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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Il Sufismo, il "nocciolo" dell'Islam (Marina Borgetti)


 

Il cuore dell'Islam porta un messaggio universale di Pace: una proposta di cammino verso Dio. Il Sufismo è il "nocciolo" dell'Islam, la sua dimensione "interiore". Il significato del termine "sufismo", le origini del Sufismo e un po' di storia...

 

 

 

Quando dovevo scegliere l’argomento per questo articolo, ho lasciato che fosse l’argomento a scegliere me. Avrei potuto scrivere su qualcosa di più attinente al mio percorso di studi, oppure su qualcosa di più utile al mio lavoro… e invece no: il Sufismo.
Ammetto che più leggevo libri, e ne comprendevo la portata, e più non mi sentivo capace di continuare. Scrivere di esperienze che non si sono vissute ha il sapore del falso, come chi racconta la trama di un film senza mai averlo visto…Tuttavia, scrivere di qualcosa che non si è fatto alimenta il desiderio di conoscerlo meglio, se non si tratta di un gioco, né di un atto fine a se stesso. Ho cominciato con il cercare di comprendere il significato della parola Tasawwuf, poi ho ricercato le sue origini storiche, per continuare con un’analisi delle sue figure più importanti.
Ho scritto sicuramente per ammirazione di coloro che ce l’hanno fatta, che sono riusciti a vivere un’esperienza intensamente spirituale e che poi hanno continuato a vivere nel mondo. Ho scritto di coloro che hanno vissuto un quotidiano trasfigurato dall’esperienza teosofica.
Ho scritto di persone, stati, percezioni che paiono appartenere solo all’Islam, ma che in verità appartengono a tutte le religioni. Il cuore dell’Islam porta un messaggio universale: è una proposta di cammino verso Dio. Chi vi è giunto ha colto la sapienza del mondo, la pace, l’armonia del cosmo che trascende le piccolezze e le meschinità in cui ci incagliamo, noi, semplici pellegrini della terra.
Mi rendo conto anche che parlare di “stati d’assolo”, “unità con Dio”, “ricordo incessante di Dio” significa camminare su un terreno minato, in cui è alto il rischio di prendere delle cantonate. Ma… ho provato, in punta di piedi. Ho provato rischiando di utilizzare tinte troppo accese nelle parole. Ho provato perché è un aspetto importante che non poteva essere omesso. Ho provato perché mi ha colpito… ho provato!

 

 

 

Il significato della parola “sufismo”

 

La parola “Sufismo” è stata coniata nel suo originale latino dall’orientalismo ottocentesco, e deriva dal termine arabo Sūfī. Tasawwuf, “farsi Sūfī”, è il termine arabo normalmente utilizzato per descrivere l’esperienza profonda dell’Islam e la sua essenza.

 

E’ possibile ritrovare tre derivazioni dell’espressione:

-          sūf”, lana: in quanto i primi asceti, già in epoca preislamica, erano soliti vestirsi in povertà con una tunica di lana semplice e rattoppata;

-          safā’”, purezza, o “suffa”, in riferimento agli Ahl al-suffa, la “Gente della veranda”, primi discepoli del Profeta, che colta la profondità del suo messaggio, avevano deciso di votare la loro vita a Dio con atti di culto, studio approfondito della scienza sacra e pratica del “ricordo di Dio” (dhikr);

-          Sufa”, o al-Ghawth ibn Murra, uomo vissuto cinque generazioni prima del profeta di cui si dice sia stato il primo a dedicare la sua esistenza al Dio unico, prestando servizio nella Ka‘ba.

 

Di fatto il Sufi è colui che sceglie di percorrere la via, tarīq, per giungere alla conoscenza di Dio, e in questo è accompagnato dal suo maestro, shaykh, che lo aiuterà ad attraversare i diversi stati che lo condurranno a realizzare la Presenza divina che è la Pienezza della Realtà della Verità. (Questo cammino è contrassegnato dalla kenosi e dalla theosis: la prima afferente alla sfera dell’egoità, mentre la seconda al processo di indiamento)[1].

 

 

Le origini del Sufismo

 

Il Sufismo si basa sull’approfondimento del Corano e della tradizione profetica. Tuttavia la sua dottrina contiene elementi che sono presenti anche in altre religioni e le sue pratiche ricordano tecniche simili dei monaci buddisti e cristiani (esicasti): una fra tutte, quella del dhikr. M. Molé ci aiuta a fare chiarezza, sostenendo la necessità di distinguere su due livelli le intenzioni e le tradizioni. Le intenzioni dei sufi sono di meditare sulla rivelazione coranica e praticare con particolare intensità i riti del culto musulmano. Per quanto riguarda le pratiche, invece, ricordiamo che quando gli arabi, sotto il dominio del califfato ‘Abbaside, conquistano il Medio Oriente, islamizzano gradualmente popoli che professano altre religioni (quali Cristianesimo, Mazdeismo, Manicheismo e Buddismo). Quindi, le strutture e i contenuti del nuovo credo si impiantano sul vecchio rinnovandone il significato. Per dirla correttamente e dal punto di vista musulmano, l’Islam è khātam an-nubuwwa, ovvero è Sigillo delle Profezie legiferanti, e come tale contiene in sé quanto lo ha preceduto, perfezionandolo con la nuova Rivelazione che si assume essere l’ultima.  Anche per questo è doveroso riconoscere nello stesso Sufismo la presenza di altri elementi non propriamente islamici sempre a patto che questo non sia visto come un “prestito” o che si sia portati a definire il Sufismo quale derivato. La realtà è molto più complessa ma al tempo semplice: al sentiero di orme sinora lasciate da Dio sulla terra ora se ne aggiungono di nuove – ma sempre Sue - che rendono quel sentiero più lungo.

