in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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La preghiera cosmica di Giovanni Vannucci (Roberto Taioli)


 

“Io mi corico e piglio sonno

                                              Al risveglio sarò nella sua mano”

 

                                                          Salmi, Libro primo, 3

 

 

                                             “Negli alberi, nel vento, nell’acqua perenne,

                                               nella terra, nella luce, nella roccia inflessibile”                  

                                                                   

                                                          Giovanni Vannucci

        

                                                                               

 

     Tutta la vita e l’opera di Giovanni Vannucci e la sua testimonianza sono una ricerca della preghiera, delle sue sorgenti e delle sue forme. Un pellegrinaggio lungo le tracce dell’Assoluto, un transito al mistero.  La via che essa assume nel suo dispiegarsi e apparire agli uomini si riveste di volti diversi, di mutevoli icone. I linguaggi trasformano la materia grezza,  il dilatarsi dell'uomo, i suoi silenzi e le sue parole, ma non nascondono il respiro eterno da cui si dipartono e a cui ritornano come ad un ancoraggio primordiale. L’uomo è posto in questa erranza che permane e si prolunga  in ogni epoca come deposito ontologico del suo essere, anche se mascherata, nell’era della tecnica, dalla presunta onnipotenza degli apparati, dal sofisticato comando multimediale.

     In un mondo che tende all’imposizione del dis-umano e dell’artificiale, la preghiera mantiene intatta la sua valenza di appello, di convocazione estrema che supera d’un balzo i confini della costrizione e della volizione, richiamandoci ad una sorgente, ad una rupe. Lungo i tornanti di questa erranza Vannucci ha camminato, cosicchè tutta la sua opera potrebbe essere vista come un itinerarium in cui  la sorgente e la foce del flusso coincidono e si incontrano e alla fine riconosciamo il luoghi da cui ci siamo mossi e a cui siamo giunti.

     La radice della preghiera ricade in quel dire essenziale, in quei vocaboli essenziali (1) che delimitano il suo orizzonte, la sua regione precategoriale: il tempo, lo spazio, l’Uno. Al di là delle forme storiche di volta in volta assunte, nella preghiera, come nella poesia, avviene una metamorfosi del linguaggio, i termini che usiamo nella vita quotidiana e che appartengono al mondo fenomenico, decadono dalla loro veste ordinaria e assumono un altro codice espressivo e indicativo. Si spogliano della cornice mettendo a nudo l’essenza della loro vita, la carne nuda. Opera nella preghiera un movimento refrattario all’ordine del discorso comunicativo che ne esalta la natura trascendentale, propria di ciò che si pone nella disposizione per intercettare un altro piano, di sporgersi verso un’altra regione.

      Questa tensione è presente in Vannucci anche quando della preghiera esplora i continenti più nascosti e coglie gli echi che risuonano nelle forme delle varie religioni, i richiami sotterranei, le confinanze più segrete, fino a comporre Il libro della preghiera universale (3), opera straordinaria nella quale, come in un concerto, si compongono le parti, si annullano le differenze per far emergere e risuonare il timbro profondo, la varietà riversata nell’unità. Ma questo libro è per Vannucci, ancor prima che una raccolta di testi, l’accorgersi del risuonare in ogni preghiera dell’eco di tutte le altre, fungenti in quella che di volta in volta affiora alle nostre labbra e trema al nostro sguardo.

     La prima struttura precategoriale che si svela nella esperienza della preghiera è il tempo. Ma un tempo che non sia solo finito e causale. La problematica del tempo, che da sempre ha affascinato Vannucci, ci pone davanti al suo complesso volto: esso è processo lineare, avanzamento, progressione, ma anche ciclico, ritornante su di sé, avvolto come in una spirale. E’ quantità ma anche qualità, profondità, mistero. La ragione che opera nel tempo quantitativo, “trasforma il movimento dell’Iddio vivente in figure statiche, immutabili, eternizza un momento della rivelazione”(4), mentre il tempo qualitativo che è intrinsecamente dilatato, inesteso, infrange queste figure che sono andate concretandosi, rimettendo in cammino l’eterno respiro del Dio vivente, creatore e trasfiguratore del creato (5).

