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Andrey Smirnov, Il vortice divino. Il
monismo come interdipendenza tra zahir-batin: il punto di vista musulmano e la
filosofia mistica di Ibn 'Arabi
Presentazione, di Alberto De Luca 
Come i genitori secondo la carne hanno un
amore naturale particolare per i loro figli, così anche la mente ha un
legame naturale con le proprie parole. E come i genitori che amano con
passione innaturale i loro figli, li considerano più capaci e più belli
anche se sono ridicoli, così anche alla mente insensata le proprie
parole appaiono sagge, anche se sono peggiori delle altre. Non così alla
mente saggia: quando le sembrano vere e belle, soprattutto allora non
crede al proprio giudizio, ma incarica altri saggi di giudicare pensieri
e parole perché non risulti inutile il lavoro (Gal. 2,2), e da questi
prenda fiducia.
-- San Massimo il Confessore
Questo testo si compone di quattro studi fatti
da Andrey Smirnov a distanza di tempo tra loro. Nel corso del nostro scambio
epistolare -- e di questo vado particolarmente fiero e lo ringrazio per
questa possibilità -- rinvenni un filo conduttore tra questi suoi
contributi, cui Smirnov diede subito il suo nome, che è appunto il titolo di
questo stesso testo: il monismo come interdipendenza tra zâhir-bâtin ovvero
il punto di vista musulmano e la filosofia mistica di Ibn ´Arabî.
La metodologia seguita dall'Autore è
improntata ad una rigorosa comparazione oggettiva, che non è però fine a se
stessa. Lo scopo esiste ed è ben chiaro. L'interpretazione della Realtà che
Ibn ´Arabî fornisce, è estremamente importante; tanto rilevante che essa
potrebbe essere «applicata» anche in contesti non musulmani. Del resto,
questa «inter-disciplinarietà» del pensiero di Ibn ´Arabî è già stata
evidenziata dal precedente lavoro di Smirnov (La
Filosofia mistica e la ricerca della Verità, Simmetria, 2005). Se questo
libro, però, manifestava convergenze e similitudini metodologiche tra mondo
musulmano e cristiano, il presente testo accantona, invece, il confronto tra
queste due grandi tradizioni per concentrarsi nell'esposizione della lettura
akbariana della Realtà.
Rimane, pertanto, al lettore quel lavoro
comparativo svolto in precedenza da La
Filosofia mistica e la ricerca della Verità, un compito certamente arduo
ma non impossibile, giacché è convinzione di chi scrive, che la lettura
akbariana della Realtà può essere sicuramente trovata all'interno del
Cristianesimo, pur se con le inevitabili quanto doverose differenze.
Smirnov è, quindi, riuscito -- a mio modesto
avviso, egregiamente -- ad esaminare a fondo le differenze, ad esempio tra
Rûmî ed Ibn ´Arabî, e riuscire alla fine a darne il giusto peso.
Nell'esempio ora citato, le differenze sono per lo più metodologiche e
semantiche piuttosto che metafisiche. Normalmente, poi, il riconoscimento di
una differenza comporta l'erezione di una barriera, uno iato o meglio una
discontinuità in forza della quale l'armonia viene minata.
L'atteggiamento dell'Autore è in questo senso
paradigmatico: non si accontenta di evidenziare una differenza e non
costruisce una barriera. La sua disposizione è, pertanto, talmente rara
oggigiorno, che andrebbe maggiormente coltivata. Senza cadere nella
retorica, attualmente il pensiero umano si accontenta delle sensazioni e
quindi si limita alla constatazione formale della Realtà, che giocoforza gli
restituisce la cifra della Sua varietà. Questa cifra, però, non è più
leggibile dall'uomo, che ha perso la dimestichezza con quel numero che è
l'Unità. Il risultato è, pertanto, la differenziazione e basta, quasi che il
nostro cuore fosse solo diastole e non anche sistole.
Certamente, però, la differenza semantica può
essere anche indice di un'assoluta divergenza, ma è compito di un attento
studioso quello di indagare il senso ultimo delle parole degli autori che
egli esamina.
Leggendo questo libro, si vedrà come un'intera
scuola, quella akbariana, ed un intero «movimento» -- mi si passi il termine
certamente non confacente --, quello del sufismo, siano accomunati dalla
conoscenza amorosa -- cognitio
experimentalis -- come
categoria, dall'intuizione come metodo, dalla libertà come criterio, dal
simbolo come strumento e dall'intenzionalità come realtà.
Caratteristiche queste ampiamente
rintracciabili anche all'interno del Cristianesimo, certamente con le debite
differenze.
L'Autore si muove sicuro all'interno della
filosofia mistica -- già affrontata e definita in A. Smirnov, La
Filosofia Mistica e la ricerca della Verità, Simmetria, Roma, 2005 -- in
cui è impossibile e, direi, proibito separare l'epistemologia dall'ontologia
pena l'irrilevanza sul reale.
Questo permette anche di ricordare che la
parola è primordiale, come ebbe a sostenere Bhartrhari, e che certamente
solo un mistico può comprendere un altro mistico, ma forse un terzo mistico
intenderebbe in modo diverso la medesima cosa. Non è pertanto possibile
eliminare l'interpretazione e questo lo si vuole ribadire.
Questo studio, però, si inserisce in una ratio di
più ampio respiro, tanto da poter dire che finis
studii non est finis quaerendi. Da quando, infatti, Smirnov è stato
tradotto in italiano -- Sufismo
e confraternite nell'islam contemporaneo. Il difficile equilibrio tra
mistica e politica a cura di
Marietta Stepanyants per la Fondazione Giovanni Agnelli -- egli ha sempre,
secondo chi scrive, evidenziato un carattere precipuo dell'insegnamento di
Ibn ´Arabî che può essere chiosato da un pezzo della presente traduzione:
Ibn ´Arabî infatti porta a compimento il
suo ragionamento presentandone l'inevitabile e logica conclusione,
dicendo che quelli che stanno cercando di aiutare le persone ad
abbandonare le fedi 'erronee', stanno in realtà impedendo a quelle
persone di adorare Dio e quindi stanno agendo contro la Sua volontà.
Per poter capire questa conclusione, anche e
forse soprattutto per lo scrivente, è necessario non solo considerare
l'intervento di Smirnov a Torino che è stato citato più sopra, ma anche lo
studio fatto sulla Hayra
Sufî e l'Arte islamica. La contemplazione della decorazione attraverso i
Fusûs al-Hikam.
Il «monismo etico» di Ibn ´Arabî discende
dalla sua teoria epistemologica, la «perplessità», che è diretta conseguenza
della wahdat
al wujûd -- unicità
dell'esistenza. L'applicazione fenomenologia, se così si può dire, della
«perplessità» conduce infine alla «tolleranza» religiosa.
Si tratta ora di vedere se quanto sopra
riportato possa essere o meno una forzatura. Per farlo, si esaminerà
succintamente il concetto di «perplessità» e di «tolleranza» in Ibn ´Arabî.
È bene ricordare sin d'ora che la perplessità
non ha una connotazione negativa per lo Šaykh al-Akbar, tutt'altro, essa
deriva dallo smarrirsi nell'Oceano divino. Esso è uno smarrirsi consapevole,
uno stato cognitivo caratterizzato dall'abbandono della funzione logica
attraverso il raggiungimento logico di un impasse logica
(la ripetizione del termine «logica» è qui voluto).
Definisci l'universo (kawn)
come meglio credi. Se vuoi di' che è la Creazione (khalq);
se preferisci, di' che è la Verità (al-haqq);
oppure, di' che è la Verità-Creazione (al-haqq-al-khalq),
se così desideri; ovvero, di' che non è né la Verità da alcun punto di
vista né la Creazione da alcun punto di vista; o meglio ancora, parla
dello smarrirsi (hayra) in esso,
poiché ciò che ti sforzi di comprendere è diventato chiaro (bânat
al-matâlib) definendone i gradi (marâtib).1
Queste parole di Ibn ´Arabî forniscono al
lettore la portata delle sue affermazioni e danno il senso di questa impasse logica:
la nostra certezza epistemologica, che è anche chiarezza di visione, riposa
nel nostro smarrimento di fronte all'Onnipotenza divina, innanzi all'armonia
del Bello e richiama subito alla mente la docta
ignorantia.
La Realtà è quindi costituita da ciò che
vediamo -- che logicamente elaboriamo per poi riconoscere -- e da ciò che
non vediamo, proprio come nel caso del ricamo, il filo colorato scompare
sotto la trama per poi riemergere e delineare i contorni dell'ordito. Il
fenomenico e l'essenziale non trovano qui posto: quanto non vediamo --
interiore, al-batin --
e quanto vediamo -- esteriore, al-zahir --
stanno sullo stesso piano e si presuppongono vicendevolmente.
Anche questo nostro discutere, però, per il
fatto stesso di discuterne, ha richiesto il logico sezionamento della «cosa»
in discussione. Questo significa che la «cosa», l'Onnipotenza divina o anche
l'armonia del Bello non sono costituite dall'esteriore e dall'interiore in
sé, quanto invece dalla loro relazione di reciproca traducibilità. È una
conversione epistemologica cui corrispondono determinate realtà ontologiche;
lo stesso Ibn ´Arabî conferma questa asserzione, parlando della perplessità
nei Fusûs e
dicendo che è data dalla
moltiplicazione dell'Uno in vari aspetti (wujûh)
e correlazioni (nisab),2 per
cui essa non è solo perplessità nella
conoscenzadell'Uno, ma anche perplessità nell'essere Uno.
Nell'impossibilità di stabilire una precedenza
cronologica tra esteriore ed interiore -- perché come si è visto
rappresentano la traduzione l'uno dell'altro -- la logica dell'essere umano
collassa strutturalmente e gli permette quindi di transitare tra l'esteriore
e l'interiore dell'Ordine universale e di collocare ogni essere in questo
movimento di transizione.
Giunti a questo punto, pare di essere
all'interno di un mulinello d'acqua che ci impedisce di sostare in un punto
definito3 e
quindi siamo portati in maniera aporistica ad affermare che il mondo è in
Dio e Dio è nel mondo. Separare quest'ultima affermazione in due parti
disunite, pregiudicherebbe un'autentica conoscenza della Realtà.
Riconosciuto nella perplessità, come
brevemente esposta, l'unico atteggiamento di fronte a Dio e alla Sua
Onnipotenza, è giunto il momento di considerare la «tolleranza», che appare
come frutto di questo possibilismo che non è mai relativismo.
La precisione porta a puntualizzare che
giammai Ibn ´Arabî usò il termine «tolleranza», che in arabo verrebbe reso
con samâha,
a parte in qualche rara occasione. La sua riflessione però sulle altre
religioni difficilmente può essere chiamata diversamente che tolleranza.
Infatti, se il mondo è in Dio e Dio è nel mondo, come prima affermato,
allora l'«alterità» -- elemento contraddistinguente il mondo -- viene
superata in quella stessa relazione, dato che non vi «alterità» in Dio. Ecco
la «tolleranza».
Se ciascuna cosa nel mondo è una teofania
divina -- Dio è nel mondo -- non v'è alcuna credenza in Dio -- diversa
quindi anche da quella cristiana o musulmana -- che non sia vera. L'errore
in cui si può incappare, è misconoscere il carattere autentico di ogni
credenza e rivendicare il possesso della verità solo per se stessi.
Si è tentati, dunque, di sostenere che una
credenza è tanto più vera quanto meno afferma di possedere la verità.
In questo senso si ravvede l'irrilevanza delle
differenze riscontrabili fra le varie interpretazioni della Verità e la
non-esistenza di un interpretazione superiore alle altre, che assicuri un
accesso privilegiato all'esperienza del Divino.
Quanto affermato è certamente pericoloso --
perché problematico -- e problematico -- perché pericoloso --, ecco il
perché della successiva domanda aperta: a quale livello di esperienza
religiosa noi possiamo affermare, ammesso che abbia un valore intrinseco di
correttezza, quanto sostenuto nell'ultimo capoverso?
E ancora, nel contesto attuale -- soprattutto
occidentale -- dove Dio ritorna di moda solo nei momenti difficili come
salvagente e l'uomo comune non sa in realtà di cosa stia parlando,
limitandosi a cercare genericamente qualcosa che lo salvi, ha senso
affermare quanto sopra riportato?
Nel testo tradotto le parole, seguite dalla
dicitura ndt tra
parentesi, sono gli interventi del traduttore resisi necessari per dare
maggiore scorrevolezza al testo in italiano. All'occorrenza sono state
inserite anche delle note nel testo per spiegare maggiormente alcuni termini
arabi e per segnalare alcune riflessioni sopraggiunte in
cursu opera, per le quali si solleva l'autore Andrey Smirnov da
qualsiasi errata interpretazione o refuso. Chiedo infine venia ai benevoli
lettori per gli errori che siano sfuggiti, mentre ringrazio chi me li
segnalerà.
Desidero ringraziare la rivista Dialegesthai,
Andrey Smirnov per l'amicizia accordatami, Rinaldo Massi e Giorgio Giurini
per i consigli profusi in
cursu opera, Padre Georgios Ndagkas e Padre Matteo Cryptoferritis per la
vicinanza spirituale, la mia famiglia e mia moglie Isabella che
pazientemente mi ha aiutato nella revisione delle bozze.
1. Prefazione 
Il tawhîd4 spesso
è considerato -- e a ragione -- il pilastro sul quale si fonda la visione
musulmana del mondo. Ibn ´Arabî è una delle figure più notevoli della storia
intellettuale e spirituale musulmana.5 Questo
è del resto testimoniato dalla ben nota e storicamente documentata controversia
che lo coinvolse. Di cosa parla dunque Ibn ´Arabî nei suoi scritti sul tawhîd?
Il più grande Šaykh6 legge
la relazione esistente tra Dio ed il mondo come la relazione tra zâhir e bâtin(manifesto-immanifesto).7 Zâhir (esterno,
manifesto) e bâtin (interno,
immanifesto) sono categorie largamente usate nel pensiero classico musulmano per
denotare una coppia di opposti, la quale è caratterizzata da una reciproca
necessità. La relazione zâhir-bâtin si
presenta dunque come una relazione di opposti che si presuppongono
vicendevolmente. Appare evidente, però, che laddove esista un'opposizione, si
manifesti anche il bisogno di un principio che la unifichi. Tralasciando tutti
gli altri casi possibili, quale è, allora, il principio unificante le relazioni
Dio-mondo e zâhir-bâtin?
A questo punto, va ricordata una cosa molto importante: fin tanto che Dio (al-Haqq)
ed il mondo (al-Khalq),8secondo
Ibn ´Arabî, «assolvono il ruolo» di opposti nella relazione zâhir-bâtin,
nessuno di essi potrà mai essere il principio unificante.
Se le cose, quindi, stanno così, chi sarebbe questo principio allora?
Come Salman H. Bashier ha dimostrato nel suo eccellente libro,9 questa
funzione sarebbe assolta da quello che Ibn ´Arabî definisce barzakh («istmo»)
-- ciò che limita l'unità
di due opposti ma che, come nel caso di un istmo tra due mari, li unifica in
virtù del fatto che non permette loro di confondersi. Questo è precisamente
quello che Ibn ´Arabî nel suo Kitâb
inshâ' al-dawâ'ir (il Libro della
Costruzione dei Cerchi) definisce «la terza cosa» (al-shay' al-tith), o,
nei Fusûs e
nelle Futûhât, «realtà delle
realtà» (haqîqat al-haqâ'iq).10 Questo
principio unificante è assolutamente semplice e ciò è reso possibile perché la
comprensione da parte di Ibn ´Arabî della relazione al-Haqq/al-Khalq al
pari di quella zâhir-bâtin,
quale risultante nel tawhîd, è
impeccabile.
Si deve, tuttavia, notare che il tawhîd in
questione nel paragrafo precedente non è il tawhîd
Allâh(«l'unificazione-di-Dio»), ossia non è il principio del tawhîd come
solitamente viene trattato nella dottrina musulmana. Dio è solamente una parte
della relazione al-Haqq/al-Khalq,
che è per così dire, soltanto una parte della relazione che risulta nel tawhîd.
Questo implica che esso non sia sufficiente, affinché l'altro termine -- in
questo caso la Creazione o il Mondo (al-Khalq) -- possa sussistere
sempre. Tutto ciò accade perché al-Haqq ed al-Khalq,
Dio e la Creazione, sono pensate sempre insieme
da parte di Ibn ´Arabî.
Quanto ora esposto da un punto di vista squisitamente logico, è una conseguenza
inevitabile della sistemizzazione akbariana delle categorie ontologiche
fondamentali; conseguenza che Ibn ´Arabî ricorda al suo lettore, usando le più
sorprendenti argomentazioni. Infine, è una conseguenza ampiamente nota ai suoi
critici, ma che fu in qualche modo trascurata anche in molti studi moderni
dedicati allo stesso Autore. Il «non-essere» proprio di al-Khalq («la
Creazione» = il mondo) è necessario alla tesi dell'eternità di al-Haqq («il
Vero» = Dio) e questi due non sarebbero stati mai possibili
l'uno senza l'altro.
Wahdat al-wujûd («unicità
dell'essere»), il nome dato alla dottrina di Ibn ´Arabî ad opera dei suoi
prosecutori ma usata anche dai suoi detrattori contro lo stesso Ibn ´Arabî, è un
elemento che destabilizza piuttosto il mio pensiero. Il tawhîd akbariano non è
il tawhîd dell'essere
(wujûd). Esso è piuttosto il tawhîd che
risulta dall'interdipendenza zâhir-bâtin tra
Dio ed il mondo, o tra le cose corporali (a´yân)11 non-esistenti
(ma´dûma) e quelle esistenti (mawjûda) -- persino il Sé Divino
viene inteso da Ibn ´Arabî quale infinità delle cose non-esistenti (ma´dûma)
o fisse (thâbita). Questo è il tawhîd che
risulta dalla «terza cosa»: né esistente e nemmeno non-esistente, né temporale e
nemmeno eterno.
Negli studi dedicati al sufismo,
spesso leggiamo che Dio manifesta Se stesso come mondo divenuto zâhir,
oppure che Egli si vela assumendo forme mondane per divenire immanifesto (bâtin).
Questo è fondamentalmente corretto; tuttavia, a cosa corrisponderebbe tutto ciò,
se questo fosse espresso nella terminologia ontologica di Ibn ´Arabî?
L'interdipendenza zâhir-bâtin di al-Haqq e
di al-Khalq, significa che
quelle entità, distinte l'una dall'altra ed in questo senso trascendenti,
«convertono» l'una nell'altra. In altre parole, essi divengono l'un
l'altro. Questo divenire è transizione e non trasmutazione. Sarebbe sbagliato,
infatti, considerare questo divenire come una
trasformazione di al-Haqq in al-Khalq oppure
viceversa. Diversamente, essi sono così distinti l'uno dall'altro da essere
sempre due e mai uno;12 tuttavia,
il punto centrale rimane il fatto che essi non sono trascendenti
l'un l'altro. La relazione tra di loro è dinamica e giammai statica. Le due
modalità di transizione da al-Haqq ad al-Khalq hanno
luogo in ogni «momento» (zamân, waqt),13 ovvero,
ad ogni atomo di tempo: questa dinamica è pertanto il centro dell'Ordine
Universale.
Al-Haqq ed al-Khalq sono
due e non si confondono, questo è già stato affermato; nondimeno, però, la
dinamica della loro reciproca «transizione», o «conversione», è una. Questo
«essere-una» è precisamente la cosa che unifica i due. È qualche cosa di
distinto dai due unificati, qualcosa che è sita «fuori» di essi. La lettura, che
Ibn ´Arabî fornisce del tawhîd,
è precisamente questo movimento di transizione dinamica al-Haqq/al-Khalq.
Per riferirsi a questa struttura fondamentale e complessiva dell'Universo, Ibn
´Arabî usa il termine di «Ordine» (al-´amr). L'«Ordine» è costituito da
tre entità. Le prime due sono le entità eterne e quelle temporali riferite le
une alle altre quali ad esempio zâhir-bâtin,
mentre la terza, è l'unità delle precedenti due in quanto tale. In definitiva,
la relazione zâhir-bâtin è
il tawhîd stesso:
l'unità è la possibilità dell'interdipendenza
e dell'interrelazione zâhir-bâtin.
Il primo dei quattro articoli inclusi in questo libro esplora questo nucleo di
nozioni e la logica della loro correlazione nel pensiero di Ibn ´Arabî, con una
speciale attenzione per la concezione akbariana della tolleranza, in quanto una
delle conseguenze della relazione logica al-Haqq/al-Khalq.
Il secondo ed il terzo articolo affrontano questa logica di opposizione e la sua
connessa unificazione in un contesto molto più ampio, allargandola così ad
ambiti culturali (dottrinale, poi estetico quindi teoretico) musulmani più
generici, piuttosto che specificatamente akbariano o sufico. In questo mondo,
intendo dimostrare l'applicabilità universale, all'interno della sfera culturale
musulmana, di questo principio di preparazione dell'opposizione e di superamento
della stessa addivenendo ad un'unità. In questi due articoli incontriamo il tawhîd-della-fede,
sotto forma di unificazione della conoscenza e dell'atto, e quello che forse
potrebbe essere chiamato «tawhîd-della-percezione-estetica», in quanto
unificazione delle due «stratificazioni» dell'arte del percepire l'oggetto.
Una domanda nasce spontanea, ossia se la visione che Ibn ´Arabî ha della
relazione Dio-mondo quale interdipendenza zâhir-bâtin sia
comune per l'intero pensiero del sufismo,
o se piuttosto la posizione akbariana sia in realtà unica nel suo genere. Uno
studio comparato sulla visione di Ibn ´Arabî e di Rûmî in merito ai concetti
etici fondamentali serve per chiarire proprio questo problema. Nessun argomento
seppe infatti resistere all'influenza esercitatavi dal pensiero di Ibn ´Arabî,
tanto che anche autori notevoli quali lo stesso Rûmî aggiunsero sempre la
propria impronta alle tracce, però, già lasciate dal primo.
Il mio apprezzamento più sincero va ad Alberto De Luca, i cui generosi sforzi mi
rendono nuovamente possibile parlare al lettore italiano nella sua lingua natia,
un'opportunità cui tengo molto.
2. Il concetto di «essere» nel sufismo: quanto può essere illimitata la
tolleranza universale?14 
2.1. Introduzione
Il celebre esponente del sufismo Muhyî
ad-Dîn ibn ´Arabî giunse ad esporre una visione della tolleranza religiosa, la
cui estrema apertura trova a stento rivali sia nel mondo musulmano quanto in
quello occidentale. La sua concezione si fonda su una base ontologica e trova
fondamento nella dottrina nota come «unicità dell'essere» (wahdat al-wujûd).
In questo saggio si cercherà di dimostrare che una profonda comprensione della
logica con cui procede Ibn ´Arabî, sia quando elabora la sua teologia sia quando
sviluppa la sua teoria della tolleranza, è importante in ambedue i casi. È
questa logica che fornisce la cornice all'interno della quale si sviluppa il
pensiero di Ibn ´Arabî, giacché essa determina il significato delle tesi esposte
dall'autore e definisce le condizioni necessarie affinché esse siano valide.
Per dimostrare tale assunto si procederà nella seguente maniera: innanzitutto,
sarà presentato un profilo del concetto di tolleranza nel pensiero occidentale
contemporaneo dal punto di vista della logica, poi verrà analizzata brevemente
la connessione di questo concetto con le categorie «altro», «unità» e
«molteplicità» ed in special modo si osserverà la relazione esistente fra
generale e particolare, soffermandosi sull'importanza dell'aspetto logico di
tale relazione al fine di delineare il concetto di tolleranza. In secondo luogo,
sarà presentata l'interpretazione degli stessi concetti (sul piano nominale)
elaborata da Ibn ´Arabî. Essi sono quindi: «altro» (gayr),
«partecipazione» (mušâraka), «somiglianza» (mušâbaha), «uno» (wâhid),15 «singolarità»
(ahadiyya),16 «molteplicità»
(katra) ed altri ancora. Infine, si tratterà del nesso logico collegante
queste nozioni fra di loro nel pensiero di Ibn ´Arabî, per farne una
comparazione con l'inquadramento generale da esse offerto al discorso sulla
tolleranza nel pensiero occidentale. La base logica comune per tale comparazione
sarà fornita dal rapporto di negazione. Il presupposto è che l'«altro» si trovi
in un rapporto di negazione con il mio «io», ossia, in altre parole, che i due
«altri» stiano in un rapporto di negazione reciproca; conseguentemente, la
tolleranza consiste nel superamento di tale negazione. Se gli «altri» sono visti
come particolari, allora superare la loro mutua negazione significa raggiungere
una sorta di universalità che faccia da ponte al di sopra della reciproca
ostilità delle due parti. La tesi qui proposta è che Ibn ´Arabî segua il
medesimo schema logico, intendendo però in maniera differente il procedimento di
negazione e necessariamente quello di generalizzazione. La specificità della
logica seguita da Ibn ´Arabî nel suo ragionamento si riassume nella specificità
relativa a tali procedimenti ed è in ciò che consiste l'eccezionalità del suo
pensiero.
