in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Se Dio diventa un'ipotesi inutile

di Giovanni Ruggeri

 

La Nostra Domenica n°33, 16 settembre 2001
Lo sguardo luminoso di un bambino, l'apertura fresca di chi è giovane di spirito, la saggezza profonda di un «anziano» che a lungo ha navigato nei più diversi e complessi universi spirituali. Appare così, nell'incontro vis-à-vis, Raimon Panikkar, il maggiore studioso mondiale vivente di rapporti tra cristianesimo e religioni orientali. Maggiore studioso, senza dubbio, anche se in realtà Panikkar è qualcosa di più, per la sua autentica testimonianza dell'intimo intreccio tra pensiero e vita. Impegnato da sempre nel dialogo interreligioso, Panikkar ha assunto in prima persona gli oneri e i rischi di questa impresa, sino a sostenere con franchezza e lealtà la prova dolorosa - per un teologo degno del nome - della discussione di alcune sue posizioni da parte dell'ex Sant'Uffizio. Mai allontanatosi dallo spazio della Chiesa cattolica, Panikkar ha guadagnato anche attraverso queste vicissitudini una libertà e autorevolezza di pensiero che pure i critici di un tempo oggi gli riconoscono, mentre premi di prestigiose istituzioni culturali ribadiscono il pregio e il coraggio della sua opera, come è avvenuto ad esempio agli inizi di quest'anno in Italia con l'attribuzione del «Premio Nonino». In quest'intervista, Panikkar ha accettato di accostarsi con noi ad alcune delle più spinose questioni che interessano oggi il cristianesimo, spazio spirituale senza il quale nessuno riuscirebbe neppure a comprendere se stesso, ma con il quale molti faticano ad avere un rapporto nei termini tradizionali.

Professor Panikkar, pur non avendo reciso il proprio legame con il cristianesimo, molti si confessano oggi semplicemente smarriti davanti alle «grandi parole» che esso pronuncia. Ad iniziare dalla parola «Dio». Cosa significa per lei dire «Dio»?
«Lo smarrimento che Lei richiama è proprio dell'approccio al divino e la nostra tradizione è ricca di immagini che lo esprimono: nebbia, deserto, disorientamento, pelagus, mare senza fondo. Tutte le religioni dicono che il primo peccato è l'idolatria, cioè il farsi di Dio un'immagine, un idolo, peggio ancora un concetto. Ricordo che un grande monaco cristiano, Evagrius Ponticus, scrisse: «Beati coloro che hanno raggiunto l'ignoranza infinita». Lo stesso San Tommaso afferma che il massimo che possiamo conoscere di Dio è che non lo possiamo conoscere. Dio, ridotto alla stregua di un oggetto o di una cosa, è una delle cause dell'ateismo moderno. Di un Dio così non vale la pena occuparsi. Pensare dunque di poter afferrarLo con la nostra mente è un errore intellettuale e un'eresia teologica».

Credere in Dio allora cosa significa?
«È ben nota la distinzione che già gli scolastici facevano tra credere Deo, credere Deum e credere in Deum. Con l'espressione credere in volevano spiegare il fatto che nell'uomo c'è la consapevolezza ma non l'intelligenza della realtà divina, di qualcosa differente da ma non separato dal mondo. La fede è costitutiva dell'essere umano: ogni uomo ha fede. Che poi questa fede io la formuli in un modo o in un altro, secondo la rivelazione, secondo una tradizione o secondo quello che ho studiato e intuito, questa è altra cosa: non si deve confondere «credenza» con «fede». Credere in Dio esprime la consapevolezza che c'è un Mistero a cui si dà il nome di Dio. Da questo punto di vista la prova dell'esistenza di Dio sarebbe una bestemmia. Lo stesso Tommaso d'Aquino non parla di prove ma di vie, e l'unica cosa che egli vuol provare è che la fede in Dio non è irrazionale. San Tommaso non è così ingenuo da pensare che Dio si possa «provare», alla stregua di una dimostrazione matematica. Dio non è un ente matematico!»

Ciò nondimeno, il cristianesimo ritiene di poter fare delle affermazioni su Dio mediante la testimonianza di Gesù Cristo. Cosa significa?
«La fede cristiana usa simboli, non concetti. Il lento passaggio da simboli a concetti è invece responsabile della reificazione della fede. La religione non è soltanto mistica, ma senza mistica non è religione. Fede è più che fiducia. Quando io scopro in e attraverso Gesù, figlio di Maria, il mistero di Cristo, allora mi posso confessare cristiano. In questo mistero di Cristo uno scopre tutta la realtà; i cristiani la scoprono in e attraverso Gesù di Nazaret».

