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La mistica speculativa di 
Meister Eckhart (Alberto Gerosa) 
 
  
	
		La figura e la meditazione di Meister Eckhart (Hochheim, 
		Turingia 1260 ca. - Colonia 13271)) 
		appartengono al milieu geografico e culturale della Renania e 
		della città di Colonia. Qui era nato e aveva insegnato Alberto Magno; si 
		comprende quindi facilmente perché in quest’area geoculturale 
		l’aristotelismo dominante a partire dai primi decenni del XIII secolo e 
		la “teologia razionale” da esso derivante —massimo esponente della quale 
		è Tommaso d’Aquino— furono sempre temperati da una forte connotazione 
		neoplatonica. 
		Una simile connotazione diede presto vita ad una corrente di pensiero 
		mistico-speculativa, in cui l’indagine razionale su Dio e sul rapporto 
		tra la divinità e l’uomo è volta ad evidenziare e a ribadire la totale 
		alterità di Dio rispetto a tutte le determinazioni della sfera umana. 
		L’opera di Eckhart in particolare è un grandioso tentativo di fondazione 
		della fede attraverso la riscoperta del divino che si nasconde nel fondo 
		dell’anima dell’uomo; una riscoperta la cui necessità viene 
		esaustivamente argomentata con i mezzi del discorso filosofico. 
		Ma come può l’uomo, immerso nel caos di un’esistenza determinata —e 
		quindi finita— ritrovare Dio in sé? Eckhart risponde che ciò è possibile 
		mediante la pratica del «distacco» («Abgeschiedenheit»2). 
		Ho fatto uso del termine “pratica” in quanto il distacco —come fra poco 
		si vedrà— è un’esperienza tutt’altro che teoretico-osservativa, nella 
		misura in cui con quest’ultima espressione si intendano la percezione e 
		la conoscenza intellettuale di immagini e contenuti determinati. Al 
		contrario, il distacco consiste proprio nel rimuovere qualsiasi dato 
		poiché esso, per quanto grande, puro o nobile sia, è pur sempre limitato 
		dal suo essere situato all’interno di determinate coordinate 
		spazio-temporali, il che significa che esso è sempre, inesorabilmente 
		finito. Dio è invece infinito per definizione, al di sopra dello 
		spazio e del tempo. Chi rimane legato a qualsivoglia contenuto non potrà 
		quindi divenire mai simile a Dio, né tantomeno diventare uno con Dio, 
		come afferma ripetutamente Eckhart. Il Maestro tedesco sostiene che 
		persino «le rappresentazioni religiose biblico-cristiane, le “storie 
		della salvezza”, i “disegni divini” […], devono assolutamente 
		sparire»3. 
		Anche questo, infatti, costituisce un fraintendimento e —cosa ancor più 
		grave— un insulto nei confronti dell’infinita natura divina. Un simile 
		insulto non può neppure giustificarsi con l’involontarietà: l’equivoco 
		di scambiare Dio con il Sommo Oggetto è infatti secondo Eckhart tutt’altro 
		che ingenuo, dal momento che dietro all’impulso di oggettivare Dio si 
		nasconde sempre il desiderio più o meno inconscio di avere a 
		disposizione un idolo, un feticcio dotato di poteri taumaturgici in 
		grado di esaudire le richieste dei credenti in cambio di preghiere o di 
		sacrifici. Dio assume in tal modo la fisionomia del Padre Misericordioso 
		e del Gran Faraone al tempo stesso, che dà e toglie a suo piacimento e 
		che quindi il fedele deve solo sperare di ingraziarsi mediante rituali 
		codificati che si riducono alla mera esteriorità, senza toccare 
		minimamente la dimensione più riposta dell’anima, quella della vera 
		spiritualità. Il Dio-Faraone rappresenta quindi il garante della 
		degenerazione della vera morale —che coincide con la vera conoscenza del 
		divino— nella cosiddetta «morale retribuzionistico-ragionieristica»4, 
		che calcola secondo il principio di scambio gli atti propiziatori 
		da compiere per ottenere i favori del Signore. Il bersaglio polemico di 
		Eckhart sono tutte le religioni positive, e l’Antico Testamento in 
		particolar modo. È inevitabile rilevare l’estrema affinità tra la 
		disamina eckhartiana delle religioni positive come camuffamento dei 
		bisogni più prosaici degli uomini e le teorie nietzscheane 
		rispettivamente sulla morale giudaico-cristiana come morale del 
		ressentiment e sul Cristianesimo come volontà di potenza 
		dissimulata, nonché le riflessioni di Heidegger su Dio identificato con 
		quell’Entissimo (o Super-Ente) che solo può garantire la stabilità degli 
		enti mondani e la loro totale utilizzabilità da parte dell’uomo e dei 
		suoi mezzi scientifico-tecnici. 