2.2. Il concetto di tolleranza nel pensiero moderno
Il concetto di tolleranza in Occidente iniziò a formarsi in epoca romana, fu poi
sviluppato lungo il corso della storia e tuttora la sua elaborazione è molto
lontana dal dirsi conclusa, tanto che sarebbe folle tentare in questa sede di
riepilogarne in qualsiasi modo la storia. È più efficace semmai mettere in
evidenza alcune nozioni alle quali il concetto di tolleranza è strettamente
correlato. Dunque si cercherà di delineare lo schema logico su cui si fonda il
concetto di tolleranza, senza pretendere che tale schema sia riprodotto in ogni
saggio dedicato al tema della tolleranza, ma nella convinzione che esso sia
significativo per comprendere la logica su cui si basano tali saggi,
implicitamente o esplicitamente. Come ultima annotazione preliminare, vorrei
aggiungere che procedendo in questo modo non intendo aspirare ad alcuna scoperta
straordinaria o inaspettata, ma penso piuttosto di riferirmi a nozioni che credo
siano comunemente accettate.
L'idea di tolleranza può difficilmente essere compresa senza fare riferimento
alla nozione di «altro». I concetti di «altro» e «alterità» sono stati elaborati
in numerosi studi negli ultimi decenni, dopo essere divenuti oggetto di speciale
attenzione da parte di filosofi ed antropologi. Tuttavia, già da lungo tempo
l'«altro» aveva fatto la sua apparizione fra i filosofi, quantomeno fra quelli
che erano interessati alla questione della tolleranza. Infatti, fin dal
principio la tolleranza fu concepita come uno dei possibili atteggiamenti da
assumere verso l'altro. Inizialmente, si trattò di una tolleranza intesa
anzitutto come tolleranza religiosa, ma in seguito il concetto divenne più
esteso fino ad includere anche gli ambiti non religiosi. Oggi, quando discutiamo
di relazioni all'interno della società o fra culture differenti, è difficile
evitare il concetto di «tolleranza verso l'altro», che si tratti di altri esseri
umani, di altre culture o di altre religioni. Non basta dire, allora, che la
nozione di «altro» è indispensabile per comprendere che cosa è la tolleranza;
dovremmo piuttosto riconoscere che il concetto di tolleranza risulta
inconcepibile senza la nozione di «altro», sicché riflettere sulla tolleranza
equivale a riflettere sulla «mia» relazione con l'«altro» (o sulla relazione
esistente fra i due «altri»).
Perché l'«altro» è così indispensabile alla riflessione sulla tolleranza? Credo
che la risposta risieda nel fatto che l'«altro» si trova in una relazione di
negazione con il mio «ego» e che la tolleranza rappresenti un tentativo di
ridurre al minimo le disastrose conseguenze di tale negazione. È
sufficientemente ovvio, ma contemporaneamente importante, ricordare che la
relazione di negazione non può essere completamente superata, vale a dire
eliminata (almeno non fino a quando «il lupo dimorerà insieme con l'agnello»).17 La
tolleranza non è capace di cancellare la negazione, ma piuttosto di incanalarla
in modo che non rappresenti più una minaccia per la sopravvivenza e/o il
benessere generale.
Possiamo allora definire la tolleranza come un mezzo che ci consente di
attraversare la negazione, di effettuare una transizione dalla negazione, quale
modalità di relazione fra due opposti, all'unione, dimensione nella quale la
reciproca negazione dei due opposti viene relativizzata. Tale transizione ci
apre due prospettive: quella al cui interno i due «altri» mantengono un rapporto
di incomparabilità e contrapposizione, e quella in cui i due individui trovano
un'unione nonostante la loro contrapposizione e reciproca negazione.
La negazione che contraddistingue il rapporto esistente fra i due opposti, per
quanto concerne la sua origine, ha un carattere fondamentalmente duplice. Per un
certo verso, i due «altri» arrivano ad una contrapposizione solo se realmente
hanno qualcosa in comune; dal punto di vista squisitamente biologico, infatti,
due individui appartenenti alla medesima specie dispongono di risorse alimentari
comuni e ciò li spinge a porsi in competizione fra loro. Nella società, gli
esseri umani devono condividere risorse comuni e, dal momento che sono dotati di
capacità differenti, entrano anch'essi in competizione fra loro. All'interno di
un gruppo umano, differentemente da quanto avviene nel mondo naturale, questo
rapporto di reciproca negazione fra due individui può essere superato attraverso
qualche forma di economia e di coesistenza. Simile transizione dall'individuale
all'universale esige l'esercizio di qualche forma di tolleranza, finché
quest'ultima non riesca a sospingere la reciproca negazione dei due dal centro
della loro relazione ai suoi margini, per poi prenderne il posto di comune
accordo. Dall'altro verso, i due individui tendono a negarsi reciprocamente
anche se non presentano tratti in comune, ma pensano che dovrebbero
inevitabilmente averne. È questo il caso specifico del rapporto che si ha con la
verità di tipo religioso o scientifico: la verità è presumibilmente una e se i
due individui manifestano opinioni differenti, solo una di esse o nessuna delle
due può dirsi veritiera, in nessun caso però possono esserlo entrambe. Quindi,
le due controparti si negano vicendevolmente in forza del rapporto che esse
hanno con la verità e, qualora prendessero la situazione molto seriamente, tale
reciproca negazione potrebbe trasformarsi in un confronto drammatico, come è già
successo del resto nella storia innumerevoli volte e come tuttora capita.
L'unico modo per affrontare una siffatta situazione consiste nel convincere le
due controparti del fatto che il loro contrasto non è di così vitale importanza
e perciò può essere dirottato verso forme non distruttive, quali ad esempio
discussioni pacifiche e così via.18 Questa
tranquilla coesistenza di due concezioni della verità fra loro incompatibili
sarà sempre basata su qualche forma di accordo comune o di consenso che si
sostituisca alla contrapposizione in cui si trovano i due individui, relegandola
ai margini della loro relazione. Quest'ultimo passo ci riporta alla prima
modalità di superamento del rapporto di negazione in cui si trovano i due
«altri».
Riassumendo, possiamo dire che, ridotta al minimo, la struttura logica della
tolleranza si configura come una transizione dalla negazione alla
neutralizzazione di tale negazione. Tale risultato può essere raggiunto
assumendo il particolare nel generale ed arrivando così all'unità della
molteplicità (prima causa di negazione). Qualora simile strategia risultasse
inapplicabile per ragioni logiche (seconda causa di negazione: posti A e non-A,
solo uno dei due è vero, non entrambi), la negazione con il suo carattere
distruttivo viene spinta ai margini della relazione, laddove può continuare a
sussistere mentre il centro è occupato dal reciproco consenso a coesistere.
Credo che la struttura logica qui descritta molto schematicamente e
genericamente sia alla base di molte se non addirittura tutte le teorie moderne
relative alla tolleranza in un modo o in un altro. Quando parliamo di
multi-culturalismo, è per noi implicito che, al di là di ogni possibile
diversità culturale, vi siano alcuni principi comuni sui quali le varie culture
devono trovarsi d'accordo finché desiderano continuare a convivere. Tali
principi comuni sono prioritari rispetto alle possibili deviazioni consentite
dalle diverse culture e possono anche non essere particolarmente numerosi;
tuttavia, in caso di conflitto, essi trascendono ogni specificità culturale e,
pertanto, non possono ammettere alcuna violazione, altrimenti la tolleranza
diverrebbe permissività e ne risulterebbe la dissoluzione della società. Questa
tesi piuttosto nota rappresenta solo una delle implicazioni derivanti dalla
struttura logica su cui si basa la relazione del singolo con i molti, i quali,
assunti in una dimensione più generale, perdono una parte della propria
diversità e i tratti specifici ai quali si deve la reciproca negazione. Le
teorie moderne, benché lascino molto più spazio alla diversità culturale e alle
caratteristiche particolari, facendoci credere che il conflitto per la verità
religiosa o scientifica non conduce necessariamente alla soppressione
dell'avversario, mantengono tuttavia intatta la struttura logica basata sulla
negazione dell'«altro» e sulla sua neutralizzazione attraverso la tolleranza.
2.3. La struttura logica della tolleranza in Ibn ´Arabî
Passiamo ora a considerare la teoria della tolleranza proposta da Ibn ´Arabî. Le
citazioni si riferiscono alla sua opera intitolata Fusûsal-Hikam (Castoni
della Saggezza), testo relativamente breve che contiene la sinossi delle idee
sapienziali del «Sommo Maestro» (Al-Šaykh al-Akbar), di cui saranno
riportati i passaggi più significativi, tentando di interpretarli attraverso la
struttura logica della tolleranza qui proposta. Dal momento che simile
struttura, in base alla descrizione che ne abbiamo dato, risulta estremamente
astratta, ci si aspetta che si riveli adeguata alla trattazione di ogni aspetto
della tolleranza, a condizione che essa sia considerata fondamentalmente un
atteggiamento da assumere nei confronti dell'altro.
Quantunque Ibn ´Arabî non usi il termine «tolleranza» (normalmente tradotto in
arabo con samâha) e i vocaboli
da esso derivati, eccetto che in rarissime occasioni,19 la
sua lunga e dettagliata riflessione sulle altre religioni e sulle altre credenze
(compresi i pagani e i non credenti) può difficilmente essere considerata in
termini diversi dalla tolleranza. Inoltre, la nozione di «altro» (gayr)
svolge un ruolo di prima importanza nella sua trattazione dell'argomento, e i
testi citati nelle righe seguenti ce ne offrono ampia testimonianza. Per quanto
riguarda la negazione, il suo significato è molto più evidente nella resa del
termine arabo gayr, piuttosto
che in quello italiano «altro», cosicché in arabo dire che «A è gayr-B»
equivale a dire che «A è non-B» oppure che «A è altro da B»: «alterità» (gayriyya)
e negazione sono dunque due concetti molti affini (vicini).
Ogni cosa nel mondo rappresenta l'«altro» (gayr) rispetto a qualunque
altra cosa ed il mondo intero è dato dalla «moltitudine» (katra) di tali
«altri», ognuno dei quali si trova in una relazione di un certo tipo con
l'«Uno». L'«alterità», che rappresenta la caratteristica del mondo, viene
superata in virtù di quella relazione, dato che non vi è alterità nell'Uno:
questa transizione dai molti all'Uno neutralizza la reciproca negazione degli
«altri».
Questa brevissima e per forza semplificata, benché non scorretta, esposizione
del pensiero di Ibn ´Arabî ci spinge a ritenere che la struttura logica
dell'alterità e del suo superamento tramite una sorta di generalizzazione sia
fondamentalmente la stessa, che abbiamo precedentemente discusso. Anche
spostando la nostra attenzione sul tema più specifico della tolleranza
religiosa, tale conclusione sembra trovare conferma. Ibn ´Arabî sostiene che le
differenze riscontrabili fra le varie credenze e di fatto anche fra fede e
miscredenza, dovrebbero essere messe da parte a vantaggio di una comunione
motivata dal fatto che tutti gli esseri umani sono immagine di Dio.20 Tale
strategia sembra, dal punto di vista logico, la stessa sopra descritta,
consistente nel dichiarare irrilevanti le differenze riscontrabili fra le varie
interpretazioni della verità e nel superare il disaccordo attraverso la
capacità, comune a tutti gli esseri umani, di impersonare la Divinità.
Nel leggere ora i passaggi del testo di Ibn ´Arabî direttamente collegati al
tema qui discusso, terremo presente quanto appena detto, a partire dalla sua
ontologia e procedendo in seguito attraverso le sue riflessioni sulla tolleranza
religiosa. L'intenzione è quella di saggiare la possibilità di applicare la
struttura logica generale della nozione di tolleranza ai fini della comprensione
della posizione adottata da Ibn ´Arabî al riguardo. Quanto si è preliminarmente
abbozzato circa le sue vedute, pare confermare siffatta applicabilità. È giunto
adesso il momento di dare uno sguardo più approfondito ai testi del «Grande
Maestro», del quale ci si limiterà a citare solo alcuni passaggi per ragioni di
spazio. I brani scelti sono tuttavia quelli che segnano le tappe più rilevanti
della riflessione sviluppata da Ibn ´Arabî e sono nello stesso tempo
rappresentativi di tutta la sua opera.
Iniziamo con una citazione che ci porterà direttamente al cuore della concezione
di Ibn ´Arabî. Nel parlare di come possa essere considerata la relazione
esistente fra il mondo e Dio, il «Sommo Šaykh»
dice:
definisci l'universo (kawn) come meglio
puoi. Se vuoi, dì che è la Creazione (khalq); se preferisci, dì che è
la Verità (al-Haqq); oppure, dì che è la Verità-Creazione (al-Haqq
al-Khalq), se così desideri; ovvero, dì che non è né la Verità da alcun
punto di vista né la Creazione da alcun punto di vista; o meglio, ancora,
parla dello smarrirsi (hayra) in esso, poiché ciò che ti sforzi di
comprendere è diventato chiaro (bânat al-matâlib) definendone i gradi
(marâtib).21
La tesi qui enunciata è ben lungi dal rappresentare un'ammissione di
relativismo, di scetticismo o di agnosticismo. Non è certamente casuale che Ibn
´Arabî affermi che «ciò per cui ci sforziamo (matâlib) è diventato
chiaro» e questo non lascia spazio ad alcun dubbio o incertezza nella loro
comune accezione. Tuttavia, tale chiarezza, che equivale alla certezza dal punto
di vista epistemologico, viene equiparata da Ibn ´Arabî allo smarrimento. Per
capirne il motivo, abbiamo bisogno di introdurre altri due termini, ossia zâhir e bâtin(esteriore-interiore).
I concetti di zâhir e bâtin non
rappresentano in alcun modo un'invenzione di Ibn ´Arabî: essi erano, infatti,
già in uso nel linguaggio teoretico della sua cultura musulmana fin dalle più
antiche fasi del suo progressivo articolarsi nelle varie branche del sapere, ivi
comprese la giurisprudenza (fiqh) e la filosofia. I due termini assunsero
quasi la funzione di meta-categorie, utilizzate per organizzare il ragionamento
nei più disparati campi del sapere. Nel sufismo,
le due categorie zâhir e bâtin trovarono
applicazione nel tentativo di esprimere in termini razionali il nesso esistente
fra Dio ed il mondo, fra l'Uno e i molti. Si trattò di una novità piuttosto
significativa, proposta dai pensatori sufi (fra
i cui predecessori si dovrebbe includere l'autore del Kitâb
al-fusûs -- «il Libro delle
gemme» --, attribuito ad al-Fârâbî)22 e
naturalmente ripresa, nella sua sostanza, anche da Ibn ´Arabî.
Il rapporto in cui si trovano zâhir (esteriore)
e bâtin (interiore)
non corrisponde alla relazione esistente tra fenomenico ed essenziale, come
potrebbe far pensare la somiglianza di tali parole sul piano nominale. Un simile
parallelo, infatti, sarebbe altamente fuorviante, giacché zâhir e bâtin non
si trovano subordinati l'uno all'altro in base ad una specie di gerarchia, come
fenomeno ed essenza. Piuttosto si può dire che essi siano posti, per così dire,
sullo stesso piano e normalmente ci si attende che queste due dimensioni si
trovino in una specie di relazione armoniosa fra di esse; ciò significa che lo zâhir deve
convertirsi nel bâtin e
viceversa. Almeno tre fra gli importanti corollari che ne derivano, devono
essere qui enunciati: in primo luogo, ne consegue che, ai fini della
comprensione di ciò che la cosa è, il suo bâtin non
è più importante del suo zâhir (come
ci aspettiamo nel caso dell'essenza della cosa, che è più importante delle sue
molteplici manifestazioni fenomeniche). Ciò che conta è la relazione esistente
fra zâhir a bâtin:
noi comprendiamo ciò che la cosa è, nel momento in cui comprendiamo come il suo zâhir ci
conduce al suo bâtin e
viceversa. In secondo luogo, il bâtin non
è più inalterabile dello zâhir(laddove
invece ci aspettiamo che l'essenza persista nonostante gli infiniti mutamenti
subiti dalle sue manifestazioni fenomeniche). Dal momento che ognuna delle due
dimensioni rappresenta la «traduzione» dell'altra, ogni mutamento a livello di zâhir modifica
anche il bâtin e
viceversa. In terzo luogo, la cosa persiste fintantoché fra zâhir e bâtin perdura
la relazione di «reciproca traducibilità», e non fintantoché il suo bâtinpermane
immutato (laddove ci aspettiamo, invece, che la cosa non muti, a meno che non
muti la sua essenza).
Nello schema logico qui proposto, l'ultimo concetto, ma non meno importante, da
prendere in considerazione è quello di «cosa», del quale stiamo trattando i due
aspetti corrispondenti a zâhir a bâtin.
La «cosa» non è costituita solo da questi due aspetti, ma piuttosto dalla
relazione di «reciproca traducibilità» che sussiste fra di essi. In altre
parole, la «cosa» consiste nella possibilità che il suo zâhir si
traduca nel suo bâtin, ovvero
il suo bâtin nel
suo zâhir. Naturalmente,
questa «conversione» dell'uno nell'altro non rappresenta una specie di
operazione alchemica bensì un procedimento epistemologico al quale corrispondono
determinate realtà ontologiche.
Ibn ´Arabî applica questo schema generale, per risolvere la seguente questione
d'impostazione «filosofica»: come è costituito l'Universo? È composto da unità e
molteplicità? Per definire il Tutto Universale, Ibn ´Arabî adopera il termine al-kawn (come
nella citazione sopra riportata), oppure, in alternativa, al-amr e aš-ša'n (entrambi
questi termini, nel linguaggio comune, sono traducibili con «affare» o «cosa»).
L'«esteriore» (zâhir) di questo Tutto corrisponde al mondo, spesso viene
definito la «Creazione» (al-khalq), mentre l'«interiore» (al-bâtin)
corrisponde a Dio, al quale generalmente ci si riferisce definendolo «la Verità»
(al-haqq). La diretta corrispondenza fra zâhir e bâtin,
ovvero fra il mondo e Dio, che abbiamo descritto, si suddivide in due livelli:
primo, il mondo, in quanto «tutto», corrisponde a Dio; secondo, ogni cosa
presente nel mondo corrisponde all'«in-sé-di-Dio».
Quindi, in che cosa consiste la «corrispondenza» che lega zâhir e bâtin e
che propongo di chiamare «corrispondenza grazie alla traducibilità»? In senso
lato, Ibn ´Arabî la descrive come un'incessante processo dovuto al respiro
divino: mentre l'inspirazione «trascina» il mondo all'interno di Dio,
l'esplicazione «espelle» il mondo al Suo esterno.23 Questi
due momenti, inspirazione ed espirazione, rappresentano uno dei modi attraverso
cui è possibile contemplare la traduzione di zâhir in bâtin e
viceversa. Tali immagini vengono razionalizzate nella teoria della «nuova
creazione» (khalq jadîd), secondo la quale ogni atomo di tempo (zamân
fard) è costituito dall'annientamento del mondo in Dio e dalla sua creazione ex
novo.24 Mi
è quasi impossibile soffermarmi su questa teoria, sebbene sia estremamente
interessante, preferisco invece citare un altro brano di Ibn ´Arabî allo scopo
di fare più chiarezza intorno alla relazione esistente fra zâhir (il
mondo) e bâtin (Dio):
non c'è alcun dubbio sul fatto che l'essere
che ha un'origine (muhdat) è stato originato ed ha bisogno di un
originatore che gli ha dato origine, perché aveva tale possibilità in se
stesso (li-imkâni-hi li-nafsi-hi).25
Qui Ibn ´Arabî impiega il concetto di «possibile» (mumkin), che fu
introdotto dalla scuola teologica della mu´tazala26 e
sviluppato nell'ontologia di Ibn Sînâ. Con «possibile», generalmente s'intende
la cosa per la quale l'esistenza e la non esistenza sono parimenti probabili, e
che perciò ha bisogno dell'intervento di un fattore esterno (chiamato murajji' ovvero
«colui che dà preponderanza») affinché la bilancia penda da una parte piuttosto
che dall'altra, rendendo quindi la cosa esistente o non-esistente: in tal caso
essa diviene o «necessaria-attraverso-l'altro» (wâjjib bi-gayri-hi) o
«impossibile-attraverso-l'altro» (mumtani´ bi-gayr-hi). Questa teoria è
direttamente collegata alla nostra riflessione sull'altro e sull'alterità. Non è
difficile notare che esistenza e non esistenza, da un lato, ed alterità,
dall'altro, procedono sempre insieme, sicché la presenza di uno dei termini
comporta l'inevitabile presenza anche dell'altro; viceversa, in caso di assenza
di ogni alterità, possiamo solo parlare di «possibile-in-quanto-tale» (come fa
Ibn ´Arabî nella citazione sopra riportata), ma non di
«esistente-attraverso-l'altro» o di «non-esistente-attraverso-l'altro».
Esistono dottrine filosofiche secondo le quali il mondo è costituito da cose
esistenti e noi possiamo parlare di alcune cose definendole non-esistenti in un
certo senso. Simile divisione dell'universo in due sfere, quella dell'esistenza
e quella della non-esistenza, non lascia alcuno spazio per il
«possibile-in-quanto-tale». È a proposito dei sostenitori di simili teorie che
Ibn ´Arabî dice:
alcuni teorici dalle menti deboli [...] sono
propensi a negare la possibilità (imkân) e sostengono solo la
necessità attraverso il sé ed attraverso l'altro. Quanto a colui che ha
afferrato la verità (muhaqqiq), egli afferma la possibilità e ne
riconosce il regno della presenza (hadra), afferma anche il possibile
(mumkin), sa che cosa è quel possibile e perché è possibile, se
quello stesso possibile? (huwa bi-´ayni-hi) è
necessario-attraverso-l'altro, e perché l'«altro», attraverso il quale lo
statuto di necessità viene acquisito, è definito tale a buon diritto.27
La nozione di «possibile» elaborata da Ibn Sînâ presuppone che si possa parlare
del possibile come di una «cosa» o come di un «in-sé», anteriormente alla sua
esistenza (o non-esistenza). Questo equivale a dire che la cosa possiede il
proprio sé (dât) indipendentemente dalla sua esistenza. È decisivo per la
linea di pensiero, che qui sto cercando di ripercorrere, il fatto che tale «sé»
si trovi nello stesso tempo all'esterno e all'interno del regno dell'esistenza e
della non-esistenza. In altri termini, aggiungere o sottrarre esistenza alla
cosa equivale a non modificarla in nulla se non in ciò che concerne l'attributo
(îifa) di esistenza.
È per questa ragione che il «possibile» (mumkin) non può essere
equiparato né alla «potenza» e nemmeno alla «forma» di Aristotele e neppure
all'«idea» di Platone e ciò è ancora più evidente quando parliamo del
«possibile» secondo Ibn Sînâ. Tuttavia, la questione diventa in qualche modo
meno ovvia, se ci fermiamo a considerare la concezione «filosofica» di Ibn
´Arabî. Soltanto qualcuno dei suoi studiosi si è trattenuto dal definirla
neo-platonica (si tratta ormai quasi di un luogo comune) o dall'affermare che,
secondo Ibn ´Arabî, Dio contempla in Se Stesso le «idee» di tutto il Sé divino (dât),
ma ognuno di essi, sostiene sempre Ibn ´Arabî, coincide esattamente con la cosa
esistente che gli corrisponde, tranne che per quanto concerne l'attributo di
esistenza -- tale affermazione sarebbe stata impossibile nel caso dell'idea e
delle sue copie materiali.
Il «regno della presenza» (hadra) dei possibili a cui si riferisce il
«Sommo Maestro» nel passaggio più sopra riportato, corrisponde al Sé divino,
che, ovviamente, esiste e la cui esistenza è «necessaria-attraverso-il-sé».
Ciononostante, i possibili che costituiscono tale Sé divino non esistono ed Ibn
´Arabî si riferisce ad essi definendoli «fissi» (thâbit). Il concetto
ontologico di «fissità» (thubût) fu introdotto nel pensiero musulmano
all'epoca della mu´tazala e
venne interpretato da diversi filosofi sia come distinto da esistenza e
non-esistenza, sia come equivalente all'esistenza. Quanto ad Ibn ´Arabî, egli lo
tratta come un concetto indipendente (accostandosi pertanto alla prima delle due
posizioni), benché in certi passaggi sembri equiparare «fisso» e «non-esistente»
(proponendo così una propria interpretazione del «possibile» e della relazione
che esso ha con fissità, esistenza e non-esistenza). Ad esempio, egli afferma
che «i possibili sono radicati nella non-esistenza»,28oppure
sostiene che «le individualità incarnate (a´yân) che sono caratterizzate
dalla non-esistenza risiedono fisse in Lui».29
Qualunque sia l'innovazione introdotta da Ibn ´Arabî nell'interpretazione del
possibile in rapporto alla non-esistenza, essa non modifica la natura della
relazione che sussiste tra la cosa possibile e la cosa esistente, di cui stiamo
trattando. Nell'ultimo passo citato, Ibn ´Arabî parla di a´yân,
plurale di ´ayn, che significa
«la cosa in quanto tale», in carne ed ossa, e che perciò ho reso nella mia
traduzione con «individualità incarnate».30 Le
cose possibili che sono «fisse» in Dio e, allo stesso tempo, non-esistenti
(giacché non possiedono l'attributo di esistenza, attraverso il quale esse
sarebbero diventate «necessarie» ed avrebbero cessato di essere «possibili»)
sono chiamate da Ibn ´Arabî «individualità incarnate», cose in quanto tali,
poiché sono esattamente le cose che «appaiono» nel regno dell'esistenza, nella
dimensione spazio-temporale, ovvero in questo mondo. Tale «apparizione» (zuhûr)
corrisponde, dal punto di vista ontologico, al processo durante il quale ognuna
delle possibili incarnazioni permanenti nel Sé divino acquisisce l'attributo di
esistenza e perciò da il suo ingresso nel regno dell'«alterità», dove consegue
una rigorosa differenziazione rispetto a tutti gli altri esseri presenti nel
mondo.
