in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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La grazia di Babele
Il pluralismo, oltre il monismo e la dialettica
(Raimon Panikkar)


 

Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sonostate giustamente confuse.
 

 


Testo di una relazione tenuta all'Università di California, a Santa Barbara, nel 1984. Il titolo originale è: "Il mito del pluralismo: la torre di Babele. Una meditazione sulla non violenza". E' stata pubblicata dalla rivista Bozze 84, n. 6, pp. 51-104. Il testo risente dello stile colloquiale della relazione. Alcuni riferimenti all'attualità politica risultano un po' datati, ma la relazione conserva tutta la sua attualità e pregnanza circa la riflessione sul pluralismo.
 



 

"C'era una volta...", dice Genesi 11, (kai, è, dicono i Settanta)...:

… Tutto il mondo parlava una sola lingua e usava le stesse parole. Mentre gli uomini vagavano in Oriente giunsero ad una pianura nella terra di Sennaar è vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro "Venite facciamo mattoni e cuociamoli bene". Usarono mattoni per pietre e bitume per calce. "Venite - dissero - costruiamoci una città e una torre con la cima nei cieli e diamoci un nome, o noi saremo dispersi su tutta la terra".

sono un solo popolo e hanno tutti una sola lingua; questo è l'inizio della loro opera e ora mente di quanto avranno in mente di fare sarà loro impossibile. Ebbene andiamo giù e confondiamo il loro parlare, così che essi non comprendano ciò che si diranno l'un l'altro". Così il Signore li disperse da là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Questa è la ragione per cui è chiamata Babele, perché il Signore rese un balbettare la lingua di tutto il mondo; da quel luogo il Signore disperse gli uomini su tutta la faccia della terra (Gen. l1, 1-9).

 

"C'era una volta..." e ripetutamente si è verificato, più e più volte; i Babilonesi, gli Assiri, i Romani, i Greci, gli Alessandri il Grande e il resto, gli Spagnoli e i Francesi, e gli Inglesi e gli Americani, e i Tecnocrati dei tempi moderni: tutti costoro si sono ritenuti i soli a portare un vessillo con criteri assoluti.

Essi viaggiarono verso l'Est, viaggiarono verso l'Ovest per trovare nuove tecniche, nuovi modi per costruire mattoni più robusti o migliore calcina o utensili più adatti o armi più potenti, o che altro. Forse fu la lancia, fu la scoperta del ferro, fu - grosso balzo in avanti - la bomba atomica. E poi disserò: "Trascorriamo un po' di tempo insieme e costruiamo una grossa torre, una sola città, una sola civiltà, una sola costruzione… e adoriamo un solo Dio, perché ora abbiamo i migliori mattoni, con i quali possiamo fare qualcosa di duraturo e andare in cielo e questa volta costruite veramente una società senza classi, la vera giustizia sulla terra, il Proletariato arbitro del proprio destino" e così via.


Il Signore conosceva la futilità del sogno di un sistema monolitico e sapeva che a mondo è pluriverso e non un universo


C'era una volta... è stato il sogno dell'Umanità (un sogno che sembra in qualche misura costruito nel cuore dell'uomo) di edificare una sola torre, una grossa scala verso li cielo, una grande costruzione. E il Signore - che qui sembra esserle piuttosto invidioso, o desideroso di mantenere le proprie prerogative, o sta giocando un brutto scherzo - non sembra ben disposto verso simili imprese umane e. una volta ancora, Nabucodonosor cade, l'Augustus Imperator muore, l'impero colossale si sgretola, le grandi orde svaniscono... Eppure continuiamo a coltivare lo stesso sogno una grande città che racchiuda tutto. Forse, dopotutto, il Signore Dio sapeva meglio che la natura dell'uomo non è gregaria, collettiva, ma ciascun essere umano è un re, un microcosmo e il cosmo è un pluriverso, non è un universo. Dio, come il simbolo per l'Infinito, sembra essere nel suo proprio ruolo quando distrugge tutte le imprese umane tendenti a comode delimitazioni.

In ogni caso, dopo 60 secoli di umana memoria nel reame storico, non vi è per noi alcun modo per svegliarci alla futilità di questo sogno? Che cosa accadrebbe, se noi semplicemente smettessimo di costruire questa tremenda torre unitaria? Che cosa, se invece dovessimo rimanere nelle nostre belle piccole capanne e case e focolari domestici e cupole e incominciassimo a costruire strade di comunicazione (invece che solo di trasporto), che potrebbero col tempo essere convertite in vie di comunione, fra due o più tribù, stili di vita, religioni, filosofie, colori, razze e tutto il resto?

E anche se non riusciamo ad abbandonare il sogno dell'umanità unitaria - questo sogno del sistema monolitico della Torre di Babele è diventato il nostro incubo ricorrente - non potrebbe esso essere soddisfatto dal costruire semplicemente strade di comunicazione piuttosto che qualche gigantesco impero, modi di comunione invece che di coercizione, sentieri che possano condurci al superamento del nostro provincialismo, senza spingerci tutti entro lo stesso sacco, entro lo stesso culto, entro la monotonia della stessa cultura?

Questo, in conclusione, è ciò che voglio dire.


Il problema del pluralismo


I - Il problema del pluralismo. Non mi riferisco esclusivamente al cosiddetto "pluralismo politico", in grande evidenza durante la prima metà di questo secolo, nemmeno all'ideale di una "società pluralistica" come nel dibattito sociologico contemporaneo. Non ho intenzione di discutere il "pluralismo ontologico" nemmeno come enunciato. Il mio problema si riferisce a tutti questi aspetti e la sua trattazione vorrebbe offrire un supporto critico alla sociologia e alla ontologia, ma cerca di toccare una istanza più radicale che sta alla vera base dell'uso di questa parola "pluralismo" come simbolo vivo, il cui campo di indagine include sia la natura dell'uomo che quella del mondo.

1. Irriducibilità della prassi a teoria. Ora affrontiamo uno di quei problemi esistenziali che scaturiscono da una sfida che nasce dalla prassi e solo nella prassi trovano la loro soluzione "teoretica" Il problema attuale del pluralismo deriva da una genuina esperienza di disorientamento e caos e non da una qualche problematica teoretica. Non vi è niente di molto peculiare in questo, dal momento che molti problemi reali scaturiscono dal dovere affrontare situazioni che fanno vacillare la mente. La peculiarità di tale tipo di problemi esistenziali nasce dal loro toccare un confine ultimo, qualcosa che è irriducibile per principio, e così invita a ritornare alla prassi. Nessuna soluzione teoretica può essere mai adeguata al problema del pluralismo e questo quasi per definizione. Un problema che ha una risposta teoretica non è un problema. pluralistico. Noi non dovremmo attenderci perciò una soluzione teoretica. Dovremmo evitare il complesso di superiorità ed il dominio dell'intellettuale, quanto quello dell'uomo d'azione. La teoria e la prassi sono vicendevolmente dipendenti allo stesso modo in cui hanno una propria consistenza. Chiamo questa relazione ontonomica.


Il pluralismo è diventato un dilemma quotidiano concreto, il vero interrogativo pratico dell'esistenza planetaria umana e non si risolve con alcuna teoria


Comunque sia, la soluzione appartiene altrettanto bene alla prassi (per quanto noi possiamo naturalmente riflettere anche sulla soluzione e sul suo significato). Se le cose stanno in questi termini, il rapporto fra teoria e pratica non è una relazione dialettica, che potrebbe tutto il peso soltanto sul logos e finirebbe per sfociare in un'altra ideologia "Noi sappiamo meglio e ora veniamo con la nostra soluzione tutte le torri precedenti erano errate" ma ora noi vi diremo il segreto per costruire il vero, l'eterno torrione. "Noi", i Cristiani, i Marxisti, i Civilizzati, i Tecnocrati, gli Artisti, gli Scienziati, i Razionalisti…". No!

Sto ancora preparando il terreno; permettetemi di farvi notare che c'è Stato uno spostamento di significati nella parola "pluralismo". Se noi consultiamo qualsiasi dizionario, vediamo che ha sia un significato sociologico che filosofico. Nel primo caso ci dicono che il pluralismo ha a che vedere con le teorie politiche del come strutturare l'interrelazione fra le società umane, specialmente lo Stato, e gli altri raggruppamenti umani. Nel secondo caso troviamo che il pluralismo è distinto dal monismo e dal dualismo e che il pluralismo può essere atomico, assoluto, sostanziale, ecc., dipendendo dal riferirlo a Bertrand Russel e al suo atomismo logico, o a William James, o a Gilbert Ryle, o chi altro. In breve il pluralismo è stato classicamente considerato un concetto metafisico che solleva certe domande in merito alla realtà in astratto tanto per intendersi. Oggi il significato della parola si sposta da un ambito sociale e metafisico a uno esistenziale, che ci aiuta a scoprire le sue radici. Il pluralismo è oggi un problema umano esistenziale che solleva acuti interrogativi sul come vivremo le nostre vite in mezzo a tante opzioni. Il pluralismo non è più la vecchia domanda da libro di scuola circa l'Uno e i Molti; è diventato un dilemma quotidiano concreto, provocato dall'incontro di punti di vista sul mondo e di filosofie vicendevolmente incompatibili. Oggi affrontiamo il pluralismo come il vero interrogativo pratico dell'esistenza planetaria umana.

Ora, naturalmente, la grande tentazione è, ed è sempre stata, quella di creare un super-sistema: "Eccomi qua, io, il tollerante, che ha fatto unposto per tutti e per tutti i diversi sistemi. Ovviamente voi dovrete stare nel luogo ché io vi ho destinato, Io - il grande jivanmuktadella persuasione vedantica - Io so di essere al di sopra di tutte le differenze e ho un luogo per i Cristiani, per gli Ebrei, per i Musulmani, per tutti... A condizione che, naturalmente; essi si comportino bene, seggano ai posti che io ho loro assegnato, saranno felici e contenti, perché Io - l'illuminato Uomo di Scienza e Ragione - ho una visione superiore, solida, che mi permette di essere totalmente tollerante e di tenere tutti gli altri al mondo contenti nei loro posticini. Io, il Cristiano, il Filosofo, il Re…". Basta così! Questo non è certamente un atteggiamento da pluralismo.

L'interrogativo del pluralismo è anche la perplessità che scaturisce da una pluralità di entità irriducibile. Essere tolleranti di una pluralità di religioni o di mercati mondiali o scuole d'arte per tutto il tempo in cui possiamo andare avanti con le nostre proprie idiosincrasie, facendo affari come al solito, essendo solamente rispettosi delle fantasie degli altri nella misura in cui non interferiscono con le nostre, ha poco a che vedere con il pluralismo religioso, economico, artistico, ecc. La pluralità di nazioni assolutamente sovrane, che promettono di non interferire negli affari dei vicini, perché implicitamente riconoscono che sono al massimo inter-nazionali, ma non sopra-nazionali, problemi come i diritti umani, le istanze sociali universali o gli interessi planetari, ha di nuovo poco a che fare con il pluralismo. Il pluralismo comincia quando la prassi ci costringe a prendere posizione di fronte all'effettiva presenza dell'altro quando la prassi rende impossibile evitare la reciproca interferenza e il conflitto non può essere risolto dalla vittoria di una parte o partito. Il pluralismo emerge quando il conflitto si delinea inevitabile.

Il problema del pluralismo sorge solo quando noi sentiamo - noi soffriamo - l'incompatibilità di differenti punti di vista e siamo al contempo costretti dalla prassi o dalla nostra reale esistenza a cercare sopravvivenza. Il problema diventa acuto oggi, perché la prassi contemporanea ci getta l'uno nelle braccia dell'altro; noi non possiamo più vivere tagliati fuori l'uno dall'altro in scatole geografiche, impacchettati in lindi piccoli compartimenti e reparti, segregati entro capsule economiche, aree culturali, ghetti razziali, e così via.

Forse la più grande, per quanto indiretta, conquista della tecnologia è l'aver portato la gente, i popoli assieme. Oggi l'isolamento non è più possibile e il problema del pluralismo è diventato il centro della faccenda. Né la muraglia cinese, né gli oceani, né la polizia segreta, né gli eserciti possono proteggerci contro le bombe atomiche e i mass-media.


Il problema del pluralismo è il problema dell'"altro", ed è radicato nella natura più profonda delle cose


2. Importanza del problema. Il problema del pluralismo è, in un certo senso, il problema dell'altro.

Come possiamo tollerare, o persino capire, l'altro, quando ciò non è in nessun modo - razionalmente, ragionevolmente o intelligibilmente - fattibile? La parola è forse non più nelle mani del greco moira, o dell'indiano karma, o dell'abramico provvidenza. La parola oggi sembra essere nelle nostre mani, in una situazione forse peggiore di quei giorni, quando noi potevamo almeno bestemmiare i fati, accusare il destino o disputare come Giobbe con il suo Dio sulla bontà o meno del suo operato. Non abbiamo più nessuno da biasimare per le nostre sofferenze che noi medesimi. Che cosa è diventato per gli esseri umani più imperscrutabile e distante del Dio tradizionale? Come possiamo cavarcela con sistemi incompatibili? Come possiamo farcela con i problemi ultimi dell'Uomo? Come possiamo farcela in termini di giustizia con il problema dell'altro? Vale la pena notare che praticamente qualsiasi cosiddetta civiltà ha raggiunto la sua posizione di preminenza a spese di qualche popolo "marginale"… Il goym, il kaffir, l'infedele, il pagano, il povero, l'illetterato, il selvaggio, il nero, il terzo mondo… in una parola: il barbaro.