		Colui che abbia invece la forza di distaccarsi da qualsiasi contenuto 
		determinato, facendo opera di rimozione crea spazio affinché Dio venga 
		finalmente a risiedere in lui. Per confermare tale asserto con 
		l’autorità del Vangelo, Eckhart si cimenta in una esegesi molto 
		neoplatonizzante dell’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio ad 
		opera di Gesù (Mt 21,12): seguendo infatti la dottrina di Porfirio, che 
		insegna che il nous, l’intelletto, è il neos, il tempio di 
		Dio5, 
		Eckhart afferma nel suo sermone Intravit Iesus in templum et coepit 
		eicere vendentes et ementes6 
		che «questo Tempio in cui Dio vuole regnare […] è l’anima 
		umana, che egli ha formata e creata perfettamente simile a se stesso…»7. 
		Chiunque pretenda, pur non essendo Dio, di ritagliarsi un seppur piccolo 
		spazio all’interno del Tempio per condurvi i propri commerci e le 
		proprie attività personali; chiunque digiuni, vegli e preghi pensando 
		così di ricevere qualcosa in cambio dal Signore —il mercante è appunto 
		chi ragiona e agisce nella modalità del baratto!—, costui verrà cacciato 
		dal Signore. A questi mercanti Dio non deve nulla, perché tutto quello 
		che essi possiedono e commerciano appartiene già a lui. Quando Dio dà 
		qualcosa a qualcuno, lo fa solo per la sua grazia, mai per rispettare 
		“accordi commerciali”. 
		Eckhart è un radicale negatore dell’efficacia e del bene che possono 
		scaturire dalle opere nel tempo. Esse sono anzi destinate a «essere 
		annientate e perdute […]; neppure possono affatto giungere a Dio, 
		perché mai è arrivato a Dio il tempo e l’opera nel tempo»8. 
		Eckhart sostiene che le opere sono utili solamente se favoriscono il 
		distacco, ovvero se si autosopprimono dialetticamente in quanto 
		collocate nel tempo e nello spazio per favorire la liberazione dalle 
		cose del mondo e l’unione con Dio9. 
		Si potrebbe a questo proposito obiettare al Maestro tedesco che Dio, 
		compiendo l’atto chenotico di farsi uomo in Cristo, si è calato nello 
		spazio e nel tempo; quindi parrebbe che tali dimensioni, seppure non 
		essenziali in Dio, non gli siano tuttavia estranee. Se ciò è vero, 
		allora anche le opere che gli uomini compiono nello spazio e nel tempo 
		possono giungere a Dio. Sebbene poi lo spazio e il tempo siano categorie 
		inficiate dal non essere (ogni spazio è determinato e finito, mai 
		conchiuso e perfetto come Dio, mentre il tempo dilegua continuamente nel 
		nulla), entrambi rimangono pur sempre creature di Dio. Asserire che una 
		creatura di Dio gli sia totalmente estranea è quindi alquanto 
		problematico. 