Riassumendo, possiamo affermare quanto segue: nessuna cosa, quando è un
«possibile» privo di esistenza si differenzia da un'altra e nemmeno da Dio
stesso (se non per l'attributo di «necessità-di-esistenza-attraverso-Se-stesso»,
come sottolinea Ibn ´Arabî).31 La
stessa cosa risulta invece differenziata rispetto ad ogni altra cosa presente
nel mondo e, naturalmente, rispetto a Dio, quando essa giunge a possedere
l'attributo di esistenza e ad essere perciò denominata
«necessariamente-esistente-attraverso-l'altro». La medesima differenza
intercorre naturalmente tra questa cosa e Dio. La relazione esistente tra i due
«stati» (hâl) della cosa corrisponde alla relazione che sussiste fra il
suo aspetto bâtin ed
il suo aspetto zâhir. Da
questo punto di vista, diciamo che la transizione tra questi due ultimi si
compie con una sottrazione di esistenza, mentre il movimento contrario, da bâtin a zâhir,
avviene mediante un'attribuzione di esistenza. I due movimenti di transizione
(da zâhir a bâtin e
da quest'ultimo al primo) avvengono in ogni atomo di tempo, e così zâhir e bâtin si
traducono l'uno nell'altro pur mantenendosi distinti (tamayyuz) l'uno
dall'altro.
Coloro «che conoscono la verità», sostiene Ibn ´Arabî, sanno che i possibili
stessi sono definiti «necessari-attraverso-l'altro» e sanno perché a tale
«altro» venga attribuita la denominazione di «alterità». Se ci chiediamo che
cosa si intenda con la parola «altro», credo che sia possibile offrire due
risposte, differenti quantunque non in contraddizione fra loro. Da un lato,
s'intende il «Necessario-attraverso-Se-stesso», giacché conferisce ad ogni mumkin (possibile)
la sua esistenza, trasformandolo in un wâjib (necessario);
così, tutte le cose esistenti nel mondo sono tali attraverso il Sé divino.
Dall'altro lato, se consideriamo che il mondo in quanto tale non presta alcuna
attenzione alla propria relazione con il Sé divino, possiamo dire che l'«altro»,
mediante il quale la cosa in questione esiste, è qualcos'altro e corrisponde a
ciò che nel linguaggio filosofico viene solitamente designato «la causa della
cosa» (´illa oppure sabab).
Questa seconda risposta è la risposta di coloro che, afferma Ibn ´Arabî, non
riescono a vedere la realtà dell'Universo, cioè il suo essere costituito dalla
relazione zâhir-bâtin che
unisce il Sé divino e il mondo, mentre la prima risposta è quella di coloro che
sono in grado di testimoniare la verità.32
Tutto ciò ci introduce ad un altro concetto importante ai fini della nostra
discussione sull'alterità e la sua natura. Le idee maturate da Ibn ´Arabî
intorno a tale argomento non sono molto comuni, se considerate nel contesto
delle principali correnti filosofiche e sapienziali musulmane sia precedenti sia
a lui contemporanee. Dal momento però che tali idee sono la diretta conseguenza
della relazione zâhir-bâtin esistente
fra Dio ed il mondo, di cui abbiamo già parlato, non risulterà troppo difficile
afferrarne l'essenza.
La migliore formulazione del concetto di causalità elaborato da Ibn ´Arabî è
rappresentata dalla definizione che egli stesso fornisce: «la causa è causata da
ciò di cui è causa (al-´illa ma´lûla li-mâ hiya ´illa la-hu)»,33 cioè
la causa è l'effetto del suo stesso effetto. Questo sembra un paradosso, di cui
Ibn ´Arabî è pienamente consapevole; inoltre, è l'apparente assurdità di questa
e di simili conclusioni che conduce allo «smarrimento»34 (hayra)
con cui si esprime l'autentica conoscenza circa la realtà dell'universo, come
sostiene il Maestro nel primo dei passaggi sopraccitati.35 Ritengo
che l'assurdità sia solo apparente, poiché la tesi in questione, manifesta una
piena coerenza, se si considera la natura della relazione zâhir-bâtin quale
viene concepita da Ibn ´Arabî. La cosa-zâhirnon è altro che la cosa-bâtin più
l'esistenza, mentre la cosa-bâtin non
è altro che la cosa-zâhir meno
l'esistenza. La cosa, o, come preferisce dire Ibn ´Arabî, il «sé» (dât),
ovvero l'«individualità incarnata» (´ayn), rimane la stessa in entrambi
gli aspetti, sia zâhir che bâtin,
indipendentemente dall'aggiunta o dalla sottrazione di esistenza. Ciò significa
che nessuno dei due aspetti, esteriore o interiore che sia, gode di alcuna
priorità sul piano logico, dal momento che rappresentano l'uno la traduzione
dell'altro.36 È
possibile sceglierne uno a caso, tanto per iniziare, ad esempio l'aspetto bâtin,
e decidere di denominarlo «causa», per passare poi a considerare l'aspetto zâhir,
che definiremo «effetto». Se arrivati a questo punto ci chiedessimo: «perché la
causa ha causato esattamente quest'effetto e non un'altro?», la risposta sarebbe
la seguente: «perché l'effetto era questo, e ha fatto sì che la causa lo
causasse esattamente così». Con una sorta d'inversione di marcia, ci ritroveremo
dunque al punto di partenza, per scoprire che la causa non è altro che un
effetto del suo stesso effetto. Questo incessante andirivieni fra zâhir e bâtin è
la perfetta esemplificazione della hayra,
termine che, oltre che «smarrimento», significa «vortice, mulinello» e quindi
rappresenta in modo efficace il costante movimento circolare. Tale movimento
vorticoso, che ci impedisce di sostare in un punto definito e che, non appena
abbiamo raggiunto un lato, continuamente ci riporta dall'altra parte, ci
costringerà ad ammettere, seguendo Ibn ´Arabî, che l'universo è o Dio o la
creazione, oppure Dio-la-creazione o ancora né-Dio-né-la-creazione; si potrebbe
però anche parlare, come egli afferma in un altro passaggio, di al-amr
al-khâliq al-makhlûq wa al-amr al-makhlûq al-khâliq,
cioè la «cosa (l'universo) è il-Creatore-il-creato e la cosa (l'universo) è
il-creato-il-Creatore», oppure, secondo una diversa traduzione, «l'universo è il
Creatore creato e l'universo è la creatura creante».
Riflettendo sulle conseguenze di tale visione, Ibn ´Arabî giunge ad affermare
che:
Nulla ritorna dalla Verità ai possibili, ad
eccezione di ciò che viene dato da essi stessi secondo i loro stati (ahwâl) .
Così, la manifestazione (at-tajallî) differisce a causa delle
diversità di stato (hâl),37 e
l'effetto (ašar) si imprime sullo schiavo conformemente a ciò che
egli è. Tale è la ragione per cui il bene (hayr) non gli viene
concesso da nessun altro se non da se stesso; è il contrario del bene non
gli viene dato da nessun altro se non da se stesso. Egli benedice il suo sé
e lo tormenta; dunque, che biasimi solo il suo animo ed elogi solo se
stesso.38
Giunti a questo punto, è difficile che qualcosa risulti più pertinente del
trarre alcune conclusioni di carattere etico dalla teoria della causalità qui
proposta. Il passaggio in questione riporta alla nostra attenzione ancora una
volta il concetto di «altro» e ci ricorda il tema principale della nostra
riflessione. Tenendo conto della prospettiva in cui ci troviamo, potremmo
riformulare la posizione di Ibn ´Arabî nel modo seguente: il cambiamento che
avviene a causa della transizione da bâtin (al-Haqq,
il Sé divino) a zâhir (il
mondo) consiste nell'apparizione dell'alterità (gayriyya). L'alterità è
presente nel mondo perché ogni cosa acquista esistenza e risulta quindi
realmente differenziata da tutte le altre cose. Nel movimento a ritroso (da zâhir a bâtin)
l'esistenza viene sottratta da tutte le cose: con essa scompare l'alterità, e le
cose, pur conservando i propri sé e rimanendo esattamente le medesime, eccetto
che per l'attributo di esistenza, non si presentano più come «altre» nella
relazione esistente fra loro.
Ibn ´Arabî, quando affronta la questione dell'«eccellenza» (tafâdul) e
della «superiorità» (´uluww), evidenzia quest'ultimo punto in modo molto
chiaro. Da un lato, egli dice, noi vediamo che le cose esistenti eccellono una
sull'altra in virtù dei propri attributi, e così alcune di esse risultano
superiori ad altre; dall'altro lato, Ibn ´Arabî sostiene che
ciò che appare nella Creazione ha le stesse
capacità (ahliyya) di qualunque altra cosa che la superi. Così,
qualunque parte del mondo è il mondo intero (majmû´), vale a dire che
esso accetta (qâbil) le realtà delle individualità separate (mutafarriqât)
del mondo intero.39
Tale situazione è determinata dal fatto che ogni cosa dimorante nel Sé divino
risulta indifferenziata rispetto ad ogni altra cosa e perciò è capace di
accettare la sua «realtà» (haqîqa), cioè di diventare ciò che è. Da
questo punto di vista non è possibile alcuna predominanza (tafâdul). Allo
stesso modo, non vi è altezza relativa o superiorità relativa (´uluww idâfa)
nell'Altissimo (al-´Alî), afferma Ibn ´Arabî, quantunque le
«individualità incarnate» in stato di fissità (a´yân thâbita) dimorino in
Lui;40 nel
mondo delle cose esistenti, invece, si dà la superiorità di una cosa sull'altra.
Questa superiorità è conseguenza dell'alterità, la quale, secondo Ibn ´Arabî, è
a sua volta espressione della gelosia di Dio, poiché Egli:
ostacolò la conoscenza della verità di cui
abbiamo parlato, cioè del fatto che Egli è l'incarnazione delle cose,41 e
la occultò con la gelosia (gayra), cioè con il «tu» distinto
dall'«altro» (gayr).42
In arabo i termini «gelosia» ed «altro» derivano dalla medesima radice (g-y-r)
e si scrivono e si pronunciano in modo identico, tranne che per una lettera. Ibn
´Arabî usa giustappunto questo gioco di parole per sostenere l'idea che
l'alterità delle cose visibili nel mondo nasconda l'unità del loro dimorare in
Dio. Da qui muove lo stesso Autore per proporre una tesi di enorme rilevanza ed
interesse: se sei giunto alla piena comprensione di come è costituito
l'universo, non vi è cosa o persona che tu possa considerare un avversario al
quale contrapporre con forza il tuo agire. Non si tratta di una norma morale;
piuttosto, le implicazioni contenute nella concezione di Ibn ´Arabî
rappresentano forse la forma più accentuata di ciò che chiamerei «incapacità di
ostilità», giacché, secondo il Grande Maestro del sufismo,
tu «non sei capace» di guardare il tuo avversario come se fosse qualcosa su cui
indirizzare di proposito l'influsso proveniente da parte tua. Questo dipende dal
fatto che non può esserci solo la «tua» parte, se comprendi che cosa è l'ordine
universale: la «tua» parte non si differenzia dalla «sua» (quella del tuo
avversario) fino a che vi è implicato il bâtin delle
cose. Ibn ´Arabî sviluppa tali riflessioni parlando dell'«energia» (himma)
che il mistico acquisisce attraverso la scoperta, all'interno di se stesso,
della verità attinente all'ordine universale: quanto più egli comprende tale
ordine, tanto più possiede l'energia che pone il mondo intero a sua
«disposizione» (tasarruf) e tanto meno ne fa realmente uso.
Quanto maggiore è la sua conoscenza, tanto
minore è la sua capacità di disporne attraverso l'energia. Vi sono due tipi
di ragioni che stanno alla base di questo. La prima consiste nella sua
autentica comprensione (tahaqquq) della condizione (maqâm) di
schiavitù, laddove egli scorge la radice della sua creazione naturale. La
seconda consiste nell'unità (ahadiyya) di colui che dispone e di
colui che è a sua disposizione: egli non riesce a vedere contro chi potrebbe
dirigere la propria energia e ciò lo trattiene dal farlo.43
Le due ragioni sopraccitate tengono conto delle due diverse prospettive, zâhir e bâtin (mondana
e divina), relative all'ordine universale. Essere un «vero schiavo», secondo
quanto afferma Ibn ´Arabî, significa essere soltanto nel mondo, quindi scoprire
in se stessi esclusivamente il lato zâhir e,
quindi, essere solo oggetto a disposizione e non soggetto che dispone.
Dall'altro lato, se afferriamo il lato bâtin,
ci rendiamo conto del fatto che in esso non esiste alcuna alterità e quindi
nemmeno alcuna differenziazione, giacché esse sono assorbite in una rigorosa
unità (ahadiyya).44
A questo punto (mašhad) egli si accorge
del fatto che il suo avversario (munâzi´) non si discostava dalla sua
verità (haqîqa), in base alla quale egli si trovava nello stato di
fissità della propria incarnazione e nello stato del suo non-essere. Così,
nulla era giunto all'esistenza, ad eccezione di ciò che egli manteneva
inesistente nella condizione di fissità. Dunque, egli non si discostò dalla
propria verità né danneggiò il sentiero. Questa è la ragione per cui il
termine «conflitto» (nizâ´) non rappresenta altro che un accidente,
sostenuto dal velo che offusca gli occhi della gente.45
C'è ancora un'importante considerazione da farsi, riguardo alla nozione di
«altro». L'alterità che differenzia ogni cosa esistente da tutte le altre è,
secondo Ibn ´Arabî -- che su questo punto si rivela estremamente risoluto --
assoluta. Chiamando le cose del mondo «veli» (hijâb) di Dio, Ibn ´Arabî
sottolinea che «una di esse non è l'incarnazione dell'altra, perché due cose
simili (šabîhân) sono diverse (? ayrân) per colui che sa che esse
sono simili».46
Nel parlare della mušâraka («partecipazione»,
«associazione», «condivisione»), il Maestro conclude che «in realtà non esistono
associati (šarîk), poiché ognuno ha la propria parte (hazz) di ciò
di cui si disse che essi vi stanno prendendo parte (mušâraka)».47
Si noti quali sono le implicazioni di tale posizione circa il processo di
generalizzazione. Le cose del mondo non condividono alcunché, secondo Ibn
´Arabî, ma ciò che non impedisce loro di costituire un'unità perfetta. Tale
unità non è data dai tratti comuni che esse possiedono, e per compiere una
transizione dallo stato di differenziazione, molteplicità e assoluta alterità in
cui si trovano, alla condizione di unità, esse non hanno bisogno di perdere
alcuna delle caratteristiche che segnano la loro differenza, ma, al contrario,
le conservano tutte quante. Si tratta di un processo di unificazione
estremamente sobrio, dal momento che ogni elemento di diversità viene rispettato
e nessuno di essi deve essere sacrificato per il fine dell'unità.
A partire dalla base ontologica sopra descritta, Ibn ´Arabî sviluppa il tema
della tolleranza religiosa. Sia il legame ontologico con la teorizzazione che
egli ne fa, sia il terreno su cui essa si fonda, vengono forniti dalla seguente
osservazione del «Grande Maestro»:
niente di ciò che è esistente ed esiste
nell'universo è altro (gayr) in rapporto all'identità (huwiyya)
della Verità; piuttosto, rappresenta l'incarnazione di tale identità.48
L'alterità, come abbiamo potuto vedere, è presente fra le cose del mondo, dove è
assoluta. Per quanto riguarda invece il rapporto esistente fra le cose e Dio,
Ibn ´Arabî sostiene che non c'è separazione imputabile all'alterità. La
relazione di traducibilità (zâhir-bâtin) -- cioè una reciproca e costante
transizione dall'uno all'altro -- che sussiste fra Dio ed il mondo esclude ogni
alterità fra di loro. Nello stesso tempo, essi non sono ovviamente identici
bensì distinti (tamayyuz) l'uno dall'altro.
Dal momento che ogni cosa nel mondo rappresenta un'incarnazione dell'identità
divina, non vi è nulla che non sia vero e non vi è credenza in Dio che possa
essere definita falsa. L'unico modo per cadere in errore consiste nel
misconoscere il carattere autentico di ogni credenza religiosa, rivendicando
l'esclusivo possesso della verità e negandolo così a tutte le altre religioni.
Un'affermazione così radicale è soltanto la logica conseguenza della concezione
ontologica di Ibn ´Arabî, il quale non esista a trarre tutte le conclusioni
implicite nella sua visione teorica, senza preoccuparsi di quanto insolite esse
possano apparire.49
Ecco ad esempio una sua affermazione:
adesso ti è chiaro che l'Altissimo Iddio è
presente in ogni direzione (fî´ ayniyyat kull wijha) e che non vi
sono nient'altro che credenze (i´tiqâdât).50
Queste due proposizioni devono essere considerate, sul piano logico, come causa
ed effetto: poiché Dio è dappertutto, non può esistere «la» credenza, ma solo
una pluralità di credenze, nessuna delle quali, in senso stretto, è «migliore»
delle altre.51 Non
c'è alcun dubbio sul fatto che Ibn ´Arabî fosse un musulmano di tutto rispetto,
nient'affatto propenso all'indifferenza religiosa o al riconoscimento
dell'«uguaglianza» di tutte le religioni. Egli ritiene, nondimeno, che nessuna
delle credenze religiose esistenti, in contraddizione fra loro o almeno
incompatibili, sia l'unica vera e che, nello stesso tempo, ognuna sia vera, a
condizione che non affermi di possedere la verità assoluta:52
presta attenzione a non legarti ad alcuna
credenza definita ('aqd makhsûs )
e a non misconoscere la verità presente in tutte le altre. In tal caso, ti
sfuggirà un beneficio copioso (khayr katîr); inoltre, ti sfuggirà la
conoscenza dell'ordine (al-amr) universale quale esso è. Coltiva
dunque nel tuo animo un interesse primario per le varie fedi, nessuna
esclusa, giacché l'Altissimo Iddio è troppo grande per essere compreso da
una sola fede e non dalle altre.53
2.4. Prospettive comparativistiche sulla categoria di tolleranza nel pensiero
occidentale ed in Ibn ´Arabî
Avevamo avanzato l'ipotesi che la struttura logica generale del concetto di
tolleranza, delineata nella prima parte dello studio, ci avrebbe permesso di
ricostruire la posizione elaborata da Ibn ´Arabî intorno a tale tema. Nella
seconda parte abbiamo esaminato alcuni suoi testi ed esplicitato il filo logico
seguito dal «Sommo Maestro», che, secondo lui, giustifica la sua posizione.
Credo che l'obiettivo sia stato raggiunto. In forma molto astratta e
generalizzata, le idee di Ibn ´Arabî si adattano alla logica della tolleranza
quale via per superare la reciproca negazione degli opposti, raggiungendo una
qualche sorta di unità e di universalità. Tuttavia, ciò di cui tale schema
logico generale non rende conto è l'evidente radicalismo delle teorie di Ibn
´Arabî stesso. Inoltre, tale suo radicalismo sembra contraddire il fondamento
stesso della nozione di «tolleranza nell'interesse di qualcosa», dato che
l'Autore giustifica la più estrema forma di comportamento attraverso la stessa
logica da lui seguita per trovare un fondamento alla diversità delle dottrine
religiose.54 Tale
radicalismo non è giustificato dalla struttura logica del concetto di tolleranza
religiosa. Da dove nasce, dunque?
Esso non appare frutto di una scelta arbitraria da parte di Ibn ´Arabî, quale
conseguenza del suo tentativo di comunicare la propria esperienza personale o le
proprie impressioni in una forma che risulti intelligibile agli altri. Ciò che a
noi appare come il carattere radicale delle conclusioni a cui giunge Ibn ´Arabî,
rappresenta in realtà la diretta ed inevitabile conseguenza dell'interpretazione
del processo di generalizzazione da lui elaborata, mediante il quale si effettua
una transizione dalla molteplicità all'unità superando la reciproca negazione
dei numerosi opposti.
Nel pensiero occidentale la tolleranza quale riconoscimento di alterità non è
mai stata interpretata in modo assoluto. Dal punto di vista storico, il concetto
iniziò a trovare applicazione nell'ambito delle relazioni sociali, poi tale
ambito prese ad estendersi gradualmente ed oggi è ancora lontano dall'avere
esaurito le proprie possibilità. Dal punto di vista logico, la tolleranza, se
diventa assoluta, permettendo deviazioni di ogni sorta, cessa di essere tale e
si trasforma in «permissività» ed «indifferenza». Ciò dipende dal fatto che la
tolleranza è sempre finalizzata al raggiungimento di qualche scopo, e tale scopo
deve corrispondere a qualcosa che sia necessariamente comune a tutti. È questo
elemento comune che consente di compiere il processo di generalizzazione,
impedendo alla diversità di trasformarsi in contrapposizione distruttiva.
Ibn ´Arabî segue un processo di generalizzazione differente: secondo lui, la
reciproca negazione degli opposti viene superata non in virtù dell'esistenza di
un elemento comune in essi presente, quasi si trattasse di una proprietà di
carattere generale a cui ricorrere per tentare di risolvere le eventuali
contraddizioni risultanti dalla negazione l'uno dell'altro: è piuttosto in virtù
della «transizione di traduzione» (zâhir-bâtin) che la diversità
assoluta, priva di qualsiasi elemento comune, si dimostra possibile senza essere
d'ostacolo ad un'armoniosa unificazione, per amore della quale non è quindi
necessario sacrificare alcuno degli elementi a cui si devono appunto la
diversità e la reciproca negazione.
Le osservazioni precedenti ci suggeriscono la seguente risposta alla domanda che
ci eravamo posti, espressa dal titolo del presente studio: la tolleranza
religiosa può essere assoluta, cioè illimitata, come dimostra la visione di Ibn
´Arabî, senza ridursi ad indifferenza o permissività. La condizione essenziale
perché ciò si verifichi, tuttavia, è costituita dall'adozione di
un'interpretazione piuttosto specifica della relazione di negazione e del suo
superamento. Questo superamento avviene tramite un processo di generalizzazione
tale da produrre un'unificazione perfetta, senza dover sopprimere alcuno dei
tratti distintivi ai quali si devono la contrapposizione e la reciproca
negazione dei singoli particolari unificati.
È questa la chiave interpretativa dell'ontologia di Ibn ´Arabî, che fa da sfondo
alla sua concezione della tolleranza.
3. La diversità culturale come «alterità» logico-significativa: il caso della
conoscenza e della fede 
Ogni qualvolta ci accingiamo ad iniziare uno studio comparato tra due culture,
metodologicamente iniziamo da una delle due per poi passare all'altra. Un'altra cultura
esiste sempre, infatti, ogni qualvolta si parli di una delle due. È pertanto a
causa dell'alterità che si
possono distinguere due culture. Questa alterità è sempre da noi conoscibile e
quindi uno studio comparato è, in ultima analisi, uno studio dell'alterità.
In questo breve studio parlerò di un tipo di alterità che definisco
logico-significativa. Ambedue, la logica e la semantica, sono riunite in questa
definizione concettuale. Vuol dire che quando parliamo di un concetto, ad
esempio di «conoscenza» o di «fede», in realtà siamo incapaci di arrivare al suo
contenuto senza prendere in considerazione la logica che lo costruisce e che lo
lega ad altri concetti; del resto noi non potremmo afferrare la logica del
ragionamento che ingloba la «conoscenza» e la «fede» senza capirne la sostanza
semantica.
È piuttosto comune parlare di un'alterità semantica, che distingue i phaenomena caratterizzanti
i nomi comuni presenti in culture diverse quali ad esempio la «conoscenza» o la
«fede». Non è, invece, di dominio comune parlare della logica distinguente due
culture in base allo sviluppo del diverso contenuto semantico di tali concetti.
Ritengo che in certi casi questo approccio sia, invece, cruciale. Questi sono,
per l'appunto, i casi che si presentano, quando le culture sotto esame sono
contraddistinte da un'alterità logico-significativa e non solo da quella
semantica.
Esemplare è in tal senso il caso della cultura Occidentale e Musulmana.
Esaminerò, dunque, come le modalità della «conoscenza» e della «fede» siano
riferite l'un l'altra, sperando di chiarire così gli aspetti logici e semantici
in quanto tra loro interconnessi. Inutile dire che questo sarà uno schema e
nulla di più; intanto, però, dobbiamo cominciare da questo schizzo per
svilupparlo più tardi in un ritratto completo.
Mi sia permesso iniziare da una cosa nota ai più. Il pensiero musulmano,
contrariamente all'uso invalso in Occidente, non fa distinzioni tra secolare e
religioso. Nella cultura classica musulmana non troviamo una legge «canonica»
separata da quella «temporale», nessuna poesia «spirituale» distinta da una
«profana» e nessuna arte «religiosa» divisa da un'arte «secolare» etc etc.
