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Giovanni della Croce e la notte oscura dell’anima 
FRANCO 
MICHELINI-TOCCI 
 
S. Teresa d’Avila e S. Giovanni 
della Croce formano la grande coppia mistica del Cinquecento spagnolo. Come la 
prima, anche il secondo sperimenta e insegna il metodo che porta alla quiete 
interiore e può essere considerato, in ambito cristiano, uno dei più grandi 
esperti di questa ricerca. 
 
Giovanni fu conquistato dalla 
grande personalità di Teresa quando aveva appena 25 anni, allorché si entusiasmò 
alle sue grandi idee di riforma dell’ordine carmelitano, secondo un programma di 
rinnovamento spirituale. L’anno seguente, il 1568 (Teresa aveva allora 53 anni), 
egli la segue a Valladolid dove assiste alla fondazione delle Carmelitane Scalze 
e tale è il suo trasporto di discepolo che dopo pochi mesi riesce ad infondere 
lo stesso entusiasmo in un gruppo di compagni, coi quali fonda il primo convento 
dell’ordine maschile. Cinque anni dopo il loro primo incontro, è Teresa a farsi 
in un certo senso discepola di Giovanni, del quale riconosce l’alto valore 
spirituale. Ella lo nomina vicario del monastero dell’Incarnazione di cui è 
priora e lo sceglie come suo confessore. In seguito Giovanni subirà la 
persecuzione da parte dell’ordine non riformato, soffrirà la prigione per otto 
mesi durante i quali comincerà a comporre i suoi poemi spirituali, e dopo la 
fuga e la riconquistata libertà avrà anche un non lungo periodo di successo per 
l’azione di riformatore e per i ruoli di responsabilità assunti. Seguiranno poi 
nuove ostilità e persecuzioni, anche da parte dei confratelli da lui giudicati 
troppo severi nell’imporre regole alle Scalze, ostilità che lo accompagneranno 
fino alla morte prematura a 49 anni. Otto anni prima era morta Teresa. 
I due grandi mistici carmelitani 
dominano l’ambiente spirituale del Cinquecento non soltanto in Spagna. Dopo di 
loro la storia della mistica cristiana entra in una fase nuova che si concluderà 
solo un secolo dopo con la condanna del quietismo da parte della Chiesa e la 
virtuale fine del misticismo cristiano, che solo di recente accenna ad una 
timida rinascita sotto l’influenza dell’Oriente, rinascita contrastata sì dalla 
Chiesa ma, almeno finora, con non troppa efficacia. 
Le due grandi personalità 
carmelitane, pur essendo legate da un’intensa ed amorosa amicizia, erano molto 
diverse tra loro. Irruenta e passionale Teresa, dolce e delicato Giovanni, ma 
diversi anche nel modo di procedere lungo il cammino spirituale. Giovanni non si 
sofferma troppo sulle pratiche concentrativo-estatiche e anzi parla degli 
effetti di esse come di cose che riguardano i principianti e che scompaiono col 
progredire della pratica spirituale. In termini buddhisti si potrebbe dire che 
Teresa è soprattutto un’esperta di samatha (concentrazione pacificante), 
anche se di essa si serve per giungere al vertice dell’esperienza unitiva, e 
Giovanni, che pure parte da samatha, è invece un esperto di vipassana, 
cioè dell’intuizione della natura ultima dell’essere. 
In una rapida esposizione dei suoi 
principali insegnamenti, seguiamo la tradizionale suddivisione, cara all’autore, 
nelle tre tappe rispettivamente dedicate ai principianti, ai proficienti e ai 
perfetti.
 