Già in epoca preislamica il Medio Oriente era attraversato da asceti liberi, chiamati benai qeyama, “figli del Patto”, che vivevano tra la gente, ma che si distinguevano per l’uso di pratiche ascetiche supererogatorie e per l’assoluta castità. La vita di questi uomini, ma anche donne, timorosi del loro destino postumo e desideranti la compiacenza divina, era caratterizzata dalla povertà e dall’erranza, poiché era necessario abbandonare ogni bene per darsi totalmente a Dio. “Spogliato di ogni bene, senza un giaciglio, sporco, vestito di stracci, il monaco errante era uno pneumatico. E se il suo aspetto esteriore sembrava esporlo al disprezzo di tutti, egli attingeva stati mistici elevati e, soprattutto, era assorto nella contemplazione di visioni spirituali”[2]. Già in questa prima fase possiamo trovare elementi che saranno ripresi dai Sufi:

-          l’esser sconosciuti alla gente e il rivelarsi solo agli eletti significherà appartenere ad una gerarchia invisibile di Amici di Dio, che vivono inosservati ma senza i quali il mondo non potrebbe sussistere;

-          il ricercare il disprezzo e l’insulto, l’essere biasimati, il considerarsi peggiori degli altri uomini sarà il fondamento dell’atteggiamento  malamatī.

 

Nei primi anni dell’ègira, durante le prime assemblee dei gruppi di asceti di Medina, con i compagni più vicini al Profeta si venivano a delineare i caratteri propri del Sufismo e lo stesso Muhammad diventava “prototipo” del sufi, in primo luogo, e poi del maestro spirituale. La tradizione è spesso incline a sottolineare quanto egli si sia mostrato pubblicamente come forte, guerriero, abile comunicatore politico, capo di una comunità e organizzatore di un nuovo ordine comunitario mentre la sua vita contemplativa viene mostrata in maniera minore. Egli, già prima di ricevere la Rivelazione, era solito trascorrere lunghi periodi nella caverna di Hira’, presso la Mecca, dove viveva in eremitaggio, praticando lunghi digiuni, assorto nella meditazione e nella preghiera. Questa disponibilità e sensibilità diventeranno poi una vera e propria pietà religiosa, capace di formare Muhammad ad accogliere e trasmettere la parola divina e di anteporre l’interesse di Dio davanti ad ogni cosa, persino a se stesso.

Il Profeta possedeva la qualità della combattività: si impegnava a lottare contro tutto ciò che negava la Verità e rompeva l’armonia. In verità compiva una lotta combattuta su due fronti: quello interno, nella grande guerra santa (al-jihād al-akbar), contro l’anima concupiscente (an-nafs al-‘ammāra bi-s-sû’) che spinge a negare Dio e la sua volontà; e quello esterno, nella piccola guerra santa (al- jihād al-asghar), con battaglie militari o politiche. La “guerra santa” era così un aspetto della spiritualità “secondo il quale la pace non è sinonimo di passività ma di qualcosa che si consegue dalla piena attività. La pace appartiene a chi è interiormente in pace con la legge del cielo ed esteriormente in lotta contro le forze della disarmonia e dello squilibrio”[3].

Amante della Verità, caritatevole verso ogni uomo, Muhammad viveva in povertà rimettendo tutto nelle mani di Dio, con cui ebbe un rapporto privilegiato, un’intimità profonda tale da poter esser la sua voce in terra e tale da poter ascendere al suo Trono, dove rapito in profonda estasi ricevette il dono di vedere il Suo volto radioso.

Attorno a lui in breve tempo si creò la “compagnia”, che lo seguiva con deferenza in silenzio e fervida attenzione, soprattutto nei momenti in cui gli giungeva l’ispirazione. Egli trasmise la sua baraka (influenza spirituale) ai compagni attraverso un solenne Patto di Alleanza, i quali la trasmisero a sua volta ai loro discepoli: così si formarono le turuq, le vie, le catene (silsila, pl. salāsil) iniziatiche delle diverse confraternite sufi.