Questo non vuole, però, dire che la cultura musulmana non abbia tracciato una
linea di demarcazione tra quanto appartiene alla sfera religiosa e quanto
appartiene alla vita mondana. Al contrario, tale distinzione esiste ed è
piuttosto rilevante. Tutto questo viene, infatti, espresso rispettivamente dalle
nozioni di dîn (letteralmente,
«la religione») e dunyâ letteralmente,
«il mondo più prossimo»).55 Tale
distinzione presuppone, dunque, la separazione tra le due nozioni sopra
riportate ed inoltre -- e non è da poco -- delinea un'opposizione tra queste.
In questa maniera, ambedue i pensieri Occidentale e Musulmano tendono alla
differenza, laddove questa è intesa come un'opposizione tra le due sfere. Quello
che mi chiedo, pertanto, è come sia strutturata questa opposizione e su cosa
essa si basi. Ed infine, dato che l'opposizione presuppone un concetto
unificante, come si realizza, allora, l'unificazione nei due casi, ossia
Occidentale e Musulmano?
Questo è l'interrogativo che pongo.
Per quanto riguarda la cultura Occidentale, ebbene qui «fede» e «conoscenza»
costituiscono una contraddizione, perché la «fede», dal punto di vista logico,
dovrebbe essere intesa e trattata come «non-conoscenza», per esempio come una
negazione logica della «conoscenza».
In questo modo, durante il Medio Evo, la filosofia funse da ancella alla
teologia con il permesso accordatele da quest'ultima, quindi, di studiare
qualunque cosa che, però, non riguardasse la fede. L'Illuminismo invertì,
invece, questa subordinarietà, mettendo, difatti, la ragione autonoma in una
posizione di superiorità e limitando la fede a quelle aree, dalle quali essa non
potesse nuocere al dominio della ragione. Questa logica relativa alla fede ed
alla conoscenza è più stabile del contenuto oscillante che informa queste
categorie.
Ora, se logicamente parlando la fede è «non-conoscenza», come è possibile allora
«conoscere tramite la fede»? O meglio ancora, come può la credenza (che è
qualsiasi cosa che sia apparentabile alla fede e che è sottoposta alla categoria
della «non-conoscenza») fungere da base per una conoscenza, al pari di ogni
costruzione teoretica? Ad essere sinceri, dobbiamo ammettere che queste sono
domande che sorgono solo dopo aver
sviluppato un nucleo logico-significativo delle due nozioni, «conoscenza» e
«non-conoscenza», ed averli quindi riferiti l'uno all'altro come un'opposizione
dicotomica. Solo dopo, siamo in grado di scoprire come questo nucleo appaia
sorprendente e paradossale, a partire dalla fede e dalla credenza, che sono
«non-conoscenza», e che potrebbe essere considerato anche come una conoscenza
valida sotto certi punti di vista.
Non importa quanto elaborati siano questi paradossi, essi non minano minimamente
la validità dell'assunto iniziale. Caso mai, è questa relazione
logico-significativa dalla conoscenza alla non-conoscenza, che costituisce il
fondamento di tutte quelle domande, problemi e paradossi; a ben vedere, infatti,
questi ultimi cesserebbero semplicemente di essere senza questa relazione.
La medesima cosa accade nel momento in cui concentriamo la nostra attenzione
verso il pensiero musulmano. Qui certamente non noteremo nessuna dicotomia tra
opposti. Questa particolarità è già stata introdotta da quanto detto in
apertura: pur esistendo distinzione ed opposizione tra «religioso» (dîn)
e «mondano» (dunyâwî), non riusciamo tuttavia a scorgere alcuna divisione
tra sfere, proprio mentre ci aspetteremmo una netta divisione tra parti. Questa
è la parte logica delle cose; ma ci ritornerò più tardi.
L'aspetto semantico viene alla luce non appena scopriamo che la cultura
musulmana oppone la «conoscenza» ('ilm) non alla «non-conoscenza» bensì
all'«azione» (´amal). Di conseguenza, «fede» o «credenza» semplicemente
non possono contraddire la conoscenza, siccome non appartengono alla categoria
che si oppone alla «conoscenza». Tutto questo ci riporta all'aspetto logico e
questo ritorno-alla-logica sposta la nostra attenzione e ci permette di
intendere perché e come l'«azione» possa essere un'opposizione logica e
consistente alla «conoscenza».
Questo può accadere perché gli opposti qui non sono mutuamente esclusivi. Anzi è
vero il contrario: essi abbisognano l'uno dell'altro come reciproca condizione
di esistenza. Intendo tutto ciò in modo ontologico e non solo logicamente:
affinché possa esistere un opposto, infatti, la sua controparte dovrebbe
altrettanto esistere. Questo, però, non è chiaramente il caso delle opposizioni
di tipo dicotomico. Inoltre, gli opposti, per così dire, si convertono l'uno
nell'altro. Tale conversione (o
potremmo dire anche transizione)
è la ragione della loro reciproca necessità ontologica.
Quindi, conoscenza ed azione nell'ambito della cultura musulmana sono degli
opposti, che significano, secondo le regole logico-significative di questo
dominio, che loro si presuppongono l'un l'altro e si convertono l'un l'altro.
Adesso, siamo pronti per introdurre un altro concetto, ovvero quello che
riunisce insieme questi opposti, unificandoli.
Questa unificazione è prodotta dalla transizione reciproca degli opposti;
inoltre, potremmo dire anche che questa unità -- frutto del processo di
unificazione -- è quella
transizione. La conoscenza si converte, dunque, in azione (o si potrebbe dire
pone in essere l'azione); l'azione è determinata e prodotta dunque dalla
conoscenza. È questa reciproca conversione della conoscenza e dell'azione che li
unisce; questa unità che significa necessità dell'uno attraverso l'altro, è la
«fede» (îmân).
La fede pertanto elimina l'opposizione tra la conoscenza e l'azione e funge loro
da collante generale. «Il fatto-di-essere-generale» è determinato dalla
transizione dall'opposizione «inferiore» all'altra, anche se «il
fatto-di-essere-generale» non li «include» in ogni senso, o meglio nel senso che
un'idea include una possibilità per le sue «incarnazioni individuali» al pari di
una nozione di sintetizzazione che include le opposizioni sintetizzate.
Quanto detto, serve a spiegare come mai nell'ambito della cultura musulmana la
fede non possa contraddire la conoscenza.
La transizione dalla conoscenza all'azione costituisce e stabilisce (ithbât)
la fede. La vera idea di ragione che realizza la sua autonomia liberandosi dal
dominio della fede è semplicemente scorretta (in questo caso sarebbe possibile
continuare a cercare gli altri argomenti che attestano questa affermazione).
Nella cultura musulmana questa idea -- l'autonomia della ragione -- è priva
di significato; secondo una frase comune inglese essa non
ha semplicemente senso e pertanto
non può essere discussa. «Liberarsi» dalla «supremazia della fede religiosa» e
«liberare la mente dal suo dominio» equivarrebbe a dire, eliminare l'unità ed il
coordinamento della conoscenza e dell'azione, sbilanciandole pertanto.56
D'altra parte, in base alle regole logico-significative dell'ambito culturale
musulmano qualsiasi tipo di conoscenza, che è connessa armoniosamente e che
conduce all'azione, produce la fede (l'unica eccezione a
prioriche viene in mente, è il rifiuto netto del monoteismo quale tesi
esplicita).
Ecco del perché i teologi musulmani, nel passato e nel presente, rivendicano,
spesso entusiasticamente, che tutto nella cultura musulmana è «illuminato dalla
luce della fede» e che ogni azione, inclusi i movimenti di un vasaio o di un
falegname, è «inseparabile dalla fede».
Questa tesi è certamente corretta -- solo se intesa all'interno dell'ambito
logico-significativo della cultura musulmana. Non si dovrebbe interpretare la
conoscenza -- per esempio, la conoscenza del falegname che si estrinseca nei
movimenti della sua mano che pialla il legno -- come «inclusa nella» fede e di
conseguenza -- conseguentemente per il pensiero Occidentale -- come conoscenza
«religiosa», che in forza delle stesse regole logico-significative, potrebbe
essere opposta ad una conoscenza «non religiosa», determinando così
l'opposizione tra fede e conoscenza. Ciò che sarebbe, invece, vero dal punto di
vista Occidentale. Fintanto che rimaniamo nell'ambito del pensiero musulmano, la
conoscenza e l'azione come tali sono «fuori» della fede e perciò non possono
contraddire la fede stessa.57
In virtù dello stesso imperativo logico-significativo, la cultura musulmana non
impedisce lo sviluppo di una conoscenza scientifica.58 Negli
scritti dei più importanti teologi musulmani, incluso quelli contemporanei, si
può cogliere il desiderio di ravvedere nell'intera summa scientifica uno degli
elementi costitutivi della fede che -- come implicazione -- non contraddice in
nessun modo.59
Alla fine di «Anna Karenina» (parte 8, capp. XII-XIII), Lev Tolstoy descrive nel
dettaglio l'acume improvviso di Levin -- o ad essere più preciso, la sua
consapevolezza improvvisa e nitida -- con riferimento a quanto lo stesso Levin
aveva già conosciuto come «verità spirituali che aveva succhiato dal latte
materno». Tutta la sua vita si svolse all'insegna di una lotta tra questa
conoscenza-fede preistorica ed un'altra conoscenza promossa dalla ragione e
verificata dalla scienza. Questi due generi di conoscenza sono incompatibili,
perché esprimono delle verità incompatibili. Una persona potrebbe possederli
ambedue, ma dovrebbe collocarli «in diversi domini o strati» della sua
personalità. Questi due generi di conoscenza sono la fede
(conoscenza-in-virtù-della-fede) e la conoscenza (prodotta dalla ragione in
quanto unica autorità in materia) ed alla fine, comunque uno di loro vince.
Questa breve citazione esaurisce quasi la problematica relazione tra fede e
conoscenza. Espressi in poche pagine, i pensieri di Tolstoy occuperebbero,
invece, volumi se tutte le loro implicazioni fossero spiegate. Comunque, il mio
intento non è quello di cimentarmi in questa spiegazione. Ciò che mi prefiggo
invece è di indicare la base logico-significativa di una simile spiegazione,
base che è la medesima delle idee non sviluppate nel monologo di Levin.
La cultura musulmana, e così qualunque altra, può essere spiegata come una serie
di nuclei logico-significativi organizzati secondo le regole che stanno
all'interno dell'ambito di quella stessa cultura, ma che potrebbero differire in
altre culture. Il caso della fede e della conoscenza è solo uno di tanti
possibili esempi.
Le medesime procedure logico-significative vanno applicate al nucleo «corpo-
anima». Corpo ed anima, essendo delle opposizioni mutuamente determinate,
costituiscono l'umana «Egoità» ('anâ'iyya) in virtù della loro reciproca
conversione e transizione.60 L'«Egoità»
è un'entità assolutamente semplice e non include il corpo e l'anima come sue
parti. Completamente indivisibile, questa entità è qualcosa in cui il corpo e
l'anima, esterni ad essa, raggiungono quell'unità in grado di dominare al di là
dell'opposizione che li contraddistingue.61 Le
teorie del parallelismo psicofisico, la discussione su cosa affligga la
filosofia e la psicologia moderna Occidentale, mancano semplicemente di un
fondamento in questo ambito logico-significativo.
Comprendere le cause logico-significative dell'identità culturale è chiaramente
un lavoro lungo e caratterizzato da una continua attenzione verso le operazioni
della propria mente, che non è, certamente, avulsa dagli imperativi
logico-significativi della propria cultura madre. Questa comprensione è l'unica
maniera utile per un dialogo autentico con una cultura che si trovi con noi in
una relazione di alterità logico-significativa e non solo semantica.
4. La hayra (perplessità) Sûfî e
l'Arte islamica: la contemplazione della decorazione attraverso i Fusûs
al-Hikam 
Durante l'ultimo secolo la decorazione islamica, ma più in generale anche l'arte
islamica, ha attirato l'attenzione di molti studiosi, storici dell'arte e
filosofi. Sebbene l'investigazione dei manufatti sia ancora lontana dall'essere
completa, per comprendere la natura dell'arte islamica e i suoi principi
generali giocoforza sono state avanzate delle linee guida generiche. Per
schematizzare questi tentativi di chiarimento in un modo molto grossolano e
forse piuttosto arbitrario, direi che essi andrebbero ripartiti in tre grandi
gruppi. Nel primo, troviamo le precisazioni filosofiche (Massignon, Burckhardt e
Nasr); nel secondo, quelle suggerite dagli storici dell'arte (Grabar ed
Ettinghausen); nel terzo, infine, quelle che esprimono la lettura dell'arte
islamica da parte dei Sûfî(Ardalan
e Bakhtiar). Non pretendo che questa mia «classificazione» sia di tipo
«scientifico»; questi gruppi sono talvolta sovrapposti, come nel caso di S. H.
Nasr nei cui testi è difficile scindere gli argomenti filosofici dai
convincimenti Sûfî-Ishrâqî-´Irfânî dello
stesso autore. Sto quindi solo avvertendo che in questo articolo non seguirò
nessuna di queste tre linee di investigazione e di spiegazione. Piuttosto
cercherò un comune «sfondo logico» sul quale s'inscrivono (oppure, che «sta
dietro») i vari phaenomena della
cultura islamica; in questa prospettiva comparerò la decorazione islamica ed il
discorso «filosofico» Sûfî.
Per «sfondo logico» non intendo esattamente la «struttura» logica, ma piuttosto
una certa procedura di costruzione di una tale struttura e di riempimento della
stessa attraverso un suo proprio significato; lo «sfondo logico» è, infatti, una
procedura logico-significativa
(ndt) della formazione dei phaenomena culturali.
Credo per l'appunto che questa procedura sia comune ai vari phaenomena della
cultura islamica e che renda conto della loro profonda affinità. Questo spiega
il titolo del mio articolo: non tenterò pertanto di leggere il significato
sufico nella decorazione islamica. Invece, leggerò i passaggi filosofici62 di
Ibn ´Arabî'per rinvenire e svelare la summenzionata procedura; poi, testerò
l'applicabilità di questa procedura alla decorazione islamica con l'obiettivo di
stabilire se essa dia conto di almeno alcuni dei suoi tratti tipici ed per lo
meno degli aspetti del suo significato estetico.
Permettetemi di iniziare con i testi di Ibn ´Arabî. Leggerò e commenterò alcuni
suoi passaggi che trattano della questione della verità.
Quale è la vera costituzione dell'universo? Come può essere svelata questa vera
costituzione da un essere umano; in altre parole, quale è la metodologia
epistemologica capace di svelare la verità? Questi due grandi problemi,
ontologici ed epistemologici, fanno parte del discorso di Ibn ´Arabî', giacché
essi sono supposti costantemente in ogni ragionamento filosofico.
Lasciate che io scelga una delle innumerevoli scorciatoie al cuore della
filosofia dello Šaykh al-Akbar prevista
da lui stesso nei suoi testi e costituita, infatti, da un breve passaggio di
poche parole. Nel terzo capitolo dei Fusûs?,
Ibn ´Arabî dice che la perplessità (hayra) è causata dalla
moltiplicazione dell'Uno in vari aspetti (wujûh)
e correlazioni (nisab).63
La perplessità, hayra, è,
senza esagerare, il concetto-fulcro dell'epistemologia di Ibn ´Arabî. È
importante tenere ben presente che per lui la perplessità ha una connotazione
positiva e non negativa. Ovvero, essere perplesso, per esempio, non significa
«essere privo» di certezza oppure di verità. Al contrario, essere perplesso
significa «possedere». Ad ogni modo, la questione cruciale è capire che cosa si
possieda?
Permettetemi di allargare un po'il contesto della citazione, fatta poc'anzi, ai
commenti di Ibn ´Arabî al versetto coranico «Essi ne hanno già traviati molti»
(Cor., 71: 24). Egli spiega che quelle parole di Nûhsignificano che loro li
hanno resi perplessi nella moltiplicazione dell'Uno in virtù dei suoi aspetti e
delle sue correlazioni (hayyarû-hum fî ta´dâd al-wâhîd bi-l-wujûh wa-l-nisab).
La preposizione «in» (fî) -- non «per» (bi-) come si poteva invece
attendersi -- è usata qui di proposito. Ibn ´Arabî non parla esclusivamente di
epistemologia, ma intende anche l'ontologia. Hayra indica
non solo la «perplessità nella
conoscenza dell'Uno», ma anche «la perplessità nell'essere
dell'Uno».
Ecco come Ibn ´Arabî illustra questo punto:
l'Ordine (Universale) è perplessità, e la
perplessità è agitazione e movimento ed il movimento è vita64 (al-´amr
hîra wa-l-hîra qalaq wa haraka wa-l-haraka hayât).
Leggo qui la parola araba hyr come hîra e
non come hayra seguendo
l'intenzione di Ibn ´Arabî'di identificare la perplessità ed il «vortice» hyr;
la perplessità può essere letta come hîra e
non come hayra, i dizionari
arabi ce lo confermano, ed il «vortice» (hîra) è una delle immagini
preferite da Ibn ´Arabî nei suoi testi per alludere alla vita ed all'ordine
universale.65 L'essere
umano «perplesso», hâ'ir, si
trova in costante movimento. Non può raggiungere una posizione stabile, non è
fissato in nessuna parte. Questo è perché, dice Ibn ´Arabî, l'essere umano è
«perplesso nella moltiplicazione
dell'Uno»: questa «moltiplicazione» non è solo epistemologica bensì anche
ontologica e l'essere umano perplesso si muove nel vortice della vita e
dell'Ordine cosmico e contemporaneamente realizza che egli è tale movimento.
Ma possiamo derivare questo movimento, questa perplessità onto-epistemologica -- hayra --
da ogni concetto filosofico? Penso che la risposta sia positiva. Hayra è
il movimento tra due opposti che si presuppongono l'un l'altro e che hanno senso
solo nella loro congiunzione; questo è il motivo per cui è senza fine il
movimento dall'uno all'altro, dato che questi due opposti possono sussistere
solo insieme, e perché l'Ordine Universale viene costituito attraverso questa
costante transizione dall'uno all'altro.
Questi due opposti sono Dio ed il mondo, al-Haqq e al-Khalq.
Queste due nozioni sono forse le più generali e hayra,
intesa come transizione tra loro, è esemplificata anche da molte altre, e più
particolari, coppie di opposti, come per esempio ´abd «schiavo»
e rabb «signore»,66 e
dal movimento e dalla transizione tra loro. Questa è la ragione per cui hayra è
l'autentica verità in sé, dato che questo movimento è il principio basilare
dell'Universo.
Lasciate che io prenda un'altro passo e faccia quindi un'altra considerazione. Al-Haqq e al-Khalq sono
gli aspetti «interni» (bâtin) ed «esterni» (zâhir) dell'Ordine
Universale. Hayra significa
movimento costante dall'esterno all'interno e viceversa senza un punto
d'arresto. Questo principio ontologico fondamentale spiega la teoria della
causalità di Ibn ´Arabî,67 la
sua etica e la sua antropologia (per richiamare solo alcuni degli aspetti del
suo insegnamento). Ogni essere (ogni sûra,
«forma», per usare la terminologia di Ibn ´Arabî), viene considerato dallo Šaykh
al-Akbar attraverso la logica
della correlazione zâhir-bâtin e
di quella della loro transizione, svelando così significati altrimenti non
evidenti in sé.
Vorrei riepilogare. La questione posta sopra era: essere in hayra significa
possedere qualcosa? Ora possiamo finalmente rispondere. Hayra significa
capacità di transizione tra gli aspetti zâhir e bâtin dell'Ordine
Universale e l'abilità di collocare ogni essere in questo movimento di
transizione zâhir-bâtin. Così
l'ultima verità della cosa in questione è svelata ed è riempita da significati
autentici.
Adesso lasciate che mi occupi della decorazione islamica. Ne discuterò pochi
esempi e tenterò di stabilire, se la procedura di costruzione della struttura
della correlazione e della transizione zâhir-bâtin e
se il relativo «riempimento significativo» di questo movimento di transizione,
sia rilevante per la
comprensione di cosa sia la decorazione islamica. Certamente questo modo di
trattare la decorazione non è né esaustivo e nemmeno proprio allo storico
d'arte. Comunque, penso che questa breve investigazione e i principi che ciò ha
richiamato e svelato siano abbastanza rappresentativi almeno per una certa parte
delle decorazioni islamiche.
Diamo un'occhiata a questa copertina colorata del Qur'an fatto
nel Maghrib nel diciottesimo secolo:

Parte centrale dell'ultima pagina del Qur'an fatto
per il principe del Marocco nel 1729 (National Library, Cairo)
Questo è un esempio di un'intricata ed affascinante decorazione geometrica.
Senza esagerare, si può dire che disegni come questi abbondino in tutto l'Islam.
Lasciate che vi fornisca alcuni esempi di questo tipo di decorazione:

Parte centrale dell'ultima pagina del Qur'an fatto
in Marocco nel 1568 (British Library, London)

Parte centrale dell'ultima pagina del Qur'an fatto
a Valencia nel 1182/83 (Istanbul University Library)

Parte centrale di una pagina dal Qur'an prodotto
da Abdallah Ibn Muhammad al-Hamadani nel 1313 (National Library, Cairo)
L'ultima decorazione incorpora motivi vegetali, il penultimo include elementi
epigrafici ed i primi due sono pure decorazioni geometriche. La prima delle
decorazioni differisce dalle altre in virtù del fatto che risulta composta da
venature di colore che mutano il loro stesso colore, dopo essersi intersecate.
La molteplicità dei colori che è distintiva di questa decorazione rende evidente
che il modello decorativo non è subito apparente.
Non è afferrabile, per così dire, di
primo acchito. Stavamo cercando un simile modello decorativo, un'immagine
complessiva da essere subito percepita in questa decorazione, ma i nostri sforzi
si sarebbero subito rivelati inutili. Effettivamente, nessuna venatura trattiene
il suo colore quando s'interseca con un'altra; essa, «emergendo» dopo poco tempo
di «immersione» sotto la vena che incrocia, cambia il suo colore, come se
suggerisse un'interruzione di questo movimento successivo. Osservandolo, noi non
possiamo che richiamare le parole di Ibn ´Arabî':
Chi segue il lungo sentiero è influenzato e
perde il fine desiderato68 (Sâhib
al-tarîq al-mustatîl mâ´il khârij ´an al-maqsûd).69
Lo Šaykh al-Akbar parla
di hayra come
opposta al «lungo sentiero» della dissertazione e dell'argomentazione
organizzate secondo i principi aristotelici della razionalità. La prima delle
decorazioni sembra un'illustrazione di questa idea. Il contrasto del colore pare
essere indirizzato a dividere l'immagine nel dominio dell'evidente e manifesto,
e nel dominio del velato, coperto e nascosto. Il primo appare come zâhir,
ergendosi di fronte ai nostri occhi, mentre il secondo pare avanzare dietro o
meglio nascosto sotto la superficie e costituisce il bâtindell'immagine.
Questo contrasto zâhir-bâtin è
puntellato dalla distinzione del colore così evidente nella prima delle
decorazioni. Ma ciò non è meno importante per le altre decorazioni, e la varietà
dei colori è solo un significato supplementare che accentua la struttura zâhir-bâtin.
Le decorazioni ottenute attraverso la connessione di interruzioni di colore
erano famose nella cultura islamica. Un termine speciale venne coniato per
denotare tale genere di lavorazione. La locuzione «del colore interrotto» fu
resa in arabo con mujazza´. La
parola mujazza´ è
spiegata nel Lisân al-´arab come muqatta´
al-lawn, «di colore interrotto», e deriva da jaz´ che
significa «tagliare una corda in due metà». Questa spiegazione si conforma
esattamente alla natura della decorazione ottenuta tramite la connessione di
interruzioni di colore fatta da venature colorate che paiono essere state
tagliate in due.
«Tagliare in due» sembra essere il significato basilare di jaz´,
e gli esempi portati da Ibn Manzûr lo confermano, come ad esempio kharaz
mujazza´ «rosario di due colori»
(normalmente nero e bianco), lahm
mujazza´oppure metaforicamente jaza' usata
al posto di huzn «disagio»
perché il disagio «ritaglia» l'essere umano dalle sue preoccupazioni. Sebbene
soprattutto associata con l'interruzione del colore e con la discontinuità del
colore, mujazza´ può
significare anche ogni frazionamento in due parti irrispettoso del colore oppure
di ogni percezione sensibile.
L'«interruzione» e la «discontinuità» sono termini negativi che implicano solo
l'assenza, la mancanza di qualcosa (mancanza di integralità e di continuità). Io
sostengo che essi siano quindi inadeguati a capire cosa mujazza´,
la decorazione, trasmetta allo
spettatore, piuttosto che a dire cosa non
trasmetta. Il contenuto positivo di tajzî´«tagliare
in due» è, secondo me, rappresentato dalla procedura di costruzione della
struttura zâhir-bâtin per
la percezione sensibile.
Questa struttura a due strati, suppongo, sia percepita come una correlazione zâhir-bâtin ed
il movimento tra quei due strati -- lo zâhir ed
il bâtin --
e la transizione dall'uno all'altro e viceversa, costituisce, per così dire, il
«contenuto» del processo di percezione della decorazione ed il significato
estetico della decorazione mujazza´.
Quindi la continuità è inferita dalla percezione della decorazione. Essa è la
continuità del movimento di transizione del zâhir-bâtin e
più tale transizione è intricata, più la decorazione appare meravigliosa alla
percezione radicata nell'estetica della cultura islamica.