Il problema dell'altro in quanto altro: come possiamo pretendere di trattare i problemi ultimi dell'Uomo se insistiamo a ridurre l'essere umano a solamente l'Americano, o solo il Cristiano o solo il Negro o solo il Maschio o esclusivamente l'Eterosessuale o il sano o il "normale" o il cosiddetto civilizzato! Ovviamente non possiamo. Quello che io dirò è che il vero fondamento di una società pluralistica non sta nel pragmatismo, nel senso comune, nella tolleranza e nemmeno nel male minore, ma piuttosto che il pluralismo è radicato nella natura più profonda delle cose.

Si dovrebbe incontrare qui un'importante obiezione. Nell'affermare che la giustificazione del pluralismo non è a livello del pragmatismo - per la pura e semplice necessità di sopportare l'altro - ma e fondata nella natura dell'Uomo e della Realtà, non sto io assicurando una base teoretica al pluralismo e così contraddicendo la mia affermazione iniziale che il problema pluralistico, posto dalla prassi, non può venire risolto da alcuna teoria?

Due osservazioni possono dissipare questa obiezione. La prima consiste nel richiamare che io ho iniziato a parlare del Mito del Pluralismo non dissipando il mito, ma chiarificando che il pluralismo è effettivamente un mito nel senso più rigoroso del termine: un orizzonte sempre effimero nel quale poniamo le cose allo scopo di esserne consapevoli, senza mai trasformare l'orizzonte in oggetto. Il mito è irriducibile al logos - nonostante la loro comune origine - e così nemmeno riducibile alla teoria. La seconda osservazione ci ricorderà semplicemente che non è detto in nessun luogo che la natura dell'uomo e la realtà sono totalmente trasparenti alla teoria o, in altre parole, che l'Uomo è sinonimo di antropologia o Realtà di Filosofia - nemmeno come oggetti di coscienza. Affermando, allora, che la natura dell'Uomo e della Realtà è pluralistica, io sto sostenendo che nessuna antropologia (o antropologie), nessuna filosofia (o filosofie), ha mai esaurito - nemmeno teoreticamente - Uomo e Realtà. Neppure può la teoria offrire l'ultima giustificazione per la prassi (su che cosa la teoria stessa è basata?), né può la prassi offrire la fondazione ultima per la teoria (su che cosa è la prassi giustificata?).

Permettetemi di essere chiaro in merito a questo, tradendo una delle mie più accarezzate intuizioni metafisiche: l'assunto metafisico fondamentale della maggior parte della civiltà occidentale, fin dai Presocratici, è la convinzione dell'intima corrispondenza fra pensare ed essere. Possono essere in definitiva lo stesso o differenti, ma essi teoreticamente sono complementari. E la mia osservazione critica consiste nel sostenere che questa geniale intuizione non è umanamente universale e perciò non universalizzabile, se non vogliamo ridurre l'intera gamma dell'esperienza umana - o del fatto umano. Il mondo Buddista, ad esempio, non fa tale assunto.


Il problema nasce quando le diversità, spinte al limite, diventano incompatibili tra loro e rendono impossibile l'unità


3. Genesi del problema. Come interludio permettetemi di presentarvi alcune osservazioni sotto questa intestazione.

1) II pluralismo non ha significato (Uniformità).

All'infuori degli eccezionali, e generalmente mitici, inizi, la comunità (famiglia, tribù, gruppo, chiesa…) precede l'individuo. L'individuo entra o nasce in una società che egli non ha plasmato. Qui i riti di iniziazione (assegnazione del nome, circoncisione, battesimo, contratto, voti…) hanno il loro posto. Prima di questo tutto e indiscriminatamente indifferenziato "tutti i giovani uomini sono zii", "tutti i cinesi si somigliano". Vi è una coscienza indifferenziata: tutti gli altri sono gettati entro lo stesso sacco, tutti gli altri sono "terzo mondo" (Che cosa infatti la gente del cosiddetto terzo mondo ha in comune, eccetto un certo tipo di Prodotto Nazionale lordo?). L'altro in quanto altro non esiste; e se esiste egli è "non-persona"; ignorato, non considerato. Viviamo in un mondo indifferenziato, per grande o piccolo che questo mondo possa essere. La tribù e il mondo.

2) Pluralismo significa pluralità (Differenza).

Ad un certo momento, l'individuo comincia a notare che il suo gruppo non è il solo del genere esistente nel mondo (ci sono altre famiglie, tribù, nazioni, chiese, religioni). Diventa cosciente della molteplicità. Questa potrebbe venir chiamato un riconoscimento de facto della pluralità. È il regno della Quantità. I molti popoli mettono su Babele. Nella pluralità la questione della compatibilità o incompatibilità della molteplicità non si pone. È un fatto. Non genera frizioni insostenibili, perché i limiti sono nitidamente tracciati e custoditi con zelo. Una nazione è né più né meno che un'altra nazione, un gruppo semplicemente un altro gruppo, un individuo solamente un altro individuo e cosi via.

La molteplicità è data per scontata, e non vi è interrogativo sull'unità. (Bertrand Russell, difendendo il "pluralismo assoluto" lo chiamò dapprima "atomismo logico"; potrebbe servire da esempio qui).

3) Pluralismo significa pluriformità (Varietà).

Ad un altro momento, l'individuo diventa consapevole che egli ha una particolare visione del suo gruppo. Si rende conto che la sua interpretazione, benché ovviamente la migliore per lui, non è la sola possibile. Altra gente nello stesso gruppo sostiene opinioni diverse e queste nozioni si cristallizzano in forme differenti (partiti politici, persuasioni religiose, vari settori, ruoli e funzioni) entro una data comunità. L'uomo diventa consapevole della varietà. Questa potrebbe essere definita coscienza della pluriformità.

Ancora una volta, il regno della Qualità; le genti diverse, con differenti qualità cominciano a costruire Babele. Nella pluriformità, la questione della compatibilità o incompatibilità della varietà non si pone, perché l'unità del gruppo è già un fatto accettato. Vi è la nazione e dentro di essa una varietà di partiti politici e di modi di agire. Vi è la Chiesa e al suo interno una varietà di opere, attività e chiamate. L'unità è data per scontata e la varietà non è vista come una sfida ad essa. Qui tutti viviamo dentro un singolo mito. Ma questa può diventare una assunzione erronea di filosofie e di visioni del mondo, quando esse cercano di essere universali, estrapolando da ciascuna un qualsiasi orizzonte unificato (la Cristianità post-medioevale potrebbe essere un esempio tipico o una Teologia del Processo; esse vogliono essere universali da una prospettiva che è vista come universale solo da dentro il sistema).

4) Pluralismo connota un'armonia irraggiungibile (Diversità).

Vi è un altro momento nell'evoluzione degli individui e delle società, quando l'Uomo diviene conscio di diversità che, se spinte al limite, romperebbero l'unità. L'uomo diventa consapevole di entrambe, sia dell'esigenza della diversità, che dell'esigenza dell'unità. Ma l'armonia fra le due esigenze è diventata tutto d'un tratto problematica; esse sembrano incompatibili. "Deutschland über alles" e gli Stati Uniti come "la più grande nazione del mondo" non possono coesistere come valori finali. Il Cristianesimo come "religione assoluta" e l'Induismo come "l'eterno dharma" sono incompatibili. Una filosofia basata sulla reale differenza tra essenza ed esistenza, come il vero fondamento per la libertà umana e per la distinzione fra Creatore e creatura, non può conciliarsi con la posizione Scotista, un Tomista non può né convenire con uno Scotista, né realmente comprendere come il secondo possa evitare il panteismo e chiamarsi cristiano - e, naturalmente, viceversa. O ancora, San Paolo ritenne inconciliabile per le persone sposate vivere l'esperienza coniugale ed essere pienamente consacrate a Dio.

In altre parole, fino a quando la Germania e gli Stati Uniti sono nazioni indipendenti, il Cristianesimo e l'induismo religioni senza rapporto, il Tomismo e lo Scotismo filosofie autonome, fino a quando le cose del mondo sono tenute separate da quelle di Dio, non vi è problema. Il problema sorge quando l'interazione diventa inevitabile e noi scopriamo che abbiamo solo un mondo per la Germania e gli Stati Uniti, solo una verità per l'Induismo e il Cristianesimo, solo una Chiesa per il Tomismo e lo Scotismo, solo una perfezione per i maritati e i celibi. I costruttori di Babele non possono ciascuno costruire una torre per sé. Non solo devono comunicare in merito ai mezzi (strumenti), ma condividere i fini (una sola torre). L'isolamento non è più possibile e l'unità non è convincente poiché distrugge una delle parti.

A questo momento le alternative sembrano essere o disperazione, con tutto quello che ne consegue, o la speranza, con tutte le sue esigenti richieste. Questa seconda metà del secolo può essere chiamata sia l'età della disperazione che l'età della speranza.

Al tempo corre e si fa breve: si dovrà cominciare tutto da capo (liturgia e morte) o tutto scoppierà (escatologia e rivoluzione). "Los estremos se tocam".


L'approccio filosofico al problema del pluralismo: la "soluzione" monistica


II - Approcci al pluralismo. A questo punto dovrò tentare di dire che cosa è il pluralismo. Mi accingerei alla formulazione per mezzo di tre percorsi diversi: quello filosofico, quello fenomenologico e quello antropologico.

1. L'approccio filosofico. Da un punto di vista filosofico il conflitto tra l'Uno e i Molti, che ha tenuto occupato l'Uomo almeno sino da Platone nell'occidente e gli Upanishadi in oriente, è forse l'interrogativo centrale della mente umana. Qui, invece di un intero corso di filosofia, mi limiterò ad esporre, come se fosse una mostra d'arte, focalizzando su profili metastorici, che cercheranno di indicare alcuni modi con cui l'Uomo ha trattato i problemi delle diversità umane fondamentali. Il problema dello hèn kai pollà, ekam evâdvitìyam, o, come possiamo porlo qui, (a) monismo, (b) dualismo, (c) non-dualismo, potrebbe essere formulato come segue: (a) uno o molti, e l'uno alla fine prevale; (b) uno e molti, e i molti vincono; e (c) né uno né due, e la polarità di tensione viene mantenuta. A causa della brevità alcune caricature sono inevitabili, ma voi con il vostro esprit de finesse le comprenderete, ne sono certo.

Monismo. Il primo itinerario è dominato dalla legge della giungla: ciò che l'accademia potrebbe chiamare la legge della storia, la scienza la legge di natura, e la filosofia la legge del potere. Il monismo qui può essere latente o implicito; non ha bisogno di mostrare subito i suoi colori. Il più forte in artigli, intelligenza, o armi prevarrà - a meno che, naturalmente, l'equilibrio sia mantenuto da una uguale proliferazione fra preda è predatore. Questa è la cosiddetta legge di natura. Il segreto della cultura è di posporre il confronto abbastanza a lungo da far sì che alla fine sia "risolto" dalla vittoria del più potente. Dobbiamo tollerare l'altro, fino a quando possiamo conquistarlo, convertirlo, convincerlo o indottrinarlo come la parte più debole. Pazienza, chiamata anche tolleranza e prudenza, sono qui le parole chiave, assieme a strategia, apostolato, conversione, vittoria e simili. Un Impero, una Chiesa, un Dio, una Civiltà, un Partito, una tecnologia ecc. sono le espressioni generali di questo atteggiamento. Il Monismo ne è l'espressione finale. Il monoteismo, come distinto dal teismo, potrebbe esserne un'altra parola chiave. Colonialismo e Imperialismo sarebbero descrizioni polemiche. E l'escatologia può essere il modo più raffinato di domare il conflitto, posponendo la soluzione fino alla fine. Con una concezione lineare del tempo, questo è perfetto per il più forte; può aspettare nella speranza della vittoria finale. Per la parte più debole tutto è perduto se il tempo è lineare. Se il tempo è circolare, ciascun momento è indipendente dal suo risultato finale e non si ha bisogno di stabilire che la vera bellezza di una sinfonia si trova solo nel suo finale. Nessuna meraviglia che lo sfruttamento monistico abbia trovato più facile dominare popoli indifferenti al fluire unidirezionale della storia. L'Escatologia teologica pone in una trascendenza verticale ciò che l'escatologia storica pone in un futuro orizzontale. In una concezione monistica, non vi è posto legittimo per il pluralismo. È al massimo tollerato - con gentilezza e pazienza (o talvolta senza di esse) - per evitare un male maggiore. La pluralità è sempre provvisoria.

 

Non sto affermando che il monismo offre una cattiva soluzione. Ben compreso, può darsi che esso mantenga la polarità di aiutarci a lottare per una unità finale e sopportare le pluralità per il tempo corrente, durante la condizione itinerante dell'Uomo è dell'essere. L'Uomo allora ha una meta e allo stesso tempo una consapevolezza della sua caduta e condizione provvisoria, così che la pazienza diviene la virtù centrale - per mezzo della quale possediamo le nostre vite, tanto per citare il vangelo.


Il rimedio dialettico


(b) Dualismo. Il secondo modo per affrontare il problema delle diversità fondamentali è il genuino metodo dialettico. Qui, in un certo senso, il pluralismo è addomesticato. La tensione fra l'Uno e i Molti è risolta dalle cosiddette regole della mente e cerca un equilibrio ed eventualmente una sintesi, tra il sic et non. Alle diverse opinioni, visioni del mondo e atteggiamenti, è consentita una "libera" interazione dialettica; l'Uomo consente questo libero interagire di vari fattori con la piena fiducia che il conflitto alla fine sarà incanalato e risolto. La coesistenza è la regola base che consente allo scambio dialettico di avere luogo a tutti i livelli. Teoreticamente qualsiasi opinione potrebbe venire sostenuta, a condizione che voglia scendere entro l'arena dialettica e combattere là da sola. Se sconfitta perderà il diritto di esistere. Democrazia e libertà sono parole chiave qui; numeri (voti, punti, dollari...) sono considerati decisivi, il risultato di un processo dialettico per mezzo del quale questi stessi numeri sono conquistati. Non è proprio così semplice come "un uomo, un voto", perché maggiore è il numero delle responsabilità, più voti tu ottieni, e più in gamba sei, più denaro guadagni; così che il potere e l'influenza sono "equamente" distribuiti secondo i talenti. Liberalismo, libera iniziativa, interscambio, propaganda, e così via sono altre espressioni dello stesso atteggiamento.