Comprendere l’importanza della compagnia è determinante per comprendere l’ambiente del Sufismo. Significa comprendere la condivisione con altri compagni del lungo e non facile cammino della teosofia. Significa vivere con il maestro che si è scelto come guida, apprendere da lui, lasciarsi modellare come vasi di creta, anzi come cadaveri nelle mani del loro lavatore[4].Nella compagnia vige il rispetto delle regole della “buona condotta”(adab), regole che investono tre campi: il primo è l’agire in pubblico nel rispetto di Dio, e in privato come se si stesse alla presenza costante di un re. Il secondo prevede il rispetto di se stessi, e il divieto di ogni falsità circa la propria condizione. Il terzo è il rispetto verso i propri compagni, migliorandosi frequentando i migliori. Adottare una condotta negativa significa fuorviare l’esito del proprio cammino spirituale e rompere l’armonia nella compagnia.

 

 

Un po’ di storia…

 

Il III secolo dell’era islamica vede l’affermarsi del Sufismo della scuola di Baghdad (nata dalla confluenza delle scuole di Kufa e Basra), luogo culturalmente fervido in quanto sito nella capitale della spiritualità, oltre che nuova capitale del califfato ’abbaside e della cultura islamica. Sono di questo periodo due figure-chiave del Sufismo, rappresentanti altresì di due correnti, di due modi di vivere l’esperienza con il divino.

Il primo è Junayd al-Baghdadi (m. 910). Discepolo della scuola di Baghdad, è l’esponente della corrente sobria ed intellettuale che fa della scienza del tawhīd (Unicità ed Unità divine) il fulcro della sua speculazione metafisica. Egli lo approfondisce concettualizzando l’unione mistica come accettazione della Volontà divina “al fine di raggiungere l’annichilimento in Colui a cui pensiamo”[5] per mezzo di una purificazione e di un distacco. Junayd intende questo stato come ritorno all’origine della Creazione, quando l’uomo era un non-essere nell’Essere divino.

Il secondo è il “martire dell’Amore”, Husayn ibn Mansur al-Hallaj (858-922), che giovanissimo sentì l’attrazione per una vita votata al divino, e a sedici anni cominciò la sua ricerca metafisica seguendo diversi maestri sufi, tra cui proprio Junayd. Dopo qualche anno di fedele discepolato smise di condividere alcune idee dei suoi maestri, pensando che i riti compiuti nelle confraternite fossero anzitutto un mezzo di santificazione personale e che la predicazione dovesse essere rivolta a tutti i cuori e non solo ad una cerchia ristretta. Così, seppur rimanendo fedele alla tradizione musulmana, cominciò a viaggiare per tutto il Khorasan e il Fars, predicando e penetrando i cuori induriti. Ruppe i rapporti con i circoli sufi e cominciò ad intrattenere rapporti con i dotti e con i poveri per meglio poter partecipare dei loro affanni.

Egli è il rappresentante della corrente estatica e passionale. Sostiene che nell’unione consumata in Dio gli atti dell’uomo sono santificati e divinizzati, dunque Dio rende l’uomo suo organo libero e vivente. In questa sua esperienza, egli si sentiva libero di esprimere senza veli che l’unione d’Amore con Dio era possibile, tanto da sostenere di essere il Vero (Anā l-Haqq), di essere Dio. Rigoristi e letteralisti dottori della Legge non compresero la portata della sua predicazione e lo misero alla gogna, imponendo ad ogni maestro di ciascuna compagnia di giustificare dottrine e pratiche ai garanti della sharī‘a. Tuttavia, l’esperienza di Hallaj non passò in sordina, anzi provocò una vera crisi di coscienza nella Comunità musulmana.

Abu Hamid al-Ghazali (1058-1111) è colui che riuscì a comporre la sintesi fra le due precedenti correnti e a ridare legittimità di esistenza alle confraternite. Studioso ardente di diritto, giurisprudenza, teologia e filosofia, “spirito insaziabile, natura inquieta, anima religiosa”[6], ad un certo momento della sua vita attraversò una crisi spirituale molto forte. I primi testi sufi in circolazione furono la risposta ai suoi dubbi in quanto sostenevano la possibilità di esperire la teosofia: la conoscenza di Dio. Per due anni si allontanò “dal mondo” per vivere la vita del sufi, e ve ne  fece ritorno come rinnovatore dell’Islam del suo tempo, soprattutto in virtù di un notevole bagaglio culturale capace di operare una sintesi della tradizione letteraria e spirituale.

La sua opera introduce il modello del sufi che vive una vita concreta in mezzo agli altri uomini e che presta attenzione alle esigenze della Comunità musulmana, cogliendone la frammentarietà, e nella necessità di dare a ciascuno il livello di verità che può comprendere. Contrastò apertamente i letteralisti dottori della Legge, sostenendo che la portata dell’Islam non poteva essere limitata al formalismo giuridico: era necessario che lo studio della Legge venisse illuminato da una profonda teosofia. Così il Sufismo divenne parte dell’insegnamento ufficiale, per dare, a chi lo volesse, la possibilità di approfondire la conoscenza di Dio e riempire la vita di ogni giorno della Sua presenza.  Il sentimento centrale della sua mistica è l’abbandono fiducioso all’amore divino (tawakkul), l’annientarsi nella volontà divina.