La decorazione mujazza´ fu
distinta nel pensiero islamico dalle altre tipologie decorative e di
abbellimento, e specialmente dall'arte importata dei mosaici (fusayfisâ' o mufassas ).
Un termine speciale, come abbiamo visto, fu usato per denotare la decorazione mujazza´ e
per alludere al significato della sua composizione a due strati. Più intricata è
la relazione tra zâhir e bâtin,
più profondo sarà il piacere estetico e la delizia che la decorazione recherà
allo spettatore.
Vorrei citare un paio di testimonianze per tale tipo di percezione della
decorazione che la letteratura classica islamica ci offre.
Dando conto di al-Bayt al-Mukarram e
dei suoi dintorni, Ibn Jubayr menziona il marmo di colore interrotto (rukhâm
mujazza´ muqatta´) che copre parte dei muri e dei recinti. Egli non
risparmia parole per esprimere la sua estasi ed ammirazione:
fu messo insieme in un ordine sorprendente (intizâm),
in una sistemazione che ha del miracoloso (ta'lîf), di eccezionale
perfezione, di superbo rivestimento di marmo (tarsî´) e di
discontinuità di colore (tajzî´), di eccellente composizione e
disposizione (tarkîb wa rasf). Quando uno guarda tutte quelle curve,
intersezioni, cerchi, scacchi come figure e gli altri (modelli) dei vari
generi, lo sguardo fisso è rapito dalla bellezza (husn), come se uno
stesse facendo un viaggio (yujîlu-hu) attraverso dei fiori sparsi di
colore differente.70
La parola ijâla, che rendo qui
come «fare un viaggio», significa anche «spedire intorno», «compiere un
movimento circolare». Ancora una volta, non possiamo che richiamare la
spiegazione fornita da Ibn ´Arabî circa la parola hayra come
movimento circolare infinito. In ambo i casi, nella sofisticata dissertazione
teoretica di Ibn ´Arabî e nell'immediata percezione sensibile della decorazione mujazza´ da
parte del viaggiatore Ibn Jubayr, il movimento circolare è il movimento tra gli
aspetti zâhir e bâtin,
e la sua infinità, espressa in virtù della sua circolarità (ma non causata da
essa), è fondata nella logica della correlazione zâhir-bâtin,
come gli stessi zâhir e bâtin hanno
un senso solo se insieme e solo grazie alla loro reciproca transizione, cosicché
il movimento dall'uno all'altro e viceversa è, come dire, il centro della loro
vita e del loro essere.
Se la struttura zâhir-bâtin è
abbastanza complicata, la contemplazione della decorazione diviene non solo pura
percezione sensibile e delizia, ma cresce nella contemplazione simile alla
meditazione teoretica degna di un saggio. Parlando del al-Jâmi'al-'Umawî,
al-Muqaddasî71 rileva
il suo asciutto stile di esame tecnico delle dimensioni, posizioni e direzioni
ed improvvisamente esprime il suo sincero sentimento di ammirazione:
la cosa più sorprendente è la sistemazione del
marmo dal colore interrotto (rukhâm mujazza´), ogni shâma alla
sua cosa uguale (kull shâma ilâ 'ukhti-hâ). Se un uomo di sapienza
andasse a visitarlo per un anno intero, ne dedurrebbe una nuova formula (sîgha)
ed un nuovo intreccio (´uqda) ogni giorno.72
L'«intreccio», ´uqda è
il punto di intersezione del zâhir-bâtin.
Questa intersezione è, per così dire, un apice del movimento di transizione del zâhir-bâtin,
siccome è il luogo in cui zâhir e bâtin si
confondono immediatamente e direttamente. Nessuno dubita che tale posto sia
percepito come una sorta di centro generatore per il nuovo sîgha,
come alMuqaddasî sostiene. Il termine sîgha viene
solitamente reso in inglese con «formula». Forse questa non è la migliore
traduzione in questo caso, dato che «formula» è associata a «forma», mentre sîgha non
è sûra (l'equivalente
arabo di «forma»). Parlando di decorazione majazza',
Ibn Jubayr e alMuqaddasî usano shakl e sîgha,
mentre, secondo gli autori arabi, fusayfisâ',
«mosaico» si accompagnerebbe alle «forme». La differenza tra le due è la
differenza che intercorre tra la percezione tramite la transizione e il
movimento del zâhir-bâtin, e
la percezione «di primo acchito», la percezione dell'evidenza, della forma solo
manifestata.
Al-Muqaddasî parla di «uomo della sapienza» (rajul al-hikma). Questo ci
porta al concetto di verità. La verità autentica non può essere liberata dalla
bellezza autentica, ossia, non esistono separatamente in assoluto, anzi
esisterebbe una forte interrelazione tra i due. Adesso possiamo vedere come
esattamente tale percezione sia recepita nella cultura islamica. La transizione zâhir-bâtin comporta
la verità della cosa in questione (come nel caso della correlazione al-Haqq/al-Khalq nella
filosofia di Ibn ´Arabî, ma anche come in molti altri casi di pensiero
non-sufico) e schiude il suo vero significato.
Il profondo sentimento estetico nasce al di fuori di questo infinito movimento
di transizione del zâhir-bâtin che
costituisce la percezione sensibile della meravigliosa decorazione. Così la
verità e la bellezza autentica si confondono e divengono -- in un certo senso --
lo stesso.
È risaputo come il Qur'an e
la Sunna critichino
«gli ornamenti dorati», zukhruf,
e, in un senso più ampio, l'«abbellimento», zakhrafa.
Il significato della parola zakhrafa è
spiegato nell'arabo classico come, tamwîh,
«nascondiglio», tazwîr,
«distorsione» e kidhb,
«bugia». In ogni caso, questa nota posizione espressa nei testi classici della
religione islamica non implica un completo ed assoluto rifiuto della bellezza e
del bello. Ciò che viene negato e denunciato, credo, è la mancanza e
l'adeguatezza del zâhir-bâtin.
Nella cosa muzakhraf, sia essa
un muro o un discorso, l'evidente e il manifesto (zâhir) non devono
essere privi dell'interno (bâtin); oppure, possiamo dire, non è possibile
passare da un tale zâhir al bâtin perché
la naturale e normale correlazione tra i due era stata rovinata dalla zakhrafa del zâhir.
È a causa di questo disaccordo tra lo zâhir e
il bâtin che
la zakhrafa è
detta «nascondiglio» e «bugia».
L'assenza della conformità di zâhir-bâtin è
comunque incompatibile con la vera bellezza, dato che l'intuizione estetica
della cultura islamica sembra essere radicata nel movimento di transizione del zâhir-bâtin.
La procedura logica ed etimologica di cui stavo parlando, costituisce la base
profonda dei vari phaenomena della
cultura islamica.
Vorrei concludere dicendo che un'adeguata comprensione di questa procedura ed il
suo giusto ruolo compendia molte delle spiegazioni che gli studiosi occidentali
propongono per la natura della decorazione islamica. Ad esempio, quando Eva
Bayer, descrivendo i tratti distintivi della decorazione islamica, dice che
la loro ricchezza e variabilità scaturiscono
dalle suddivisioni e dalle estensioni lineari della rete geometrica e dal
continuo collegamento ed avvolgimento delle forme che provocano
nuove sub-unità e nuove forme73
oppure quando Oleg Grabar tratta uno dei principi della decorazione islamica,
dicendo che
la decorazione può essere meglio definita come
una relazione tra forme piuttosto che come una somma di forme. Questa
relazione può essere meglio espressa in termini geometrici,74
essi aggiungono ben poco di nuovo alla correlazione zâhir-bâtin e
alla procedura di generazione del significato, che incide per questi come per
gli altri principi della decorazione islamica proposta dagli studiosi.
5. Dualismo e Monismo: quanto sono realmente diverse le due concezioni etiche
del sufismo? 
Generalmente il «bene» ed il «male» sono considerati quali categorie universali
informanti i principi etico-morali. In questo senso nemmeno l'etica islamica
costituisce un'eccezione. Il Corano usa i concetti di khayr(bene)
e sharr (male)
per denotare ciò che il mondo nel suo insieme, ovvero tutto quanto succede in
esso, può procurare all'essere umano. L'assunzione dei concetti di «bene» e di
«male» quali categorie filosofiche fu opera anche del Mu´tazilismo e
più tardi anche del Tasawwuf,
che non si discostarono comunque dalle linee generali già adottate dall'etica
islamica.75 Va
ricordato preliminarmente che sia i falâsifa (lett:
filosofi), che i Mu´tazilitiquanto
i Sûfi erano
largamente debitori delle teorie aristoteliche e neoplatoniche.
Sebbene i Mu´taziliti ed
i Sûfi procedano
da intuizioni indotte dalla meditazione del Corano, i loro punti di vista
differiscono da questo stesso almeno sotto un certo aspetto. Il Corano considera
il bene ed il male come categorie relative, il che significa che una cosa è male
non perché partecipa di un principio che sia intrinsecamente «male», bensì
perché i suoi «malefici effetti»76 prevalgono
su quelli «benefici».77 Il fiqh78 adotta
i medesimi argomenti sia per proibire che per sanzionare, pertanto il proibito
può essere facilmente sancito non solo ad
hocma anche prescritto come obbligatorio se in una determinata situazione il
suo «benefico effetto» prevale sull'altro. I Mu´taziliti,
invece, si sforzano sempre di considerare il bene e il male come categorie
non-relative, affermando al contempo che gli esiti ed il senso delle azioni di
Dio sono solamente «bene» e giammai «male»: a comprova di ciò, per esempio, essi
sostengono che la punizione dei peccatori non è «malefica» per loro stessi, ma è
piuttosto una manifestazione di Dio «concernente» il loro destino che deriva
dalla Sua «benevolenza».
Il sufismo può
essere considerato un interprete di questo modo islamico di intendere il bene ed
il male, che segue un approccio filosofico79 «non-relativistico».
Le riflessioni sull'etica compiute da Rûmî e da Ibn ´Arabî, due tra i maggiori
esponenti del sufismo,
appaiono di primo acchito vicendevolmente opposte. Queste, infatti, possono
essere qualificate apparentemente come «dualismo etico», se ci riferiamo a Rûmî
(che accetta la dicotomia bene/male in quanto principi fortemente distinti), e
«monismo etico», per quanto riguarda Ibn ´Arabî (la cui convinzione di base, che
proviene dal suo ontologismo, è che «tutto sia bene»). Questa classificazione
sembra essere confermata dal modo differente -- ed
in ossequio alla loro idea di fondo sintetizzata tra parentesi poco sopra (ndt) --
di trattare alcune tematiche etiche tradizionali quali amore ('ishq) ed
amato (ma'shûq), tentazione (fitna), gratitudine (shukr),
pazienza (sabr) e lamento (shakwa), autonomia del libero arbitrio
(ikhtiyâr) ed azione (fi´l), nonché dall'atteggiamento dei due
autori nei confronti delle altre religioni. Ad ogni buon conto, dimostrerò, dopo
aver comparato alcuni testi di riferimento, che questa differenza intercorrente
tra questi due grandi Maestri del tasawwuf non
è poi così marcata come può sembrare a prima vista. La teoria epistemologica che
Ibn ´Arabî chiama perplessità (hayra) considera la verità come un
intreccio di due opposti che, solitamente, sarebbero considerati mutuamente
escludenti. Il suo «monismo etico» quindi non «si applica» al di fuori della
dualità, ma al contrario la presuppone in accordo con l'economia della mente
«perplessa» (ha'ir). Rûmî invece vede la questione da un'altra
angolatura, dato che le sue tesi dualiste si estrinsecano in una disamina che lo
conduce, logicamente parlando, a quanto è compatibile con un «monismo etico».
M. Fakhry ha strutturato il suo fondamentale studio -- Teorie
etiche nell'Islam -- su un
assunto di fondo in base al quale vi sarebbe scarsezza di pensiero etico nella
filosofia islamica. Ci sono buoni motivi per essere d'accordo con questa
asserzione, a patto che ci si riferisca solo al pensiero dei falâsifa (che
è l'oggetto principale dell'attenzione di M. Fakhry), oppure a quello Ismâ´îlî e,
per estensione, a quello Ishrâkî (che
non è stato nemmeno trattato nel suo libro).80 Queste
correnti filosofiche islamiche infirmarono il loro modo di intendere il bene ed
il male a quello greco, ossia fu principalmente aristotelico e neoplatonico, e
conseguentemente svilupparono un'etica basata su queste impostazioni. Ma sulla
base di quanto concerne il Kalâm ed
il Tasawwuf, l'asserzione di
Fakhry non pare del tutto valida.
Prenderò in considerazione le basi del pensiero etico di due dei più illustri
esponenti del sufismo, Jalâl al-Dîn Rûmî (1207-1273) e Muhyî al-Dîn Ibn ´Arabî
(1165-1240), all'interno di una prospettiva islamica di approccio ai concetti di
bene e di male. Nel fare questo, effettuerò una distinzione tra le ricezioni
religiose e quelle filosofiche del tema quale possono essere le comprensioni
«relative» ed «assolute» di queste categorie.
L'etica islamica sembra non fare eccezione all'assunzione comune che il «bene»
ed il «male» siano le idee morali universali e basilari. È piuttosto ovvio che
il concetto di «bene» (khayr) sia una delle nozioni coraniche principali.
La frequenza del suo ripetersi, fra le altre cose, lo testimonia. Il termine khayr («bene»)
appare nel Corano 176 volte, per non parlare dei suoi derivati. Il termine sharr («male»)
è di gran lunga meno frequente, dato che compare solo 31 volte in tutto il
Corano. Malgrado in una forma molto semplificata queste constatazioni riflettono
l'approccio tendenzialmente «ottimistico» dell'Islam nei confronti dei problemi
etici basilari. Chiaramente, khayr e sharr non
sono gli unici termini che denotano i concetti di bene e di male, anche se nella
presente disamina essi sembrano risultare gli unici.
Nel Corano e nella Sunna il
bene ed il male vengono trattati alla stregua di concetti relativi piuttosto che
assoluti. Questo significa che se la Sharî´a proibisce
delle cose, ciò non avviene perché quelle cose partecipino ad un certo principio
che sia essenzialmente malefico, bensì perché il bene, che risulta da quelle
cose proibite, è di gran lunga e senza dubbio maggiore del male che esse recano.
Tale è, per esempio, il gioco d'azzardo che, quantunque rechi delizia all'anima
umana (il che è certamente un bene), risulta essere un male che senza ombra di
dubbio sovrasta il precedente bene, giacché è probabile che il giocatore
d'azzardo perda il suo cammello e più tardi muoia di inedia insieme con la sua
famiglia. Nel gioco d'azzardo ciò che è più importante e malefico, è il fatto
che il gioco assorba totalmente l'uomo e tolga ogni spazio nella sua anima per
la vera fede e per il vero affetto.
Lo stesso si applica forse alla cosa più importante nella morale religiosa. Le
persone sono persuase ad adottare la vera fede perché l'Islam porterà certamente
del bene ai suoi seguaci sia in questa vita che in quella futura, mentre è
probabile che altre fedi portino dei benefici ai propri aderenti sulla terra ma
causeranno inevitabilmente del male dopo la morte (questo è un dato certo almeno
nel caso dei mushrikûn).81 L'equilibrio
tra bene e male è piuttosto ovvio e si suppone che informi il comportamento
umano.
L'atteggiamento adottato dal fiqh è
fondamentalmente lo stesso. Le «cinque categorie» (al-ahkâm al-khamsa)
classificano gli atti umani come bene o male dopo aver tolto le azioni di tipo mubâh (che
sono quelle che lasciano indifferente il Legislatore). L'aspetto giuridico si
somma così alla valutazione etica delle azioni umane. È importante notare che
questo aspetto etico non è determinato o messo in secondo piano da quello
giuridico nel ragionamento del fuqahâ'.
La valutazione più «radicale» è espressa dalle categorie wâjib-mahzûr(«obbligatorio»-«proibito»),
mentre le proibizioni e le prescrizioni non-obbligatorie rientrano nella classe
degli opposti sunna-makrûh. In
ogni caso anche la più «estrema» di queste categorie non esprime giudizi di
valore sulla cosa, poiché gli stessi giudizi possono essere mutati facilmente,
cambiando il contesto in cui le si vanno a valutare e questo non fa altro che
invertire l'equilibrio fra il bene ed il male. Il khamr (l'alcool)
ne costituisce un esempio lampante. Il suo consumo è assolutamente proibito (mahzûr
-- quindi siamo all'interno delle «proibizioni obbligatorie», ndt) in
situazioni normali a causa del male che ne risulta dal suo uso. Ma se un
musulmano avesse un principio di soffocamento, potendo così morire, e non avesse
altra cosa da bere, lui o lei non solo possono ma sono obbligati a salvare la
propria vita bevendo dell'alcool. Quindi l'uso del khamr in
una situazione determinata non è solo permesso, ma anche «obbligatorio» (wâjib).
La filosofia astrae però da questo tipo di valutazioni relative oppure
dipendenti dal contesto: essa adotta un punto di vista «assoluto» che risulta
dall'atteggiamento filosofico di base che la tradizione Occidentale di solito
chiama «spirito critico». Il filosofo non sarebbe d'accordo di prendere in
considerazione qualcosa di esterno e di non appartenente alla cosa, quale
terreno per la sua stessa qualificazione. La base e la fondazione di tutte le
qualità della cosa hanno bisogno di essere scoperte nella cosa (in re) e
non al di fuori di essa.
I Mu´taziliti furono
i primi pensatori islamici a tentare di costruire un sistema di valutazione
etica che fosse «assoluto». Considererò quindi due aspetti, tra la varietà di
quelli considerati dai primi Mutakallimûn,
che sembrano importanti ai fini della presente trattazione.
Il primo aspetto è la questione attinente alla qualificazione degli atti Divini.
Raramente i Mu´taziliti sono
stati d'accordo fra loro, ma questa è stata una di quelle volte in cui lo sono
stati. Come riferisce al-Ash'arî, tutti condivisero l'idea che il male creato da
Dio lo fosse solo metaforicamente (majâz) e non nella sua realtà (haqîqa).
Alla luce della teoria semiotica del ma'nâ (letteralmente,
«senso») e della sua indicazione (dalâla), che già fu sviluppata nel
primo pensiero filosofico e filologico islamico, questa tesi significa quanto
segue. Ogni atto divino e tutte le cose create da Lui indicano come loro ma'nâ («senso»)
solo il «bene» finché viene considerata la «propria» indicazione, oppure la
«vera» indicazione (haqîqa). Ma il Corano parla del «male» recato a chi
non crede agli atti di Dio, ovvero, le calamità in questa vita e la punizione in
quella futura. In ogni caso i Mu´tazilitisostengono
che il «male» non è il senso proprio indicato da queste azioni Divine. Il «male»
è il senso proprio di altre cose, il luogo che gli atti Divini occupano in tali
casi e perciò indicano il «male» come il loro senso metaforico.82 Similmente
i Mu´taziliti risolsero
il problema della dannazione dei non-credenti (la'na). Secondo loro non è
male ma «giustizia» ('adl), saggezza, bene ed appropriato (salâh)
ai non-credenti (Maqâlât al-islâmiyyîn, Wiesbaden 1980, p. 249).
Il secondo aspetto è dato dalla questione se l'atto prescritto dalla Sharî´a sia
un «atto che è benefico» (hasana) in sé oppure in virtù del comandamento
di Dio, e, conseguentemente se l'atto proibito sia un «atto che è malefico» (sayyi'a)
in sé o a causa della proibizione divina. I Mu´taziliti hanno
fatto del loro meglio per offrire una spiegazione razionale a queste due
problematiche sollevate e seguendo una medesima linea di ragionamento alcuni di
loro convennero che quanto Dio non avrebbe mai potuto prescrivere come
obbligatorio e viceversa non avrebbe mai potuto proibire, è «bene» e «male» in
sé. La stessa cosa per i comandamenti, che potevano essere stati dati in un
senso opposto a quello che noi troviamo nella Sharî´a,
essi sono «bene» o «male» solo perché Dio comandò così, non avendo essi in sé
delle qualità «benefiche» o «malefiche».
In questo senso i primi Mutakallimûn dichiararono
il carattere assolutamente «benefico» degli atti Divini e fondarono la Legge
divina nella morale universale, tracciando una distinzione tra i comandamenti
eticamente giustificati e quelli determinati arbitrariamente.
Dei Falâsifa, degli Ismâ´îlî e
dei primi Ishrâqî, non si può
proprio sostenere che siano stati degli innovatori83dell'etica
musulmana. Nella filosofia, principalmente, essi seguirono il paradigma
neoplatonico quando trattarono il problema del bene e del male e si ancorarono
ai modelli aristotelici e platonici contenuti nei libri sui temperamenti e sul
miglioramento degli stessi (il trattato Tahdhîb
al-akhlâq confonderebbe anche il
più paziente dei lettori in virtù delle loro sconfinate classificazioni delle
facoltà dell'anima), o semplicemente riprodussero i prototipi greci
aggiungendovi ben poco di nuovo (ossia, Risâla
fî mâhiyyat al-´adl in italiano Trattato
sull'Essenza della Giustizia di
Miskawayh).84 Tutto
ciò non potrebbe proprio aiutare nello stabilire i problemi etici che ha
affrontato la comunità musulmana.
Ora è giunto il momento di considerare i fondamenti del pensiero etico di Jalâl
al-Dîn Rûmî ed Muhyî al-Dîn Ibn ´Arabî.
A prima vista essi sembrano essere incompatibili, se non addirittura in
contraddizione. Parliamo allora di loro in generale e dopo soffermiamoci sui
dettagli ed sugli esempi concreti.
Il pensiero di Rûmî potrebbe essere esposto come segue. Il bene ed il male sono
due opposti che mai si incontrano. Il fine dell'essere umano è quello di
distinguere l'uno dall'altro, considerarli separatamente e mai mescolarli.
Queste due nozioni sono pertanto lo strumento atto a definire le categorie
etiche ed universali: ciascun atto umano è classificato come bene o male ed il
fine dell'uomo è fuggire il male e tenersi vicino il più possibile al bene.
Prese in questa forma generalizzata, le basi etiche del pensiero di Rûmî
appaiono fin troppo familiari a qualsiasi comunità cristiana od ebrea. E forse
questo non è incidentale, se noi prestiamo attenzione al fatto che il pensiero
persiano antico aveva influenzato senza alcun ombra di dubbio sia i pensatori
che i poeti quanto i filosofi musulmani. La rigida distinzione tracciata tra il
bene ed il male come due principi dell'universo è la caratteristica basilare di
questo antico lascito sassanide. L'affermazione che alcuni autori contemporanei
fanno, asserendo che lo Zoroastrismo avrebbe
potuto influenzare il pensiero ebraico ed avrebbe potuto generarne la morale non
è completamente priva di fondamenti. Ora se questo è vero almeno a grandi linee,
allora questa somiglianza tra fondamenti etici, che troviamo negli scritti di
Rûmî ed in quelli di autori cristiani ed ebrei, sembra meno sorprendente.
Per quanto riguarda Ibn ´Arabî, la sua posizione sembra notevolmente diversa da
quella di Rûmî. Al-Šaykh al-Akbar sostiene
che nulla è male «come tale» (bi al-´ayn), e che ogni cosa nell'universo
dovrebbe essere valutata piuttosto positivamente, quindi come bene. Allora quale
è il motivo delle prescrizioni e delle proibizioni della Legge divina?
Rûmî è piuttosto preciso su questo punto ovvero quando separa il bene dal male e
dice che «il Dio Supremo [...] si compiace solo del bene» (Kitâb fî-hî mâ
fî-hî, Tehran 1330, p. 179). Ma se, come Ibn ´Arabî sostiene, ogni cosa è
bene-in-sé e mai male, giacché tutto nel mondo appartiene al dominio
dell'esistenza (wujûd) e quest'ultima appartiene solo ed unicamente a Dio
(la teoria che sarebbe stata chiamata più tardi wahdat
al wujûd, «unicità dell'esistenza»), perché qualcosa dovrebbe essere
proibita? Anche se molti studiosi del pensiero di Ibn ´Arabî vi hanno scoperto
dei parallelismi con il pensiero neoplatonico, mi sembra corretto rendere
giustizia allo Šaykh al-Akbar e
dire che almeno nella prospettiva presente che stiamo esaminando, egli non segue
la tendenza del pensiero neoplatonico che adotta l'idea del male quale assenza
di esistenza. Questa idea che eguaglia il materiale al male era facilmente
fruibile agli intellettuali islamici ed al-Fârâbî o Ibn Sînâ sono solo i nomi
più famosi che se ne avvalsero. Ma Ibn ´Arabî insiste che questo non è il caso
ed ogni cosa ammirabile al mondo, come per esempio l'aglio, è solamente buona
quando considerata in se stessa. Allora perché il Profeta detestò proprio
l'aglio? In verità il Profeta non provò antipatia per l'aglio «in quanto tale»,
continua Ibn ´Arabî, ma per il suo odore (râ'iha) (Fusûs al-hikam,
Beirut 1980, p. 221).
Questo è possibile perché la cosa in quanto tale (´ayn) non può essere
mai qualificata come «riprovevole» (makrûh)85:
«riprovevoli» sono solo i suoi effetti esterni e relativi.86
L'«ontologismo» di Ibn ´Arabî lo conduce a conclusioni che sembrerebbero
piuttosto bizzarre quando siano formulate senza un ragionamento filosofico.