Ciò apre la strada a una miriade di considerazioni circa la presenza del mistero di Cristo nelle altre religioni, per non dire della pretesa alla verità assoluta avanzata dal cristianesimo.
«La verità assoluta è, a mio giudizio, una contraddizione filosofica: la verità è relazione, come sosteneva anche Tommaso d'Aquino».

Quali sono a suo parere i punti di forza e, al contrario, gli atteggiamenti meno fecondi negli orientamenti che la Santa Sede sta dando al dialogo interreligioso?
«Ho già scritto molto sul rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Per quanto riguarda il Vaticano, sospetto che abbia timore di perdere l'identità e tema esagerazioni in senso fideistico o à la new age. Da questo punto di vista concordo e condivido - non la paura, beninteso, ma la prudenza. Come al solito, si va da un estremo all'altro, sicché occorre pure qualcuno che dica: «Adagio, lentamente.» e che altri invece spingano per un rinnovamento. Non tutti i carismi sono uguali. Chi invece perde la speranza o la pazienza, mostra di non dimorare nell'ambito del vero tema e problema».

Per vari aspetti oggi dobbiamo vivere, e forse credere, come se Dio non ci fosse: l'agnosticismo sembra prendere il posto dell'ateismo di un tempo. Come può il cristianesimo parlare significativamente all'agnostico?
«Come ho già detto, la fede in Dio è agnostica: la fede non è gnòsis, non si conosce, come dicono anche tutti i Padri della Chiesa. La conoscenza religiosa non è una conoscenza né oggettiva né concettuale, bensì, da questo punto di vista, agnostica. Se così non fosse, saremmo dei fanatici o degli idolatri. Quanto alla premessa che Lei fa, essa rivela la crisi e la sfida del nostro tempo. Abbiamo convertito Dio in un'ipotesi superflua. Questo Dio senza il quale si può vivere non è Dio».

Tra cristianesimo e modernità i conti sono tutt'altro che chiusi. Come vede questo rapporto?
«C'è qualcosa di irritantemente vero nelle encicliche retrograde del secolo scorso (Mirari vos, Syllabus): non si può adattare il cristianesimo alle esigenze dell'ultima moda. C'è qualcosa di irritantemente vero nella reazione della modernità: non si può congelare il cristianesimo nell'immobilismo. Giovanni XXIII è il simbolo di questa tensione. Il problema rimane».

Intanto la Chiesa sembra insistere molto sugli aspetti etici della fede, rischiando di favorire l'identificazione del cristianesimo con un sistema etico.
«Innanzitutto farei una distinzione tra gerarchia della Chiesa - che io riconosco, accetto e anche ammiro, poiché non ha un compito facile - e Chiesa: non si può confondere quella con «la Chiesa». In secondo luogo, l'ottica che Lei segnala proviene quasi esclusivamente dal Vaticano, nemmeno dai vescovi di altri Paesi. Ora, pensando al cristianesimo, non possiamo avere una visione troppo occidentale, legata quasi esclusivamente alla storia dell'Occidente, spesso incomprensibile a chi questa storia non l'ha vissuta. Ora che, nel nuovo millennio, siamo più consapevoli dei condizionamenti storici dell'etica e anche del pensiero e vediamo la necessità di uscire dal colonialismo anche teologico, le prospettive che si aprono alla coscienza cristiana sono enormi, purché anche i cristiani di altre culture, a loro volta, abbiano coraggio pazienza, intelligenza e libertà».

La tradizione cristiana continua per molti a costituire un patrimonio di simboli e di immagini, ma a questo riconoscimento non segue spesso una professione di fede nei termini dogmatici tradizionali. Come valuta il fenomeno?
«Con molto poca originalità, le dirò: «Chi non è contro di voi, è con voi»; chi si crede scomunicato, si accusa da se stesso. Ciò che invece temo, come epidemia dei nostri giorni, è la superficialità, nella vita e anche nella teologia, nella visione cristiana delle cose. Ciò premesso, risponderei con San Paolo: «Purché l'Evangelo sia predicato, sono lieto»; purché la spiritualità si propaghi, purché la gente sia più serena e si apra al mistero di cui non ho io il monopolio, perché dovrei preoccuparmi?»