La ricca e fruttuosa opera di al-Ghazali ebbe l’effetto di orientare la sua influenza su due linee: una, intellettuale, che portò ad una gnosi mistica, ed una, dalle tendenze più popolari, che si concentrò nelle confraternite religiose.

Gli esponenti della linea intellettuale ripresero i problemi di filosofi e teologi cercando di risolverli e superarli con l’illuminazione divina ed esplicitandoli in dissertazioni in prosa o in poesia. L’obiettivo di questa tendenza era sorpassare il mondo sensibile per raggiungere quello delle realtà intelligibili e spirituali per mezzo di atti di culto, di mortificazioni, del dhikr, il “ricordo” di Dio, ripetizione di formule e dei nomi di Dio, e il samā‘, l’audizione del canto di poemi con contenuto spirituale.

Con l’andaluso Muhyi-d-din Ibn ‘Arabi (1165-1240) il tasawwuf raggiunge un alto grado di elaborazione gnostica. Egli è il teorico del Logos, che è principio creatore razionale del cosmo, comprende tutte le cose e tutte le Idee, si moltiplica ma non si divide. L’uomo, in cui si realizza l’oggetto della creazione, lo manifesta sinteticamente, e in particolare, è nell’Uomo Perfetto, nel maestro, che si trova lo specchio capace di riflettere la perfezione di Dio.

Egli sostenne l’unità essenziale dell’Essere, la wahdat al-wujūd, e affermò che se tutte le creature sono manifestazioni di Dio, allora gli uomini non possono che adorare Lui qualunque cosa essi adorino; si pose così apertamente tollerante nei confronti delle altre religioni.

Conobbe Ibn Rushd, il noto filosofo Averroè, ed alla Mecca incontrò una giovane e colta poetessa persiana che gli ispirò delicate poesie d’amore, che esprimevano profonde esperienze spirituali sotto il velo della poesia profana.

Ricordiamo anche che il XIII secolo, in cui gli ordini spirituali si rafforzano, è il secolo delle orde dei Mongoli che distrussero consistenti parti del mondo islamico centrale e orientale e che uccisero il califfo di Baghdad. Del resto è il clima di distruzione che invade un po’ tutto il vecchio continente; l’epoca dei movimenti mistici che sta fiorendo è forse in risposta alle turbolenze politiche ed economiche del periodo.

Jalal d-din Rumi (1207-1273), nativo del Khorasan, odierno Afghanistan, fu il più celebre dei poeti mistici persiani. Fu discepolo di un misterioso maestro, Shams al-Tabriz,  per il quale scrisse versi dai quali emerge tutto l’ardore che lo anima. Nella sua visione, l’unica cosa che conta è la ricerca dell’amore di Dio; scopo della vita è dimenticare se stessi per perdersi in Lui. Egli è il cantore dell’esperienza dell’Amore che comprende tutto in sé. Stupisce come in ogni cosa riesca a trovare un rimando a Dio, l’eterno Amato: ogni elemento del mondo diventa degno di valore in quanto cenno, simbolo del Creatore. La piena padronanza del linguaggio gli permette di dare bella forma alla sua personale esperienza teosofica, utilizzando un ricco vocabolario di simboli e paragoni, talvolta audaci. Rumi fu inoltre un attento padre di famiglia e un attivo maestro di teologia, ebbe numerosi discepoli e si dedicò attivamente ad aiutare i poveri. La confraternita che si è venuta formando tra le generazioni dei suoi discepoli dopo la sua morte è detta Mawlawiyya, ed è divenuta celebre per il suo particolare rituale del samā‘, accompagnato dalla danza dei “dervisci rotanti”. Essa si è fortemente sviluppata nei territori facenti parte dell’attuale Turchia. Nel 1925, a seguito delle riforme laicizzanti ordinate dal presidente turco Atatürk, l’ordine di Rumi venne proibito, e fu nuovamente reso legale soltanto nel 1954.

La seconda linea di influenza dell’opera del Ghazali giunse incontro alle attese degli ambienti popolari, più inclini ad un Dio comprensibile al cuore più che a speculazioni gnostiche. Fu così che si diffusero in tutto il mondo musulmano le confraternite dei sufi, utilizzando contenuti lontani dalle dispute teologiche, ma vicini al sentimento religioso e devozionale dei meno dotti. L’obiettivo perseguito era quello di avvicinare i cuori a Dio in un modo più sentito. Questa apertura portò a modificare la fisionomia dell’Islam, anche per la perdita di forza dell’autorità unificatrice dei dottori della Legge. Ogni regione musulmana si colorava così di tinte proprie. Avvenne anche che la stessa confraternita avesse rami urbani, più vicini all’insegnamento ufficiale, e rami rurali, colorati di sopravvivenze animistiche.

