – non è riducibile ad alcuna algebra (forse anche a nessuna logica).

Da un altro lato, lo spirito asiatico, generalmente, è governato dal primato del principio d’identità. Così, "ciò che io sono", non può essere spiegato attraverso una riflessione su "ciò che io non sono".

Se è un indù a porre la domanda, ciò non sarà più facile per me. So bene che se rispondo "Sì" e so che questa persona è al corrente della mia appartenenza cristiana, immaginerà che io creda che tutte le religioni siano simili e che finalmente, sia una o l’altra non è importante. Presumerà che abbassi tutte le religioni poiché mi pongo al di sotto di tutte.

Se dico "No", nuovamente non sarei sincero.

L’intelligenza asiatica ha la tendenza a trascurare le cause formali e a concentrarsi sulle cause materiali (per dirlo nel gergo filosofico), per cui non è facile, se non ho del tempo per spiegare, citando per esempio la Chandogya Upanishad, la quale si concentra sull’argento di tutti gli oggetti in argento, e sull’argilla di tutti gli oggetti fatti con questa materia – non essendo il resto (anello, tazza, piatto…) che nama-rupa.

 

2.

Cosa sono allora?

A un secondo livello, posso dire che sono un indù perché credo nel dharma (il mio svadharma) e cerco di seguire il mio karma e di dargli forma, rispettando tutte le manifestazioni del sacro, essendo sensibile a certi simboli dell’induismo – insistendo sul fatto che "induismo" è un termine inappropriato e che non può venire determinato da qualche "ortodossia" dottrinale. Sia un murtipujaka che un vedantin, che ha abbandonato ogni rappresentazione, appartengono alla famiglia indù. Ho scritto altrove che ciò che viene chiamata "religione indù" è più un’attitudine esistenziale che una dottrina che ne definisce l’essenza.

Se mi si domandava se ero cristiano, avrei potuto allo stesso modo elaborare una risposta affermativa utilizzando un altro linguaggio ("chi non è contro di voi è con voi"…). Ma non è questa la domanda.

 

3.

 

Ma c’è ancora un terzo livello, più profondo, quello al quale cerco di dare a me stesso una risposta, una volta che la domanda mi è stata lanciata e non sono in grado di scacciarla.

"Sono indù?"

Non è senza intenzione che ho menzionato l’esempio di Buddha. "Chi sono io?" Sento nel mio cuore questa potente parola (rig) del Veda: "Ciò che sono, io non lo so". Come posso allora rispondere alla domanda di sapere se sono indù o no, poiché non so neppure quello che io sono?

Non è il luogo per citare le righe successive dello stesso sloka e darne un’interpretazione nella quale un cristiano potrebbe trovare un’eco del prologo di San Giovanni sul Logos. Ciò che è sufficiente dire qui è che ko’ham?, "Chi sono io?", è un punto di partenza per la conoscenza di sé, per la conoscenza del Sé, non solamente secondo le Upanishad, ma anche secondo Socrate, il quale giunge a dire nell’Alcibiade che la conoscenza di sé ritorna alla conoscenza di Dio, principio che è affermato successivamente da Plotino e ripreso da un buon numero di mistici cristiani. E facendo questa incursione nella tradizione occidentale, intendo suggerire che l’incontro tra le credenze non è impossibile. Ma neppure questo è l’argomento di queste brevi note.

"Sono indù?" è dunque una cattiva domanda, se non so neppure "chi sono io".

A questo punto il "mio" induismo mi viene in soccorso. E dico "mio", non perché abbia qualche diritto di proprietà su di lui, ma perché l’induismo autorizza un’esperienza personale e un’interpretazione personale di ciò che è. E la mia comprensione personale di ciò che è, è la seguente.

In questo pellegrinaggio mortificante e affascinante alla ricerca dell’atman, secondo la maniera che userebbe Shankara per descrivere la ricerca spirituale, è alla sommità della montagna che scopro la risposta: "aham braham", "io sono brahman".

Ho detto "alla sommità della montagna", e lo ripeto. Troppo spesso, una sorta di eclettismo religioso, una certa superficialità religiosa, tendente a farci credere che la via spirituale è una cosa senza importanza, e che si può ottenere un’illuminazione istantanea proprio come si sorseggia una tazze di caffè istantaneo. Mumukshutva, "un’aspirazione ardente alla liberazione", è una condizione necessaria per cominciare una ricerca spirituale. Senza iniziazione, come dicono tutte le religioni, non si può entrare in questo marga (via), non a causa di un qualsivoglia elitismo, ma perché nessuno è veramente in grado di rimettere in scena le intuizioni liberatrici di cui parlano le differenti filosofie. E, sia ben chiaro, la filosofia non è qui il compagno intellettuale del cammino esistenziale verso il fine della vita, quale che sia in base alle credenze, Dio, Brahman, la Giustizia, il Nirvana, il Nulla, o altre ancora. Non stiamo discutendo qui di dottrine. Cerco di compitare quello che io sono, non quello che io credo.