 
Principianti 
Il primo sottile ostacolo con cui 
dovrà misurarsi un principiante riguarda non tanto i suoi difetti o le sue colpe 
più gravi, che si presumono rare e facilmente individuabili, quanto piuttosto le 
piccole distrazioni dal cammino che passano inosservate proprio perché abituali. 
Tra queste Giovanni enumera il parlar molto, l’attaccamento alle persone, al 
vestire, alla residenza (la cella nel caso di un frate), al mangiare, alla 
curiosità di informarsi, di udire, ecc. 1 Questi attaccamenti, in sé 
non gravi, fanno tuttavia sì che il discepolo non progredisca, ma anzi 
regredisca, perché perde progressivamente interesse per ‘le cose celesti’ 2, 
ossia per l’unità con l’Assoluto. Se invece l’interesse fondamentale si 
mantiene, esso ha come conseguenza quella di introdurre il discepolo in una fase 
decisiva del percorso che Giovanni chiama, con un’espressione diventata famosa,
notte oscura. 
Il termine notte oscura non è 
inventato da Giovanni, anche se è lui a fornirgli diffusione e fama, ma è 
ripreso dalla tradizione mistica, in particolare da Gregorio Nisseno, dallo 
Pseudo-Dionigi e da Taulero. Tuttavia fu Giovanni della Croce ad attribuirgli 
quel valore centrale che ne fa l’espressione sintetica dell’esperienza mistica. 
Su di essa ci sono vari fraintendimenti, il più frequente dei quali è quello di 
identificare notte oscura con sofferenza e nient’altro, senza tener 
presente che l’espressione si riferisce invece a tutti i momenti dell’esperienza 
e quindi anche a quello culminante, quando diventa “notte pacifica, abissale e 
oscura intelligenza divina” 3, allorché l’anima si unisce a Dio 
“trasformata dall’amore”. Ma essa è notte, oltre tutto ciò, anche perché è il 
luogo dove agisce la fede, che procede nell’oscurità, cioè nella non conoscenza 
dell’obiettivo finale. Inoltre questa notte ha due modalità, che sono l’attiva e 
la passiva, la prima fatta di opportuni sforzi da parte dell’interessato, la 
seconda data per grazia. Si tratta dunque di una progressiva trasformazione, che 
è una purificazione del soggetto, il quale perde uno dopo l’altro i suoi 
attaccamenti ai sensi e alle facoltà psichiche (intelletto, immaginazione e 
desiderio). Questa trasformazione purificante è di notevole interesse 
psicologico, perché il suo punto di partenza, sul quale poi si basa tutto il 
successivo sviluppo, consiste nel pratico riconoscimento che ogni desiderio è 
ingannevole, nel senso che nemmeno il desiderio realizzato riesce mai ad essere 
completamene o definitivamente appagante. Il graduale raggiungimento di questa 
basilare convinzione (così contraria al comune sentire) determina quella che 
sopra chiamavamo ‘purificazione passiva’. Si tratta di un processo doloroso, in 
cui gli oggetti del desiderio perdono progressivamente significato, rivelando la 
loro sostanziale insoddisfacenza (è quello che nel buddhismo va sotto il nome di 
‘prima nobile verità’ o riconoscimento di dukkha, la sofferenza 
universale). Dall’analisi accurata che l’autore fa di tutte le illusioni e gli 
errori in cui può cadere un principiante, si capisce che per Giovanni l’ultima 
illusione che deve cadere è quella che il cammino mistico possa diventare 
l’unico desiderio con promesse di appagamento, una volta che tutti gli altri si 
sono rivelati ingannevoli. Anch’esso, il fine spirituale, deve quindi diventare 
una notte oscura, pena la sua fallacia; anch’esso deve deludere e non 
dare quello che all’inizio si sperava che desse. E proprio questo è il momento 
cruciale che è l’inizio della catarsi, il vero principio di un mutamento di 
rotta salvifico, perché solo in esso può generarsi la convinzione che tutte le 
attese sono fallaci e che l’unica realtà è il presente così com’è, nella sua 
nuda semplicità tranquillamente accettata, cioè contemplata con un semplice 
sguardo fiducioso-amoroso. Nel momento della rinuncia a ogni vana speranza (una 
deleteria passione dell’anima la definisce Giovanni) si può gustare un’autentica 
pace, che sembra anche l’unica possibile, perché solo in essa si è finalmente in 
unità con la vita (e dunque con Dio).
 