Inoltre la fama dei maestri crebbe anche dopo la loro morte. Sulle loro tombe venivano eretti santuari che divenivano mete di pellegrini devoti e luoghi di asilo per fuggiaschi e, talvolta, per veri criminali. La tomba del santo portava la benedizione di Dio su quel luogo e i fedeli vi giungevano per chiedere grazie, miracoli e stringere voti.

All’inizio del XX secolo si assiste ad un certo coinvolgimento politico da parte di  alcune confraternite: in Libia ed in Sudan, ad esempio, la Sanusiyya e la Sammaniyya svolsero un ruolo rilevante nelle lotte di liberazione nazionale in reazione all’incipiente colonialismo europeo.

A partire dalla seconda metà del secolo scorso, il Tasawwuf è giunto anche in occidente, sia tramite discepoli e maestri immigrati che con occidentali convertiti all’Islam. Figura rilevante di questo fenomeno è il francese René Guénon, che per mezzo delle sue opere pubblicate e della sua personale esperienza, ha dato forte impulso a tale penetrazione. L’Italia stessa ospita alcune confraternite.


Il "nocciolo" dell'Islam

                                                      

La fede musulmana racchiude in sé il germe della mistica. Infatti, già la vita del semplice fedele è riempita di spazi dedicati a Dio, e nel significato della parola “Islam” è già contenuta una forte portata mistica: chi si arrende alla volontà divina ottiene la pace, in quanto sceglie di far aderire la propria volontà a quella divina.

Islam è un concetto globale che investe l’uomo con tutte le creature ed il suo fondamento è il tawhīd, l’Unicità e l’Unità divine. L’unità è il concetto chiave di questa religione, così come la lotta del Profeta è contro la divisione e la disarmonia. L’unità è espressa in ogni aspetto della vita del musulmano, tant’è che frequenti sono i richiami coranici all’impegno per fondare un ordine comunitario, un solo popolo musulmano, una sola vera religione.

L’Islam consta di due dimensioni: la sharī‘a, la legge, e la tarīqa, la via spirituale; entrambe le dimensioni devono sussistere in equilibrio fra loro, la sharī‘a priva della tarīqa sarebbe un corpo senz’anima, mentre la tarīqa senza la sharī‘a sarebbe privata del sostegno esterno. La vita di chi si consacra interamente al servizio divino poggia inevitabilmente sulla Legge poiché essa è la base solida necessaria per intraprendere la via spirituale. L’immagine che esemplifica il rapporto fra queste dimensioni è la figura geometrica del cerchio: la circonferenza rappresenta la sharī‘a che nella totalità comprende la comunità musulmana. Ogni musulmano è un punto della circonferenza. Il centro è Dio, la Verità, e da esso partono numerosi raggi che lo collegano alla circonferenza: sono le varie turuq, vie, che portano l’uomo alla conoscenza di Dio. Sono diverse perché diverse sono le necessità degli uomini che le intraprendono. La Legge e la Via provengono entrambe da Dio, ed entrambe partecipano del Centro. Vivere la sharī‘a significa vivere nel riflesso del Centro, e questa è la condizione necessaria e sufficiente per essere salvati. C’è tuttavia chi sente che questa non gli basta, e vuole tentare di raggiungere il Centro: decide così di percorrere una via[7]. Qui avviene il salto fra l’esperienza del fedele e quella dell’iniziato alla teosofia: il fedele osserva scrupolosamente la Legge per sfuggire alla dannazione eterna; l’iniziato non desidera altro che Dio e gli obblighi della Legge sono semplici mezzi, neanche troppo pesanti. La celebre preghiera della mistica Rabī‘a (m. 801) esemplifica il salto d’amore del sufi: “O Dio, se Ti adoro per paura dell’Inferno, bruciami nell’Inferno; se Ti adoro nella speranza del Paradiso, escludimi dal Paradiso; ma se Ti adoro per amor Tuo, allora non mi rifiutare la Tua Eterna Bellezza!”.

Perché l’uomo percorra la tarīqa, via del Sufismo, è necessaria una disposizione d’animo: l’abbandono fiducioso (tawakkul) a Lui, poiché tutto da Lui dipende. In pratica questo si coniuga con una povertà perfetta, non come indigenza materiale, ma come consapevolezza che di nulla necessita fuorché Dio.

L’uomo giunge al termine della via e raggiunge la santità non solo in virtù delle proprie capacità, ma soprattutto in virtù di una grazia che rende possibile questa trasformazione, la grazia muhammadiana, la baraka. Questa grazia discende direttamente dal Profeta attraverso i suoi compagni e poi tramite le generazioni dei maestri delle turuq, che a loro volta la trasmettono ai loro discepoli.

Il cammino nella tarīqa si fonda sui capisaldi dell’Islam: Corano e Sunna. I versetti coranici sono letti in riferimento agli stati interiori dell’anima. La vita del Profeta è il modello da seguire in quanto ha compreso e sperimentato l’Unità annunciata nella professione di fede.