Il Dualismo ne è l'espressione finale. Ma il vero dualismo implica che entrambi i partiti accettino il gioco dialettico. Funziona solo fino a quando l'uno e i molti sono più o meno egualmente potenti (il dualismo funziona quando si hanno Conservatori e Laburisti, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica), ma perché dovrebbero i bianchi Sud Africani accettare una conferenza con i negri attorno ad una Tavola Rotonda, o il governo degli Stati Uniti permettere all'esercito di Liberazione Simbionese di esistere, se essi sono convinti che lo scopo dell'altro è di distruggere totalmente l'avversario? Il monismo qui sta in agguato. Consentiamo la coesistenza fino a quando non pone in questione la nostra esistenza. Alcuni scendono a compromesso in buona fede, perché essi non vi cancellerebbero se potessero (l'opposizione democratica, per esempio, appartiene al sistema). Altri scendono a compromesso in cattiva fede, perché si rendono conto che non possono eliminarvi. Che cosa si deve fare allora? - "écraser l'infâme"? (invadere il Sud Africa o l'Unione Sovietica? o dovrebbero essi attaccare per primi, conoscendo le intenzioni dei loro avversari?)

Ancora, io non sto affermando che il dualismo è una cattiva o un'errata opzione. Forse in certi casi è la sola "realistica", Forse la situazione effettiva non consente nessun'altra forma di sopravvivenza; forse ripone la sua fiducia nella spontanea intuizione dell'Uomo, l'animale divino, dotato certamente di quello che i Greci chiamavano zoè (vita spirituale, infinita), ma anche di quello che essi chiamavano bios (vita animale, finita, o come potremmo anche dire, vita "vitale"). In ogni caso il problema del pluralismo non è risolto accusando gli altri di essere villani e presentando noi stessi come gli eroi.

(c) Non-duahsmo. Vi è ancora un terzo modo, del quale la nostra epoca sta diventando crescentemente consapevole, per quanto sia coesistito con gli altri fin dal principio. Il primo modo cerca di risolvere il conflitto finale, promuovendo il trionfo della parte più forte, per quanto le parole usate non siano solo potere, ma anche verità, Dio, legge e ordine, ecc. e infatti, riesce a domare le forze disgregatrici di un determinato status quo. Il secondo modo cerca di risolvere l'incompatibilità per mezzo di un equilibrio dinamico e provvisorio fra le diverse posizioni, e certamente funziona per tutto il tempo che noi riusciamo a credere nello stesso mito. Il terzo modo è sensibile sia al diritto del potere che alla saggezza della tensione, ma tende ad un approccio del tutto differente da una soluzione monolitica in favore del più forte e da una soluzione dualistica, che è costretta o ad irrigidirsi entro un equilibrio instabile ed esplosivo, o a cadere in un compromesso nel quale alla minoranza è assegnato solo un premio di consolazione. Il non-dualismo sarebbe l'espressione di questo terzo modo.


Il "non dualismo" lascia aperta la questione: infatti il pluralismo è il problema del caso limite, che nasce nell'area di ciò che non è negoziabile per noi; si tratta di accettare positivamente la diversità


Qui il pluralismo appare come una consapevolezza che conduce ad una positiva accettazione della diversità - un'accettazione che né forza le differenti attitudini entro un'unità artificiale, né le aliena per mezzo di manipolazioni riduzionistiche. Qui il potere non ha l'ultima parola né la norma della maggioranza è il fattore decisivo.

Come abbiamo visto, il problema del pluralismo sorge quando noi non possiamo separare l'altro da un'unità che in qualche modo ci comprende entrambi, anche se siamo incapaci di consentire con (e spesso di comprendere) l'altra parte. Non possiamo né prescindere, né rompere l'unità - è sopra di noi. Non possiamo lasciare il paese o la lingua o il pianeta, per esempio, - ne approvare o comprendere la diversità - di nuovo obbligati da un potere superiore alla nostra volontà. "Noi" non possiamo passare sopra la tortura o il capitalismo o la dittatura. Come il poeta ha detto una volta parlando dell'amore: nec tecum nec sine te, né con te né senza tè io posso vivere.

Visto da un'altra angolatura, il problema del pluralismo sorge quando noi affrontiamo un conflitto insolubile di valori essenziali: da una parte, non possiamo rinunciare alle esigenze della nostra coscienza e dall'altra, non possiamo rinunciare alle esigenze della nostra personale consapevolezza. Per Abramo il problema di sacrificare il proprio figlio non era un problema pluralistico, perché Dio era l'assoluto padrone sia della coscienza che della consapevolezza. In questo caso non vi è conflitto Supremo.

Per Aryuna nella Bhagavad Gita, invece, il problema era pluralistico. Aryuna era diviso tra la sua coscienza, che gli diceva di seguire il sacro dovere della propria casta, e la sua consapevolezza, che gli suggeriva che finanziare una guerra non avrebbe risolto niente. Il problema del pluralismo è il problema del caso limite, dell'istanza suprema: Dio o Uomo, Coscienza o Consapevolezza, Famiglia o Nazione, Chiesa o Mondo, Fedeltà a se stessi o Lealtà verso la propria società. Il problema si pone quando so di avere inalienabili diritti, la cui conservazione è diventata un dovere essenziale per me. Il pluralismo nasce nell'area di ciò che è non-negoziabile per noi. Tutto il resto è una questione di accettazione, o compromesso, o prudenza, o savoir faire; ma il pluralismo in sé è non-manipolabile. Il pluralismo inizia il suo corso nel mondo quando l'Uomo, avendo perduto la sua innocenza, tenta disperatamente di conquistare una nuova innocenza. Se la filosofia o la religione ignorano questo problema, possiamo ben comprendere perché esse hanno poca credibilità, quando tentano di darci una bussola per orientarci nel nostro mondo. La vita umana autentica fronteggia la morte costantemente: "essere o non essere", come il giovane Naciketas esclama nella Kathopanishad.

Terminerei la breve descrizione di questo atteggiamento, ripetendo ciò che è stato puntualizzato negli altri due casi, vale a dire che questa fondamentale opzione può essere sia una scelta valida, che ci permette di superare le tensioni senza la distruzione di valori positivi, che un atteggiamento che ci soffoca, disarmandoci di fronte a situazioni conflittuali.

Vorrei includere una specie di nota a pie' di pagina sul trattamento ultraconcentrato, sotto il profilo filosofico, dei tre punti: l'Uomo ha spesso tentato di risolvere il dilemma, introducendo un fattore morale e una bontà assolutizzante, quando non ha avuto successo con la verità. "L'altro è cattivo, perché mi vuole uccidere". "Siamo convinti che i Turchi sono un pericolo per la Cristianità e così organizziamo una crociata; siamo convinti che i comunisti asiatici sono un pericolo per il mondo libero e così finanziamo una guerra". Oppure sfruttiamo la terra, perché vogliamo più carta o più petrolio e così via. Fino a quando saremo sulla vetta, "noi" - Cristiani, bianchi, maschi, Induisti in India, Musulmani in Pakistan, Occidentali, gente ricca, gli Istruiti, i Tecnocrati, i Sindacalisti, gli umani (contro la terra) - fino a quando "noi" siamo sulla vetta, troviamo modo per persuadere; per rendere le cose appetibili, per sistemarle in modo tale che l'altro sia in qualche misura felice nella sua posizione subordinata. Ma quando l'altro comincia a scalciare, siamo costretti a fare i conti... e allora che cosa succederà? Solo una tregua, fino a quando avremo armi migliori? Oppure?


L'approccio fenomenologico (che vuol dire non parlare dell'"Uomo" dimenticando gli schiavi, gli esuli, i diseredati)


2. L'approccio fenomenologico. Il problema del pluralismo raggiunge la fase critica quando noi semplicemente non sappiamo che cosa dobbiamo dire o fare. Permettetemi di addentrarmi di più in un tentativo che potrebbe sfociare in una fenomenologia semplificata. Un approccio fenomenologico potrebbe affermare che il pluralismo appare come un problema, quando ogni altro mezzo per trattarlo diversamente fallisce. Ho scelto tre tipi di fallimento ché vi esporrò brevemente. Non sto difendendo una visione pessimistica della natura umana, come se vi fosse un paradigma platonico di ciò che si suppone essere l'Uomo; ma non sto indulgendo nemmeno ad una valutazione ottimistica, come se dovessimo guardare solo verso un roseo futuro, timorosi di guardare gli errori del passato. Un atteggiamento realistico non dovrebbe essere scoraggiato dai fallimenti de! passato, ma nemmeno può ignorarli.

Qualsiasi scrittore è già un essere privilegiato, qualsiasi ascoltatore e lettore di una riflessione sulla condizione umana già si distingue dalla media dei suoi simili umani. L'emarginato non dà conferenze, nemmeno le ascolta, non ha neppure molto tempo per riflettere. Anche quando non è direttamente perseguitato e torturato o muore di fame, vive in un perenne precario equilibrio, la cui assenza potrebbe lasciarlo alla mercé dell'insensibilità umana. Quando diciamo Uomo, dimentichiamo gli schiavi per generazioni senza numero, gli sfruttati da padroni forestieri o di casa, i servi, gli eserciti di soldati, lavoratori al servizio di cause che nemmeno comprendono, le moltitudini di esuli, diseredati e affamati esemplari della nostra razza umana? Chi può farsi portavoce per loro, se essi non possono nemmeno cominciare ad articolare ciò che vogliono o di cui hanno bisogno? La maggioranza sottomessa non ha nemmeno la voce e, se fosse loro data una voce per farli parlare nei nostri termini, noi li convinceremmo facilmente che essi sono da compiangere, poveri diavoli ignoranti e degradati che meritano il loro destino. Nessuna meraviglia che i loro capi non sono profeti (che parlano) o preti (che celebrano), ma eroi che uccidono, fanno rappresaglie, ululano e distruggono. È su questo sfondo che noi dovremmo riflettere sul significato del pluralismo. Tutto il resto è letteratura "edificante".


Il fallimento storico-politico: l'amaro frutto di millenni di repressione, dominio e potere (basati sul monismo e sul dualismo)


(a) Il fallimento storico-politico. Un problema pluralistico sorge quando la questione non si può risolvere con mezzi democratici, perché non possiamo attenerci alle regole della maggioranza in merito a quei valori che sono più vitali per noi. Significherebbe un suicidio, e perfino un suicidio può non essere una scelta. Si vota solo sui mezzi, mai sui fini ultimi. Potete tollerare l'intollerante? Ma se non potete, allora diventate intollerante come lui. È l'equilibrio del potere la sola soluzione?

Non c'è bisogno che noi ci soffermiamo sul fallimento politico di tutte le civiltà. La storia non dovrebbe essere, ma di fatto lo è, una raccolta di successive, spesso simultanee, guerre, che ogni volta sembrano più o meno giustificate alle parti interessate, mentre anche i vincitori spesso si chiedono a posteriori se ne valeva la pena, o anche se la vittoria è stata veramente tale. La legge della giungla e le dialettiche monismo e dualismo non possono vantare un grande record. Non dovremmo essere interessati a questa svolta dell'umanità? L'interrogativo sul pluralismo può essere come cercare un candido loto in una pozza sporca, o un giglio che spunta in un mucchio di escrementi. Ma sulle rovine sia del vinto che del vincitore il pluralismo può slanciarsi come un fiore - ahimè, ancor più fragile di un loto o di un giglio.

Millenni di repressione, di dominio e di potere politico (e non solo politico) - tutti questi sistemi basati su supporti sia monistici che dualistici - hanno dato l'avvio a maggiore ingiustizia, sfruttamento, fame. Su scala mondiale il sistema non ha funzionato. Avrebbe potuto funzionare per te e per me, ma l'Ucraino, l'Ebreo, il Quechua, il Nero, il Cinese, per citarne solo pochi, non sono stati inclusi. E infatti i cambiamenti positivi - e sono molti - sono venuti grazie a Socrate, Buddha, Gesù, Gandhi... e non Alessandro, Akbar, Napoleone, Churchill (per non citare i mascalzoni).

Il problema di mantenere la pace non è un problema nuovo. La sindrome dell'essere minacciati e in pericolo di essere attaccati e vinti è un fattore quasi costante nella storia dei popoli. La violenza si confronta con la violenza e le armi si oppongono alle armi. "La difesa" viene giustificata con il timore di una possibile "offesa". Ciò che i Russi oggi sono per il "primo mondo", ciò che i Vietnamiti rappresentano per i Khmer rossi, o i Cinesi per i Vietnamiti, gli Americani per i Russi, ecc., i Mori, i Saraceni e i Turchi lo sono stati - per quasi tre secoli - per l'Occidente. L'Europa, fin dal XII secolo, ha vissuto il continuo timore dell'Islam. La risposta sono state le crociate. Ma dopo le prime esperienze, le Crociate non furono più possibili. La maggior parte della nobiltà e della gente non rispose alla chiamata patetica di alcuni Papi e Principi. Nel 1453 Costantinopoli cade. L'Europa vive in un parossismo. Si ha una tregua quando Granada viene conquistata da Ferdinando il Cattolico. Ma non vi è Concilio, non vi è avvenimento politico di rilievo, che non rammenti l'imminente pericolo per la "Cristianità". È solo nel 1571 che Giovanni d'Austria ottiene la vittoria di Lepanto, che divenne, cosa abbastanza comprensibile, una festa universale per l'intera Chiesa. Ma il pericolo non è scongiurato dopo Lepanto.