		Si è detto che il Tempio del Signore è l’intelletto, il nous: 
		strumento principe dell’intelletto è infatti la dialettica, 
		ovvero l’unico procedimento in grado di “fare il vuoto” negando i 
		contenuti in virtù della sua natura dinamica e, quindi, di cogliere la 
		sostanziale falsità di tutte le determinazioni «in quanto incapaci di 
		comprendere il [proprio] contrario»10. 
		Come dice Eckhart, «l’anima che sta nella luce dell’intelletto non sa 
		più niente dei contrari»11: 
		in tal modo essa si eleva alla luce dello spirito, avendo superato la 
		dimensione dell’attaccamento ai contenuti e dell’unilateralità dell’Io 
		psicologico. Dico “unilateralità” perché l’anima che si identifica 
		erroneamente con l’Io psicologico-empirico riconosce come veri e buoni 
		solamente i contenuti e le determinazioni che potenziano il proprio 
		essere nell’esistenza storica, separando in base a tale criterio 
		manicheamente il Bene dal Male, il Giusto dall’Ingiusto, senza rendersi 
		consapevole dell’equivalenza —o meglio, ambivalenza— delle cose, della 
		quale il solo approccio dialettico-speculativo è in grado di rendere 
		coscienti. 
		Eckhart attinge soprattutto al Vangelo di Giovanni per spiegare questo 
		punto fondamentale del suo pensiero: «Voi giudicate secondo la carne; 
		io non giudico nessuno» (Gv 8,15)12. 
		“Giudicare secondo la carne” significa esprimere giudizî secondo il 
		punto di vista dell’Io empirico; simili giudizî sono menzogne —a questo 
		proposito fa riflettere l’assonanza tra il verbo ‘mentire’ e il 
		sostantivo ‘mente’, quest’ultima intesa come veicolo intellettuale della 
		volontà individuale13—, 
		poiché in verità sono solo strumenti di affermazione della volontà 
		personale nelle vesti di criteri oggettivi di valutazione. 
		Se ci si eleva al di sopra della dimensione della «filopsichia»14, 
		dell’attaccamento allo psicologico, per giungere alla dimensione 
		spirituale-dialettica, si perverrà ad una regione in cui non esiste più 
		“ciò che è buono” contrapposto a “ciò che è cattivo”; lì il Bene non si 
		distingue dal Male e non è possibile discernere il Vero dal Falso. 
		Infatti, nella regione dello Spirito tutto è ugualmente vero (il che 
		significa che tutto è nello stesso tempo parimenti falso). L’uomo 
		spirituale non esprime condanne morali perché è consapevole che tutto 
		ciò che accade avviene per una intrinseca, insondabile necessità: «in 
		omni opere, etiam malo, malo inquam tam poenae quam culpae, manifestatur 
		et relucet aequaliter gloria dei»15. 
		Abbiamo già ampiamente accennato alla dimensione dello Spirito come fase 
		più alta e più vera rispetto alle ristrettezze dell’Io e della volontà 
		personale; vediamo ora di comprendere cosa esattamente Eckhart intenda 
		con il concetto di “Spirito”. Lo Spirito è quel non-luogo in cui ogni 
		“perché” non ha più senso; esso è vuoto di qualsivoglia contenuto e 
		quindi al di là dello spazio e del tempo. Esso solo è suscettibile di 
		ricevere la luce divina e, cosa ancor più straordinaria, di diventare 
		tutt’uno con il fluire della vita di Dio. Esso è l’autentico «fondo 
		dell’anima» («apex mentis»), o «scintilla», o «piccolo 
		castello»16, 
		quel Grund ossia fondamento che è tuttavia Abgrund, 
		abisso, poiché il fondamento è tale solo in quanto è ciò che non è 
		nessuna determinazione o contenuto finito o creatura. 
		Solo nel fondo dell’anima è possibile la cosiddetta «generazione del 
		Verbo», la nascita del Figlio all’uomo che rende l’uomo tutt’uno con 
		Dio17. 