Una maestra spirituale Zen ha ben 
colto in un suo libro 4 l’affinità della notte oscura cristiana con 
la pratica buddhista della progressiva attenzione alla delusione derivante da 
qualunque oggetto di desiderio, satori compreso. 
Ma sentiamo come Giovanni descrive 
questo stato, riferendosi a chi ha cominciato a inoltrarsi nel percorso e ne ha 
già gustato qualche frutto: allora
 
il Signore ottenebra questa 
luce e chiude la porta, ed essi annegano in questa notte la quale li lascia 
tanto aridi che essi non trovano alcun gusto nelle cose spirituali e nelle 
devozioni in cui erano soliti trovare diletto e piacere, ma al contrario vi 
trovano disgusto e amarezza 
5… 
Non si può dire con certezza quanto duri… Quelli che hanno più capacità e forza 
per soffrire, vengono purificati dal Signore con maggiore intensità e prontezza, 
coloro invece che sono molto fiacchi, vengono condotti per questa notte a lungo 
con grande condiscendenza e con tentazioni deboli, poiché il Signore concede 
loro ordinariamente qualche sollievo al senso affinchè non tornino indietro; 
così essi giungono tardi… e alcuni non arrivano mai. Costoro non stanno né 
dentro né fuori di questa notte… 
6 
Si vede chiaramente che il disagio 
di costoro nasce dall’incapacità di sopportare nel modo giusto la durezza della 
notte. Perché l’alba finalmente si affacci non occorrono eroismi ascetici che, 
anzi, l’autore severamente condanna: 
è da deplorarsi l’ignoranza 
di coloro i quali si caricano di penitenze straordinarie e di molti altri 
esercizi volontari, persuasi che ciò sia sufficiente per giungere all’unione con 
la sapienza divina 7. 
Occorrerà invece sviluppare la 
capacità di contemplazione che, in modo apparentemente molto semplice, è 
descritta come un “rimanere quieti trascurando qualsiasi opera interiore ed 
esteriore e tenendo lontana ogni sollecitudine di fare qualche cosa” 8. 
In realtà si tratta di un suggerimento molto tecnico, che viene spiegato come un 
cessare da ogni ‘meditazione’ di tipo discorsivo (come sarebbe p. es. riflettere 
su un passo della Scrittura o altri simili esercizi in cui è coinvolto il 
pensiero) e restare fermi su un oggetto singolo e specifico, che nella 
fattispecie è la sensazione della presenza di Dio. 
Il modo da tenere nella 
notte del senso è che essi non si devono curare per niente di camminare 
servendosi del discorso e della “meditazione”, poiché ormai non ne è più il 
tempo… faranno molto se avranno pazienza e persevereranno nell’orazione senza 
far niente… lasciare libera l’anima, sgombra e aliena da ogni notizia e 
pensiero… contentandosi solo di avere un’avvertenza amorosa e tranquilla di Dio… 
La contemplazione infatti non è altro che un’infusione segreta, pacifica e 
amorosa di Dio 9.
 
Proficienti 
In questa fase intermedia, continua 
il lavoro iniziale, non libero ancora da un certo sforzo, che è considerato 
essenziale, perché la successiva unione perfetta potrà aver luogo soltanto a 
seconda della disposizione che l’anima si è conquistata 10. Ma viene 
ulteriormente specificato che tale disposizione non si acquista con la 
molteplicità delle meditazioni discorsive, di particolari pratiche, o di 
sensazioni piacevoli. Anche se “si ricevono comunicazioni sublimi come quelle 
degli angeli” l’unica cosa importante è la pratica di rinunciare a se stessi, 
cioè ai propri desideri egocentrici 11. 
 
Ma, in particolare, la notte oscura 
(che qui assume il nome di notte oscura dello spirito) si manifesta in 
questa fase come un progressivo distacco da quelle che sono le tradizionali 
facoltà psichiche, cioè intelletto, memoria e volontà (o, detto più 
modernamente, pensiero, immaginazione e desiderio).
 