Eppure - e questo è il mio assunto - una manciata di persone prende un'altra strada. Raimondo Lullo, Nicolò Cusano, Pico della Mirandola, Erasmo, Luigi Vives e molti altri non credono nella violenza e nella guerra e propongono un vero ecumenismo: dialogo, persuasione, comprensione. Non sono popolari, sono considerati idealisti e spesso devono soffrire, ma offrono un'alternativa. Forse dovremmo cominciare a renderci conto che è meno rischioso avventurarci entro un atteggiamento pacifico, che confidare in un contropotere deterrente e minaccioso.


il fallimento della sola ragione e della pura dialettica: ci sono fedi, speranze e amori che resistono ad ogni confutazione


(b) Il fallimento filosofico-dialettico. Sorge un problema pluralistico quando non si può trattare dialetticamente l'argomento, perché il vero fondamento della dialettica è implicato nella questione. In effetti, l'Uomo è così costituito, che in molti campi dell'esistenza umana se "messo alle strette" dialetticamente - accusato di contraddizione, mancanza di prove intellettuali o impasse logico - non smetterà di credere, di sperare, di amare ciò che ritiene sia il caso. Molta gente non smette di credere o non credere in Dio o nella realtà del mondo, anche se il problema è provato o demolito da mezzi dialettici accettati e da ogni possibile ragionamento intellettuale. Dire, per esempio, che l'astrologia è irrazionale, lascia l'astrologia disinteressata e gli appassionati di astrologia felici. Vi sono, in altri termini, fonti di umana certezza, fedi, speranze e amori, che sfidano il potere della ragione e sono apparentemente più forti che superiori ad essa. E questo è un fatto: posso essere convinto, eppure questa convinzione può non avere efficacia o forza.

Le istanze del pensiero europeo da Descartes in poi, o della filosofia buddista dopo Nagarjuna, esemplificano questo fallimento. Il razionale dietro questi sforzi è chiaro: "dato lo scandalo prodotto dalle divergenti opinioni delle migliori persone che si occupano dei problemi decisivi della vita e della morte, consentiteci di stabilire un sistema infallibile, basato solo sulla ragione o sullo sforzo dialettico di trascendere le dialettiche". E dopo secoli di speculazione filosofica, ciò di cui disponiamo è una nuova proliferazione di sistemi di pensiero che si escludono reciprocamente, qualunque sia il nome che si danno e i titoli che sembrano esibire. La Torre di Babele non è stata ancora costruita e nessuna philosophia perennis ha raggiunto il secondo piano. Né la ragione e nemmeno una filosofia "di ampie vedute" ha avuto successo nel creare un sistema, una Torre di Babele, dove la gente possa vivere, almeno teoricamente, in giustizia e pace.


il fallimento dei sogni di unificazione universale in una sola religione e in una sola cultura (e ora avanza la tecnologia)


(c) Il fallimento religioso-culturale. Si pone un problema pluralistico quando il conflitto non si può risolvere con la violenza o il potere, perché non possiamo persuadere noi stessi a cedere alla pressione, anche se minacciati di morte. L'impero Romano dovette cedere ai Cristiani, l'Unione Sovietica ha dovuto riconoscere la presenza dei dissidenti e le storie dei Curdi, degli Armeni, dei Jainiti e di tanti altri offrono esempi altrettanto validi. C'è qualcosa nell'Uomo che né il potere, né la violenza, né il dominio possono riuscire a controllare o a ridurre all'unita. La storia di qualsiasi religione è più l'avventura delle sue eresie, che l'evoluzione della sua ortodossia.

Non dobbiamo annegarci entro gli eufemismi: gli antichi imperi volevano conquistare il mondo intero; la cristianità e l'islam - per citare due sorprendenti, ma non esclusivi, esempi - hanno avuto l'aspirazione di diventare non solo la religione numero uno, ma idealmente la sola religione; la civiltà scientifica e la cultura umanistica hanno simili aspirazioni oggi. Ciò che noi discerniamo con tanta chiarezza come utopistico, se non ridicolo, nell'"urbi et orbi"dei Romani di Roma e dei Cattolici Romani, sembriamo incapaci a scoprirlo nei nostri sogni di universalità. Per quanto molti convengano sul fatto che l'Uomo non può costruire Babele, continuano a credere, come minimo, di averne i progetti: "Se tutti fossero buoni Cristiani! Se tutti praticassero la Meditazione Trascendentale ogni giorno! Se tutti seguissero i dettami della scienza!... Se tutti pensassero e si comportassero come me!".

E questa è la ragione per cui dopo almeno sessanta secoli di civiltà umana, dobbiamo ancora porci questa domanda fondamentale: Che cosa vi è nell'uomo che lo rende irriducibile all'unità, eppure incapace di rinunciare alla ricerca di essa? (Se questa non è una domanda religiosa, non so che cosa significano gli Studi Religiosi). Dopo il fiasco della Torre di Babele, non possiamo prevedere alcuna possibilità per il mondo, all'infuori di un sistema paneconomico e di una sola megamacchina tecnologica? "Tu quoque?".


L'approccio antropologico. "Chi sei tu?" è la domanda antropologica fondamentale - Nessuno possiede l'intera "verità sull'uomo"


3. L'approccio antropologico.

(a) Tre capitoli antropologici. Nell'affrontare tali problemi concreti ed esistenziali, l'Uomo moderno si pone di nuovo la domanda circa se stesso, che forse inizia a chiudere il cerchio più ampio aperto dal primo Uomo occidentale Agostino (un Africano): Quaestio mihi factus sum, "Ho fatto di me stesso una domanda". Il dativo si è fatto pian piano un ablativo. "Che cosa sono io per me stesso?" è diventato "Che cosa è l'Uomo per me?" - cioè, come conosciuto da me, perché io possa conoscerlo meglio e, eventualmente, averlo nelle mie mani? Sto suggerendo che forse possiamo aver imboccato questo terzo sentiero nell'auto-riflessione dell'uomo su se stesso nell'intero contesto delle civiltà del mondo.

1) Che cosa è l'Uomo? Questo è il modo occidentale di formulare la domanda antropologica. L'Uomo è un oggetto di ricerca - anche di introspezione - e la scienza dell'Uomo sarebbe un'integrazione di tutti i risultati delle discipline specifiche che trattano l'uno o l'altro aspetto dell'essere umano. La chiamiamo antropologia integrale e oggi anche i teologi le pagano un tributo, quando essi parlano dell'"antropologia teologica". Che cos'è quell'essere che noi chiamiamo Uomo, che può pensare, parlare, costruire...?

2) Chi sono io? Sarebbe il modo tipicamente Indiano di formulare la stessa domanda. L'Uomo qui è il soggetto scrutinante che cerca di mangiare la torta, anche se non può averla. L'Uomo tenta di assistere proprio alle origini di questa consapevolezza dell'Io e la spinge sempre più a fondo, fino a che l'Io non è spogliato di ogni stratificazione di contingenza. La chiamiamo saggezza e il suo scopo è quello di ricostruire l'intero corpo del sapere da quella intuizione sovracosmica. Non vorrei semplificare troppo questi due straordinari e fecondi approcci, che ancora rimangono i due pilastri basilari dell'autocomprensione dell'umanità. Ma, nel nostro tempo di incontro e di mutua fecondazione delle culture, rimane da esplorare, con la stessa completezza degli altri due, un terzo itinerario, altrettanto fondamentale.

3) Chi sei tu? E la terza domanda. Cercherò di spiegarla nel suo significato, perché (siccome le lingue indoeuropee hanno perso il duale) la frase è ambigua. Non "Che cosa è l'Uomo?" (oggettivazione, anche se noi lo chiamiamo un soggetto); non "Che cosa sono Io?" (soggettivazione, anche se noi lo scopriamo nell'atman); ma "Che cosa sei tu?". E questa è una domanda radicalmente diversa, perché non si può rispondere ad essa senza il "tu", ma richiede il "tu" come interlocutore (Mitfragenden) e il "tu" è il Pigmeo, e il Musulmano, e la donna, e il comunista e il Cristiano, e il Democratico, e la moglie, e il lavoratore, e il povero... se voglio sapere che cosa è l'Uomo in modo più comprensivo di un reificato "è", devo ascoltai; me stesso e devo anche chiedere tu. La domanda "Che cosa sono Io?", la domanda "Che cosa è lui (egli o ella)?", semplicemente non basta. Devo chiedere "Che cosa sei tu?", guardarti negli occhi e formularla meglio: "Chi sei tu?". Chi può dire che cosa è l'Uomo, se nessuno di noi ha accesso all'intera gamma dell'esperienza umana? La domanda sull'Uomo appartiene all'Uomo e non esclusivamente a me, anche se Io faccio uno sforzo per parlare a nome di un grande gruppo umano. O prendiamo il pluralismo sul serio, o esso diventa appena un'altra etichetta per il nostro imperialismo filosofico. E se lo prendiamo sul serio, non possiamo oltrepassare il tu di qualsiasi essere umano.

Quello cui tendo qui è semplice e chiaro: l'Uomo non è un oggetto di ricerca... soltanto o principalmente; lui stesso è un soggetto che ricerca. Ma questo soggetto che ricerca non è solo il mio ego, è anche tu. In termini più sintetici: l'autocomprensione dell'Uomo appartiene all'essere dell'Uomo. Ancor più semplicemente: la comprensione di sé è parte di qualsiasi comprensione. Ma il "sé" non è solo il mio ego, o "noi solamente". Nessun incontro di culture e religioni può veramente aver luogo senza una nuova antropologia.

Contro il riduzionismo: la ragione non esaurisce il logos; perciò "irrazionale"non è sinonimo di "illogico"


Ora noi giungiamo ad una sorta di anticlimax, perché ovviamente io non posso in questo contesto descrivere l'intero processo del divenire consapevoli dell'io, del tu, dell'egli/ella/esso, del noi, del voi e degli essi - che rappresenterebbe il modo adatto per fondare la piattaforma di ricerca per un'antropologia, capace per lo meno di discernere il problema. Con le categorie elleniche, da una parte, che hanno plasmato la maggior parte della visione antropologica oggettiva, e con quelle Upanishadiche, che sono state alla base di massima parte dell'esperienza soggettiva dell'Uomo, dovremmo ora forgiare un terzo tipo di simbolo base per l'integrazione delle tre prospettive con le quali l'uomo vede se stesso: come un Io, come un Tu e come un esso. Invece abbozzerò semplicemente alcune intuizioni, che potrebbero servire come pietre di guado verso questa antropologia intercultural-religiosa, usando le categorie occidentali come punti di partenza, senza ulteriore elaborazione.

(b) Superare un Riduzionismo a tre fasi. Allo scopo di rendermi esplicito, parlerò di un riduzionismo a tre fasi, che sembra ossessionare la concezione moderna dell'essere umano.

1) La Ragione non è la totalità del Logos. Qui io faccio riferimento al famoso animal razionale, che è una traduzione piuttosto forzata della definizione dell'Uomo di Aristotele come Zòon logon échon, cioè come un essere vivente - o un animale - attraverso il quale il logos transita: "Fra gli animali l'Uomo è il solo dotato di logos". La ragione raziocinante è solo un aspetto, quasi una tecnica, del logos. Il logos è una certa intelligibilità (il logos è l'enérgeia del noùs, secondo la definizione di Platone); ma non è primariamente ragione. È piuttosto parola, verbum, verbo; ma "verbum entis" molto più che "verbum mentis": è la rivelazione, il vero simbolo dell'Essere - il logos è, insieme all'épos, il mythos e l'ainos, uno dei quattro ingredienti della consapevolezza. Lo ripeto: la ragione appartiene al logos, ma non è identica ad esso. Il logos è anche scandaglio, è concetto e intenzionalità, è spirituale e materiale. E nell'affermare questo io sono all'unisono con il dabar di Israele, il vac dell'India e il logos Cristiano; ma qui sto delineando solamente la problematica, e mi limito ad affermare che la ragione non esaurisce il logos e, di conseguenza, che i termini irrazionale e arazionale non sono sinonimi di illogico e alogico. Potremo esprimere tutto ciò in modo più esistenziale usando un'altra prospettiva, e dire semplicemente che l'individuo non è la totalità dell'Uomo. Su questo non voglio elaborare ora.


il logos non esaurisce l'uomo; nulla posso separare dal logos, ma il logos non è tutto


2) Il logos non è la totalità dell'Uomo. Questo è il secondo riduzionismo. Vi è anche il mito, vi è anche il corpo, ci sono i sentimenti, vi è il mondo... ma qui dovrei prevenire un possibile fraintendimento: nel momento in cui dico che il logos non è la totalità dell'Uomo, lo dico con il logos; è il logos che mi consente di affermare questo. Ciò significa che tutti gli sforzi per trascendere il logos hanno il logos come compagno di viaggio. Che cosa ci dice questo? Ci dice che proprio come la ragione permea tutto il logos senza esserne la totalità, così il logos permea tutto l'Uomo senza esserne il tutto. Ci dice che gli elementi costituenti della realtà umana non sono come le parti di un corpo macrofisico (Korper non Leib). La relazione non è di tipo spaziale - come se qui avessimo una piccola cosa e là un'altra cosa, e così noi fossimo fatti di tutte queste cose attaccate assieme - ma vi e una mutua interazione e interpenetrazione, così che non vi è nulla che io possa separare dal logos, eppure il logos stesso può rendermi consapevole del fatto che non tutto è logos. Non possiamo recuperare l'innocenza che avevamo dovuto perdere per diventare ciò che siamo, ma possiamo forse acquisire - o conquistare o forse semplicemente accettare o ricevere - una nuova innocenza. E precisamente a questo punto gli studi interculturali sono indispensabili; essi ci mostrano altre forme di intelligibilità, altre prospettive di comprensione, altre forme di consapevolezza... forme che non possono essere ridotte a un comune denominatore.