		Non si commetta il macroscopico errore di fraintendere il fondo 
		dell’anima con la parte oscura e non cosciente della vita del soggetto 
		individuale, ovvero con quell’istanza che la psicoanalisi freudiana ha 
		posto come causa principe di qualsiasi comportamento e azione: 
		l’inconscio. Il fondo dell’anima è quanto di più lontano si possa 
		immaginare da ciò: infatti, mentre l’inconscio è il dominio 
		dell’irrazionalità del pulsionale, l’«apex mentis» eckhartiano è 
		la condizione della totale intelligibilità, dell’assoluta chiarezza 
		derivante dalla piena comprensione. L’uomo spirituale conosce 
		diversamente dall’uomo esteriore: la sua conoscenza è infatti assoluta e 
		supera quella di tutte le creature allo stesso modo in cui la conoscenza 
		del “bianco” da parte di chi possiede come essenza la “bianchezza” 
		supera quella di chi conosce il “bianco” solo in base agli oggetti di 
		tale colore che ha visto18. 
		L’«apex mentis» si identifica anche con l’Amore, dal 
		momento che la comprensione, che è possibile solo nel fondo dell’anima, 
		risolve l’opposizione dei contrari e, come il sole che «sorge sopra i 
		malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,45), si rivolge con pari tenerezza 
		sia ai “buoni” che ai “cattivi”, consentendo in tal modo la 
		conciliazione tra l’altro da Dio e Dio, tra il finito e l’infinito, tra 
		il Male e il Bene19. 
		Poiché è “Comprensione” e “Amore”, il fondo dell’anima si identifica 
		anche con la vera Vita. “Vivo” è infatti tutto ciò che si muove da sé; 
		ora chi è attaccato alle creature e alle determinazioni spazio-temporali 
		dipende da altro, è alienato, ed è da considerare non-vivo nella misura 
		in cui è mosso dall’esterno e non dall’interno. Ma poiché chi ama non 
		con l’amore dell’Io psicologico, ma con quello dello Spirito, ama di un 
		Amore disinteressato, non già di una passione che lo vincola a certe 
		cose o persone e lo respinge da altre —Eckhart sostiene che «se il 
		Logos è nato in te, non ti turbi neanche vedendo uccidere tuo padre»20—, 
		egli, anziché uscire da sé per avvicinarsi alle creature e soffrire 
		della dipendenza da esse, rimarrà in sé, perché saranno le creature 
		stesse a venire a lui. Solo chi vive nella dimensione dello Spirito può 
		quindi comprendere, amare e vivere veramente. Solamente in lui Dio trova 
		spazio per prendere dimora; solo in lui Dio, che è Amore, opera quell’atto 
		di tenerezza che è la generazione del Figlio, e solo in lui tale 
		processo dialettico genera lo Spirito che procede dal Padre e dal 
		Figlio. 