      La stasi del movimento (il tempo assunto come continuo e anonimo avanzare che dà luogo ad una metafisica della processualità) si spezza quando immettiamo in esso la dinamica delle figure, la forza avvolgente di un conoscere per simboli, per metafore. Metafore e figure connotano il tempo, ma anche lo destrutturano, attraversandolo per via verticale. Una fenomenologia delle figure si rende possibile quando in essa descriviamo l’apparire di volta in volta (ma talora anche simultaneamente) di forme storiche parzialmente svelatrici dell’impianto dell’essere, di figure che assorbono uno degli infiniti volti del mistero. La figura è così la formulazione razionale di una fase del movimento che, se assolutizzata e irrigidita, dà luogo a nodi e incrostazioni capaci di frenarne il libero flusso. L’accadere temporale subisce come una scossa, un cortocircuito che destabilizza la linearità divorante, aprendosi ad altre modalità e forme dell’incontrarsi. La figura, la metafora e il simbolo, nel loro collocarsi in trasversale sull’asse della temporalità, evocano i profili del chiasma e la dimensione della reversibilità di ogni forma nell'altra, del mutamento di ogni grumo della rappresentazione (6).

        La percezione del tempo qualitativo porta Vannucci a riformulare e riproporre la tripartizione profetica di Gioacchino da Fiore; anche Vannucci parla del tempo del Padre, anteriore al cristianesimo, del tempo del Figlio, e del tempo dello Spirito, il nostro tempo, ma che ancora deve compiersi, per raggiungere ciò che ancora non è. Quando Gesù dice “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione” (Lc, 12, 51), apre radicalmente allo scaturire della cifra qualitativa del tempo, ponendosi come principio di contraddizione e  lotta tra gli opposti; disarticola e distrugge, perché nel contrasto affiori una nuova nascita, una nuova vita. Ogni figura è sempre una sporgenza, tendente a spezzarsi e trasformarsi, ma non a scomparire. Nel suo illanguidirsi ed esaurirsi nel calendario del tempo,  consegnandosi e ritornando all’eterno flusso, lascia di sé residui di vitalità destinati a riaccendersi in altre figure e a vivere in altre forme o, come dice Vannucci, in nuove qualità. Una fenomenologia delle figure sarà quindi una descrizione degli strati delle permanenze nascosti nei nuovi contorni, giacenti nei nuovi profili e viventi nelle nuove configurazioni qualitative.

     Nella condizione del tempo ciclico opera il dis-divenire, pensiero che Vannucci riprende da Meister Eckhart; ent-werden è il dis-fare, è il movimento che ritorna al punto iniziale, che si riavvolge su di sé, come una tela che riconsegna la sua ampiezza all’intimità del gomitolo da cui è partita (7). Ent-werden è il sempre nuovo, la tensione che spezza il muro dell’abitudine e che riapre il tempo oltre i margini della sua finitezza:  “La tua tenda è sempre oltre, sempre oltre, / il tuo infinito cammino sia il nostro, o Signore”(8). In questo infinito accamparsi della concretezza vivente che disloca sempre più avanti la sua domanda di radicamento e di senso, sta il significato della preghiera. Essa ci sorprende e ci raccoglie sulla soglia estrema del nostro esistere, sulla sporgenza che noi stessi siamo. Forse solo nella preghiera e nella poesia il tempo qualitativo, incrociando lo spazio storico e geografico, emerge nella sua natura contemporaneamente di distruzione e costruzione. Tutto il tempo è eternamente presente, scrive Eliot in Burnt Norton, il primo dei Quattro quartetti. Le forme dell’accidentale, dice Vannucci, si sciolgono, “vengono abolite in un punto in cui tutti i tempi e tutti gli spazi sono presenti”(9), in una contemporaneità e comspazialità che sfuggono alle maglie della ragione categorica. Questa percezione profonda dell’indistinzione e della indivisione (entro cui avvengono simultaneamente i due movimenti, secondo un ritmo di azione e controreazione, di avvolgimento e svolgimento) ) appartiene alla sfera universale della preghiera, oltre le forme storiche territorialmente determinate.