Il distacco dall’intelletto 
consiste nel perdere fiducia che esso possa arrivare a conoscere lo scopo finale 
coi suoi mezzi, anche se si tratti di rivelazioni, locuzioni o sentimenti e 
comunicazioni visionarie, che servono solo a fare insuperbire. L’antidoto perciò 
è la fede, cioè lo slancio fiducioso dell’anima, senza dati di conoscenza a cui 
affidarsi. E il rimedio pratico è sempre lo stesso: imparare “a starsene nella 
quiete con attenzione e avvertenza amorosa di Dio” 12. È questa la 
principale pratica suggerita dall’autore ai proficienti, ai quali sarà 
consigliato di abbandonare definitivamente la meditazione discorsiva, quando 
diventa da sé arida e priva di interesse. La nuova forma di meditazione, cioè il 
piacere di “starsene soli con attenzione amorosa in Dio, senza considerazione 
particolare, e in pace interiore, quiete e riposo” è in pratica quello che 
Giovanni intende per contemplazione: 
Quanto più l’anima si andrà 
abituando alla quiete, tanto più crescerà e si farà sentire in lei l’amorosa 
notizia generale di Dio, nella quale ella prova piacere più che in ogni altra 
cosa, perché le causa pace, riposo, sapore e diletto senza pena 
13. 
Quiete è la parola fondamentale che 
richiama la pratica di Teresa, ma anche la lotta che si scatenerà un secolo dopo 
nella chiesa cattolica contro il quietismo. Eppure in questa quiete, e nei doni 
che essa comporta, è racchiusa tutta la pratica di Giovanni, che a volte è cosa 
talmente delicata, a differenza dei rapimenti e dei voli di Teresa, che può 
essere addirittura inavvertibile, per quanto strano questo possa sembrare: 
È necessario sapere che la 
notizia generale di cui sto parlando, talvolta è così sottile e delicata, 
specialmente quando è più pura, più semplice, più perfetta, più spirituale e più 
interiore, che l’anima, quantunque sia occupata in essa, non la vede, né la 
sente. Ciò avviene massimamente quando essa è in sé più chiara, più perfetta e 
più semplice, caso che si verifica quando essa investe un’anima la quale, a sua 
volta, è più monda e più aliena da altre intelligenze e notizie particolari, a 
cui l’intelletto e il senso si potrebbero attaccare 
 14. 
Ma si tratta, come è evidente, di 
stati particolarmente avanzati, sui quali torneremo più avanti. 
Quanto alla facoltà psichica della 
memoria, che ha soprattutto a che fare con l’immaginazione e la fantasia, 
anch’essa sarà abbandonata allorché apparirà evidente la sua inadeguatezza a 
cogliere Dio. Qui l’antidoto sarà la virtù della speranza, perché ha la 
caratteristica di fondarsi non su quanto vede ma su quanto attende, e il rimedio 
pratico sarà il concentrarsi sull’ascolto, altra facoltà meditativa per 
eccellenza, “attendendo in silenzio a Dio”15. 
La “volontà” è la facoltà 
desiderativa, gli affetti, anch’essi inadeguati a cogliere l’Assoluto, perché 
ottenebrati dalle quattro passioni che, nel linguaggio di Giovanni, sono “gioia 
e dolore, speranza e timore” 16. A ben guardare, le quattro passioni 
possono essere ridotte a due che non sembrano troppo diverse dal “desiderio” e 
dall’“avversione” della dottrina buddhista. La speranza (che in quanto passione 
non ha evidentemente niente a che fare con l’omonima virtù teologale, di cui si 
è parlato poc’anzi) è desiderio e il timore è avversione, mentre gioia e dolore 
sono le immediate compagne della loro presenza. Passioni però sono esse stesse 
nel momento che a loro si indulga. Si ricordi, a questo proposito, l’espressiva 
metafora di Ajahn Chah riguardo al percorso spirituale. Dice questo noto maestro 
thailandese, da poco scomparso, che la vita conduce naturalmente verso la 
liberazione, come il fluire della corrente di un fiume porta un tronco verso il 
mare anche senza che esso lo voglia, ma che a ciò si oppongono due ostacoli, 
cioè la possibilità che il tronco si areni sulla riva destra o sulla sinistra e 
queste due rive ostacolanti il naturale processo sono appunto l’indulgere alla 
gioia e l’indulgere al dolore 17. Ma per tornare agli affetti, alla 
cosiddetta “volontà”, essa ha come antidoto la carità, che consiste nell’amare 
quanto Dio ama, cioè quanto la vita offre, senza più essere attratto dalle 
preferenze individuali. A proposito delle quali, l’autore non tralascia 
occasione di sorridere di come si manifestino, tra gli spirituali, alcune di 
queste, che appaiono inutili e nocive. Nessuna particolare preferenza, egli 
dice, va accordata alle immagini sensibili, come quadri o statue, dato che “la 
persona veramente devota ripone principalmente la sua devozione nell’invisibile”
18. Se un’immagine è più miracolosa di un’altra, dice l’autore con 
spirito indipendente, ciò è dovuto alla devozione che vi si ripone. E continua 
dicendo che spesso sono più efficaci le immagini solitarie perché sono lontane 
dal chiasso e dalla moltitudine e perché “a causa del movimento necessario per 
andarle a vedere l’affetto cresce di più”. Così pure, i pellegrinaggi sono 
consigliabili solo quando sono solitari, e meglio se fatti in tempi non usuali.
 