Forse la cosa più impressionante per la mentalità di un musulmano è affermare
che nessuna religione sia sbagliata e che ogni credente adora solo l'Unico e
Vero Dio. A pensarci bene questo
non è solo impressionante ma anche teoricamente piuttosto inusuale (ndt).
Ibn ´Arabî infatti porta a compimento il suo ragionamento presentandone
l'inevitabile e logica conclusione, dicendo che quelli che stanno cercando di
aiutare le persone ad abbandonare le fedi «erronee», stanno in realtà impedendo
a quelle persone di adorare Dio e quindi stanno agendo contro la Sua volontà.
Per esempio anche l'odioso Faraone del Corano appare nel Fusûs
al-hikam quale servo di Dio;
risulta evidente quindi che non possiamo essere d'accordo con il coerente
ragionamento logico di Ibn ´Arabî almeno fin tanto che non accettiamo la sua
posizione ontologica che è detta wahdat
al wujûd.
Questa tolleranza religiosa di Ibn ´Arabî (di cui ho citato solo alcuni tra i
numerosi esempi) contrasta con la posizione di Rûmî. Trattando del problema
della vera fede, Rûmî è infatti piuttosto risoluto nel tracciare una netta
demarcazione tra Islam e tutte le altre religioni. Egli non esita a criticare
non solo le credenze pagane o le azioni degli avversari dell'Islam, ma anche lo
stesso Cristianesimo (Fî-hî, p. 124-125), procedendo da motivazioni
ortodosse abbastanza «evidenti» a chiunque (manifestando un comportamento molto
letteralista, per esempio, Rûmî si interroga su come possa l'umile 'Isâ -- Gesù
-- reggere i sette cieli con il loro peso). Affrontando poi il problema
dell'amore ('ishq), Rûmî nutre qualche dubbio che «il vero amato» (ma'shûq
haqîqî) sia rinvenibile in altri oggetti che non siano «il vero amato» in sé
(Fî-hî, p. 160). Non è pertanto difficile notare come sia differente
questa posizione da quella di Ibn ´Arabî che -- invece -- considera Dio non
contenuto -- e quindi limitato -- da una qualsiasi direzione (´ayn,
letteralmente «dove») bensì ritrovabile in ogni dove; sono ancora distanti anche
quando Ibn ´Arabî sostiene che l'essere umano deve sempre cercare Dio e non solo
quando si indirizza verso la qibla
-- ovvero per pregare (ndt) -- (Fusûs,
p. 80, 114 etc.), e sono distanti infine quando Ibn ´Arabî sostiene che
qualsiasi tentazione (fitna)87 non
può essere facilmente superata, deviando semplicemente dall'«erroneo» oggetto di
affezione bensì rendendolo l'unico «reale», ovvero considerandolo una
manifestazione di Dio (al-Futûhât al-makkiyya, Beirut, vol. 4, pp.
453-456).
Stavo sostenendo che la posizione di Ibn ´Arabî è abbastanza coerente con la sua
assunzione di base, ovvero che la Realtà è una ed è anche onnicomprensiva e
perciò è impossibile differire da Essa o deviare in qualche modo dal Reale in
ciascuna delle nostre azioni. Rûmî dubita invece che l'essere umano sia più di
una creatura posta sotto il comando di Dio e ci avverte di non sottovalutare il
nostro vero valore. Nel Fî-hî Rûmî
compara l'uomo con l'oro puro e dice che sarebbe una totale follia farne un vaso
di terracotta potendo invece farlo d'oro. Il gioiello prezioso dello spirito
umano è per Rûmî, non diversamente da Ibn ´Arabî, l'immagine di Dio.88 Per
riassumere, Rûmî non è un avversario della wahdat
al-wujûd di Ibn ´Arabî; ma allora
se è così, perché le concezioni etiche dei due pensatori appaiono così diverse?
Rûmî procede da un dualismo «bloccato» tra bene e male che mai si ricompone,
mentre la posizione di Ibn ´Arabî sarà poi definita monismo etico. Ora, non ci
dovrebbero essere dubbi sul fatto che l'eredità culturale persiana abbia
influenzato non poco il pensiero di Rûmî, cosa che invece non è avvenuta per Ibn
´Arabî. La differenza tra i due pensatori quindi sarebbe determinata dalla
diversità del loro ambiente culturale originario? O forse c'è molta più
somiglianza di quanto appaia di primo acchito tra i loro punti di vista, dovuta
da premesse ontologiche comuni?
Per rispondere a questo interrogativo, vorrei approfondire come Rûmî spieghi la
relazione tra l'esistenza del bene e del male ed il fatto che Dio sia
soddisfatto solo dal bene.
Trattando questo tema, Rûmî presenta la nozione della volontà Divina (irâda)
e diversamente dai Mu´taziliti,
egli non esita a dire che Dio voglia il bene ed il male, (Fî-hî, p. 179),
il che equivale a dire che Dio li crea entrambi. Cosa è dunque il male (sharr)
di cui sta parlando Rûmî?
Per un certo verso è il male reale e non quello metaforico, che egli ha in
mente. Su questo punto Rûmî differisce dai Mu´taziliti per
la loro tendenza universale a trattare ogni male cagionato dagli atti di Dio
all'essere umano come majâz (metafora)
e non come realtà. D'altra parte, questo male, siccome è il male reale (haqîqatan),
non metaforico, è male «in quanto tale» (bi al-´ayn). Questo punto di
vista si palesa chiaramente quando Rûmî dice:
il disposto del male (sharr) sarebbe
stato male (qabîh) se Lui lo avesse voluto per causa sua (li-´ayni-hi)
(Fî-hî, p. 180)
il che sarebbe impossibile se il male non fosse stato male in sé (bi al-´ayn).
Questo significa che Rûmî non fruisce della possibilità che Ibn ´Arabî invece
«sfrutta» quando dice che ogni cosa è esclusivamente bene in quanto tale, ma che
è anche bene o male in base ai gusti umani, alle affezioni ed ai dispiaceri, in
breve, che ogni cosa è bene o male solo «in quanto stabilita» (bi al-wad? '),
ovvero che lo è relativamente e non assolutamente e neppure sostanzialmente.
Rûmî segue un'altra strada. Egli dice che il male non è voluto per causa sua, ma
piuttosto nell'interesse del bene. Questa sua tesi è del resto collegata ad
un'altra che ritiene che nessun bene possa essere recato all'essere umano in
questo mondo, se quell'essere umano non stia già patendo un determinato male.
Come l'insegnante è pre-disposto dall'ignoranza dei suoi alunni ad istruirli,
come il panettiere è pre-disposto dalla fame dei suoi clienti ad alimentarli,
come il dottore è pre-disposto dalla malattia dei suoi pazienti a guarirli, allo
stesso modo Dio è pre-disposto dal male presente nel mondo a portare il bene
alle persone che lo dimorano (Fî-hî, p. 179). Alla stessa maniera Rûmî
affronta il tema del sovrano e dei suoi subalterni, che è ciò che è più analogo
alla relazione intercorrente tra Dio e l'uomo e nel merito dice che i re sono
disposti dalla disubbidienza ed anche dal pericolo degli attacchi dei nemici a
manifestare il loro potere e la loro autorità, sebbene loro non siano contenti
in sé, quando devono esercitare la loro autorità e quindi la forza.
Esaminando unitamente queste due tesi scopriamo che, secondo Rûmî, è impossibile
volere il bene senza volere il male, (anche
se il male non è mai voluto per sé, ovvero in quanto male, ma in funzione del
bene, ndt) . Rûmî è abbastanza
risoluto su questo punto:
l'avversario dice (che Dio) vuole il male in
ogni caso e sotto ogni aspetto. Ma è impossibile volere la cosa senza le sue
pertinenze (lawâzim) (Fî-hî, p. 179).
Questo aggiunge una dimensione nuova e molto importante all'acuta distinzione
tra bene e male tracciata da Rûmî, dato che significa che è impossibile
stabilire il bene in maniera esclusiva e scacciare quindi il male una volta per
tutte, almeno in questo mondo, e che il male ed il bene sono per loro natura
così intrecciati che essi non procedono separatamente. In questo senso la
posizione di Rûmî sembra molto più vicina a quella del monismo di Ibn ´Arabî ed
in special modo al suo concetto di perplessità (hâ'ir), che ragiona sugli
avvicendamenti senza sosta tra uno degli opposti -- il bene ed il male -- e
l'altro e viceversa e che considera ognuno dei due, quale prerequisito
indispensabile per l'altro.
Dobbiamo ora ritornare al tema principale della nostra discussione e per poter
arrivare ad una conclusione in questa nostra piccola ricerca, dobbiamo
rispondere alla seguente domanda: in che modo, secondo Rûmî, il male -- il
prerequisito indispensabile del bene --, viene esemplificato nel caso della
diretta relazione etica (non ontologica) Dio-uomo, che è il caso della legge
Divina, delle sue prescrizioni e delle sue proibizioni?
Negli esempi trattati sopra (il panettiere, il maestro eccetera) il male è
condizione necessaria per il bene ed è rappresentato da un certo stato
dell'oggetto in cui dovrà successivamente manifestarsi il bene: fame delle cose
per alimentarsi, ignoranza delle cose per essere istruito. Qualcosa di simile è
rintracciabile nell'essere umano in quanto tale e quando si tratta genericamente
della sua relazione con Dio: la svogliatezza dell'uomo nel seguire la via del
bene e la sua inclinazione nella scelta del male, richiese -- per questa e solo
per questa ragione -- che gli fosse data la Legge. Nel suo famoso discorso Rûmî
dice che nessuno definisce quale proibizione la frase «non mangiare le pietre» e
parimenti dire «rifocilla il viandante» non si qualifica come prescrizione,
anche se queste frasi esaminate esclusivamente da un punto di vista linguistico
sono delle proibizioni (nahy) e delle prescrizioni (´amr). Esse
non sono chiamate così perché non c'è nessuna difficoltà nel loro cammino di
perfezionamento, perché l'essere umano potrebbe naturalmente e senza esitazione
comportarsi in siffatta maniera. L'essere umano è dotato di un'anima che gli
comanda di compiere cose cattive (nafs 'ammâra bi al-sû') (Cor. 12: 53)
ed è questa anima cattiva che Dio vuole e che Egli crea per l'uomo affinché,
prendendone a pretesto, Egli possa riversare su di lui i Suoi benefici influssi
e condurlo verso il bene. Questo significa che lo spirito umano è un locus
spiritualis(ndt) dove due domini, quello della sua propria anima
incline al male e quello che viene da Dio stesso, entrano in conflitto.
Così l'essere umano nel pensiero di Rûmî ha la possibilità di scegliere
liberamente tra i due domini opposti, quello di Dio e quello della sua propria
anima, e di procedere quindi in entrambe le due direzioni, che gli si presentano
come opzioni da scegliere.
Anche Ibn ´Arabî è concorde nel ritenere che l'essere umano sia dotato di
capacità di scelta nel rispettare o meno la legge di Dio. Ma qualunque cosa egli
scelga, egli sta comunque rispettando il comandamento di Dio, sebbene non sia
quello che prende la forma della Legge (´amr taklîfî) bensì quello che
viene detto «il comandamento creativo» (´amr takwînî). Il primo non è
immediato e perciò sarebbe disubbidito, mentre il secondo è diretto ed il suo
adempimento non può essere mai evitato (Fusûs, pp. 165, 97-98, 115-116).
6. Appendice: brevi cenni sul sufismo, di Alberto De Luca 
L'espressione sufismo viene
impiegata per rendere nelle lingue occidentali il termine arabo tasawwuf(propriamente
«iniziazione»), parola che serve a designare la mystica islamica
o, più esattamente, la realtà più profonda ed interiore della religione fondata
sul Corano e predicata dal Profeta Muhammad.
In origine, essa era definita anche come la «scienza dell'interiore» (´ilm
al-bâtin) oppure come la «scienza della realtà essenziale» (´ilm
al-haqîqa).
L'etimologia del termine tasawwuf possiede,
in realtà, una triplice derivazione:
- la prima (la meno conosciuta probabilmente), vede i sûfî (coloro
che seguono il sufismo)
derivare il loro nome da un certo al-Gawt ibn Murra, detto sûfa,
vissuto cinque generazioni prima del Profeta. Questi sarebbe stato il primo
a votarsi completamente al culto esclusivo di Dio prestando servizio nel
Tempio della Mecca: capostipite di un lignaggio sacerdotale, permetteva
quindi l'inizio del Pellegrinaggio da ´Arafa ed i suoi discendenti -- sûfa --
portavano un toupet di
lana per significare il loro servizio nella Ka´ba;
- la seconda (la più frequente), implica che il termine sufismo derivi,
per l'appunto, dal materiale del toupet.
Esso era, infatti, fatto di lana che si rende in arabo con la parola sûf;
- la terza, infine, fa derivare sufismo dalla
parola safâ' --
«purezza» -- o da suffa,
con riferimento agli Ahl
al-suffa, la «Gente della veranda», ossia alcuni compagni del Profeta
che vivevano da asceti in un'area della moschea di Medina, dediti
esclusivamente alla scienza sacra, agli atti di culto e al «ricordo di Dio»
(dhikr).
Dalla parola safâ' si
può quindi già intuire la natura essenziale del sufismo:
esso consiste in una Via (tarîq) -- o «procedimento» (sulûk) --
per pervenire alla «Prossimità del Principio divino». In questo senso, «il
viandante» (sâlik) si sbarazza progressivamente di «tutto ciò che è altro
che Dio» (kullu mâ siwâ 'Llâh). È questa, infatti, la «purezza» interiore
del sûfî, che Junayd
al-Baghdâdî (?-910) definirà come «colui che Dio fa morire a se stesso e vivere
in Lui». Quanto alla prima derivazione, essa ha in vista la fonte storica ed
allude al primo esempio di sufismo
ante-litteram in seno alla
comunità del Profeta, quando essa era dunque ancora una realtà senza nome.
Questa succinta analisi etimologica non è certamente in grado di esaurire la
discussione intorno all'origine dell'espressione, ma tutti i Maestri del sufismo sono
invece concordi nel fare risalire l'origine della loro Via al Libro di Dio (il
Corano), agli insegnamenti e alla pratica del Profeta (Sunna), fonti
primarie di ogni insegnamento islamico tradizionale.
Non v'è, pertanto, autentico sufismo senza
un'autentica adesione all'Islam.
Un'applicazione piuttosto importante discende dalle osservazioni che hanno
preceduto, ossia che la Legge religiosa è l'aspetto esteriore (al-qišr,
la «scorza») dell'Islam, mentre il sufismo quello
interiore (al-lubb, il «nocciolo»). Quest'ultimo riconosce il proprio
inizio nei ritiri d'isolamento, di digiuno e di preghiera compiuti dal Profeta
nella grotta Hirâ'nei pressi della Mecca, dove egli ricevette la prima
rivelazione del Corano (circa 608) per mezzo dell'arcangelo Gabriele.
È quindi il Profeta ad essere l'archetipo ed il prototipo dello stesso sufismo.
Il fatto paradigmatico è, appunto, la sua ascensione celeste fino al Trono di
Dio dove ha la visione del Suo volto glorioso di luce, episodio che accade
qualche anno prima dell'Egira. Nel Profeta risiede, pertanto, il fondamento
delle discipline spirituali dei Maestri, nonché la scienza degli stati interiori
(ahwâl) e delle stazioni della Via (maqâmât). È dal Profeta che
ogni Via spirituale ha inizio, con la trasmissione delle sua baraka («influenza
spirituale») trasmessa mediante un solenne Patto di alleanza lungo linee di
Maestri, che risalgono a lui attraverso alcuni compagni, primo fra tutti il
genero e cugino ´Alî a cui si ricollegano la maggior parte delle linee
iniziatiche (salâsil, pl. di silsila)
delle turuq (pl.
di tarîqa), le confraternite
del sufismo.
Questa trasmissione da maestro a discepolo in ambito iniziatico si è svolta in
modo parallelo a quello della trasmissione delle tradizioni profetiche (hadîth)
per quel che concerne la scienza canonica dell'Islam, ma la sua natura riservata
le ha conferito, specialmente nei primi tempi, una maggior discrezione tanto da
far persino dubitare alcuni della sua effettiva esistenza. La tradizione
conserva comunque testimonianze inconfutabili sulla sua presenza fin dalla prima
ora, come l'insegnamento di ´Alî al discepolo Kumayl, o le riunioni private di
Hasan al-Basrî (642-728) sulla «scienza esoterica».
Nei primi due secoli le figure spirituali emergenti sono quelle di asceti (zuhhâd)
che disprezzano il mondo e le sue delizie, interamente dediti a mortificare la
loro anima carnale, ad osservare uno scrupolo rigoroso sulla liceità di tutto
quel che viene loro da questo «basso mondo», timorosi del loro destino postumo e
desiderosi del compiacimento divino.
Un cambiamento sostanziale avviene nel III secolo e coincide con l'affermarsi
dei termini sûfî e
del collettivo sûfiyya, per
designare la gente della Via, specialmente quella della scuola di Baghdad, nuova
capitale del califfato abbaside.
In quest'epoca di grande fermento intellettuale e di elaborazione minuziosa di
tutto il sapere islamico anche la spiritualità si ammanta di una veste adeguata
alle nuove situazioni cui andava incontro una società certo più sofisticata, ma
impoverita rispetto alla purezza primordiale delle origini: la cultura del
deserto aveva ceduto il passo a quella urbana della metropoli.
Junayd al-Baghdâdî e Husain ibn Mansûr Hallâj (giustiziato a Baghdad nel 922) --
rappresentanti emblematici delle due correnti fondamentali del sufismo,
quella «sobria» e intellettuale e quella «estatica» e passionale -- sono due
figure chiavi di quest'epoca. Il primo per la sua elaborazione dottrinale della
scienza del Tawhîd(l'«Unicità
divina», ma anche l'unione dell'iniziato con la Realtà suprema), base di ogni
successivo sviluppo dottrinale di ordine metafisico; il secondo per il carattere
provocatorio e paradossale delle sue enunciazioni (le shatahât,
o «locuzioni teopatiche»), famosa fra tutte la frase Anâ-l-Haqq,
«io sono il Vero» cioè Dio, che lo porterà al patibolo.
Il paradosso dell'«Identità suprema» -- dal momento che l'essere possibile è da
sempre e per sempre distinto dall'Essere necessario -- non sarà mai compreso dai
dottori della Legge ed è proprio al-Hallâj a segnare il solco che vede il sufismo definitivamente
contrapposto ai depositari della saggezza interiore. Non si tratta, beninteso,
di una reale contrapposizione fra esoterismo ed exoterismo, piuttosto solo
dell'ostilità di una certa classe di rappresentanti dell'aspetto più
letteralista dell'Islam. Questo, però, indurrà nei Maestri del sufismo una
maggiore necessità di giustificare le loro dottrine e le loro pratiche agli
occhi della Sharî´a.
La sintesi perfetta fra queste diverse componenti della Rivelazione muhammadiana
viene, alla fine, raggiunta da Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111), autore del
notissimo Ihyâ' ´ulûm al-dîn (la
«Rivificazione delle scienze religiose»), che contribuisce in modo notevole a
ristabilire una sorta di tregua fra le parti e ad allontanare dal sufismo il
sospetto di eresia. Di poco posteriore è anche l'istituzionalizzazione dei
legami e delle norme che regolano il rapporto fra maestro (šaykh) e
discepolo (murîd): è la nascita vera e propria delle «confraternite» (turuq)
del sufismo quali
oggi le conosciamo, prima fra tutte la Qâdiriyya,
che viene fatta risalire al santo di Baghdad ´Abd al-Qâdir al-Jîlânî
(1078-1166).
L'inventario tassonomico di queste turuq è
alquanto lungo, ma la maggior parte può essere facilmente ricondotta a una delle
linee spirituali primarie in cui va ad innestarsi come il ramo nel tronco: la
già menzionata Qâdiriyya, la Suhrawardiyya,
la Shâdhiliyya, la Rifâ´iyya,
la Kubrawiyya, la Mawlawiyya,
la Naqshbandiyya, la Khalwatiyya,
la Chistiyya e
la Tijâniyya, nomi che
indicano la filiazione (nisba) di ciascuna di esse dal rispettivo santo
fondatore.
Nell'Islam, tuttavia, va ricordato che il fatto istituzionale delle
confraternite è un elemento puramente accidentale; l'essenziale è costituito dal
ricollegamento a una linea ininterrotta di Maestri. Se questo ricollegamento, a
partire dal XIII secolo, si è dato la struttura formale delle confraternite, ciò
è avvenuto al fine di assicurare alla società islamica in modo capillare un
tessuto connettivo con il suo cuore spirituale.
La sfera del sufismo coincide
con quella della santità (in arabo walâya),
ma il diverso clima spirituale conferisce a questa nozione una coloritura
diversa da quella che la santità assume nel contesto cristiano. Può essere,
infatti, utile ricordare come la nozione cristiana di santità sia espressa in
arabo dal termine qadâsa e
non da walâya. Il santo, per i
musulmani, è più esattamente l'«amico» (walî) di Dio ovvero colui che gli
è vicino. Non a caso è attorno alla nozione di «vicinanza» (qurb) che una
tradizione santa, comunicata da Dio tramite il Profeta, definisce quanto vi è di
essenziale nella via del sufismo:
Il Mio servo non si avvicina a Me con nulla di
meglio di quel che Io gli ho reso obbligatorio. Ed egli non cessa di
avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a quando Io l'amo, e
quando Io l'amo, sono Io l'udito col quale sente, la vista con cui vede, la
mano con cui afferra, il piede con cui cammina; e se Mi domanderà, gli
concederò; e se si rifugerà presso di Me, gli concederò rifugio.
La chiave interpretativa di questo processo è il cuore (qalb), che funge
contemporaneamente da centro dell'essere e da organo sottile, incaricato di
presiedere alla conoscenza contemplativa, ossia diretta e intuitiva delle realtà
trascendenti e di Dio stesso, il quale è lo scopo ultimo della Via, vale a dire
il sufismo.
Il cuore è l'intermediario fra l'anima (nafs) e lo spirito (rûh):
la prima è solitamente intesa come anima inferiore e sede dell'egoità e delle
passioni, mentre il secondo è l'elemento sopraindividuale dell'essere, il quale
permette all'uomo di ritornare alla sua origine trascendente. Questo è del resto
affermato dal Corano che alla Sura 15:
28-29 così si esprime:
E quando il Tuo Signore disse agli angeli
[...] Io vado a creare un uomo; poi, quando l'avrò ben formato e avrò
insufflato in lui del Mio spirito, gettatevi prosternati davanti a lui.
Dalla purezza o corruzione del cuore dipende, in definitiva, l'esito del destino
postumo e della realizzazione spirituale del credente musulmano, conformemente
alla parola del Profeta:
Vi è nel corpo un piccolo pezzo di carne: se
esso è (spiritualmente) sano tutto l'essere è sano e se è corrotto tutto
l'essere è corrotto e questo è il cuore.
La via comporta pertanto necessariamente due fasi. Quella purgativa,
in cui ci si sbarazza di tutti gli attaccamenti e le passioni purificando la
propria anima (tazkiyyat al-nafs), conformemente al versetto:
prospererà colui che si purifica (tazakka),
glorifica il nome del suo Signore e prega. (Cor., 87: 14-15)
Questo è il momento della mujâhada,
lo «sforzo» contro le tendenze oscure e centrifughe della nostra individualità,
chiamata anche al-jihâd al-akbar,
la «grande guerra santa». In seguito, avviene la «lucidatura del cuore» (tasfiyat
al-qalb) affinché in esso si rispecchino le realtà superiori ed angeliche e
le illuminazioni dominicali. A partire da questo momento ha inizio la fase
contemplativa o mushâhada, che
realizza la sua pienezza nelle stazioni della conoscenza, dell'estinzione, della
permanenza, della sintesi e, infine, dell'unificazione.
Interrogato sul sufismo,
Shiblî (861-945) rispose: «il suo inizio è la Gnosi (ma'rifa) e il suo
fine è l'Identità suprema (tawhîd)». All'inizio vi è il Tawhîd della
professione di fede -- Lâ ilâha
illa 'Llâh, «non vi è divinità se non Dio» --, al termine vi è il Tawhîd che
solo l'Essere divino fa di se stesso: solo quando l'essere contingente è
«estinto» (fanâ') a se stesso e reso «permanente» (baqâ')
attraverso Lui può contemplare che, nell'unità divina, non vi è altri che Lui a
proclamare la sua unità.
Proprio in questo senso, ´Abd Allâh al-Ansârî (1006-1089) dirà:
l'Unità dell'Unico nessuno l'afferma: chiunque
l'affermi la nega. L'affermazione dell'Unità, in chi parla di tale Sua
qualità, è vano discorso che l'Unico annienta. L'affermazione della Sua
Unità a Se stesso è l'affermazione vera della Sua Unità.
Molto sinteticamente, la religione (al-dîn), come sarà definita dal
Profeta in una famosa tradizione, è strutturata in tre gradi: l'islam (la
«sottomissione»), che consiste nella pratica dei cinque pilastri noti; l'îmân (la
«fede»), che è l'adesione del cuore alle verità rivelate; e infine l'ihsân (la
«perfezione») -- l'essenza del sufismo --,
che nelle parole dello stesso Profeta consiste «nell'adorare Dio come se tu Lo
vedessi», dove non s'intende certo una semplice attitudine psicologica.
In altre parole, si tratta dei tre gradi della Legge (sharî´a), della Via
(tarîqa) e della Verità essenziale (haqîqa).