    Il lessico poetico delle preghiere di Vannucci rifrange questa condizione: ogni parola è una resurrezione dal sonno profondo, il poeta è l’uomo che prega e infrange nel suo dilatarsi la nicchia anche linguistica entro cui è rinserrato, come timoroso del risveglio. L’uomo è in cammino, dall’oscurità della zolla, dalla durezza della pietra e della terra verso una meta, un porto tuttavia sempre sfuggente. Pervaso da una profonda inquietudine, egli condivide e partecipa al sogno di Dio. Dio sogna il suo sogno dapprima nel cuore della dura pietra e la pietra nuda acquista vita, nella sua singola forma, nella sua particolare epifania. Come attraverso una irradiazione, il sogno di Dio chiama alla vita la terra che, risvegliata dal torpore, dà i suoi frutti. Poi il sogno raggiunge il cuore degli esseri, là dove si fa più pieno e la pienezza più intensa. Ma Dio non ha dimora, il suo sogno si riproduce e si riaccende. La tenda è sempre spostata oltre. Il transito dell’uomo è in questa sequela del sogno di Dio.

      Questa immagine dell’oltre ricorre frequentemente nella scrittura e parola di Vannucci, come una costante posta a chiamare l’uomo a risvegliarsi, a riemergere dal sonno e dall’abitudine per incominciare e continuare il viaggio. Ma l’uomo è il punto di arrivo, l’approdo più alto di una vicenda cosmica che lo precede.  Nascosto e contenuto nella forme precedenti dell’evoluzione, il telos si è incarnato e depositato nell’uomo, nel suo trascendersi, nel suo negarsi, “nel cuore della dura pietra” e  “nel cuore del ramo morto / che tanta linfa aveva in sé”(10). C’è una scala, di cui parla anche il poeta arabo Rûmî, posta davanti all’essere, il cui destino è trasformarsi, intraprendere una ascensione dalla forme inferiori a quelle superiori: ”Da quando tu venisti in questo mondo d’esseri / davanti ti fu messa, a salvarti, una scala . / Fosti dapprima sasso, poi divenisti pianta, / e ancora poi animale: come ciò t’è nascosto? / poi divenisti Uomo con scienza, mente  e fede: / guarda come ora è un Tutto quel corpo, già Parte di terra!”(11).  L’uomo è un arrivo ma anche sempre l’inizio, il punto di partenza di una nuova ascensione. La sua forma si spezza, ma in un frantumarsi che non è l’annientamento e l’annichilimento: ogni rinascita è una scaturigine che tiene conto e ricapitola in sé l’uomo precedente, le sue grandezze e i suoi errori. Il tempo è un impasto, vitale e fecondo perché stimolato dal futuro.

      E’ l’Uno vivente che riplasma sempre daccapo la materia, il nocciolo crudo e grezzo, rimodellando il cammino umano; la preghiera lacerante e sommessa annuncia la gloria di quest’opera incessante che chiama a contemplarla in ogni manifestazione: “Tu sei la sorgente unica del creato*, tu sei la fonte gioiosa della materia. Tu hai assunto la nostra carne umana*, carne vivente che riassume l’universo”(12). E’ la tonalità poetica che trasporta il senso del messaggio. In Vannucci la preghiera si pone come disarticolazione della ragione discorsiva, invenzione di nuove forme. Grande conoscitore del patrimonio storico della preghiera universale di ogni continente e spiritualità, è tuttavia nella esperienza viva della  preghiera sorgente, gesto individuale ma che diventa corale e interseca l’universale, che Vannucci avverte e sente il muoversi delle forze cosmiche, il farsi di Dio in noi. Questa percezione può essere detta solo paradossalmente con il silenzio, l’afasia o con l’umiltà estrema della parola: “L’uomo interiore è Dio in noi. Non sono i testi sacri che illuminano l’uomo interiore, ma l’universo: è l’uomo interiore che illumina i testi sacri”(13); la lettera, per Vannucci, da sola non basta, se non trascesa incessantemente nella parola.