Permettetemi di darvene un esempio qui, osando contraddire la grande affermazione di Husserl, che sembra sostenere che la coscienza deve essere sempre coscienza di. E questo in realtà sembra essere il modo in cui l'intelligibilità Occidentale ha abitualmente funzionato. Ma vi è anche, come vorrebbero affermare molte tradizioni Orientali, una pura coscienza, una coscienza che non è coscienza di. Naturalmente il modo per pervenire a questa pura coscienza non è cercare un oggetto, nemmeno cercare la coscienza, ma piuttosto diventare autotrasparenti come soggetto. Qui non si diventa saggi se non si diventa santi. La ricerca di una pura coscienza non è la ricerca del potere; è di altro tipo, tutto sommato. Potrebbe essere definita coscienza mistica, ma qui mi trovo solo ad indicare pietre di guado verso una nuova antropologia. L'ambiguità necessaria della parola "puro" applicata a coscienza ha spesso condotto alla convinzione che "pura coscienza" sia una coscienza così pura, che pochi sciamani mistici ed estatici possono raggiungere, dimenticando che puro, cioè non mescolato, e pura coscienza sono la vera base dell'avere "coscienza di" qualcosa. E senza dubbio "pura coscienza" non è "coscienza di pura coscienza", come il Tao-te-Ching, la Kenopanishad la Gita e i Vangeli ripetutamente ci ripetono.

Un altro modo di dire tutto questo sarebbe asserire che l'Uomo non è la totalità dell'Umanità. Ancora una volta mi asterrò dall'elaborare.


L'uomo non è la totalità dell'essere, l'umanità non è la totalità della realtà. Tutto ciò dice che la vera natura della realtà è pluralistica


3) L'Uomo non è la Totalità dell'Essere. Sarebbe chiaro, naturalmente, che niente è senza rapporti con l'Uomo e tutto quello che c'è, è là con l'Uomo... Né il Divino, né il Materiale è separabile dall'Uomo. Come ci ha ricordato Thomas Berry, citando dal confuciano Chung Yung l'uomo è il cuore - cuore e mente - dell'intera realtà, il terzo tra Cielo e Terra.

La coscienza può essere onnipervadente, e non c'è sicuramente alcun modo per noi di negare che coscienza e essere sono coesistensivi. Non vi è nulla al di là della coscienza, perché l'aldilà appartiene già alla coscienza. E interpretare questa affermazione, come se si dicesse che c'è il niente al di là della coscienza è una piena contraddizione. Eppure la coscienza stessa testimonia all'Uomo che egli non è solo nell'Universo, non è nemmeno il centro, ma appena un polo.

L'altro modo per asserire questo sarebbe dire che l'Umanità non è la totalità della Realtà. Tutto questo non è stata una digressione, ma una presentazione superconcentrata dei fondamenti del pluralismo. Privato di queste e simili considerazioni, il pluralismo sarebbe ridotto ad una nostra più comprensiva e tollerante visione del mondo. Molti usi della parola implicano un tipo di "società pluralistica" nella quale a te è consentito di apparire strano agli occhi dell'altro, perché nessuno si preoccupa, nessuno interferisce e noi tutti siamo felici nelle nostre piccole scatole. Questo può essere molte cose, ma non pluralismo. Il problema del pluralismo non è né un problema pratico (una specie di espediente, perché noi non sappiamo come comportarci con gli altri e così dobbiamo tollerare la loro stupidità), né puramente o semplicemente un problema umano (perché noi siamo esseri finiti e così dobbiamo sopportare le imperfezioni). Il problema del pluralismo si pone, vorrei sostenere, perché la vera natura della realtà è pluralistica. I miti che soggiacciono alle dottrine della Trinità e del non-dualismo e molti altri miti potrebbero stare per questa intuizione. O, per tornare alla nostra parabola ebraica dalla quale abbiamo preso le mosse, a Babele il Signore confuse i sogni dell'Uomo su una visione monolitica e totalitaria della realtà.


Non c'è unità artificiale: l'Uomo non è monistico, Dio non è monoteistico, la Verità non è monolitica


(c) Uomo Pluralistico. Affermo che l'Uomo in sé è un essere pluralistico, che non è riducibile ad un'unità assoluta e che non si può dire che niente di umano abbia una unicità che noi possiamo comprendere. Dire che la natura umana è una, o dire che la Verità è una, o persino dire che Dio è uno, è filosoficamente ambiguo. O l'affermazione si riferisce ad un uno trascendentale e non numerico, e allora noi abbiamo semplicemente il principio di identità, oppure l'uno è categorico, e di qui emerge una affermazione puramente formale - o, se è riempita con i miei particolari contenuti, completamente errata; essa è una tautologia o una affermazione vuota con contenuti non adeguati. Se la riempiamo con qualsiasi significato, dovremmo chiederci: Uno che cosa? Quando diciamo che non vi è altro Uomo, o altra Verità, o altro Dio, per rimanere al nostro triplice esempio, che cosa intendiamo dire? Se altro Uomo, altra Verità, altro Dio, significa che non c'è altro Uomo che l'Uomo e così via, allora abbiamo la necessaria tautologia del principio di identità: l'Uomo è l'Uomo, la Verità è Verità, Dio è Dio. Ma se con questa affermazione intendiamo che non vi è altro Uomo, Verità o Dio all'infuori di quello che noi riteniamo che siano l'Uomo, la Verità, Dio - cioè, altro da quello che coincide con il nostro concetto di tali entità, allora esse sono rese dipendenti dai nostri concetti: "Non vi è altro Uomo, Verità, o Dio all'infuori di quello che noi pensiamo che siano l'Uomo, la Verità e Dio!". Stabiliamo un sistema chiuso e chiediamo agli altri di diventare membri del nostro club se vogliono discutere con noi. Possiamo invece portare la sinfonia delle diverse civiltà del genere umano entro il tubo dell'armonia, senza potare tutte le differenze e senza imporre un qualche schema di intelligibilità a priori, per quanto possa essere perfetto, ma piuttosto consentendo a tutti quelli che sono di differenti civiltà di dire la loro parola, o danzare la loro danza, o cantare la loro canzone, e lottando per capire tutto ciò che essi stanno tentando di dire. Questo non è solamente il minor male, o una concessione ai limiti del nostro essere. Il pluralismo è un'esigenza radicata nella natura pluralistica della realtà. L'Uomo pluralistico rende falsi tutti gli assolutismi, i fantasmi e i riduzionismi ad un'unità artificiale. Solo l'Uno è non-dualistico. Non vi è alcun secondo Uomo, Verità o Dio; ma noi non esauriamo ciò che è l'Uomo, la Verità o Dio. Non vi è secondo Uomo, Dio, o Verità, ma l'Uomo non è monistico, né Dio monoteistico, né la Verità monolitica.

Una ragione ragionante, che chiuda o sigilli la nostra coscienza o comprensione entro una intelligibilità, è un sofisma evidente.

C'è una specie di perichoresis, un "abitare l'una dentro l'altra" di queste tre dimensioni della Realtà: il Divino, l'Umano e il Cosmico - l'IO, il TU e l'ESSO.

III - Il mito pluralistico. È l'ora di ricapitolare. Ho detto che il pluralismo è un mito e ho tentato di descrivere il suo rivestimento. Possiamo ora tornate indietro e chiedere a questo mito che cosa ci dice teoreticamente, che cosa fa per noi e come appare come mito per il nostro tempo.


Come vivere il pluralismo. Consapevolezza dell'"altro" non solo come alterità reificata ma come un "tu", come un soggetto di amore e di sapere


1. La Consapevolezza dell'Alterità e de/l'Altro: aliud et alius. Che il problema del pluralismo sia il problema dell'altro richiede qualche ulteriore elaborazione. Prima di tutto, è il problema della consapevolezza dell'alterità (aliud). Questo implica più che una semplice presa di coscienza di differenze, necessaria per la ricognizione di qualsiasi pluralità. È una consapevolezza che ci sono o ci possono essere altre entità oltre quelle che noi prendiamo in considerazione, la consapevolezza che il logos è altro che pura ragione, l'Uomo altro che il logos, e l'Essere altro che l'Uomo; in ultima analisi implica una consapevolezza che io (la mia ragione, la mia coscienza, il mio essere) non esaurisco il reale, né sono il suo centro, ma solo uno dei suoi poli, se sono qualcosa, al massimo. Vi è altro: aliud, alterità. E questo non è solo oltre il mio e il me, ma anche contro di essi al di là di essi. Il solipsismo è asfissia. Oppure, usando una metafora Upanishadica, le finestre dei sensi, inclusi i sensi spirituali, non solo ci consentono di fare capolino entro il mondo esteriore, ma permettono al mondo di penetrare a sua volta dentro di noi. Non sono solo. La solitudine, che mi permette di essere me stesso, non deve essere confusa con l'isolamento, che soffocherebbe il mio essere. Il pluralismo inizia con la percezione dell'alterità, la quale già implica la mia essenza. Io sono in relazione.

Ma questo non è tutto. L'aliud non è l'alius; alterità non è l'altro. L'altro, l'altro soggetto di amore e di sapere, l'altra, persona non è pura alterità. Ancor di più, l'altro non vede se stesso come altro, ma come ego, come io stesso vedo me stesso. L'aver trattato l'altro come alterità invece che come alius, l'aver reificato l'altro e non avergli concesso un posto nel mio me stesso è una delle più grandi confusioni in cui può cadere l'essere umano. È vero che le tradizioni Occidentali e Orientali mi chiedono di amare il mio simile come me stesso, ma noi fissiamo mura di separazione e al massimo gli consentiamo di essere un altro con lo stesso mio diritto - senza tuttavia condividere il Se Stesso.

Ho già fatto un accenno all'impoverimento delle lingue moderne, che rappresenta una catastrofe umana di proporzioni cosmiche, nella loro perdita del duale e nel trattare il tu come un esso (invece di chiamarlo egli o ella). La ragione del duale non è l'interesse per il due come numero, come molte grammatiche ripetono ancora ciecamente. La ragione del duale è di permettere l'espressione IO - TU: il tu non è un esso. Il duale: io parlo, tu parli, essi parlano, ma noi-due parliamo; e anche quando essi-due parlano, la connotazione è diversa da quando a parlare sono essi-i molti. Il momento in cui l'altro diviene il tu, tutto cambia. La coscienza dell'altro in quanto altro (alius) e non proprio l'alterità fa di lui un compagno, un sosia, (un soggetto e non un oggetto), una fonte di sapere, un principio di iniziativa come sono io stesso. Questo solo mi consente di ascoltare l'altro, di essere conosciuto da lui e non solo di conoscere lui. Non vi può essere pluralismo vero, fintanto che l'altro non viene scoperto. Io voglio dire l'altro (alius) come sorgente di (auto) comprensione e non solo come termine (aliud) di intelligibilità.

Questo altro non deve essere sempre un tipo per bene, una persona con buone intenzioni, o con gli stessi sentimenti e le stesse opinioni che ho io. L'altro può essere il mio nemico - per quanto sempre con un volto umano, un Tu e non un esso, non un'anonima entità sotto le nubi e dentro la casa o il rifugio che io bombardo da miglia al di sopra...

Il pluralismo ci consente di vivere con situazioni conflittuali? Questo è qualcosa che io ho già indicato e che posso ora elaborare un po' di più.


Dal rapporto dialettico alla tensione dialogica.


2. Tensione Dialogica invece di Conflitto Dialettico. Questo contrasto fra il modo dialettico e dialogico di abitare nella nostra realtà pluralistica può essere la grande difficoltà, eppure è la prova di tutto quello che ho tentato di dire. La non accettazione del conflitto dialettico e la sua trasformazione in una tensione dialogica - non e questo ciò che i martiri Cristiani e Yannisti, per esempio, hanno fatto e ciò che i dissidenti contemporanei stanno ancora facendo? Il rischio è reale. Che cosa è un piccolo sparuto gruppo o un individuo di fronte al Cremlino, al Pentagono, a una potente Corporazione, a un marchingegno autoritario e burocratico? Il ruolo profetico dell'Uomo qui balza innanzi e non si può essere profeti di pura ragionevolezza o di probabilità statistiche, o di calcoli economici, per quanto istruiti si possa essere. Accettare la strategia dialettica, per quanto sia importante nel suo ambito, produce solo un regresso verso reazioni eternamente pendolari, quando sia esteso alla totale situazione umana.

Permettetemi di sottoporvi alcune considerazioni sul modo dialogico di trattare le posizioni in conflitto:

1) Una società pluralistica può sussistere solo se riconosce un centro, che trascende la comprensione di esso da parte di qualsiasi particolare membro o perfino della totalità dei membri in qualsiasi dato momento. Se il re, partito o popolo è il sovrano assoluto può esserci tolleranza, ma non pluralismo. Solo una società aperta può essere pluralistica, ma essa ha bisogno d'una forza trascendente che le impedisca di chiudersi in una sua propria auto-interpretazione. Se non accettiamo un punto trascendente incomprensibile, allora ovviamente; se io ho ragione, tu hai torto e non possiamo accettare alcuna più alta qualificante comprensione delle nostre rispettive posizioni.