Già all'inizio si è detto che il modello del sufismo è
mutuato dalla pratica del Profeta e dall'esempio di vita ascetica, cui erano
dediti alcuni dei suoi compagni di elezione. La vita austera e la rinuncia al
mondo, quindi, hanno sempre caratterizzato le «genti (della Via)» (al-qawm),
comunemente chiamati «i poveri» (al-fuqarâ'), benché questa povertà
corrisponda in certi casi solo a un distacco interiore e non sia sempre
necessariamente accompagnata anche da una effettiva indigenza di ordine
materiale. Per Abû l-Husayn al-Nûrî (c. 840-907),
infatti, il sufi è «colui che non possiede nulla e da nulla è posseduto». A
partire da Tustarî (818-896), fondamentali elementi della Via vengono
considerati il silenzio, la solitudine, la fame e la veglia, elementi che
verranno tutti condensati nella pratica del «ritiro cellulare» (khalwa)
compiuto sotto la guida e la sorveglianza di un maestro esperto. Questo ritiro
-- che può essere ripetuto più volte -- non deve però mai superare il periodo
massimo di quaranta giorni (anche se ripetibile). A questi ritiri non accedono
comunque che i discepoli che hanno già compiuto dei progressi sulla Via, in
assenza dei quali una tale pratica potrebbe risultare pericolosa, se non
addirittura nociva. Tutti, indistintamente, sono invece tenuti a recitare
quotidianamente, ad ore stabilite e per uno specifico numero di volte, le
orazioni dell'ordine: è la pratica del wird (il
«rosario»), che consiste in una serie di formule sacre quali, per esempio, la
«richiesta di perdono», la «preghiera sul Profeta» e la «professione di fede».
Oltre a queste formule, il discepolo sarà istradato a praticare per quanto
possibile il dhikr,
l'«invocazione» o «ricordo di Dio», mediante uno dei suoi nomi o con la
«professione di fede» (Lâ ilâha illa 'Llâh), ma potrebbe anche utilizzare
una delle numerose formule della «preghiera sul Profeta» in ottemperanza
all'ordine divino di pregare per lui (cfr. Cor.,
33: 56) e alla tradizione profetica in base alla quale i più vicini a lui nel
Paradiso saranno coloro, che più hanno pregato per lui in questo mondo.
Il dhikr, come la «preghiera
del Cuore» del cristianesimo esicasta ed il japa induista,
è la pratica principale di tutto il sufismo,
la chiave che -- unitamente all'osservanza scrupolosa della Legge e alla
sincerità d'intento -- apre la porta del cuore, tempio interiore della presenza
divina conformemente alla santa tradizione:
i cieli e la terra non Mi contengono, ma Mi
contiene il cuore del Mio servitore fedele.
Personalità illustri del sufismo hanno
contribuito in modo considerevole allo sviluppo e alla grandezza della civiltà
islamica; molti sono stati dottori della Legge, letterati, poeti, calligrafi,
uomini di stato e guerrieri, ma soprattutto si sono distinti per avere dato
luogo a una vasta letteratura spirituale, di grande profondità e bellezza
espressiva, uno dei monumenti del genio umano di ogni tempo e luogo che solo la
stoltezza ed ottusità di certi uomini può misconoscere.
La loro dottrina, oltre agli aspetti più tecnici concernenti le modalità del
viaggio iniziatico, i suoi mezzi, le condizioni, le tappe e gli stati di
realizzazione, ruota attorno essenzialmente all'esposizione in chiave metafisica
e iniziatica del pilastro centrale della religione, ossia la duplice
testimonianza di fede: da un lato quella già menzionata e concernente l'unicità
divina -- il Tawhîd, appunto
-- e dall'altro quella relativa alla missione legiferante del Profeta, la Risâla,
a partire dalla quale è stata sviluppata anche tutta la dottrina concernente la
santità.
L'approccio a questi «due temi» verrà svolto a partire dalle due tendenze
fondamentali, quella «gnostica» e quella «passionale», già riscontrate nelle
persone di Junayd e di Hallâj, veri precursori di questi due aspetti della
dottrina.
L'apice e, si potrebbe dire, la fioritura perfetta della letteratura iniziatica
rappresentata da queste due «scuole spirituali» si ha, però, attorno al XIII
secolo e due ne sono i protagonisti: il primo è l'andaluso Muhyî ad-Dîn ibn
´Arabî (1165-1240), propugnatore della wahdat
al-wujûd (la dottrina
dell'essenziale unicità dell'Essere, la cui definizione terminologica, così come
oggi viene usata, va ascritta al suo discepolo più profondo, Qunawî) e autore
delle monumentali Futûhât
al-makkiyya e dei Fusûsal-hikam;
il secondo è l'anatolico Jalâlu-l-Dîn Rûmî (1207-1273), cantore
dell'inesprimibile splendore divino e autore del celebre Mathnâwî.
Sarà, tuttavia, soprattutto Ibn ´Arabî a influenzare col suo poderoso pensiero
la gran parte delle successive generazioni di spirituali musulmani; perfino
quelli che gli saranno ostili o esprimeranno delle riserve nei suoi confronti
non potranno fare a meno di riconoscere il tributo dovuto alla sua opera, che
gli è valsa l'appellativo di al-Šaykh
al-Akbar, «il più Grande dei Maestri» (o anche se si vuole «il Sommo
Maestro»).
L'approccio diretto ai suoi scritti rimane in ogni caso appannaggio di un'élite;
sia per la loro mole, sia per la difficoltà e la complessità della sua dottrina,
infatti, sono pochi quelli in grado di poterla padroneggiare con sufficiente
competenza. Ciò non ha comunque impedito che una eco dei temi e delle nozioni
ricorrenti si sia diffuso a livelli quasi popolari, non di rado con delle
semplificazioni e distorsioni che hanno allarmato sia i dottori dell'esteriore
sia i Maestri del sufismo. Non
va, infine, nemmeno taciuto il pericolo di una certa «scolastica akbariana» nel
suo senso più deteriore.
Tutto questo può dare un'idea della penetrazione del sufismo nella
società islamica. Benché destinato a una cerchia ristretta e tale sia rimasto
per un lungo periodo di tempo, con la nascita delle confraternite esso ha
permeato e chiamato a sé grandi folle di fedeli. Alcune delle turuq principali
contano al giorno d'oggi centinaia di migliaia di affiliati -- talvolta persino
diversi milioni -- sparsi in tutto il mondo.
Una propagazione di tale ampiezza si giustifica come una forma estrema di
partecipazione spirituale all'irraggiamento della luce profetica, ma essa
comporta anche, necessariamente, una progressiva e sempre più gerarchizzata
struttura all'interno delle turuq medesime.
In tal modo, infatti, la cerchia più interna di ciascuna tarîqa tiene
al riparo da ogni volgarizzazione il cuore della dottrina e ne impedisce la
divulgazione impropria, compito non secondario ma anzi vitale.
Nel secolo appena trascorso, a partire soprattutto dalla seconda metà, il sufismo ha
cominciato a penetrare anche in Occidente, e non solo attraverso il fenomeno
dell'immigrazione, bensì fra gli stessi europei e americani che hanno aderito
all'Islam.
Francia e Svizzera hanno ospitato i primi «germogli» di questa forma di
spiritualità. Un indubbio contributo alla sua penetrazione è venuto, in origine,
dall'opera del francese René Guénon (1886-1951), anche se sarebbe forse più
corretto dire che più che le sue opere pubblicate, centrate attorno alla nozione
dell'unità essenziale e dell'origine unica e primordiale di tutte le forme
tradizionali, hanno contribuito le più discrete indicazioni del suo epistolario
e l'esempio della sua adesione personale. Al Cairo, dove vive senza più
lasciarlo gli ultimi venti anni della sua vita, è noto col nome di Šaykh Abdel-Wâhid
Yahyâ ed egli stesso è ricollegato, attraverso il pittore svedese John Gustav
Aguelii -- Abdul Hâdî (1869-1917) è il nome musulmano di quest'ultimo --,
all'importante Maestro shâdhilita ´Abd
al-Rahmân 'Illaysh al-Kabîr (c. 1845-1922),
a cui dedica tra l'altro il suo Symbolisme
de la Croix.
A partire da Guénon, formata sulla sua opera, nasce tutta una generazione di
«intellettuali» europei, primi in ordine di tempo i suoi amici, collaboratori e
corrispondenti. Uno di costoro, l'alsaziano Frithjof Schuon (1907-1998), noto
anche come Šaykh 'Aïssa
Nureddin, fonda a Losanna -- nel 1934 -- la prima branca europea di una tarîqa,
la Shâdhiliyya-'Alawiyya dello Šaykh Ahmad
al-'Alawî di Mostaganem (1869-1934), ma è anche risaputo che egli si sia
progressivamente allontanato tanto dalla cosiddetta «ortodossia guénoniana» che
da quella islamica tout-court con
gravi fratture nell'ordine da lui fondato e col suo trasferimento a Bloomington
(Indiana, USA), attorno agli anni 1980, la vicenda è andata vieppiù degenerando.
Arrivati a questo punto, si è ritenuto utile presentare anche una piccola
bibliografica ragionata sul sufismo,
divisa in opere del sufismo e
sul sufismo: le prime sono
traduzioni in lingua italiana di testi scritti da Maestri del sufismo,
mentre le seconde sono costituite da studi sul sufismo e
per questo non necessariamente compiuti da Maestri. Nella redazione di questa
bibliografia non si è seguito, in ogni caso, alcun criterio cronologico né con
riferimento agli autori e nemmeno alle date di edizione degli stessi testi.
6.1. Opere del Sufismo
- Scritti scelti di al-Ghazâlî, a cura di Laura Veccia Vaglieri e
Roberto Rubinacci, UTET, Torino, 1970
- Al-Ghazâlî, La nicchia
delle luci, Tea, Torino, 1970
- Al-Ghazâlî, Lettera al
discepolo (O figlio contenuta
all'interno degli Scritti
scelti), Sellerio, Palermo, 1992
- Al-Ghazâlî, L'unicità
divina e l'abbandono fiducioso, Il Cerchio, Rimini, 1995
- Al-Ghazâlî, Il concerto
mistico e l'estasi, Il Leone verde, Torino, 1999
- Al-Ghazâlî, L'inizio della
retta guida, S. I. T. I, Trieste, 1989
- Al-Ghazâlî, La perla
preziosa, Mimesis, Milano, 1992
- Al-Ghazâlî, Il libro della
meditazione, S. I. T. I, Trieste, 1988
- Al-Ghazâlî, Le perle del
Corano, Rizzoli, Milano, 2000
- ´Abd el-Kader, Il libro
delle soste, Bompiani, Milano, 2001
- Al ´Arabî al-Darqâwî, Lettere
di un maestro sufi, SE, Milano, 1997
- Al Hallâj, Diwan,
Marietti, Genova, 1987
- Al-Jilani, Il segreto dei
segreti, L'Ottava, Catania, 1992
- al-Jili, L'uomo
Universale, Mediterranee, Roma, 1975
- al-Qushayrî, Trattato
sulla scienza del sufismo, trad. parziale in G. Scattolin, Esperienze
mistiche nell'Islam. Secoli X e XI, EMI, Bologna, 1996
- ash-Sha'rani, Il libro dei
doni, Istituto Orientale di Napoli, Napoli, 1972
- ash-Sha'rani, Vite e detti
di santi musulmani, Tea, Milano, 1988
- As-Sulami, Il libro della
cavalleria, Atanor, Roma, 1990
- As-Sulami, Le malattie
dell'anima e i loro rimedi, Pizeta, Milano, 1999
- Al-Yafi'i, Il giardino dei
fiori odorosi, Istituto per l'Oriente, Roma, 1965
- Farid ad-Din Attar, Il
verbo degli uccelli, SE, Milano, 1986
- Farid ad-Din Attar, Parole
di sufi, Luni, Milano, 1994
- Ibn al-'Arif, Sedute
mistiche, L'Ottava, Catania, 1995
- Ibn´Arabî, La sapienza dei
profeti, Mediterranee, Roma, 1987
- Ibn´Arabî, L'alchimia
della felicità, RED, Como, 1996
- Ibn´Arabî, Il libro
dell'estinzione nella contemplazione, SE, Milano, 1996
- Ibn´Arabî, L'epistola dei
settanta veli, Voland, Roma, 1997
- Ibn´Arabî, Il nodo del
sagace, Mimesis, Milano, 2000
- Ibn´Arabî, Il mistero dei
custodi del mondo, Il Leone Verde, Torino, 2001
- Ibn 'Ata Allâh, Sentenze e
colloquio mistico, Adelphi, Milano, 1981
- Jami, La perla magnifica,
Istituto Orientale di Napoli, Napoli, 1981
- Jami, Frammenti di luce,
Psiche, Torino, 1998
- Rumi, Poesie mistiche,
Rizzoli, Milano, 1980
- Rumi, Il libro delle
profondità interiori, Luni, Milano, 1996
- Rumi, Canzoni d'amore per
Dio, Gribaudi, Torino, 1991
- Rumi, Canzoniere,
Semar, Roma, 2000
- Rumi, Il canto dello
spirito. Aneddoti dal Mathnawi, Mimesis, Milano, 2000
- Abu ´Abd ar-Rahman Sulami, I
custodi del segreto, Luni, Milano, 1997
- Abu ´Abd ar-Rahman Sulami, Introduzione
al sufismo, Il Leone Verde, Torino, 2002
- Ibn Sab'in, Le questioni
siciliane, Officina Studi Medievali, Palermo, 2002
- Kalâbâdhî, Il sufismo
nelle parole degli antichi, Officina Studi Medievali, Palermo, 2002
- Al-Qâshânî, La domanda
essenziale, Il Leone Verde, Torino, 2001
- Al-Qâysarî, La scienza
iniziatica, Il Leone Verde, Torino, 2003
- Ibn Hazm, Il collare della
colomba, ES, Milano, 1996
6.2. Opere sul Sufismo
- Seyyed Hossein Nasr, Il
Sufismo, Rusconi, Milano, 1975
- S. H. Nasr, Ideali e
Realtà dell'Islam, Rusconi, Milano, 1977
- Alberto Ventura, L'Esoterismo
islamico, Atanor, Roma, 1981
- Titus Burckhardt, Introduzione
alle dottrine esoteriche dell'Islam, Mediterranee, Roma, 1979
- Marijan Molé, I mistici
musulmani, Adelphi, Milano, 1992
- Eva de Vitray-Meyerovitch, I
mistici dell'Islam, Guanda, Parma, 1991
- G. Anawati / L. Gardet, Mistica
islamica, aspetti e tendenze, esperienze e tecniche, SEI, Torino, 1960
- A.J. Arberry, Introduzione
alla mistica dell'Islam, Marietti, Genova, 1986
- H. Corbin, Corpo
spirituale e terra celeste, Adelphi, Milano, 1986
- H. Corbin, L'uomo di luce
nel sufismo iraniano, Mediterranee, Roma, 1988
- C. W. Ernst, Il grande
libro della sapienza sufi, Mondadori, Milano, 2000
- C. Greppi, Rabi´a la
mistica, Jaca Book, Milano, 2003
- T. Izutsu, Unicità
dell'esistenza, Marietti, Genova, 1991
- M. Lings, Un santo sufi
del XX secolo, Mediterranee, Roma, 1994
- M. Lings, Che cos'è il
sufismo, Mediterranee, Roma, 1978
- C. A. Nallino, L'Islam,
Sufismo, Confraternite (raccolta scritti inediti ed editi), Istituto per
l'Oriente, Roma, 1940
- R. Nicholson, I mistici
dell'Islam, Bocca, Torino, 1925 (riedito come Sufismo
e mistica islamica, Fratelli Melita, Genova, 1988)
- M. Perego, Le parole del
sufismo, Mimesis, Milano, 1998
- A. Piga, Dakar e gli
ordini sufi, Bagatto, Roma, 2000
- G. Scattolin, Esperienze
mistiche nell'Islam, voll. I, II, III, EMI, Bologna, 1994-1996-2000
- A. Schimmel, Sufismo:
introduzione alla mistica islamica, Morcelliana, Brescia, 2000
- P. Urizzi, Islamismo,
ottavo quaderno. Il Sufismo Via mistica dell'Islam, ESD, Bologna, 2000
- C. A. Gilis, Lo spirito
universale dell'Islam, Il Cerchio, Rimini, 1999
- R. Guénon, Scritti
sull'esoterismo islamico e il Taoismo, Adelphi, Milano, 1997
- ´Abdal Wâhid Pallavicini, Islam
Interiore, Mondadori, Milano, 1991
- R. M. Khomeynî, La via
spirituale, Semar, Roma, 2002
Copyright © 2007 Andrey
Smirnov
Andrey Smirnov. «Il vortice divino. Il monismo come interdipendenza tra
zâhir-bâtin: il punto di vista musulmano e la filosofia mistica di Ibn ´Arabî». Dialegesthai.
Rivista telematica di filosofia [in
linea], anno 10 (2008) [inserito il 5 dicembre 2008], disponibile su World Wide
Web: <http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [214 KB], ISSN 1128-5478.
Note
-
Ibn ´Arabî, Fusûs
al-Hikam, Dâr al-kitâb, Beirut, 1980, p. 112. 
-
Ibn ´Arabî, Fusûs
al-Hikam, Dâr al-kitâb, Beirut, 1980, p. 72. 
-
Del resto Smirnov usa nello studio sulla Hayra la
parola inglese «whirlpool», che in italiano è «vortice» oppure
anche «mulinello». 
-
In senso stretto è l'atto di fede con cui
si afferma che Dio è Uno ed Unico (wâhîd). Potendo sintetizzare
al massimo, esso è il puro monoteismo. Per i musulmani esso è espresso
magnificamente nella prima parte della Professione di Fede: lâ
ilâha illâ llâh («non c'è
divinità al di fuori di Dio»). Vista l'ampiezza della tematica, che sarà
anche affrontata nel proseguio della prefazione da Smirnov, a titolo
introduttivo si rimanda comunque all'Encyclopaedia of Islam, «tawhîd»
(ndt). 
-
Valga solo come introduzione alla vita di
questo grande Maestro l'invito a consultare Encyclopaedia
of Islam alla voce «Ibn
´Arabî». Le opere di traduzione delle sue opere come quelle di
carattere biografico sono innumerevoli, alcune decisamente ottime altre
più discrete, tanto da scoraggiare il traduttore a proporne un elenco,
per il timore che quest'ultimo possa risultare fortemente lacunoso (ndt). 
-
Al-Šaykh al-Akbar, in italiano «il
più grande Maestro», è il titolo con il quale Ibn ´Arabî viene ricordato
nel mondo musulmano e non solo (ndt). 
-
La relazione zâhir e bâtin è
connessa al discorso sugli universali e coinvolge nel discorso il
concetto di alshay' che
tra breve si incontrerà. Ora, l'universale possiede fondamentalmente due
valori che sono logici solo astrattamente: la cosa-per-sé -- valore
assoluto -- e la cosa-in-sé -- valore generale. In più a quanto ora
detto, l'universale è considerabile anche per il suo valore in quanto né
comune e nemmeno speciale. Quest'ultimo valore è assimilabile a quello
assoluto, implicando però una relatività in sé: fondamentalmente esso è
quindi a-logico (ndt). 
-
È la creazione del mondo naturale, ovvero
un atto di creazione che ha luogo attraverso la materia ed il tempo e
che presuppone quindi una causa prima. Essa viene contrapposta alla
creazione dall'inesistenza (ibda') (ndt). 
-
Bashier S.H., Ibn al-´Arabî's Barzakh.
The Concept of the Limit and the Relationship between God and the World,
Albany: SUNY Press, 2004. 
-
Alhaqîqa è
propriamente realtà, essenza, verità. Nella mystica musulmana
costituisce la realtà profonda che solo l'esperienza dell'unione con Dio
rende possibile. Interessante ed importante è pertanto la relazione che
esiste tra la creatura umana e alhaqîqa,
laddove il primo, in base alla visione musulmana, è rigorosamente abd,
«servo», del Reale. Affrontando senza indugi la questione, si può
affermare che nell'esistenza attuale del Reale (fî wujûd al-haqq),
non appartiene al servo altro che la determinazione logica d'essere (hukm),
non l'essenza concreta (ÿayn). Nell'esistenza nella sua
attualità, che è esclusivamente della Realtà divina o identica ad essa,
si può dire di un suo aspetto che è «il servo», perché esiste una
relazione intelligibile per la quale un certo aspetto è «determinato»
(c'è un hukm) come
«servo» rispetto ad un altro, ma esso non è «effettivamente» servo, cioè
dipendente in tutto e per tutto. Questo è vero perché siamo nel dominio
dell'attualità dell'esistenza, che non distingue di per sé, in quanto
atto universale, tra le «entità». L'aspetto di servo non può riguardare
l'esistenza reale in sé bensì le relazioni specifiche dei Nomi correlati
con un loro oggetto. Con altre parole, ciò che conta nel manifestarsi
sono le energie divine (ëu'ûn) corrispondenti ai Nomi, che
fondano le «individualizzazioni» (aÿyân) nella Scienza divina ab
intra, tra cui intercedono relazioni. Quest'ultime non sono
esistenti di per sé (sono un ens
rationis) e non si manifestano concretamente, se non grazie alle
«individualizzazioni» concrete ab
extra che ne
rappresentano gli estremi tra cui esse intercorrono. Esiste poi una
«relazione» particolare tra Scienza divina e Principio, laddove nella
prima si ritrova la relazione tra individualizzazione concreta ed
intelligibile, mentre al secondo, in veste di datore dell'esistenza, si
attribuisce una «individualizzazione» sui
generis nel contesto
delle relazioni. Astraendo da siffatta relazione tra Scienza divina e
Principio, si può anche dire che il «servo», in quanto carattere
intelligibile nel contesto dell'Esistenza vera e attuale, ha una
dimensione di coestensività (è un trascendentale)
quanto all'essere o esistenza. In questo senso, esso non ha «privazione»
e l'unica cosa che lo caratterizza logicamente è l'esser
necessario per altro da sé (wâjib
biÈayrihi). In quanto essenza concreta, dal punto di vista
dell'esistenza attuale o non esiste, perché le «individualizzazioni»
immanifeste restano sempre «inesistenti» oppure esiste effettivamente ed
allora in questo è vero e reale, per l'Esistenza reale. L'argomento è di
enorme importanza e segnala indubbiamente alcune similitudini con la
teologia cristiana orientale, che forse andrebbero prese in
considerazione. Cfr. The
Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). 
-
Plurale di ´ayn,
significa fondamentalmente occhio, ossia l'organo della vista. In ambito
filosofico il plurale di questo termine denota più precisamente le cose
particolari che vengono percepite nel mondo esteriore. Una traduzione
valida di questo termine è, quindi, «le cose in quanto tali» (ndt). 
-
Questo è il motivo per cui le formulazioni
del pensiero akbariano non possono essere qualificate come panteismo,
almeno nel senso normale di questo termine. 
-
Esiste un trattato interessante di
al-Qaysarî, intitolato nihâyat
albayân fî dirâyat alzamân («La
fine dell'esposizione circa la conoscenza del tempo»), che affronta
direttamente la questione problematica e rischiosa del tempo. Tenuto
conto non solo di quanto quest'ultimo espone, ma anche di quanto lo
stesso Aristotele disse a suo tempo, si ritiene, potenzialmente
sbagliando s'intende, che la nostra percezione del tempo, in quanto
esseri umani, sia profondamente illusoria e finanche inconsistente. In
realtà, infatti, il numero del
movimento (arithmos kinêseôs) secondo l'anterioreposteriore (come
esposto da Aristotele in Phys,
IV, 11, 219b 1-2) quantifica il susseguirsi delle creazioni, in forza
del fatto che Dio è ad ogni momento all'opera, ossia che la creazione
stessa muta di istante in istante. Il tempo, in cui noi siamo gettati,
sarebbe quindi l'indice esponenziale della serie delle creazioni di Dio,
che in definitiva ha senso solo per Lui (ndt). 
-
Questa traduzione dall'inglese è stata
enormemente facilitata dalla consultazione via internet di questo che fu
l'intervento di Andrey Smirnov a Torino al Convegno «Sufismo e
confraternite nell'Islam contemporaneo» presso la Fondazione Giovanni
Anelli nel 2003 (a cura di Marietta Stepanyants). Esiste quindi già una
ottima traduzione italiana e la presente non può che esserne debitrice (ndt). 
-
Da questo deriva al-wâhidiyya,
che è un nome relativo. In ambito filosofico indica l'assenza di
divisione nelle particolarità (juz'iyyât), di ciò che è
necessario per la sua essenza. Generalmente, i filosofi indicano
l'indivisibilità in parti (ajzâ') del necessario per sua essenza
con il termine di ahadiyya,
e la sua indivisibilità nelle particolarità (juz'iyyât) col
termine di wâhidiyya,
e spesso dicono di esso che non ha una «causa iniziale» (sabab minhu),
così come parlano della sua autosufficienza ('adam alihtiyâj),
ossia rispetto all'agente, al fine, al luogo ed alla materia, dicendo
che esso non ha «causa» efficiente (sabab), «ciò causa per cui» (sabab
lahu), «ciò causa in cui» (sabab fîhi) e «ciò causa da cui» (sabab
'anhu). Le parti in cui si nega che si suddivida sarebbero elementi
costitutivi di un tutto, in senso sia reale che concettuale; le
particolarità elementi dell'essere che presentano un rapporto
tuttoparte, e in questo senso qualsiasi qualità particolare risulta
coestensiva a quell'essere stesso, e si può dire che quell'essere
qualificato in tal modo speciale è identico a quell'essere qualificato
in un altro modo speciale. La ahadiyya sarà
l'unità in sé, la wâhidiyya l'unità
per sé. Per il sufismo il termine designa, invece, un luogo teofanico (majlâ)
in cui l'Essenza si manifesta come attributo e l'attributo come Essenza.