     Ricercare l’Uno nel molteplice, vederlo rifranto nel divenire, nel superamento della dualità, è così ritornare al precategoriale, all’infinito, all’invisibile. Là dove la ragione categorica si arena (ma Vannucci non disconosce affatto il paradigma della mente, delle sue conquiste e dei suoi risultati) (14), si apre il potenziale immenso della creatività dello spirito verso il quale ci si dirige più che con l’educazione e la preparazione interiore, nel dilatarsi di sé, l’aprirsi a quelle onde che vengono dall’alto. Ma è necessaria la sosta, il prender distanza, come anche nell’esperienza poetica, dal “caos del mondo meccanico”(15), dall’apparato del mondo che soffoca il vero mondo sottostante, occultato dalle costruzioni della ragione strumentale.

      La preghiera poetica di Vannucci è così un ritornare alla casa originaria, alla Urdoxa che è il sapere semplice, primigenio, radicato nel mondo della vita. Tolta all’uomo “la speranza del ritorno a casa, allora non ci sarà più alcuna distinzione tra lui e la macchina”(16), perché la macchina, anche la più perfetta e sofisticata, non potrà mai avvertire il richiamo del ritorno, l’anelito a ricongiungersi alla dimora dell’uomo. La preghiera è la via verso la dimora, il nostos, il sentiero che Plotino definiva solus ad solum, cammino unico e solitario, verso la pienezza.

      Questo transito compare in tutte le religioni, anche se detto in altre lingue e consegnato a diverse icone; l’Uno, l’invisibile in noi,  l’alterità che non siamo più: il Tat tvam asi ( “E tu non sei che quello”) nel buddhismo della Chandoya-Upanisad, e la formula evangelica dell’inserzione nell’unità (“Tu, Padre, in me, ed io in Te; perché anch’essi in noi siam tutt’uno”, Gv, 17, 21).

      Anche il canto di Vannucci strappa l’uomo dalla nicchia della ripetizione dislocandolo su un altro piano, sul quale tuttavia non si senta straniero e disorientato. L’io tende all’Uno, come il molteplice cerca sempre un alveo entro cui incanalarsi.  La preghiera, che sempre nasce dalla percezione dell’io lacerato e separato, è tensione verso l’unità, verso la composizione di ciò che è frantumato e disperso. Sorta da una condizione di mancanza e bisogno, di dubbio estremo e solitudine, la preghiera intercetta i fili misteriosi del cosmo, connette la microvicenda umana alla macrostoria del cosmo. “Dio si è unito all’umana natura, / la parte si annienta nel Tutto,* / il finito nell’infinito, il tempo nell’eternità” (17).

     Una lunga e laboriosa sedimentazione culturale e antropologica fa da sfondo alla preghiera poetica di Vannucci, alla vicenda della sua stessa scrittura. La parola è simile ad un tessuto composito, ad un ordito complicato. Nel suo porgersi, nella preghiera e nella poesia, attua una rottura ontologica (18) rispetto all’asse consuetudinario entro cui si consuma la normale prassi del linguaggio. Essa si manifesta per eccesso, per un sovrappiù semantico, secondo una logica di infinitazione del senso sfuggente alla comunicazione, che sempre richiede un ordine, un codice di legalità.  Così in Vannucci il gesto spirituale e poetico (ove preghiera e poesia si incontrano e si fondono) riflette nelle sue umbratili impronte l’archetipo del pellegrinaggio, di un cammino che richiede una forte adesione e una forte ascensione.