Esempio: una società che si arroga il diritto di dispensare la pena capitale, sia essa Chiesa, Stato o Nazione, non può essere chiamata ai nostri giorni una società pluralistica.

2) Il riconoscimento di questo centro è un fatto dato, un dono (teologicamente parlando). Implica un certo grado di consapevolezza, che si diversifica secondo il tempo, il luogo e gli individui interessati, che non è mai coperto dall'oggetto della consapevolezza; in altre parole, il pluralismo implica che vi è sempre un residuo di (pura) coscienza che non è "coscienza di".

Esempio: se il benessere del popolo Basco non può essere separato dall'indipendenza della nazione Basca, che è vista come valore assoluto e non contestabile, qualsiasi conflitto nei suoi confronti dovrà piegarsi senza compromessi al supremo valore, e il conflitto con la Spagna sarà inevitabile. Se gli Stati Uniti d'America sono una nazione sovrana, non tollereranno nessun conflitto di interessi che ponga in gioco il benessere di questa nazione. Se tu ti senti minacciato a morte e la tua vita è per te un valore assoluto, dovrai cedere a tale minaccia.

3) Il modo di trattare un conflitto pluralistico non è attraverso qualsiasi sforzo che cerchi di convincere l'altro e nemmeno per mezzo del procedimento dialettico soltanto, ma attraverso un dialogo dialogico che conduca ad una vicendevole apertura, fino all'interesse per l'altro, alla partecipazione ad un comune carisma, difficoltà, sospetto, guida, ispirazione, luce, ideale, o qualsiasi altro valore più alto che entrambe le parti riconoscono e nessuna delle due controlla. Il dialogo dialogico è arte così come conoscenza, implica techné e praxis, come pure gnòsis e theoria e la difficoltà consiste nel reinterpretare questo anche quando uno dei partner rifiuta di entrare in una simile relazione.

Esempio: se l'infallibilità del Papa è indispensabile per la Cristianità secondo i cattolici romani ed è solo un accidente storico secondo i protestanti, non si troverà via d'uscita dall'impasse soltanto attraverso la controversia; dovrà anche essere ricercata una comune convergenza nella lealtà in uno spirito comune superiore ad entrambe le parti.

4) Non solo la discussione, ma anche la preghiera, non semplici parole, ma forse silenzio, non decisione, ma piuttosto consentire alle situazioni di comporsi da sole, non autorità, ma una reciproca più alta obbedienza, non conoscere le soluzioni, ma ricercarle congiuntamente, non pura esegesi di regole o costituzioni, ma libertà di iniziativa anche a rischio di rotture ecc., sono gli atteggiamenti atti a trattare i problemi effettivamente pluralistici (da non confondere con i problemi di pluriformità). L'atteggiamento pluralistico non assume a priori istanze non negoziabili. È in ogni caso una nuova creazione.

Esempio: se la teoria fisica corpuscolare della materia e della energia sembra incompatibile con la teoria ondulatoria, è opportuno mantenere in sospeso qualsiasi spiegazione finale, fino a quando qualche ulteriore dato possa risolvere il problema o spostare la questione.

5) Vi è un continuum fra la pluriformità e il pluralismo e la linea di demarcazione è una funzione di tempo, luogo, cultura, società e la resistenza spirituale e la flessibilità di un gruppo particolare, tribù, provincia o individui coinvolti. Quello che per alcuni è solo una questione di pluriformità, per altri è un problema di pluralismo. Chiunque veda una particolare questione come di pluriformità, non dovrebbe dimenticare che per l'altra parte può apparire di natura completamente diversa, e così aver bisogno di essere risolta in modo del tutto diverso.

Esempio: per una parte il matrimonio è un sacramento permanente, e un contratto transitorio è - ed era - non matrimonio; per l'altra parte matrimoni permanenti e transitori possono essere semplicemente differenti tipi di matrimonio. Un problema pluralistico si pone quando non ci troviamo concordi sulla vera essenza di ciò che stiamo discutendo - il matrimonio, la democrazia, la giustizia, il Cristianesimo, la bontà...

6) Il problema del pluralismo non si deve sempre risolvere mantenendo l'unità. Ciascun gruppo umano ha il suo proprio coefficiente di coesione, uniformità ed armonia... Ciò che può non rompere l'unità di una cultura o di una religione, può molto bene scombussolare una nazione o una chiesa. La forza di questo coefficiente è di nuovo un dato - un dono - eppure uno può rafforzarlo. L'atteggiamento spirituale dei membri di una società influenza positivamente la forza di questo coefficiente. Come regola generale, ogni società dovrebbe lottare per essere pluralistica nella misura in cui può consentirselo. Ma ogni società ha i suoi limiti.

Esempio: un gruppo moderno entro una congregazione religiosa di celibato tradizionale può desiderare di avere gente sposata come membri a tutto tondo di quella stessa istituzione. Alcune congregazioni possono essere così strutturate esistenzialmente da consentirlo, mentre altre debbono necessariamente partire da una fondazione del tutto nuova.

L'occasione è troppo allettante per non introdurre un altro istruttivo esempio: come qualcuno in India sa, e gli ultimi capitoli del secondo libro del Ramayana ripetono così insistentemente, il marito è la più alta divinità per la moglie (param daivatam patih) e dovrebbe essere amato sia che sia cattivo, temperato, o povero o perfino licenzioso o sleale. Dovremo dire lo stesso del marito riguardo alla moglie, ma non è il mio obiettivo. Il mio assunto è che l'equilibrio è facile da mantenere in una situazione di equilibrio e quando la parità è presente: ti sono fedele perché anche tu mantieni la fedeltà. Il problema nasce quando non sei più una persona attendibile. Possiamo divorziare, separarci, rompere l'unità (della famiglia) del paese, della chiesa, del gruppo o dell'associazione), ma non possiamo mantenere l'unità, se una delle due parti non ha deciso di restare fedele nella buona o nella cattiva sorte. Dovremo noi - o chiunque altro - disarmarci, anche se l'avversario continua ad accumulare armi?

7) Il passaggio, la pascha dalla pluralità alla pluriformità e da qui al pluralismo, appartiene alle doglie crescenti della creazione, al vero dinamismo dell'universo.

Esempio: il carattere monolitico della Chiesa Cattolica alcuni decenni fa e il suo pluriforme aspetto di oggi, lo stato-nazione totalitario di alcuni secoli fa e la sua evoluzione entro la liberal democrazia, offrono esempi di questo "transito".


La non-violenza, ovvero non resistere al male dipendendo dal male


3. Le Esigenze del Pluralismo. Siccome ho iniziato con la Bibbia permettetemi di concludere citando una delle massime più audaci del kerigma di Gesù, che si trova ad un certo momento nel Sermone della Montagna: "Non resistete al male!". Se prendiamo queste parole per quello che dicono, o la sciocchezza, o l'ottimismo, o l'innocenza dietro di esse è incalcolabile... oppure tutto il discorso non ha senso. Io suggerisco una risposta "né/né" a questo dilemma, e considero queste parole un motto adeguato per la nostra meditazione sul pluralismo.

"Non resistete, non opponetevi al male!". Possiamo tradurre con la Revised Version: "Non resistere a lui che è il male" o, con la Nuova Bibbia inglese, "Non metterti contro l'uomo che ti fa del male", dato che la parola può significare "male", "il maligno" o "un uomo cattivo", malvagio: tuttavia la terza interpretazione è da preferire, come mostrano il testo e il contesto. Possiamo opporci al male, dobbiamo resistere al demonio, come dice James Version, ma non dovremmo opporre resistenza all'uomo che fa del male; anzi dovremmo porgergli la guancia sinistra e, offrendogli anche il nostro mantello, fare il miglio in più. Perché? Perché altrimenti sarete attratti nel gioco dialettico; dovrete costruire un altro potere per opporlo al primo, e così via. Così, da reazione a contro-reazione, da slancio a contro-slancio si produce l'arcinoto movimento pendolare del mondo. "Dio" era con la Destra, ora "Dio" è con la sinistra; prima dominavano i maschi, ora alcune femmine vogliono fare da padrone; i poteri coloniali hanno sfruttato altri popoli, ora gli altri popoli stanno ricacciandoli indietro con tutte le armi che hanno a loro disposizione... e si continua sempre così. "Ora è il nostro turno di costruire la Torre di Babele fino in Paradiso! Noi, il Proletariato, i Cinesi, i Liberali, gli Scienziati...".. Eppure leggiamo: Non opporti a una cattiva azione, perché al male si può resistere solo con il male e due mali non fanno un bene; perché il male non è assoluto e, esasperando l'uomo cattivo col fatto di resistergli, voi non fate che accrescere il male; opponendovi ad esso, voi ne siete contaminati. Se qualcuno ti colpisce, non c'è fine alla ritorsione; finché non hai accumulato bombe più grosse che ci distruggeranno completamente. Se non interrompi questo flusso del cattivo Karma cessando di assimilarlo e di abbracciarlo, l'esito sarà la distruzione del mondo. I Cristiani parlano dell'Agnello che ha preso su di sé il peccato del mondo; i Buddisti pongono l'universale Karuna o compassione come la sola via per l'illuminazione del mondo, per citare soltanto due religioni universalistiche. O, come dice il Ramayana, la pietà verso tutti gli esseri è la più alta virtù (Bhutadaya-param).

"Non resistete all'uomo malvagio". Una volta dichiarata guerra al male, vi ritrovate non solo immersi in esso, ma anche dipendenti da esso. Non siete più liberi di vivere secondo i vostri termini. Siete catturati nella rete del male stesso ed è irrilevante se vincerete o se sarete sconfitti. Il veleno è già in voi. Il male si può combattere ed anche negare solo sullo stesso piano. Voi non potete più porvi al ci sopra di esso.

La "strategia" dovrebbe essere più sottile. "Non resistete all'uomo malvagio", perché il male non è un assoluto. Superatelo, ma non siate attratti da esso, non cadete nella tentazione della ritorsione, di colpire mentre siete colpiti, di entrare nel solo luogo entro il quale il male vi consente di muovervi: la sua arena. Questo non significa minimizzare il potere del male. Dovete avere i piedi ben piantati per terra per resistere all'attrazione del male. Non è forse vero che, quando decidiamo di combattere il male, noi "pensiamo" che siamo sul punto di essere vincitori e di sconfiggerlo? Un male sconfitto permea l'intero corpo del vincitore, come ben sanno alcuni storici. Siamo difficili da convincere solo quando siamo intossicati dal pensiero della possibile vittoria: non siamo veramente così puri e incontaminati. O, in termini filosofici, spesso male interpretati: il male non e un'entità separata e positiva, ma solo una privazione. E voi non combattete frontalmente un'assenza. D'altronde, come potrebbe l'autore delle parole appena citate aver detto nel momento più decisivo della sua vita: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che stanno facendo"? Solo il perdono cancella il male.


Pluralismo non significa solo tolleranza delle molte vie. E affrontare l'intolleranza senza esserne spezzati


Non sto affermando che noi dovremmo essere indifferenti al male o abolire tutti i giudizi di valore. Non sto difendendo la pura passività di fronte, diciamo, al Nazismo (è sempre più comodo fare riferimento a cose del passato - avrei potuto dire, invece, Comunismo? Capitalismo? Regimi militari?). Sto dicendo che il modo di lottare contro ciò che ognuno considera le forze del male non consiste nell'opporre dialetticamente al male ciò che noi riteniamo essere non-male, ma nel trasformare, nel convertire, nel convincere, nell'evolvere, nel contestare - e questo, possibilmente, dal di dentro, come lievito, come testimone, come martire.

Il pluralismo, perciò, non significa che noi riconosciamo molte vie (pluralità), ma che noi scopriamo molte forme che non possiamo riconoscere come vie tendenti alla meta. Pluralismo non significa solo tolleranza delle molte vie. È piuttosto quell'atteggiamento umano che affronta l'intolleranza senza esserne spezzato.


Trattare i conflitti in modo diverso che non annientando l'avversario


Dopo l'esperienza che abbiamo accumulato sul fiasco di altri mezzi aggressivi, che supponevamo essere effettivi ed immediati, possiamo trovarci più pronti oggi a trattare i conflitti umani, aumentando la nostra energia e capacità di sopportazione, così da essere capaci di portarne il peso senza venirne schiacciati, di assumere e assimilare il male, piuttosto che aggiungere le nostre proprie energie come altrettanto combustibile per i suoi fuochi. Qui, di nuovo, bere il veleno e non venirne danneggiati è sempre stato uno dei segni di coloro che credono. Se si prende entro se stessi il veleno, come Shiva, se si assimila il male, questa specie di tolleranza richiede, naturalmente, una più profonda penetrazione entro la natura dell'Uomo e della Realtà e una più forte presa sulla sorgente del potere interiore. Qui, forse, si cominciano ad intravedere le proporzioni di una metanola radicale - una mutazione non dell'Uomo soltanto, o del Mondo soltanto, o di Dio soltanto, ma di tutte e tre le dimensioni del Reale - in concerto e in cooperazione. L'Agnello che toglie il peccato del mondo, il capro che viene sacrificato sul terreno neutrale, l'olocausto che viene compiuto per la salvezza del popolo - in una parola, l'aspetto rituale della vita dell'Uomo, che, nonostante le superstizioni esagerate e le innegabili aberrazioni, fa parte della natura dell'Uomo - sono tutti tentativi non-violenti e meno violenti di trattare i conflitti in modo diverso dall'annientare l'avversario. Sono modi non-dialettici di trattare un conflitto; agiscono non attraverso l'opposizione ma l'assimilazione, non attraverso le contromisure, ma per mezzo della redenzione o col prendere su di sé il peso comune, non attraverso la sconfitta dell'avversario, ma per una (mutua) conversione a un livello più alto.