Ogni cosa, quindi, di ciò in cui si manifesta l'Essenza nella
determinazione d'essere in ragione (hukm) della wâhidiyya,
è identica all'altra, ma per l'aspetto della teofania dell'Unicità (attajallî
alwâhidî), non per quello del dare a ciascun avente diritto ciò che
propriamente gli spetta, che sarebbe la teofania della Divinità o
rapporto di Divinità, funzione divina (attajallî alilâhî). 
-
Il termine al-ahadiyya è
sostanzialmente un nome relativo. Filosoficamente parlando, denota la
non divisibilità in parti del necessario per se stesso, senso che è
presente anche nel termine wâhidiyya.
Nel sufismo è
il grado designante la duplice emanazione (fay¼ân) delle entità e
delle loro predisposizioni, in primis nella Presenza della Scienza (ÿilmiyya)
ed in secondo luogo della loro esistenza e delle loro perfezioni in atto
nella Presenza della realtà esterna (ÿayniyya). Esso è il primo (aqdam)
dei gradi della natura divina (alilâhiyya), e nonostante essa sia
tutta intera in esistenza allo stesso modo, tuttavia l'intelletto
attribuisce ad una certa sua parte la priorità rispetto ad un'altra,
come la Vita rispetto alla Scienza, e la Scienza rispetto alla Volontà,
e così via. Non esiste tra gli esseri (akwân), per la teofania
dell'ahadiyya, un luogo di manifestazione più perfetto di te
stesso, quando ti immergi in te stesso (fî dâtika) e dimentichi
gli aspetti in cui tu puoi essere considerato, e ti allontani con te in
te dai tuoi pensieri (stati mentali): allora tu sei in «te» (anta fî
anta) senza che tu possa riferire a te qualcosa di ciò che ti spetta
degli attributi di realtà come principio, oppure che è tuo dei caratteri
di creatura. Questa particolare situazione propria dell'uomo è il più
perfetto luogo di manifestazione per la ahadiyya in
mezzo agli esseri del mondo. La ahadiyya è
l'inizio del manifestarsi dell'Essenza, ed è impossibile che la creatura
ne assuma la qualificazione perché quella significa la semplicità (îirâfa)
dell'Essenza al di là del rapporto come principio reale e come creatura,
mentre al «servo» è attribuita la qualità di creatura, e quindi non c'è
modo che questo avvenga (ndt). 
-
Is. 11,16. 
-
Questo punto è estremamente difficile da
interpretare. Da una parte il singolo abbisogna della Verità, che deve
ritenere indubitabile affinché egli possa uniformarvisi come ad un
modello per la propria condotta etico-morale. Dall'altra parte, però, è
anche vero che questa necessità del singolo urta con la medesima
necessità di un altro singolo, dal quale differisce quanto a forma. Il
problema è pertanto quello che l'Illuminismo ha certamente cercato di
affrontare in buona fede anche, ma che sostanzialmente non ha risolto.
Il nervo scoperto è costituito, quindi, dalla Verità stessa: è essa
stessa unica quanto ad essenza e a forma, oppure è unica essenzialmente
variando invece con riferimento alla propria manifestazione? Se passa la
visione di una sola Verità con varie manifestazioni, si potrebbe
definire, senza arrivare a forzature, la verità del singolo quale
«relativamente assoluta». Personalmente, questa è una soluzione che
convince e che non è assolutamente un'apertura al relativismo (ndt). 
-
Se si vuole vedere un esempio di tale uso,
si consulti Muhyî ad-Dîn ibn ´Arabî, Al-futûhât
al-makkiyya (Rivelazioni
o Conquiste meccane), vol. 4, Dâr sâdir, Beirut, senza data, p. 491. 
-
Il discorso sull'essere umano quale imago
Dei è ampiamente
sviluppato nel Cristianesimo, che lo prevede «accompagnato» dal concetto
di similitudo Dei. Il
primo parrebbe definibile quale «stato potenziale» da cui giungere ad
uno «stato attuato». Rimane, però, non solo l'insensatezza in assoluto
di un simile discorso, ma anche la cifra dell'irraggiungibilità
dell'essere-Dio. Tali osservazioni hanno, invece, una sensatezza ed una
propedeuticità quando sono intese come tali, ovvero indicazioni di un
modello da perseguire ben sapendo che il suo raggiungimento sarà
comunque impedito (ndt). 
-
Muhyî ad-Dîn ibn ´Arabî, Fusûs
al-hikam (Castoni della
Saggezza), Dâr sâdir, Beirut, 1980 (II edizione), p. 112. 
-
Noto in latino con il nome di Alfarabius
oppure di Avennasar, egli è anche detto il «secondo maestro», essendo
Aristotele il primo. Il suo pensiero affermava la superiorità della
ragione umana rispetto alla fede (ndt). 
-
Questo richiama molto quanto espose
Cusano, parlando di complicatio ed explicatio.
La relazione potrebbe essere visualizzata anche considerando una mano
chiusa, formante il pugno, ed una mano distesa. Il pugno rappresenta la
contrazione (complicatio), dove tutto è racchiuso, contenuto in
esso. La mano distesa rinvia alla dilatazione (explicatio), in
cui tutto viene svolto, disteso in tutta la sua potenzialità. Inoltre
anche il movimento cardiaco è utilizzabile in questo senso: la sistole e
la diastole rappresentano infatti i due «momenti» contrattivi e
dilatativi dell'essere umano (ndt). 
-
Un'applicazione di questa teoria, potrebbe
essere quella di un ramo staccato da un albero, che viene bruciato.
Trascorso del tempo, sarà trovata della cenere. La maggior parte delle
persone, avendo visto l'ardere del ramo, sarà a questo punto indotta a
ritenere che il ramo sia divenuto altro, appunto la cenere. In altre
parole, una certa sostanza continuerebbe ad esistere attraverso l'intero
processo e ad un determinato punto cambierebbe forma per diventare
qualcosa di altro. In realtà tale convincimento è illusorio e pertanto
falso. Il legno non muta mai in cenere. Ciò è solo apparenza. Il
«fatto-di-essere-legno» è per il legno uno stato ontologico
irriducibile. Il legno non è altro che legno. Ovviamente anche quando il
ramo bruciava, era sempre di legno, ma non era lo stesso ramo che prima
che iniziasse a bruciare. Anche nel suo «essere-di-legno» esso ha un
«prima» e un «dopo». Quindi affermare che «il ramo diventa cenere» è
un'apparenza illusoria, ma anche affermare che «il ramo perdura allo
stato ontologico proprio al fatto-di-essere-di-legno-ramo» è una
concessione al senso comune. Ogni cosa intesa come tutto ontologico e
considerata come entità esistente in modo continuo, non è in realtà
altro se non una successione di esistenze momentanee o una serie di
istanti ontologici (ndt). 
-
Ibidem, p. 53. 
-
Anche nella variante mu'tazila,
indica il nome di un movimento religioso fondato a Basra nella seconda
metà del secondo secolo dall'Egira, che divenne una delle più importanti
scuole di pensiero musulmano. Esso verrà affrontato nel proseguio del
libro. Per maggiori informazioni vedere The
Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). 
-
Ibidem, p. 67. 
-
Ibidem, p. 96 
-
Ibidem, p. 76. 
-
La locuzione «individualità incarnate»,
stante a significare a´yân,
sarà ritrovata anche in altri punti del libro (ndt). 
-
Ibidem, p. 53. 
-
La prima risposta viene data da chi ha
compreso che il mondo è in Dio e Dio è nel mondo, mentre la seconda è
tipica di chi ritiene che il mondo sussista di per sé e quindi si
affanna a ricerca le «cause seconde» in un movimento frenetico e senza
fine (ndt). 
-
Ibidem, p. 185. 
-
Lo stesso termine può essere inteso come
perplessità. Ambedue i vocaboli, però, possono portare ad equivocare
sulla reale intenzione che ha portato a sceglierli. Non si tratta,
infatti, di situazioni contraddistinte da un indeterminato ed
indeterminabile stato confusionale, bensì della possibilità data
all'essere umano di prendere atto della sua stessa impossibilità di
abbracciare la Realtà così come essa, ovvero la parte visibile e quella
che non lo è, ma che perciò non è meno esistente (ndt). 
-
L'aporia in questo caso induce ad
un'impasse logica nella mente dell'uomo, la quale lascia poi spazio allo
stupore. Quest'ultimo più che una sensazione è uno stato ontologico
dell'uomo, caratterizzato dalla possibilità di poter conoscere la Realtà
antinomica che egli stesso vive. Nel preciso istante in cui la creatura
umana abbandona ogni tentativo tassonomico della Realtà, ebbene proprio
in quel preciso istante l'uomo prende coscienza e quindi conosce la
stessa Realtà (ndt). 
-
La mente umana collassa strutturalmente a
questo punto, proprio grazie all'uso della logica (ndt). 
-
Alhâl è
lo stato ovvero qualcosa che sopraggiunge al cuore senza sforzo o
invito. Uno dei suoi tratti distintivi è la sua sparizione, cioè esso è
per sua natura discontinuo. Sovente è possibile che esso si ripresenti
successivamente ed in maniera sostanzialmente simile a quella
precedente, ma talvolta può anche non accadere. Da questa differenza
nella tipologia di accadimento nasce il disaccordo. Colui per il quale,
quello stato simile è fatto seguire, ne afferma la continuità, mentre
colui per il quale il simile non è fatto seguire, afferma la sua
mancanza di continuità (ndt). 
-
Ibidem, pa. 96. 
-
Ibidem, p. 153. 
-
Ibidem, p. 76. 
-
Ovvero a´yân (ndt). 
-
Ibidem, p. 110. La citazione in sé è
fondamentale e se viene suddivisa in tre parti ci rivela tutta la sua
importanza. La prima parte è: «ostacolò la conoscenza della verità di
cui abbiamo parlato»; questo significa che la conoscenza piena e
definitiva è preclusa in certo senso all'uomo. La seconda parte, invece,
è: «cioè del fatto che Egli è l'incarnazione delle cose»; ovvero Dio è
la-cosa-in-sé, questo significa che ogni cosa in sé è Dio e che pertanto
Dio è nel mondo ed il mondo è in Dio. Infine, la terza parte manifesta
il occultamento (gayra) delle due parti ora commentate: «e la
occultò con la gelosia, cioè con il "tu" distinto dall'"altro"»; questo
vuol dire che la piena conoscenza all'uomo è impedita dal velo
costituito dall'«alterità», definibile e percepibile dall'essere umano,
ma non valido in sé, giacché se Dio è ogni-cosa-in-sé, non esiste allora
un «tu» distinto da un «altro» (ndt). 
-
Ibidem, p. 128. 
-
Viene ribadito quanto esposto nella nota
40 (ndt). 
-
Ibidem, p. 128 
-
Ibidem, p. 124. 
-
Ibidem, p. 191. 
-
Ibidem, p. 122. 
-
Quanto afferma Ibn ´Arabî, entra qui in
contrasto con ciò che apparirebbe essere il dovere di ogni credente:
affermare la propria visione religiosa e negarne validità alle altre. In
realtà, il dovere del credente si ferma solo alla prima parte di tale
enunciato, ovverosia affermare e seguire la propria tradizione, non
preoccupandosi di quelle altrui, dato che il preoccuparsi per gli altri
comporterebbe in ogni caso una distrazione a detrimento del corretto
assolvimento dei doveri religiosamente sanciti. L'argomento è molto
delicato e talmente pericoloso, che lo stesso Ibn ´Arabî venne ritenuto
sospetto ai suoi tempi da quelli che oggi giorno si ammantano del
vessillo di difensori della tradizione. A ben vedere, questa situazione
è frutto di quella stessa Realtà antinomica, in cui l'uomo è coinvolto e
che lo dovrebbe, invece, portare alla perplessità, come Ibn ´Arabî ha
spiegato (ndt). 
-
Ibidem, p. 114. Ali'tiqâd:
il credere, la credenza. Per un verso è un giudizio mentale decisivo che
ammette la dubitabilità (incertezza), mentre l'altro, decisivamente non
comune, è un giudizio mentale decisivo, o preponderante, e comprende
quindi la scienza, vale a dire un giudizio mentale decisivo che non
ammette la dubitabilità, la credenza in senso comune e l'opinione, cioè
il giudizio in base al lato preponderante (ndt). 
-
Il discorso sulle «credenze» intese come
le forme religiose che oggigiorno vengono seguite dai rispettivi fedeli,
è stato affrontato anche da R. Pannikar nei libri: La
nuova innocenza, CENS, 1994; La
porta stretta della conoscenza, Rizzoli, 2005; La
realtà cosmoteandrica, Jaca Book, 2004 (ndt). 
-
Il punto è particolarmente critico e pone
l'uomo di fronte ad un grande interrogativo, ossia pronunciarsi a favore
dell'«assoluto» o del «relativo». Ebbene, anche in questo caso c'è un
grande tranello che l'essere umano dovrebbe fugare, ovvero quello di
aderire completamente ad una delle due alternative. In realtà, infatti,
ogni credenza, per dirla con Ibn ´Arabî, è relativamente assoluta e
questo non è certamente un mero gioco di parole (ndt). 
-
Ibidem, p. 113. 
-
Ibidem, pagg. 157, 200-1, 211. 
-
Dunyâ viene
inteso solitamente come mondo terreno in contrapposizione al mondo
celeste. Cfr. The
Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). 
-
Questo sarebbe il punto di vista dei paesi
musulmani più restii agli standard occidentali. 
-
La «conoscenza del mondo vicino» (´ilm
dunyawî), comunque, potrebbe contraddire la «conoscenza religiosa» (´ilm
dinî). In primo luogo questo può verificarsi nel caso di una loro
diretta (e quindi non implicita) contraddizione; in secondo luogo
sarebbe causato da un conflitto nel dominio della conoscenza e della non
conoscenza tra conoscenza e fede, il che implica una logica abbastanza
diversa per gli ambedue conflitti e decisioni. In questo senso può
tornare utile Ibn Rushd, 'Fasl
almaqâl'. 
-
Non parlo qui di quei casi noti di
estremismo e di fanatismo che sono eccezioni e che appunto confermano la
regola e che -- si dovrebbe chiaramente capire -- contraddicono la vera
logica della cultura musulmana nella sua correttezza. 
-
Per quanto riguarda l'ultimo secolo, M.
Iqbal ne è una brillante esemplificazione. 
-
Un esempio eccellente di questa procedura
logico-significativa è rintracciabile nel libro di M.N. al'Attas «Prolegomena
to the Metaphysics of Islam: An Exposition of the Fundamental Elements
of the Worldview of Islam» (Kuala
Lumpur: ISTAC, 1995, pp.225-227). L'autore fa riferimento alle teorie di
Ibn Sînâ, ma questo modo di ragionare, come giustamente lo stesso
sottolinea, è abbastanza rappresentativo del pensiero musulmano. 
-
Questo punto ha bisogno di una
delucidazione. Il corpo e l'anima sono opposti se presi «come tali». Ma
quando li trattiamo «come tale», non possiamo parlare in ogni senso
della loro unità. Questo significa che possiamo parlare dell'«anima» o
del «corpo» giammai però dell'«essere umano», fin quando l'«essere
umano» è uno, ovvero un'unità e non è solo quindi un corpo separato da
un'anima. Dopo aver realizzato tale unità ed afferrata l'umanità
dell'«Egoità», il corpo e l'anima «come tali» cessano di essere e
possiamo dunque parlare unicamente dell'assolutamente semplice ed
indivisibile «Egoità» quale unità di corpo ed anima. Logicamente
parlando, questa unità trasgredisce ogni opposizione tra i due, e,
semanticamente, trasgredisce gli stessi loro ambiti semantici:
l'«Egoità» è priva di ogni traccia del «corpo» e l'«anima» si trova
all'interno di se stessa. La logica e la semantica sono mutuamente
determinante, sviluppandosi da un nucleo logico-significativo. 
-
Andrey Smirnov utilizza sovente la
locuzione «filosofo mistico» oppure «filosofia mistica» per riferersi ad
Ibn ´Arabî. Se la cosa può suscitare un certo scalpore, essa non è in
definitiva così ardita. A favore di questa locuzione che appare
quantomeno inusuale in Italia, c'è la parte finale della corrispondenza
Qunawi-Tusi. Per maggior chiarezza riportiamo il brano in arabo e la
traduzione:

«In modo analogo, a colui che conquista la
stazione della «certezza di visione», dopo che ha superato il livello
della scienza certa, incombe il desiderio di raggiungere la «certezza
reale», la quale annovera tra i suoi statuti anche quello dello
studio per riunire assieme ciò che risulta dalla dimostrazione e ciò che
è frutto della visione diretta. Questa è una delle ragioni
determinanti per eseguire questa «cordatura»; [si è preferito
«cordatura» perché in un certo senso richiama agli incroci tra le
venature multicolore della decorazione], e per la preponderanza
dell'audacia di avventurarsi in ciò dopo la rinuncia, nella speranza del
successo in questo intento. E la pace [sia con voi].» La frase
evidenziata è quanto si reputa essere una prova molto solida per poter
parlare, assieme a Smirnov, di «filosofia mistica»: come ben si può
vedere quando si parla di «filosofia mistica», non si ha in mente la
«polemos» quanto invece la sublimazione della visione diretta con la
speculazione intellettiva (ndt). 
-
Ibn ´Arabî, Fusûs
alHikam, 2nd ed. Bayrût: Dâr al-kitâb al-´Arabî, 1980, p. 72 
-
Fusûs, pp. 199-200; vedere anche p.
73. 
-
La versione originale in inglese riporta
il termine whirlpool,
che in italiano è «vortice» oppure anche «mulinello». Per quanto
riguarda la traduzione in inglese del termine arabo gyr,
l'autore deve certamente averne consultato la radice sul Lane:
quest'ultima gyr,
richiama il concetto di «mulinello» e quindi di «vortice» (ndt). 
-
Vedere Fusûs,
p. 74. 
-
Per motivi personali, la visione del
sufismo convince di più della rigida causalità propugnata dai
peripatetici islamici. Si può sbagliare, ma cogliere una linearità che
dir si voglia, implica pur sempre la possibilità stessa di riconoscerla
tale da un punto terzo e perciò stesso esterno alla stessa linearità;
quindi, il ravvisarla è possibile solo se si è per l'appunto terzi
rispetto ad essa, oppure se si ha una conoscenza diretta, infusa della
linearità stessa, la qual cosa è possibile solo se si «coincide» con
quest'ultima. Questa «coincidenza» è chiaramente negata dalla linearità
peripatetica, dal momento che essa afferma inequivocabilmente che un
membro di una sequenza non può essere la sequenza. La negazione
dell'impostazione peripatetica, quindi, porterebbe a concludere che il
far parte di una sequenza, costituisca un «velo» per la creatura. È un
ragionamento razionale, basato sul sillogismo aristotelico, quello che
fa optare per la linearità, ma della quale alla fine non vi sono prove
razionalmente convincenti. Asserire la linearità causale, equivale allo
sforzo di definire Dio: ambedue appaiono tentativi ed appunto per questo
non raggiungono la Verità. Al pari della teologia negativa anche la
concezione «sufica» della causalità -- e massimamente quella di Ibn
´Arabî -- asserisce, quindi, l'impossibilità di distinguere tra causa ed
effetto. Come per la negazione, allora, anche qui questa impossibilità
significa che non c'è modo di distinguere quando tutto è Uno ed Uno è
tutto. E dunque ecco la critica nei confronti dei Mutakallimun, dei
Falasifa, degli Zahiriti e dei Batiniti: usare la logica per definire la
causalità è insensato. L'unico atteggiamento corretto è dunque quello di
affermare tutta o negare tutta l'Uni-Totalità (ndt). 
-
Fusûs, p. 73. 
-
Stretched path è
il sentiero che non conosce interruzioni. Il contrasto è qui con gli
«incroci» delle venature. Lo stretched
path avrà le sue acque
sempre di colore uguale, mentre due fiumi diversi che si incrociano
vedono cambiare di colore le proprie acque (l'esempio più classico è
dato dai fiumi amazzonici). Come tale non scaturisce nella dinamica zâhir-bâtin (ndt). 
-
Ibn Jubayr, Rihlat
Ibn Jubayr, Bayrût, Misr: Dâr al-kitâb al-lubnânî, Dâr al-kitâb
al-misrî, p. 75. 
-
Uno dei più famosi geografi del mondo
musulmano. Per maggiori informazioni vedere The
Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). 
-
Al-Muqaddasî. Ahsan al-taqâsîm fî ma'rifat
al-aqâlîm [Mukhtarât]. Dimashq: Wizârat al-thaqâfa wa-l-irshâd al-qawmî,
1980, p. 146. 
-
Bayer E. Islamic Ornament. Edinburgh:
Edinburgh University Press, 1998, pp. 125-126. 
-
GrabarO. The Formation of Islamic Art. New
Haven: Yale University Press, 1987, p. 187. 
-
L'autore nel testo impiega il plurale (islamic
ethics), quindi la traduzione esatta sarebbe «etiche islamiche».
Questo però sembra una concessione filosofica e metodologica
dell'autore, in forza della quale egli prende in considerazione la
possibilità che vi siano delle etiche islamiche senza che questo possa
sfuggire dal suo denominatore comune: l'essere comunque islamiche. In
più avvertiamo che l'uso del termine «islamico» nel testo da parte sia
dell'autore che dello stesso traduttore va equiparato sic et simpliciter
al termine, forse più preciso dottrinalmente, che è musulmano (ndt). 
-
La locuzione «bad»
effects viene resa con
«effetti malefici», mentre «good»
effects con «effetti
benefici» (ndt). 
-
La distinzione è nettamente quantitativa e
si fonda su una mera constatazione di quelli che sono i rapporti di
forza in campo (ndt). 
-
In origine il vocabolo designa
«conoscenza, comprensione, intelligenza» ma poi viene applicato ad ogni
branca dello scibile finché non diviene termine tecnico designante la
giurisprudenza; una scienza quest'ultima che è sostanzialmente rerum
divinarum atque humanarum notitia (ndt). 
-
L'autore non intende minimamente
giustapporre il sufismo alla filosofia, soprattutto se quest'ultima
viene intesa come attualmente essa è, ovverosia polemos o
speculazione fine a se stessa. Se invece la filosofia viene restituita
al suo ambito semantico naturale, e non si capisce perché non lo si
dovrebbe fare, dove essa esprime la tensione dell'amore verso la
conoscenza, allora l'uso che l'autore ne fa, non dovrebbe stupire molto
ed anzi costituire un ulteriore passo di riavvicinamento verso il vero
significato originario delle parole proprio quando ci si è resi conto
dell'abnorme e patologico mal vezzo di mutare il significato ai termini
in nome di una curiosa teoria che definisce una lingua «viva», nella
misura in cui essa è in grado di mutare gli etimi (ndt). 
-
Gli Ishrâkiyyûn sono
i «seguaci della Saggezza illuminativi» ed il suo membro più noto ed
autorevole, anche perché ne fu il propiziatore è Shihâb al-Dîn
Suhrawardî. Per maggiori dettagli sia sul «movimento» Ishrâkî che
su Suhrawardî si rimanda a The
Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). 
-
I mushrikûn sono
non-credenti in senso stretto, anche detti kâfirûn
asliyyûn (ndt). 
-
Se ne deriva che la vera essenza di ogni
atto divino è puro bene, mentre è solo l'aspetto metaforico quello in
cui appare il male (ndt). 
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Il termine «innovatore» non ha qui nulla a
che vedere con la nozione di bi´da,
che esprime un concetto negativo esemplificante un comportamento non
risalente a quello del Profeta e quindi non sicuro perché non compiuto o
prescritto dallo stesso Profeta (ndt). 
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Filosofo e storico, che viene descritto
come un Mazdeo fattosi poi musulmano, diede ampio risalto all'etica.
Nacque a Rayy intorno al 320 E/932 d.C. (ndt). 
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«Azione biasimevole» che fa parte delle
cinque categorie giuridiche con cui vengono catalogati le azioni umane
secondo la Sharî´a (ndt). 
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Mutatis mutandis noi
possiamo conoscere Dio solo attraverso le Sue manifestazioni, le Sue enérgeiai:
ecco ritornare il tema così importante per la teologia
cristiano-orientale delle enérgeiai già
segnalato in In Principio
era Dio. Unità e complessità del concetto di Dio nell'Esicasmo
cristiano, nella Qabbalah ebraica e nel Sufismo islamico, Simini-De
Luca, Bari, 2004 (ndt). 
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Ogni tentazione è una divisione (fitna)
sia costitutiva dell'essere umano -- microcosmo -- sia della comunità in
cui l'uomo vive -- macrocosmo (ndt). 
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Ora l'essere immagine è il dono di Dio
all'essere umano mentre la somiglianza a Questi è compito affidato allo
sforzo della creatura (ndt). 
Da: mondodomani.org/dialegesthai/asm01.htm
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