      Il principio verso cui ci muoviamo non è definibile, non è nominabile (19). L’apprensione del mondo s’arresta. Il nascosto appare solo per qualche attimo pur restando costitutivamente inaccessibile, inafferrabile. La prensione del mondo mi sfugge, l’universo si raccoglie nella sua filamentatura estrema, nella sua recitazione primordiale. Raccogliersi e distendersi sono i due movimenti opposti ma complementari della poesia e della preghiera. Poeta e mistico praticano la via del ritorno, del riandare all’essenza, con un habitus e uno stile che Cristina Campo chiamò la sprezzatura (20), che prevede l’oblio del mondano e che Husserl indicò nell’esercizio filosofico della riduzione fenomenologica.

      Un lessico essenziale e un reticolo di parole scarne, come scolpite nel cuore della roccia, disegnano l’altissimo canto a Maria, segno di una avarizia e radicalità  della lingua interiore che muove dai grandi e attornianti continenti del silenzio: “O immacolata! / Tu che sei oltre le stelle, oltre le grandi gerarchie, / oltre la vita, oltre la morte, / oltre l’infinita teoria delle forme, oltre … / risplendi tu nelle nostre coscienze / e guidale là dove tutto l’effimero si cancella, / là dove tutto in umiltà fiorisce,  / là dove è solo silenzio” (21).

     La percezione del silenzio, dimensione alla quale Vannucci presta grande attenzione, non si manifesta per via intellectualis, la quale tende a solidificare il dualismo corpo-mente, ma nell’abbandono allo Spirito come tempo in cui avviene la ricomposizione della vita divisa e lacerata e la riappropriazione della nostra viva identità. Viviamo un’esistenza frammentaria, come spogliati e derubati, in preda ad uno stordimento che ci pare ovvio, normale. L’esercizio del silenzio, di cui la preghiera si nutre, riapre le vie chiuse dell’essere e ci riporta su quella soglia di consapevole connaturalità e comunione profonda che l’esistenza ordinaria rimuove e annulla, a quella voce  che non sentiamo più. Questa nuova e più alta dislocazione disegna l’ordine di un altro mondo di cui, imprigionati nell’abitudine e nella vita meccanica, non avvertivamo più la presenza, nascosta e misteriosa, ma operante entro di noi. Il silenzio ci coglie in quella condizione di intreccio e di incrocio con la terra e il cielo, ove noi siamo solo un punto di quell’infinito intersecarsi: “Nel silenzio immutabile dell’eternità / io sono in te, Signore, / immobile beatitudine; / voglio sparire nella tua coscienza suprema / e vederti nelle particelle raggianti del mio essere/. Per il momento questa è la pienezza /della tua vita e della tua illuminazione. / Io ti vedo, io sono in te, io sono te. / Fra questi due estremi / il mio amore intenso aspira te. / e così sia”(22).  

     L’intenzionalità ci porta ad aprirci, a lasciar entrare e al contempo liberare le forze vive che sono in noi e fuori di noi. Non siamo mai al centro, ma abitiamo sempre  le periferie dell’essere, decentrando continuamente la nostra collocazione. Questo status periferico dell’uomo rispetto al sistema dell’universo e al mare dell’infinità (rieccheggiante riflessioni che furono della filosofia di Giordano Bruno), configura in Vannucci quella poetica della tenda e della erranza, sempre in movimento oltre l’ultima sosta, che attraversa la sua preghiera. La forza di questo incessante spostarsi, procedere, accamparsi è la bellezza, impulso spirituale e telos non rappresentabili e visibili mediante un’estetica della descrizione. La bellezza è un’idea, un simbolo, non coincidente in una sensibile morfologia, e proprio in quanto mai definita e conclusa in una forma,  ancor più seducente e struggente nel nostro desiderio: “il nostro destino è l’Infinito, dobbiamo dare un corpo allo Spirito per renderlo reale”(23).