Il "realista" mi ricorderà immediatamente che noi non siamo Dio e che con tali atteggiamenti pacifisti noi rendiamo confusa qualsiasi distinzione tra bene e male; potremmo spezzettare l'India in una dozzina di Stati, minare il ruolo degli Stati Uniti come guardiani della Democrazia, rovinare il Cattolicesimo, distruggere la società, permettere ai "criminali" (sempre gli altri) di annientarci, pervertire le istituzioni umane e lasciare che il caos domini il mondo.

Fedele al metodo che ho proposto, non opporrò semplicemente la mia tesi alle affermazioni esposte sopra, ma prima riesaminerò la mia posizione e vedrò se non vorremmo convenire, forse, sul fatto che la linea deve essere tracciata in qualche posto (nel senso che il pluralismo ha limiti definiti per ciascuna situazione). In secondo luogo, inviterei gli altri a vedere se il metodo attuale di fronteggiare la violenza con la violenza abbia dato migliori risultati, così che il caos, su cui ci ammoniscono, possa non essere migliore dell'apparente pace attuale per mezzo della violenza istituzionalizzata - in un tempo nel quale, in cifre assolute, non ci sono mai stati tanti esseri umani in catene, sofferenti e nella disperazione. In terzo luogo, sarebbe una contraddizione in adjecto imporre metodi non violenti.

Al primo punto si può replicare che solo un essere infinito, certamente, può circoscrivere il bene e il male - che ciascun essere umano e ciascuna società umana ha il suo particolare coefficiente di magnanimità: solo Shiva può bere tutto il veleno del mondo, o il divino redentore può essere caricato della totalità del peccato del mondo. Noi, inevitabilmente, soffriamo per la nostra incapacità di assimilare una più ampia porzione di male entro il nostro metabolismo umano. Quanto al secondo punto, non dovremmo pretendere la purezza, ma tentare forme di vita umana, diverse da quelle dominate da singoli immutabili principi. Il terzo punto dovrebbe cautelarsi sul fatto che la non-violenza istituzionalizzata potrebbe diventare deleteria quanto altre più dure forme di costrizione. Qualsiasi erezione di assoluti ci conduce alla sparizione del pluralismo.

Lasciate che vi offra un altro esempio: sono personalmente convinto che oggi la schiavitù, come istituzione sociale, è un male. Eppure sono anche convinto che, ad un certo momento della storia, la maggior parte della gente (almeno tra i non schiavi) trovò una giustificazione per essa. Non sto commettendo l'errore metodologico che ho chiamato catacronico: giudicare col metro del presente vaste porzioni di passato. Il mio assunto qui è che la schiavitù a quell'epoca non era un male tanto intollerabile, precisamente perché la maggior parte della gente la trovava compatibilmente tollerabile. Qualcosa di simile capita con il Comunismo, il Nazismo, il Capitalismo, il Colonialismo, e l'Apartheid, la corsa agli armamenti, ecc. Alcuni considerano questi esempi inumani e crudeli quanto la schiavitù. Altri possono non essere della stessa opinione. Possiamo ricombattere e rimetterci in lotta, costruire un'altra torre, oppure possiamo cominciare a parlare un'altra lingua e rifiutare semplicemente di pagare le tasse o di entrare nell'esercito o di collaborare con il regime e così via. Sono convinto che il primo metodo perpetua solamente il male. C'era una volta un pio asceta, apprendiamo dal Ramayana, che viveva la sua vita santamente nella foresta. Il malvagio tentatore, il divino Indra, si presentò al suo eremitaggio sotto forma di soldato. Lasciò una splendida spada in deposito presso il savio. Allo scopo di tenerla con la debita cura l'eremita prese l'abitudine di portarla sempre con sé. Lentamente il saggio divenne negligente dei suoi doveri, si volse alla crudeltà e fu condotto in adharma, finendo all'inferno. Chi ha orecchie intenda. O, proprio con le parole della stessa principessa Janaki: "Con grande sottigliezza un'anima nobile è condotta in adharma". In altre parole, una società pluralistica è una realtà flessibile, che dipende dalla salute spirituale o dal potere dei suoi membri.

Dobbiamo guarire dai sogni di nuovi imperi mondiali


Ma è tempo di concludere.

Ho detto che vi è un urgente bisogno di una nuova fantasia, di una nuova visione, di un'esperienza mistica che tocchi il vero nucleo del Reale kat'exochen - e non solo - dell'essere umano individuale o della razza umana soltanto. Noi abbiamo assistito a quel che probabilmente abbraccia quaranta secoli di specializzazione, ossia allo smontare in pezzi diversi e, seguendo le orme di Descartes, al diventate sempre più perspicaci circa sempre meno (un procedimento sul quale non dovremmo sogghignare, perché senza di esso non saremmo nemmeno sopravvissuti). Ma ora forse, è venuto il momento di ricomporre questi pezzi entro un nuovo insieme, che non ignori né disprezzi la diversità e che perciò non possa venire ridotto a qualche blanda o monolitica uniformità.

La categoria dell'umano oggi dovrebbe necessariamente guarirci da tutti i sogni irreali e messianici di nuovi imperi mondiali, anche se annunciati da grandi, trionfali strombazzate di Libertà, Dio, Verità - che sono i veri simboli positivi; ma noi non abbiamo né la totalità di essi, né un monopolio su di essi.

Ho detto che noi abbiamo a che fare con un mito e un mito è qualcosa su cui non possiamo mettere la mano senza disperderlo. È qualcosa che noi non possiamo manipolare. Non siamo pluralisti se integriamo tutto in una visione del mondo "Pluralistica". Siamo pluralisti se riteniamo che nessuno di noi possiede la pietra filosofale, la chiave per il segreto del mondo, l'accesso al centro dell'universo, ammesso che ci sia; se ci asteniamo dal pensare esaurientemente tutto per timore di distruggere "la cosa pensata" (das Gedachte, non der Gedanke) e il pensatore. Questo non è irrazionalismo. È umiltà intellettuale o buon senso.


il criterio della realtà è di essere "a prova di pensiero", cioè resistente al pensare


Permettetemi di dirlo ancora in puro linguaggio filosofico. Se noi pensiamo (ausdenken) l'Eucaristia, la distruggiamo; se Dio, egli svanisce; se un atomo, esso scompare; se una persona, noi la perdiamo; se un albero, non lo comprendiamo. In altre parole, pensare ha un potere corrosivo; distrugge ciò che davvero pensa a fondo. Quando tocca la superficie di una cosa, va bene - la cosa ancora mantiene uno spessore non toccato dal pensare. Il prezzo del comprendere è che noi trasformiamo, assimiliamo e così cambiamo, assorbiamo e alla fine distruggiamo la cosa compresa, rendendola un oggetto, un concetto, una concezione concepita dal nostro pensare. Fino a quando noi non pensiamo una cosa in modo esaustivo, quella cosa sta ancora fuori dal nostro pensare, cioè esiste (ek-sist, mette fuori il suo collo). Ma proprio per mezzo di questo fatto noi guadagniamo un'intuizione decisiva riguardo alla natura della realtà. Questa: il criterio della realtà è precisamente di essere "a prova di pensiero", cioè resistente al pensare. Quando qualcosa non obbedisce al nostro pensiero, quando offre resistenza, mostra la sua realtà per mezzo di questo stesso fatto. Indubbiamente noi non possiamo "pensare a fondo" (nel senso di pensare esaustivamente) l'eucaristia, o Dio o un atomo o una persona o un albero. Essi offrono una resistenza di altro tipo da quella, ad esempio, di un triangolo o di un sillogismo logico. Questi ultimi sono inscandagliabili, producono sempre più e noi non scopriamo i loro limiti; possono esserci sempre più proprietà in un triangolo e più raffinamenti in un argomento logico. Offrono la resistenza della foresta siberiana: non c'è nessuno là e tu non sai che cosa c'è oltre e se avrà mai fine. I primi offrono la resistenza della Muraglia Cinese. Tu sai che tutta la gloria dell'impero è dietro di essa e che tu non puoi demolire il muro. Ma tu sai anche che se ti riuscisse, avresti distrutto il regno del Sol Levante (con tutte le mie scuse agli storici per questo trasformare fatti storici in metafore filosofiche!). Un albero, ad esempio, arresta semplicemente la nostra riflessione ad un certo punto. Possiede un recinto proibito o, piuttosto, impenetrabile al nostro pensiero. Se potessimo pensarlo fino in fondo, distruggeremmo l'albero (e alcuni di voi possono ricordare il potere di tapas e della concentrazione); l'albero diventerebbe totalmente un oggetto della nostra mente. Questa è la differenza fondamentale fra un'idea di Dio, che ha infinite possibilità, e un Dio reale che arresta e mette a tacere il nostro pensare. Questo limite è qualcosa che non ci può essere imposto da niente, fuorché dalla resistenza della cosa stessa. E paradossalmente (come ho già suggerito), noi siamo allora convinti che la cosa è vera ed esiste; siamo condannati, sconfitti, sopraffatti dalla cosa e le nostre accuse - cioè le nostre categorie con le quali cercavamo di capire la cosa - ritornano a noi, proprio come se rimbalzassero dalla forza della cosa. Giacobbe combatté con Dio in forma di angelo e sperimentò la sua realtà il giorno dopo, quando sentì che era stato colpito. La riflessione umana, quando non è un orbitare solipsistico sui nostri propri costrutti, riporta sempre la ferita della cosa che ha toccato, la cosa che ha cercato di "flettere", di piegare, perché ci potesse dare il suo segreto. La riflessione fa più male del raggio laser. Se le cose stanno così, la fondazione del pluralismo implica il riconoscimento di una debolezza, non nella nostra mente - così che se noi fossimo più intelligenti potremmo pervenire ad una singola verità teoretica sulla quale tutti gli uomini sarebbero d'accordo - ma nella natura della realtà, cioè sia nel potere del nostro pensiero che nelle cose stesse. È più che un esempio di prospettivismo, perché in questo caso potremmo sempre arguire che, nonostante il fatto che vi sia un'altra prospettiva che vede le cose in modo differente, la nostra propria prospettiva è quella adatta per quel particolare scopo, che è lo scopo "reale". Ammettere prospettive diverse su una questione sposta solo il problema, perché allora dobbiamo ricominciare daccapo a discutere quale sia la prospettiva giusta per quel caso particolare, e così via.


il pluralismo non è la mera giustificazione di una pluralità di opinioni, ma la percezione che, il reale è più che la somma di tutte le possibili opinioni; e l'uomo è in-finito


Il pluralismo non è la mera giustificazione di una pluralità di opinioni, ma la percezione che il reale è più che la somma di tutte le possibili opinioni. La "intelligenza" di Laplace non può esistere: significherebbe distruggere tutto e, per di più, non conoscerebbe se stessa. Non vi è "intelligenza" come Laplace immaginava. Il pluralismo afferma che Parmenide aveva torto, se vuoi, ma che noi abbiamo ugualmente torto se pretendiamo che Eraclito che lo contraddisse avesse ragione. La Realtà non è dialettica; benché la dialettica, naturalmente, abbia un posto nella realtà. Possiamo sentirci disorientati di fronte a tanti "orienti", a tante bussole, medicine e profeti. Eppure non dovremmo rassegnarci e cercare di rinchiuderci nel nostro egoistico individualismo, ma invece riconoscere che l'Uomo stesso e la Realtà sono pluralistici (né monistici, né dualistici), e perciò che l'immensa varietà di quello che appare come conflittuale (se guardato dialetticamente) può essere trasformata (oserei dite convertita, ma questo non è un processo automatico) in tensioni dialogiche e polarità creative. Tutto ciò che occorre è che noi sperimentiamo, tocchiamo, raggiungiamo quel vero nucleo della realtà che ci rende così diversamente unici da essere ciascuno incomparabile, e così unicamente unici che tutte le nostre differenze appaiono come altrettanti vividi raggi di una luce insondabile.

In parole povere, ho detto che nessun gruppo, nessuna verità, nessuna società, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, perché l'Uomo è sempre inafferrabile, non completato, non finito, infinito - ancora in via di costruzione, per via, itinerante - come lo è l'intera realtà nella quale l'Uomo è un partecipante attivo. E questa libera e attiva partecipazione, eppure solo partecipazione, che rende le nostre vite realmente degne di essere vissute. Ed è proprio questo ciò che io volevo condividere con voi.


A modo di epilogo: la nuova Babele


Epilogo. Una volta, tanto tempo fa, tutto il mondo era un pianeta solo e divenne una singola gigantesca città, la megalé polis, Babilonia. I figli dell'Uomo avevano costruito la Scienza e la Tecnologia, credevano nella Ragione e nella Civiltà e avevano già imparato ad usare con successo (non si può dire parlare) un singolo codice - scientifico razionale - Esperanto. Siccome gli Uomini si muovevano tanto agevolmente da Oriente ad Occidente, giunsero alla constatazione che stavano vivendo sulle pianure di un territorio che essi chiamavano Terra e decisero di rimanere là dove i loro antenati si erano stabiliti. E si dissero l'un l'altro:

Venite, facciamo le Nazioni Unite e creiamo gli Stati Uniti, i Mercati Comuni e le Internazionali di tutti i tipi; venite, limitiamo i nostri armamenti a non più che la capacità di distruggere i pianeti un migliaio di volte; facciamo le macchine che lavoreranno per noi e avremo, Corse, se ci sarà bisogno, qualche popolazione del "quarto" o del "quinto mondo" che lavorerà per le macchine; usiamo Duralluminio e Oro e Plutonio e Uranio arricchito. Venite, dissero, facciamo un solo Mondo, una sola Civiltà, davvero un solo Pianeta per la prima volta e non assomigliamo ai nostri ingenui e sciocchi antenati che credevano che l'Impero Romano fosse il mondo intero, il Cristianesimo la Religione del genere umano, la Muraglia Cinese il recinto della cultura e simili sogni utopistici. Con i nostri viaggi supersonici, i nostri voli interplanetari, abbiamo infranto la barriera del suono e anche quella dello spazio; presto infrangeremo anche la barriera del Tempo. Costruiamo una perfetta (chi può scherzare con una perfetta banca dei dati computerizzati?) società del benessere, senza classi, socio-capitalistico-paneconomica, combinando il meglio dei nostri sforzi, e costruiamo una torre umana con la sua vetta nella luna per ora, così da non suscitare gelosie e da non imitare i nostri antenati creduloni che ancora credevano nel. cielo. Diamoci un nome, inviamo messaggi nello spazio esterno per far sapere all'universo quanto siamo bravi, uniti e felici. Altrimenti saremo scaraventati dappertutto per luogls inospitali e perderemo la nostra identità. I nostri dogmi evolutivi ci dicono che siamo venuti da molto lontano, dalla nebulosa gassosa via scimmie e primati e che stiamo viaggiando verso un punto omega via galassia alfa.