Ma, a suo giudizio, perché questa domanda di spiritualità viaggia al di fuori degli ambiti ecclesiali?
«Perché gli ambienti ecclesiali - per dirlo in termini puramente sociologici - non offrono questa spiritualità. Purché la spiritualità e la vita vengano veramente migliorate, suscita in me una grande gioia la diffusa ricerca cui Lei allude. Dovremmo gioire che la gente sia in ricerca, anche se cerca altrove. Se Dio non ha frontiere e non è monopolio di nessuno, perché scandalizzarsi o essere invidiosi? Che poi si vada a cercare fuori dalla Chiesa questa spiritualità che negli ambienti ecclesiali non è offerta o non si vede, mi pare proprio una provocazione dello Spirito Santo per far risvegliare i cristiani dal loro sonno».

Più volte nei suoi libri Lei fa riferimento al silenzio come spazio dal quale muove e al quale ritorna ogni parlare di Dio, ed anzi anche come luogo di una possibile esperienza di Dio. Cosa intende?
«Già Sant'Ireneo, applicando questa considerazione alla Trinità, affermava che la Parola esce dal silenzio. Se nella nostra vita non facciamo esperienza del silenzio, non accediamo nemmeno al livello dell'umano: senza vivere la realtà da cui scaturisce la parola, ossia il silenzio, ci si riduce a macchine calcolatrici. La perdita del silenzio è perdita di umanità. In secondo luogo il silenzio è vuoto, non dice niente. Esso è lo spazio nel quale ti puoi avvicinare nella maggior misura possibile a questo mistero senza nome, inafferrabile, superiore ad ogni intelligenza. Ora, poiché l'esperienza di Dio non è esperienza di alcuna cosa, di alcun essere, il silenzio sembra essere il luogo naturale nel quale si può dimorare in maggior prossimità a questo mistero. Sa perché le cose sono difficili? Perché sono semplici, troppo semplici, e allora. ci perdiamo, vogliamo un po' di complicazione. Parafrasando il Vangelo, mi verrebbe da dire: ti ringrazio, Signore, perché hai nascosto queste cose a teologi, filosofi, intellettuali, grandi di questo mondo, e le hai insegnate a quelli che non sanno parlare ma forse sanno ascoltare».

Si può andare verso l'ineluttabilità della morte con fiducia e speranza? Noi andiamo verso un finire radicale di cui non possiamo affermare né negare - prescindendo dalla fede - che esso sia passaggio ad altro.
«Una gran parte dell'umanità non ha paura della morte; ha paura della sofferenza, il che è un'altra cosa. La paura della morte è un fenomeno molto occidentale: se il tempo è un'autostrada che mi porta al cielo, all'inferno, al limbo, o al nulla, o a dove che sia, allora ho paura di non arrivarci. Ma se il tempo non è questo, se la realtà è piuttosto «tempiternità» - come uso dire con una parola di mio conio - allora la mia vita ha un senso adesso; e benvenuta sia la mia umana finitudine che mi fa scoprire l'unicità di ogni cosa, il valore di ogni momento, di ogni incontro, di ogni bicchiere d'acqua. Nessuna paura, dunque: Cotidie morior, dice San Paolo. E se la fede non trasforma la mia vita, allora questa fede è morta».

Karl Rahner ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà. Che ne pensa?
«Rahner era un mio grande amico e. avrei quasi preferito che Lei non avesse citato quella frase perché, in realtà, essa è mia! La pronunciai nel corso di una conferenza che Rahner presiedeva, poi lui l'ha ripresa in un suo scritto, premettendo: «Qualcuno dice che.», e aggiungendo: «Sembra che abbia ragione». Così oggi è diventata quasi una massima consacrata dall'autorevolezza del grande Karl Rahner».

Immagino che Lei la confermi integralmente.
«Certamente. Ma mistica vuol dire non parlare, mentre Lei mi ha fatto parlare troppo, e troppo in fretta, di problemi che richiedono un ritmo più contemplativo. Le sono però grato di questa conversazione per essa stessa, piuttosto che per quello che ho (mal)detto».

 

 

Da: http://www.lanostradomenica.it/notizia.asp?IDNotizia=616&IDCategoria=9

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