      Il volto invisibile della bellezza si esprime nel policentrismo dell’Uno, nella sua inafferrabilità ed evanescenza, nel suo indefinito proporsi e ritrarsi: “La bellezza naturale è reale, benchè fragile”(24), scrive Endokìmov, anche quando pare concentrarsi nelle forme di un’icona o catturata nel cuore di una parola. Nel suo apparente solidificarsi e concretarsi essa è già altrove. La comparsa della bellezza accanto a noi è così fragile ed insicura da indurci a camminare oltre, al di là della stazione ove essa è apparsa, come ad inseguirla. La vera bellezza è così nella mancanza, nel vuoto, che ci fa chiamare, invocare, desiderare. Quel volto sfuggente è già più avanti di noi.  Ancora è per Vannucci la figura del viandante che sposta sempre oltre la sua tenda, la cifra rivelatrice del mistero. L’infinito tempo e l’infinito spazio diventano la nostra vera casa (25). L’avvertimento della finitezza umana è colto nella sua più cruda evidenza, nella sua disperante angoscia, chiusi come siamo nella rete dei giorni, di un tempo breve e inesorabile: “Breve è il giorno, / perché ricolmarlo di pene, riempirlo di cruccio? / Effimeri siamo, chiusi tra l’aurora e il tramonto, /abbiamo appena poche ore per vivere“(26).

     Ed è proprio dalla misura dell’estrema contingenza dell’evento umano, che s’apre il canto invocante, risuonante su un altro piano, dove l’irriducibile caducità del singolo si lega e si salda a più ampie sporgenze, al tempo largo dell’attesa, il kairòs, il tempo propizio, il varco e l’apertura che si offrono all’uomo anche con il volto della fatica e del male: “O via, verità e vita, accogli noi viandanti, noi cercatori*, noi che vogliamo vivere sempre”(27). Non un vitalismo ubriacante è la via, ma un tempo disteso e dilatato, dove i frammenti non perdono mai la speranza di ritrovare l’Unità  e il respiro eterno.   

                                                                                                                                                                        

 

 

 

N O T E

 

1           G. Vannucci, Respiro eterno, Introduzione. La via della preghiera, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1999, p. 5. D’ora in poi riportato con la sigla RE. L’asterisco (*) che talora accompagna i versetti di alcune preghiere, compare nell’edizione sopra citata e come tale lo riportiamo.

2           Ivi, p. 5.

3           G. Vannucci, Il libro della preghiera universale, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1978. A proposito di questo libro, Fabio Cuniberto parla di una “grandiosa orazione polifonica”, scandita sui ritmi e le alternanze della “concordia discors”; (cfr. F. Cuniberto, Ecumenismo e nuova era. Riflessioni sul paradigma planetario, in “Filosofia e teologia”, 1993, pp. 397-413).

4           RE, p. 8.

5           G. Vannucci, Mistero del tempo, presentazione di A. Andriotto, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1996. La tonalità prevalente nel libro è la descrizione speculativa e storica del tempo qualitativo, il cui movimento si situa, pur non combaciandovi mai, nel tempo quantitativo. “La storia religiosa dell’umanità ci attesta, nelle sue numerose figure, che il cammino dell’uomo è una continua successione di qualità che nascono, crescono, muoiono dopo aver dato i loro frutti, lasciando il posto a una nuova qualità che completa la precedente e la porta alla sua perfezione” (pp.13-14).  

6           M.  Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Note di lavoro, ed. italiana a cura di A. Bonomi, Bompiani, Milano, 1969. Scrive il fenomenologo francese sulla reversibilità: “Solamente grazie ad essa c’è passaggio dal ‘Per Sé’ al Per Altri – In realtà né io né l’altro siamo dati come positivi, come soggettività positive. Si tratta di due antri, di due aperture, di due scene in cui accadrà qualcosa – e che appartengono entrambi allo stesso mondo, alla scena dell’Essere” (p.297).