Non può esistere cammino compiuto senza la guida del maestro all’interno di un Ordine, ed entrambi proteggono il discepolo dal rischio di un profondo squilibrio psichico, perché curano la gradualità dei passaggi e lo sostengono nelle difficoltà.

Il discepolo affronta la strada del distacco dal mondo attraverso le tappe del pentimento, del timor di Dio, della rinuncia, dell’amore, della speranza, fino alla perdita delle qualità umane. E’ necessario così che si isoli dal mondo per meglio intraprendere la battaglia contro le tendenze inferiori dell’anima e le distrazioni, viene addestrato alla sobrietà, alla povertà spirituale e all’indagine minuziosa di ogni sua azione e pensiero. Impara a praticare la pazienza, la dolcezza e la generosità, abituandosi a mangiare solo in caso di bisogno, a parlare solo in caso di necessità, ad abbandonarsi al sonno soltanto quando esso prenda il sopravvento.

L’iniziato comincia il suo cammino interrogandosi sul significato della Shahādah (Lā ilāha illa-llāh), su cosa significhi credere che non ci sia altro dio al di fuori d’Iddio; s’interroga dunque sul fulcro della religione che professa.

Lungo la tarīqa apprenderà la dottrina, le virtù e le tecniche necessarie per giungere all’esperienza illuminante. Queste ultime consisteranno in un’intensa meditazione dei versetti coranici, primi fra tutti quelli che descrivono il divino Artefice, le sue qualità, i suoi nomi, la sua Creazione, e poi la vita del Profeta e la sua esperienza mistica. Poi approfondirà il Patto di Dio con l’Umanità: quando, una volta creato Adamo, Dio trasse da lui il seme di tutti i suoi discendenti e chiese loro: “Non sono forse il vostro Signore?” ed essi risposero affermativamente. L’uomo è così vincolato da questo Patto, che gli determina una dipendenza assoluta dalla divinità ed una responsabilità morale particolare negli atti. Il momento del Patto è così importante che per molti sufi l’estasi mistica equivarrà alla riattualizzazione di quello stesso momento: l’uomo si risveglia dal sonno carnale e ritorna alla sua originaria condizione, riconfermando la sua fedeltà al Signore. I sufi rievocano questo momento durante le sedute della danza del samā‘, e la musica che li accompagna viene interpretata come evocazione della parola creatrice, grazie a cui tutto sussiste. Junayd sostenne che gli uomini, in quel lontano momento, non avendo ancora un’esistenza autonoma, erano l’oggetto della scienza divina: essi dunque sussistevano in Dio! Ecco allora che il sufi ricercherà per tutta la sua vita di ritornare a questa condizione primigenia, spogliandosi di tutto per ritornare a sussistere in Lui.

Le virtù che caratterizzano la vita spirituale sono essenzialmente tre: l’umiltà, la carità e la sincerità, le stesse virtù che caratterizzano il Profeta.
Vivere l’umiltà significa riconoscere in Dio il tutto e in noi il nulla, significa vedere nell’altro una perfezione che non abbiamo ancora raggiunto, significa ostacolare con ogni mezzo l’orgoglio. Vivere la carità non significa solo fare dono dei beni materiali, ma rivolgersi a beni ben più profondi. E’ una condizione dell’essere che porta l’uomo al sacrificio della sua vita: la presenza del sufi nella società è il più alto gesto di carità verso la società; infatti nel dare se stesso a Dio si offre al suo prossimo e nel darsi al suo prossimo egli si dà a Dio. Ma questo atto ha senso nel momento in cui è consapevole che è un atto di carità in quanto il bene non è compiuto da lui, ma da Dio. La sincerità, infine, significa vedere le cose come sono realmente, e dunque come manifestazioni di Dio: significa vedere Dio in tutto.

Dottrina e virtù maturate formano la solida base per il cammino intimo del discepolo: egli dovrà passare attraverso due stati spirituali, tajrīd e tafrīd, allo slancio dell’infirād per giungere in Dio all’ifrād. Nella fase del tajrīd il discepolo si distacca da tutto ciò che materialmente lo trattiene nel “mondo”, non possiede più nulla. Nel tafrīd si realizza “l’assolo” in sé, e l’uomo non è più posseduto da nulla; se si fermasse qui rimarrebbe ingabbiato nella contemplazione di sé, separato e lontano dal fine che è fare esperienza dell’unicità (tawhīd). Il passaggio allo stadio successivo, l’infirād, è garantito da un dono di grazia, che interviene portando il discepolo nella solitudine della presenza di Dio che è l’ifrād, dove l’anima è attratta all’Amore e non vorrebbe più allontanarsene. Emergono dunque tre linee d’azione: la prima è il movimento di discesa in noi stessi, necessaria per uscire da sé, per l’e-stasi; la seconda è il movimento d’en-stasi che realizza l’assolo; il terzo è un movimento di en-stasi più profondo alla presenza del Divino.

Il fanā’ prevede invece un annullamento, un’annichilazione di tutto il creato, compreso il soggetto che l’esperisce, nell’unità del divino per poi secondariamente sussistere in Lui. Il sufi sparisce da sé e dalla propria sparizione per sussistere in Dio, nel baqā’.