In breve, quanto più vi sono delle ombre di ahamkara, di egoismo/egocentrismo nella mia ricerca, tanto più io non sarò capace di comprendere su che cosa la domanda argomenti. E se non rendo onore a questo mahavakya, certamente finirò per comprenderlo male e deformarlo. Io non sperimento aham brahman se non quando il mio ego è partito, se non è lui a mormorare la frase liberatrice, ma solamente se il soggetto della frase che viene pronunciata è, letteralmente, il soggetto della frase. Aham brahman non è allora, evidentemente, che una tautologia. Non potrebbe essere altrimenti se questa è un’affermazione ultima. Ma è una tautologia particolare, nella quale il mio ego è sparito, ma in cui "io" non è escluso.

E’ qua che vedo la meraviglia dell’induismo che io sposo: non evita di affermare che possiamo raggiungere questa esperienza e che, nell’aham-brahman che solo un brahman pronuncia, noi non siamo esclusi.

Se il mio interlocutore è di umore polemico, il purvapakshin può replicare che non sono un cristiano perché nessun cristiano oserebbe mai dire "io sono Dio". Su questo punto insisto sul fatto che non ho detto "io sono Dio" – ma aham brahman. E d’altronde, un certo maestro, un modello per i cristiani, ha detto "il Padre ed io siamo Uno"e che sono, anch’io, chiamato ad essere Uno con "loro"…Ma non è la sede di riflettere sulla Trinità. Io cerco di rispondere alla domanda per sapere se sono un indù o no. Non rifletto ora sul fatto di sapere se sono un cristiano o no – benché affermo ugualmente, senza alcuna ambiguità, che sono certamente un cristiano.

Potrei proseguire esponendo la saggezza indù, così come la sperimento. Potrei continuare con il mahavakya supremo e spiegare che il tat tvam asi mi rivela che sono il tvam del tat, il "tu" dell’"io" – uguale all’"io" e inseparabile da lui. Ma non ho iniziato queste osservazioni se non per reagire a quella domanda, non per esporre la mia comprensione dell’induismo. Finirei per contraddirmi, dopo aver detto che l’induismo è una attitudine esistenziale e non semplicemente un corpo dottrinale, se scendessi a un livello puramente mentale. In verità, l’induismo comporta numerose dottrine, ma non può essere identificato in alcuna di esse – e direi la stessa cosa del cristianesimo.

Ecco, questo è abbastanza per una confessione.

 

(traduzione di Federico Battistutta)

 

Piccolo glossario

Al fine di agevolare la lettura del testo forniamo di seguito una succinta spiegazione dei termini sanscriti presenti nell’articolo. (N. d. t.)

 

aham braham: uno dei "grandi detti" (mahavakya) indù: "Io sono brahman", uno e identico alla realtà assoluta, fondamento di tutto.

ahamkara: coscienza dell’ego in rapporto agli oggetti interni o esterni; principio dell’individuazione che ha la funzione di unificare i dati della coscienza.

atman: il Sé, nucleo ontologico dell’induismo, la più intima essenza di ogni uomo e di ogni cosa. Deriva dalla radice an, che significa respirare.

karma (o karman): l’azione o la sua esecuzione. Anticamente indicava l’azione rituale, la cerimonia sacrificale e gli effetti che avrebbe arrecato. Più estesamente, è il risultato di tutte le azioni secondo la legge del karman che governa le azioni e i loro risultati nell’universo.

dharma: legge naturale, norma cosmica, consuetudine sociale, dovere, ordine etico, religione. Proviene dalla radice dhar, che significa tenere; è ciò che forma, costituisce e sostiene.

mahavakya: grande detto, espressione che in forma assai concisa esprime nei testi indù il contenuto dell’esperienza dell’assoluto.

marga: strada, sentiero, via. Per estensione, al termine è stato assegnato un significato etico o religioso, passando ad indicare il cammino più giusto o appropriato, come nell’ottuplice sentiero del buddhismo.

mumukshutva: aspirazione ardente alla liberazione (moksa o mukti).

murtipujaka: colui che venera, attraverso riti e cerimonie, immagini e rappresentazioni di una divinità.

nama-rupa: nome e forma; l’unione di designazioni e forme che costituiscono il molteplice del mondo manifesto.

nirvana: letteralmente "estinzione". Ottenimento di una conoscenza libera da illusione (maya) e falsità (avidya). A differenza del buddhismo, il termine è poco usato nel contesto indù.

purvapaksin: colui che obbietta, polemizza, critica. Purvapaksha è la tesi da confutare.

sloka: stanza, strofa, distico epico nella letteratura indiana.

tat tvam asi: un altro grande detto indù: "Quello sei tu". Si afferma l’identità tra atman ( il Sé reale dell’uomo) e brahman (il Sé cosmico). "Questo supremo brahman, atman universale, immensa dimora di tutto ciò che esiste, più sottile di ogni cosa sottile, costante: in verità è te stesso, perché quello sei tu" (Kaivalya upanishad, I, 16).

vedantin: colui che segue il Vedanta, una delle sei correnti (darshana) principali dell’induismo. I principali maestri sono Gaudapada, Shankara e Ramanuja.

 

 

Da: http://web.tiscali.it/no-redirect-tiscali/stellamattino/stella6.htm#22

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