7           G. Vannucci. Magnificat, in D.M.Turoldo-G.Vannucci, Santa Maria, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1996, p. 89. Scrive Vannucci, in un esplicito richiamo ad Eckhart: “Meister Eckhart descrive questa necessaria operazione con un termine intraducibile nella nostra lingua, ma che cercheremo di capire. Egli dice che la mente, passando il limite che separa il mondo profano dal mondo sacro, deve ent-werden: werden è il divenire e, con il prefisso ent, può tradursi ‘contro-divenire’, ‘ dis-disvenire’”.

8           RE, p.55. Su questo tema dell’oltre, essenziale nella meditazione vannucciana, si veda anche in RE, cit., p. 93 e, diversa nell’impianto linguistico ma omogenea nella tonalità tematica, la preghiera riportata alla nota 36, in G. Vannucci, Ogni uomo è una zolla di terra, prefazione di A.M. Camici, Borla, Roma, 1999, pp. 200-201.

9           RE, p. 10.

10       p. 130.

11       Rumi, Evoluzione, in Poesie mistiche, introduzione, traduzione, antologia critica e note di A. Bausani, Rizzoli, Milano, 1980, p. 55.

12       RE, p. 80. L’apertura cosmica, l’attenzione al creato in tutte le sue forme viventi ed esistenti, è centrale nella riflessione e nella scrittura di Vannucci. Anche le sue preghiere sono tensione verso l’universale, ricomprensione di ogni figura, anche inorganica, in cui si è depositata la vita; si veda nelle sue parole la ricorrenza e l’insistenza di termini appartenenti al mondo geologico, vegetale e animale, alla natura anche extraumana,  come nel testo di apertura a RE, cit., dedicato alla presenza creatrice, canto nel quale vengono convocate e viene dato un nome a tutte le forme del creato (“Nominammo le stagioni e abbiamo considerato / le piante di tutte la terra,*/ secondo il tuo comando. / Le erbe più minute e i semi:* / a tutti abbiamo /dato un nome, perché fosse ordine sulla terra” (p.50). La coralità e polifonia dell’universo, “l’infinita varietà delle cose” (RE, p.53) , “l’universo fervente di vita” (ivi, p.55), “i profondi segreti della materia” (ivi, p. 50), sono fonti di meraviglia e stupore, di continuo incanto e ringraziamento e suscitano rispetto e responsabilità verso il Tutto. L’io umano non è separabile da quella concertazione di forze e di forme con le quali interagisce e in cui si specchia: “Io sono le stelle del cielo, / gli abissi del mare, / le zolle delle pianure /, le spighe del raccolto, / le acque sorgive …” ( ivi, p. 63). Riguardo al  nesso umano- nonumano,  si vedano anche le feconde considerazioni di Sandro Mancini miranti a stabilire, in base al principio della correlazione universale, un equilibrio e una osmosi, un circuito di relazionalità tra ogni forma di vita: “L’identificazione primordiale, mediante cui l’uomo si scopre tutt’uno con la globalità dei viventi, disocculta nessi orizzontali e circolari, che rivelano l’uomo stesso partecipe di una correlazione universale, di cui egli non è che uno degli infiniti nodi, nessuno dei quali può ergersi a centro privilegiato di senso” (S. Mancini, Umano e nonumano tra vita e storia, Mimesis, Milano, 1996, p. 17).    