Non consiglierei a recarvisi 
quando v’è la folla poiché, ordinariamente, in tal caso si torna più distratti 
di quando siamo partiti. Molti anzi si decidono a fare tali pellegrinaggi più 
per svago che per devozione 
19. 
Un interesse particolare meritano 
le caratteristiche della notte oscura in questa fase. Intanto questa, detta 
”dello spirito”, ha dei periodi di aridità del cuore e di sofferenza molto più 
duri di quella “del senso”, e si manifesta molti anni dopo essere entrati nello 
stato di proficienti. Questo significa dunque che vi è un lungo periodo di 
preparazione alla notte, nel quale si manifestano fenomeni di rilievo. Da un 
lato l’anima progredita ha meno difficoltà, anzi ha facilità, a immergersi 
subito in una contemplazione “molto serena e amorosa” trovando “sapore 
spirituale senza la fatica del ragionamento”. Dall’altro 
 
non le mancheranno mai 
alcune prove, aridità, tenebre e angustie talora molto più intense di quelle 
passate che sono come presagio e annunzio della notte dello spirito che sta per 
venire 20. 
Si aggiungano a tutto ciò disagi 
fisici, che sono la conseguenza dell’inadeguatezza del corpo alla forza dello 
spirito, quali debolezza di stomaco, deperimento, fiacchezza. Ma è interessante 
che alla stessa stregua Giovanni metta quei fenomeni che sono generalmente 
considerati manifestazioni di stati speciali, come le estasi (elencate assieme 
agli svenimenti e agli slogamenti delle ossa). Ciò non accade ai perfetti, che 
sono stati purificati dalla notte dello spirito. “In essi cessano le estasi e i 
tormenti del corpo” 21. L’estasi non ha dunque alcun valore in sé, 
mentre ha valore la quiete dello stato contemplativo che, come diremo, apre la 
strada alla suprema intuizione dell’Essere, come già in Teresa. E anche a questo 
proposito può essere utile un riferimento ad Ajahn Chah, là dove parla del 
“cattivo” samadhi, che è tale appunto perché fine a se stesso e non 
strumento per giungere alla visione profonda (vipassana) 22. 
Non deve credersi tuttavia, come si 
diceva all’inizio, che la notte sia sinonimo di sofferenza e nient’altro. Essa, 
certo, dura alcuni anni, prima di cessare nello stato di perfezione, ma anche 
mentre dura 
vi sono intervalli di 
sollievo, durante i quali la contemplazione oscura… tralascia di investire 
l’anima in modo purificativo per investirla in maniera illuminativa o amorosa
23.
 
Si parla anche di “effetti gustosi”
24 e si dice addirittura che, durante il percorso, all’anima 
Dio concede spesso e molto 
ordinariamente la gioia, visitandola saporosamente e dilettevolmente nello 
spirito 25. 
Perfetti 
L’appartenenza a quest’ultimo e più 
alto grado è caratterizzata principalmente da due condizioni. La prima riguarda 
l’intelletto, ed è sempre una forma di notte oscura, anche se molto diversa 
dalle precedenti; l’altra riguarda il cuore, che è pervaso dall'amore. 
 