La tecnica spirituale per giungere a questi stati è la preghiera, mezzo con cui l’uomo fa ritorno a Dio. E’ una preghiera nel suo senso più universale poiché si conforma al ritmo della vita. E’ il dhikr, invocazione o ricordo di Dio, che “plasma e trasforma l’uomo fino al punto che egli stesso diventa preghiera, si identifica al dhikr, che diventa la sua reale natura”[8]. La tecnica non mira ad una semplice conoscenza, ma ad un apprendimento esistenziale e, comunque, non è detto che l’esecuzione della tecnica porti consequenzialmente all’esperienza: questa è dono divino. L’anima assetata non desisterà e continuerà a ricercarla. Le riunioni del dhikr avvengono sotto forma di sedute, con atteggiamenti prescritti, nel controllo del respiro e nei movimenti del corpo.

Il metodo prevede diverse fasi:

1.      una preparazione per giungere al distacco e all’indifferenza da ogni cosa, il tajrīd;

2.      un periodo di solitudine in cui svolgere i doveri religiosi col cuore vuoto, controllando il proprio pensiero perché nulla venga allo spirito se non il desiderio di Dio;

3.      Il discepolo siede con gli occhi chiusi, da solo o nel circolo, se si tratta di una seduta collettiva. Comincia così a nominare il nome di Dio incessantemente e con la presenza del cuore, fino a quando non arriva a cancellare la locuzione, le lettere, la forma della parola  e solo il senso della parola rimanga nel cuore, come unito a lui senza abbandonarlo.
 

Il maestro tende a consigliare ai discepoli, a seconda del livello raggiunto, cosa pronunciare: inizialmente con la prima parte della shahāda, poi con il nome divino e infine con il semplice Huwa (Lui).

Esistono molti approfondimenti della tecnica, dai più semplici ai più complessi. In particolare, il sufi Ibn ‘Iyad dell’ordine della Shadhiliyya ce ne offre una descrizione interessante in quanto coinvolge la corporeità dell’orante; il corpo si unisce alla parola nel ricordo di Dio: “Si comincia la recitazione partendo dal lato sinistro del petto, che è come la nicchia racchiudente la lampada del cuore, focolare di ricchezza spirituale. La si prosegue andando dal basso del petto al lato destro e risalendo alla cima di questo. Si continua tornando alla posizione iniziale”[9].

Componente importante è il controllo del respiro, che partecipa dello svuotamento del cuore. Questo è dato dall’alternarsi di due momenti: il primo che consta di inspirazioni lunghe ed espirazioni brevi, e il secondo, al contrario, di inspirazioni brevi ed espirazioni lunghe. L’inspirazione comprende la pronuncia della prima sillaba del nome divino, mentre l’espirazione alla seconda sillaba.

La durata dell’esperienza è misurabile sia con un tempo orario che con il numero delle ripetizioni. Il calcolo delle ripetizioni è agevolato dai grani di un rosario, la subha.

A questo punto, il discepolo può mantenere a lungo questo stato respingendo le tentazioni: la possibilità di andare oltre è dono di Dio.

Necessitano per adempiere questa pratica due cose importanti: una preparazione di distacco e svuotamento del cuore, e una purezza rituale, per giungere alla concentrazione su Dio. Del resto senza un’intenzione sincera ed una preparazione, il dhikr non sarebbe efficace. Inoltre questa tecnica non si sostituisce agli obblighi della Legge, ma li suppone osservati e praticati.

Il dhikr poi si presenta in gradi di profondità: 

1.      il dhikr della lingua (I) - di chi ne sperimenta la tecnica senza praticare la presenza di Dio, per inesperienza o per distrazione, oppure ancora per abitudine;

2.      il dhikr della lingua (II) - di chi manifesta intenzione e presenza del cuore verso l’oggetto della preghiera, desidera l’esperienza e si sforza per raggiungerla contrastando le distrazioni. A questo punto armonizzando intenzione, recitazione e respiro è possibile giungere al silenzio dei sensi e dell’immaginazione (tafrīd);

3.      il dhikr del cuore – vi accedono solo i privilegiati, come diretta confluenza dello stato precedente. La preghiera si è impadronita dell’orante, che vive questa dimensione pur compiendo altre attività. Il cuore entra in sintonia con il respiro del rūh, il soffio dell’anima, e non solo con il nafs, il respiro dei visceri. Non ci sono più parole sulla lingua, sono passate al cuore, che prega al ritmo del suo battito. E’ nel cuore che avviene la conoscenza di Dio (infirād);

4.      il dhikr dell’intimo – di chi accede alla vista delle cose divine; l’intimo è lo spirito del cuore, è il luogo del tawhīd, della proclamazione dell’Unicità e dell’Unità divine. A questo livello il fedele realizza e vede l’Oggetto della sua fede. Questo è dono, è rivelazione divina nell’intimo dell’uomo. Qui non c’è più dualità fra orante e Dio, non perché avvenga una fusione fra i due, ma perché è l’uomo che sparisce in Lui abbandonandosi (ifrād). E questo non è alla portata di tutti.
 