13       G. Vannucci, Preghiere alle Stinche, Edizioni CENS, Milano, 1987, p. 67.

14       G. Vannucci, Invito alla preghiera, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1979; “Il nostro pensiero è sempre qualcosa di aggiunto al nostro io interiore. La mente è lo strumento che ci serve per il dominio dell’universo, per la scoperta delle leggi dell’esistenza …” (p. 16). L’uomo è quindi, per Vannucci, più grande ed esteso del sistema mentale di cui è attrezzato e del quale conosciamo solo una parte del funzionamento. Il legame dell’umano col mentale si configura così in Vannucci come inerenza del tutto alla parte, escludendosi una stretta gerarchizzazione dell’uno all’altra. E tuttavia l’opera di Vannucci, nel suo riscoprire il contenuto sapienziale dell’umanità consegnatosi nelle forme delle religioni, configura una critica alle degenerazioni e agli eccessi dello scientismo occidentale, di cui la nostra civiltà sta subendo le conseguenze, destinate a ripercuotersi, se non interverranno  profonde correzioni di paradigma, sulle generazioni future; (su questo argomento vedasi l’ampia discussione di F. Cuniberto, nell’articolo citato nella nota 3 e alla quale si rimanda). 

15       Ivi, p. 15.

16       p. 31.

17       RE, p. 107.

18       G. Vannucci, Pellegrino dell’Assoluto, Edizioni CENS, Milano, 1990, p. 187. Vannucci dedica non poche pagine alla riflessione sul tema della parola accostando sapientemente parola sacra e parola poetica nel comune destino di tendere ad una significanza pura. La condizione della purezza di cuore è la via verso l’Invisibile, l’Inaudibile, l’Inesprimibile (cfr. Mt, 5, 8 , “Beati quelli che sono puri di cuore: essi vedranno Dio”).

19       Ivi, pp. 125-126. Vannucci scrive che “nel principio esiste una coscienza senza nome, senza limiti, sorgente della vita, luce non polarizzata, amore illimitato e illimitabile; le creature nel loro indefinito numero, nelle loro innumerevoli forme, sono come una limitazione, un frazionamento dell’unità assoluta del principio. Essendo la forma di ogni essere creato una misura e una quantità”. Proprio in quanto giacenti nel frazionamento e nella limitazione, le creature nella preghiera tendono a ritrovare l’unità spezzata, di cui avvertono, nella dispersione, la nostalgia.

20       C. Campo, Con lievi mani, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, p. 100. Scrive la Campo della sprezzatura: “Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto”. All’amicizia e frequentazione che ci fu tra Cristina Campo e Giovanni Vannucci fanno rapido cenno alcune lettere della poetessa all’amica Margherita Pieracci Harwell, raccolte nel volume Lettere a Mita (Adelphi, Milano, 1999; vedansi in particolare la n.115, p.129 e la n.144, p.158, nonché la nota esplicativa della Pieracci, curatrice del volume, a p. 346).

21       RE, p. 110.

22       p. 69.

23       G. Vannucci, Dal silenzio delle Stinche, Edizioni CENS, Milano, 1995, p. 38.

24       P.V. Endokìmov, Teologia della bellezza, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1990, p. 62. “La bellezza naturale è reale, benchè fragile. Per questo al vertice dell’essere sta la bellezza personalizzata in un santo che diviene il centro ipostatizzato della natura quale ‘microcosmo’ e ‘microtheòs’”. 

25       G. Vannucci, Lo spazio di Cristo, in Ogni uomo è una zolla di terra, cit., p. 202 ; “lo spazio di Cristo è l’infinito tempo, l’infinito orizzonte, è il sempre oltre”. Questa radicalità assoluta spinge continuamente Vannucci a guardare oltre le forme di una peraltro ineludibile temporalità e dell’involucro storico diacronicamente assunto dalla parola; così ancora, “Gesù Cristo è il non-tempo, l’inesprimibile, il non-nominabile che le figure storiche cristiane hanno tradotto nel tempo, nelle ideologie, nelle morali, nelle istituzioni, dandogli delle espressioni e dei nomi”, “la crisi religiosa odierna investe tutte le densificazioni che il tempo ha creato attorno alla realtà non-temporale di Cristo”, (G. Vannucci, L’era dello spirito, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 1999, p. 107).

26       RE, p. 116.

27       p. 83.

 

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