La notte qui è tale soltanto 
perché, essendo ormai vuota di contenuti la mente, la luce non è riflessa da 
nulla e perciò appare invisibile ed oscura. Si tratta dunque, per così dire, di 
una luce tenebrosa. All’atto pratico, questo significa che la persona non si 
accorge di niente, che non ha, cioè, alcuna fruizione di stati di essere 
speciali: “sa soltanto di essere al buio”. Ma ecco la rilevante particolarità: 
quando la luce spirituale da 
cui l’anima è investita trova qualcosa in cui riverberarsi, cioè quando le si 
offre di intendere qualche perfezione o imperfezione spirituale o da fare 
qualche giudizio intorno al falso e al vero, allora ella intende e vede molto 
più chiaramente di quanto non vedesse e intendesse prima di trovarsi in quelle 
tenebre …Con grande facilità e universalità conosce e penetra qualunque cosa 
divina o terrena che le si offra 
26. 
Ma siccome “Dio non dà mai la 
sapienza mistica senza l’amore dal quale viene infusa” 27, ecco 
allora che il cuore è pervaso d’amore, che si impadronisce di lui come il fuoco 
si impadronisce progressivamente del legno 28. Si tratta di un amore 
infuso, cioè passivo, in cui “l’unica azione che l’anima deve compiere è quella 
di dare il proprio assenso” 29. 
Giovanni dedica ben due delle sue 
opere, il Cantico spirituale e la Fiamma viva d’amore, a 
descrivere lo stato della pienezza dell’esperienza mistica. Qui di seguito 
elencherò solo alcune delle caratteristiche principali di questo stato. 
1. Nell’unione d’amore o matrimonio 
spirituale si raggiunge l’identità tra l’amante e l’amato. A ciò allude S. Paolo 
col famoso : “Non sono io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal.2, 20). “Chi 
in vita raggiunge quest’abbozzo di trasformazione è veramente felice” 30. 
2. Quiete interiore e intuizione 
profonda (non molto diversamente da samatha e vipassana) sono 
concepite, nella giusta forma, come un’unità: “Nel sonno spirituale… l’anima è 
pervasa e gusta la calma, il riposo e la quiete della notte pacifica, e insieme 
riceve un’abissale e oscura intelligenza divina” 31. Si noti come la 
“notte oscura” abbia qui lasciato il passo alla “notte pacifica”. 
3. “La grande stabilità dell’anima 
in questo stato… non prova né dolore né afflizione. Ella non ha neppure la 
compassione, cioè la pena propria di quella virtù, sebbene ne possegga le opere 
e la perfezione. Infatti ora le manca ciò che di fiacco c’è nelle virtù, e le 
rimane invece quanto c’è di forte, di costante e di perfetto” 32. 
4. L’anima non teme più ormai le 
esperienze dolorose e anzi le accoglie, o addirittura le desidera, come 
manifestazione della volontà divina, con la quale è identificata, e non della 
propria, che non esiste più. La sofferenza, a questo punto, è solo “un mezzo per 
penetrare maggiormente nel folto della dilettevole sapienza di Dio” 33. 
5. Infine, come già si è detto, il 
mistico realizzato possiede pienamente una “sapienza tranquilla” grazie alla 
quale ha la facoltà di penetrare con chiarezza tutti i grandi misteri 
dell’essere, dall’unione tra uomo e Dio all’armonia tra giustizia e misericordia
34 e, cosa grande tra le grandi, al vedere il tutto in unità 35. 
 NOTE 1. S. Giovanni della 
Croce, Salita del Monte Carmelo, in Opere, Roma 1998, p. 51. 2. Ivi, p. 53. 3. Cantico 
spirituale, in Opere, p. 587, v. avanti. 
 4. Ch. J. Beck, 
Nothing Special. Living Zen, Harper, San Francisco 1993, tr. it. Niente 
di speciale. Vivere lo Zen, Ubaldini, Roma 1994, p. 40. 5. Notte oscura, 
in Opere, p. 373. 6. Ivi, p. 398. 7. Salita, p. 
40. 8. Notte, p. 
377. 9. Ivi, p. 382. 10. Salita, p. 
231. 11. Ivi, p. 91. 12. Ivi, p. 114. 13. Ivi, p. 118. 14. Ivi, p. 122. 15. Ivi, p. 235. 16. Ivi, p. 260. 17. A. Chah, I 
maestri della foresta, Ubaldini, Roma 1989. 18. Salita, p. 
316. 19. Ivi, p. 319. 20. Notte, p. 
399. 21. Ivi, p. 401. 22. A. Chah, op. cit. 23. Notte, p. 
416. 24. Ivi, p. 439. 25. Ivi, p. 463. 26. Ivi, p. 421 s. 27. Ivi, p. 436. 28. Ivi, p. 429. 29. Ivi, p. 433. 30. Cantico, p. 
565. 31. Ivi, p. 587. 32. Ivi, p. 618. 33. Ivi, p. 700. 34. Ivi, p. 702. 35. Ivi, p. 589 s. http://digilander.libero.it/Ameco/sati022/franco.htm 
 
 
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