A questo punto può essere compreso il significato del tawhīd, che non è più solo una professione di fede, ma un’esperienza.

L’uomo che ha raggiunto questi stati serve Dio come se lo vedesse, come se operasse continuamente in sua presenza.

La tentazione maggiore è di abusare della tecnica credendo che porti inevitabilmente al dono, e che questo non possa non venir donato. Talvolta, infatti, nell’ebbrezza estatica il mistico crede di esser giunto all’unione con Dio, mentre successivamente si rende conto di non averne raggiunto che una fugace illusione.

L’ascensione del Profeta, che per molti è il modello dell’esperienza teosofica, segna anche i limiti della stessa in quanto l’essenza divina resta a lui inaccessibile. Infatti, per quanto l’uomo ne faccia esperienza, tuttavia non diventa mai Dio: sussiste nella sua Unità ma non è Dio, non ne ha un’unione sostanziale. L’uomo perde gli attributi umani per quelli divini, ma questi non lo deificano.

In conclusione, cos’è che attira l’uomo a intraprendere questo cammino? È l’Amore. L’Amore su cui tutti i sufi hanno scritto, in toni più erotici o più intellettuali, ma che comunque li ha toccati, perché la via del Tasawwuf è la via dell’Amore. L’amore che fu scandalo agli occhi dei dotti e che costò la vita di al-Hallaj. L’Amore della prossimità a Dio, della trasformazione per opera Sua, dell’accoglienza del Suo volere. Egli è l’Amato e i sufi ne sono gli amanti, desideranti Lui solo, fino all’incontro, quando Dio lo pervade, ed egli non esiste che in Lui.“E nel momento in cui comincio a volergli bene divento la sua vista, il suo udito, la sua mano, la sua lingua: è per mio tramite che egli sente, per mio tramite vede, per mio tramite tocca e per mio tramite parla”[10] (da un hadīth qudsī del III secolo dell’egira nel quale si riporta la parola di Dio rivelata al Profeta).
Il sufi è colui che è stato purificato dall’Amore, è il santo perfetto, l’Amato da Dio.

 

 



Bibliografia

 

 

G. Anawati / L. Gardet, Mistica islamica, aspetti e tendenze, esperienze e tecniche, SEI, Torino 1960.

A.J. Arberry, Introduzione alla mistica dell’Islam, Marietti, Genova 1986.

Alberto De Luca, Il Sufismo, la dimensione “interiore” dell’Islam. Un’introduzione e un percorso bibliografico, www.aljazira.it, 12/05/04.

Alessandra Garusi, Innamorati figli di Allah, Jesus, n. 50, giugno 2005.

Marijan Molé, I mistici musulmani, Adelphi, Milano 1992.

Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milano 1977.

Jalalu d-Din Rumi, Poesie mistiche, Rizzoli, Milano 1980.

Abu ‘Abd ar-Rahman Sulami, Introduzione al Sufismo, Il leone verde, Torino 2002.

Annemarie Schimmel, Sufismo. Introduzione alla mistica islamica, Morcelliana, Brescia, 2001.


 

[1]Per quanto riguarda lo specifico dell'uomo, Ficino parla di felicità come "indiamento", cioè solo la bellezza e l'amore possono accendere l'anima di desiderio e farle riacquistare le platoniche "ali" per tendere con tutte le sue energie spirituali a Dio. L'"indiamento", insomma, come un entrare in Dio, un eternizzarsi. Ma leggiamo uno stupendo passo dello stesso Ficino: "Ma Dio sarebbe, per così dire, un tiranno iniquo se ci spingesse a tentare di raggiungere cose che noi non potessimo mai ottenere. Per cui si deve dire che ci spinge appunto a cercare lui nell'atto in cui infiamma il desiderio umano con le sue faville... Per la qual cosa il nostro animo può ad un determinato momento indiarsi, dato che per natura a ciò tende sotto lo stimolo diretto di Dio. Ma non si india se non assumendo la forma di Dio, come nulla si infuoca se non accoglie la forma appunto del fuoco". F. Gabrielli, La felicità come via verso il divino, http://www.lifegate.it/essere/articolo.php?id_articolo=1211

[2] M. Molé, I mistici musulmani, Adelphi, Milano 1992.

[3] S.H. Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milano 1977.

[4] Il Perinde ac cadaver della tradizione gesuitica.

[5] Anawati/Gardet, Mistica Islamica, SEI, Torino 1960.

[6] Idem,  p. 43.

[7] Un’altra immagine usata dai sufi è quella “della scorza e del nocciolo” (al-qishr wa l-lubb).

[8] S.H. Nasr, op. cit., p. 163.

[9] Anawati/Gardet, op. cit., p. 211.

[10] M. Molé, op. cit., p. 53.

 

Da: http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=701&Itemid=1

 

 

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