Allora il Signore venne giù per rallegrarsi delle meraviglie di questa illuminata civiltà Umanistica e Scientifica e per vedere la Torre che gli Uomini avevano costruito. Egli aveva udito alcune altre voci diverse, ma altrettanto umane, per cui temeva che non tutto fosse così scintillante e sospettò che tutto fosse avvolto in propaganda politica, studi statistici e grandi conferenze. Costoro stavano gridando a gran voce che il mondo stava vivendo sul credito del tempo e dello spazio, mettendo in secondo ordine il vivere e i problemi reali, come se lo spazio e il tempo fossero infiniti.

Lo spazio - gridavano questi zeloti nel deserto - ha cominciato a mostrare i suoi limiti, gli oceani sono pieni di inquinamento e la terra è svuotata della sua energia. Perfino il futuro ha cominciato a dare segni di non essere illimitato, non solo nelle vite personali (la morte), ma anche su scala cosmica: siamo a corto di tempo. Il debito monetario di una singola nazione, per fare un esempio più concreto, richiederà un minimo di quattro anni di lavoro esclusivo di tutti i suoi cittadini per essere sanato - e nuovi mercati non saranno subito disponibili...

All'ora del levarsi della brezza della sera, il Signore andò a fare una passeggiata, per constatare di persona. La gente non sapeva con sicurezza in quale sobborgo della megalopoli della Torre doveva tenersi il Capitolo ed Egli aveva la sensazione che potessero venire ad un confronto, ma essi erano troppo intenti alle loro competizioni, per voler alterare l'equilibrio di potere, che aveva portato la Torre ad un così avanzato stadio di costruzione. Essi l'avevano quasi finita, a tal punto che avevano ridotto la "maledizione" della vecchia Babele, che lasciò il mondo con oltre quattromila linguaggi, a una mezza dozzina di lingue (per tutti gli scopi seri, cioè pratici). A dite il vero, le loro attuali lingue, erano molto peculiari. Bestemmie, imprecazioni e spergiuri erano praticamente scomparsi dalla faccia della terra e così pure la fedeltà alla parola data. Apparentemente una grande inflazione di parole aveva obbligato gli Uomini a usare, invece, parole di carta. Avevano carte in una mano e segni nell'altra, tanto civilizzata la razza dell'Uomo letterato era diventata; erano Uomini di lettere, non di parole. Naturalmente, le "segnaletiche" umane erano ben organizzate da delicati computers e potevano far arrivare i voli in tempo, i pacchi puntualmente e le ore di lavoro, soprattutto, utilizzarle al minuto - e far ben conoscere "i bisogni" dei clienti alle agenzie commerciali. La razza Umana era diventata vecchia o, forse, intelligente, con una forma di saggezza diversa da quella tradizionale. Allo scopo di sfuggire alla confusione della prima Babele, la nuova civiltà stava convertendo le parole, che una volta erano simboli vivi e perciò polisemici, in termini che erano puri simboli e, perciò, univoci. L'univocità era l'ideale e le metafore, sospettate di essere non scientifiche, erano in declino - almeno per tutte le questioni "importanti". L'ideale era ridurre tutto a formule quantitative. Solo allora le inutili discussioni sarebbero state eliminate. Il "presente", ad esempio, era stato ridotto alle ore 20,57 del giorno 15 del mese 10 del 1984 e, se qualcuno avesse contestato tale "fatto", sarebbe stato semplicemente inviato ad un reparto psichiatrico. La giustizia, per fare un altro esempio, stava avviandosi a trovare parametri quantitativi. Doveva ridursi a 2.000 calorie per ciascuno stomaco, un certo ammontare di danaro per ciascuna tasca e a 3 o 10 o più mesi o anni di prigione per ciascuna infrazione alle regole. Il parlare a vuoto, senza chiarire tutto sulla natura della bellezza o dell'amore o del dharma o del karma e simili, stava cadendo in disuso. La gente non avrebbe più avuto bisogno delle proprie opinioni fallibili. La maggioranza avrebbe deciso. La ricerca era possibile, ma non il dialogo. Senza dubbio, vi erano pure alcuni che volevano di nuovo il fuoco dal cielo, ma il cielo non era più l'abitazione di Dio.

E il Signore Dio non ascoltava le preghiere dei "credenti" di convocare i suoi angeli per costruire un'altra Torre, in modo tale che, dalla più poderosa fortezza angelica, le sue schiere potessero facilmente abbattere Babele. Il Signore ancora si ricordava della sua ironica politica nel Paradiso, quando aveva incitato l'Uomo a mangiare dall'Albero della Scienza del Bene e del Male col proibirgli di farlo. Questa volta il Signore non proibì ai figli di Donna di costruire la Torre dei loro sogni. E Babilonia fu edificata e gli ziggurats- sono ancora là, per quanto vuoti e in rovine. Babele fu dispersa, ma non altrettanto Babilonia, (Atene, Roma e tutti i loro successori), la quale oppose resistenza a Oholibah (Gerusalemme e i suoi successori), quando fu attaccata dialetticamente. Solo un ex-Manicheo poteva scrivere di "DueCittà" e premere il grilletto delle dialettiche della Cristianità Occidentale. Questo accadde molto tempo fa. Il fatto è che il Signore non resistette agli scopi malvagi degli Uomini; semplicemente consentì all'individualismo egoistico di penetrare nelle loro teste e di impregnare le loro lingue, cosicché non vi fu più un linguaggio comune. La sua precedente ironia, che a quel tempo egli considerò come "esprit de finesse", quel gioco di parole inter-culturale, che Egli si era permesso di fare, non lo convinceva più. Voleva convertire ogni Uomo in un poeta; questa è la ragione per cui dette ad ognuno la sua lingua. Invece, Babele come Babilonia, "il Cancello di Dio", babilim, divenne Babele come balal "confondere". Egli non poteva supporre allora che Arte (techne) e Parola (logos) fossero diventate "tecnologia". Anzi, il Signore disse:

Eccoli qui, essi credono di formare una unità, perché tutti quelli che ne hanno i mezzi usano le stesse vitamine, aggeggi e materiali di plastica; anche il letterato usa (non diciamo parla) una delle più importanti lingue per le quali vi è traduzione simultanea. E ora che si stanno avvicinando al termine della costruzione, non perderanno il loro prezioso tempo, come Penelope, a disfare di notte il lavoro fatto di giorno, perché non ti sono rimasti corteggiatori: cominceranno a combattersi l'un l'altro per i posti più importanti, perché si capiscono troppo bene, conoscono tutto il gioco e hanno, in teoria, abolito i privilegi; si sono superati nel controllarsi l'un l'altro. Eppure sono, in qualche modo, ingenui, perché non sanno - altrimenti commetterebbero un suicidio collettivo - quanto sono soli, quanto lavorano per costrizione. Se smettessero di lavorare - come hanno preso sul serio quello che abbiamo detto loro tempo fa nel Paradiso! - si divorerebbero tra loro l'uno con l'altro. Non si rendono conto di quanto sono diventati dipendenti, dediti come formiche alla costruzione della Torre e della Metropoli. Che cosa faranno se riusciranno a finirla? Istruiti come sono, non hanno letto i segni dei tempi e non hanno compreso il significato delle guerre mondiali, delle carestie, delle crisi e delle rivoluzioni, tanto sono impegnati a decifrare i loro reciproci segnali in codice. Tutti sembrano essere estaticamente assorbiti nell'acquisire o conservare il potere. Venite, andiamo giù, disse il Signore, e confondiamo i loro significati, cosicché, quando diranno "democrazia", alcuni possano intendere dittatura popolare, alcuni licenzioso individualismo, alcuni un sottomettersi alla maggioranza e altri la manipolazione della opinione pubblica; quando dicono "giustizia , alcuni possano intendere il mantenimento dello status qua ad ogni costo, alcuni affermazione della proprietà, alcuni sovvertimento, alcuni violenza e alcuni non-violenza; quando dicono "amore", alcuni possano voler dire stupro, altri flirt, e altri ancora conquista, piacere e anche dolore, abnegazione di se stessi, o gratificazione di se stessi. Apparentemente non hanno ancora compreso che il linguaggio è il simbolo personale e concreto e che una lingua universalis non sarebbe un linguaggio- Venite, vediamo se, come il nostro Mistero Trinitario, che non è né un numerico uno né un quantitativo tre, o come la nostra Natura Non-Dualistica che non è né una né molte, ma un simbolo pluralistico del quale essi pure partecipano - vediamo se forse ritorneranno in sé, cosicché cominci a balenare nelle loro menti la convinzione che ciascuno dei bambini dell'Uomo è l'unica e, in un certo senso, l'intera realtà, che egli o ella riflettono come uno specchio, il migliore e il più puro che ci sia. Venite, andiamo giù, ma ora non è più il caso di inviare un avatar, o un profeta, o un saggio, o nemmeno mio figlio. Essi sono troppo scaltriti per credere in certe innocenti teofanie; non si darebbero nemmeno pena di lapidarli, bandirli, o crocifiggerli. Semplicemente li tollererebbero e li ignorerebbero, consentirebbero loro anche libertà di parola per renderli innocui e perfino, forse, con le dovute garanzie, permetterebbero loro di fondare una nuova piccola setta per una élite scelta e illuminata. Nei tempi antichi mandammo loro mediatori, ma essi li presero per intermediari; alcune rovine dei nostri interventi ancora conservano il nome pontificale, ma essi sono anche impegnati a costruire alcune speciali cupole della Torre e hanno dimenticato come si fanno ponti fra di loro, strade di comunicazione tra la gente. Essi hanno dimenticato che ciascuno ha il suo proprio centro ed è la sinfonia di questi centri che fa la musica delle sfere intorno alle quali essi hanno sognato, da quando i figli di Dio videro che le figlie degli Uomini erano belle, proprio perché ogni singola lingua umana è così bella e unica come qualsiasi figlio di Dio.

E il Signore esitò a convocare un'altra assemblea di Dei. Si ricordava molto bene che in una di queste assemblee essi avevano deciso di mettere il Cherubino al Cancello, per impedire all'Uomo di guardare indietro con nostalgia e per incoraggiarlo a continuare il suo pellegrinaggio. Eppure l'Umanità vuole sempre ritornare al Paradiso e non ha capito che l'essenza dell'Eden è la sua esistenza come Paradiso Perduto. Solo un Paradiso Perduto è reale. Questa è la ragione per cui non si può cercare guardando indietro, ma avanti. I figli dell'Uomo hanno preso la Caduta troppo sul serio, senza integrarla, allo stesso tempo, in una pari, originale e rigenerante Risalita. Essi hanno preso Babele come una maledizione, invece che come il nostro interessamento per il pluralismo e il rifiuto dei sistemi finiti e monolitici; hanno trascurato il fatto che, subito dopo Babele, noi siamo andati avanti fino alla chiamata di Abramo.


Ma, informato che l'uomo era diventato "adulto", il Signore rimase in silenzio


E il Signore rifletté ancora come in un'altra di queste assemblee, quando essi decisero che lo Spirito dovesse discendere di nuovo, ella (lo spirito) non ridusse tutte le lingue di Babele ad un singolo idioma, come se la verità vera avesse un solo linguaggio; e il suo scopo non era di creare una sola grande Cupola per albergare l'umanità intera, come se la creazione fosse cattiva e avesse bisogno di una ulteriore protezione; voleva semplicemente far sì che la gente si capisse reciprocamente, eppure parlasse lingue diverse, non una sola lingua; consentì loro di avere religioni differenti e non un singolo sistema di credenze, di amarsi l'un l'altro e non di amare le stesse cose. Babele è accaduta e rimane ambivalente, come tutte le cose viventi e reali, perché il Regno non è né una proprietà privata dentro, né un affare pubblico fuori, ma in mezzo ad ogni cosa che esiste. E il Signore ritornò su, domandandosi se la Torre sarebbe stata completata, o se la gente avrebbe imparato che la pienezza della vita non consiste né nell'isolamento in monadi individualistiche, né nell'agglomerazione in unità collettivistiche, ma nella comunione in totalità interdipendenti. Voleva lasciare un messaggio di speranza, o, almeno, una sola parola di amore, ma non osò... dopotutto, i suoi consiglieri avevano detto al Signore che ora l'Uomo è adulto e non accetta facilmente consigli da forze estranee. Il Signore rimase silenzioso: upararâma.
 

 

Da: http://www.dimensionesperanza.it/modules/xfsection/article.php?articleid=1700

 

 

 

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