		Finora abbiamo parlato di “Dio”: in verità sarebbe meglio fuggire a ogni 
		tentazione di rendere Dio un’entità positiva —come è il caso di diverse 
		religioni— sostituendo, come fa Eckhart, il nome «Gott» (in 
		tedesco, ‘Dio’) con il più indeterminato concetto di «Gottheit» 
		(‘divinità’) o, ancor meglio, il nome ‘Dio’ con «Uno»21 
		(l’influsso del Neoplatonismo sull’adozione di questo termine da parte 
		di Eckhart è evidente). L’Uno, in quanto opposto per definizione al 
		molteplice, è ciò che sfugge ad ogni tentativo di de-finizione e 
		de-terminazione. Di conseguenza, “Uno” è la parola esprimente la natura 
		divina che più si avvicina alla concezione eckhartiana di Dio. Il 
		Maestro tedesco cita la frase di san Paolo: «Un Dio e Padre di tutti», 
		sostenendo che essa significa che «Dio è uno in sé stesso e separato 
		da tutto»22, 
		persino da quella paroletta ‘è’ che lo stesso san Paolo omette al fine 
		di esprimere nel modo più irrelato possibile la natura divina. Eckhart 
		respinge invece l’equivalenza tomistica di Dio con l’Essere e la 
		conseguente dottrina dell’analogia tra Dio e le creature. È 
		facile capire le ragioni di un simile rifiuto se si riflette su quanto 
		finora considerato, ossia sull’avversione che il Maestro tedesco nutriva 
		nei confronti di qualsiasi tentativo di oggettivare Dio. Eckhart 
		interpreta in modo molto particolare la celeberrima risposta del Signore 
		interrogato sulla sua identità da Mosè sul monte Sinai: «Ego sum qui 
		sum» (Esodo 3,14)23, 
		che proprio Tommaso d’Aquino aveva addotto per confortare le sue tesi su 
		Dio come «actus essendi». Eckhart sostiene invece che tale frase 
		non significa: «Io sono l’Essere», bensì: «Io sono quel che 
		sono», ed è da intendersi come tipica formula tautologica e vuota di 
		chi vuole mantenere celata la propria identità. Dio, spiega Eckhart 
		nella Questione Parigina 1, è prima «Pensare» che «Essere»; il 
		Maestro tedesco argomenta infatti che, essendo Dio uno e semplice, e 
		poiché il pensare è un atto che permane in sé stesso, allora l’essenza 
		di Dio deve coincidere con il pensare. Riguardo invece all’esistenza di 
		Dio, essa si identifica con la sua essenza, dal momento che in Dio non 
		vi sono accidenti. Secondo Eckhart, Dio non pensa perché è, ma è perché 
		pensa. Eckhart cita in proposito le autorevoli parole del Vangelo di 
		Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e 
		Dio era il Verbo» (Gv 1,1) —laddove con “Verbo” si deve intendere, 
		conformemente all’originale greco ‘logos’, quel “discorso 
		manifestante” i cui nessi col Pensare sono stati in tempi più recenti 
		illustrati in modo particolarmente efficace dalla riflessione di Martin 
		Heidegger— e «Io sono la verità» (Gv 14,6). Eckhart commenta 
		queste frasi dicendo che la verità appartiene non già all’ente, bensì 
		all’intelletto, dal momento che la verità implica sempre una 
		relazione24 
		(come afferma lo stesso Aristotele in Metaf. VI, t. 8). Ora la 
		relazione, sebbene abbia natura intellettuale, riceve consistenza reale 
		nel momento in cui l’anima la rende una categoria, proprio come è 
		il caso del tempo che, ricevendo il proprio essere dall’anima, si 
		configura come «modo della quantità», ovvero come categoria del 
		reale25. 
		È sorprendente l’affinità tra questa tesi eckhartiana sull’intelletto 
		come creatore di realtà e le teorie kantiane sull’intelletto come 
		“legislatore” dell’universo. Eckhart fa menzione di un altro passo del 
		prologo del Vangelo giovanneo, quello che afferma che «tutte le cose 
		sono state fatte per mezzo di lui» (Gv 1,3): secondo il Maestro 
		tedesco, la lettura corretta di questa frase sarebbe: «tutte le cose 
		fatte per mezzo di lui, sono». Quindi, mentre Dio è Pensiero, le 
		cose, in virtù della loro qualità primaria, la «creaturalità»26 
		ovvero la loro condizione di enti creati, coincidono con l’Essere. Forti 
		sono qui gli echi del neoplatonico Liber de causis (testo ben 
		conosciuto dagli studiosi della Scuola di Colonia), nel quale si afferma 
		che «prima rerum creatarum est esse». È facile comprendere a cosa 
		miri Eckhart operando una così netta distinzione tra Pensiero ed Essere, 
		tra la natura intelligibile di Dio e quella “ontica” delle creature: 
		egli intende vanificare qualsiasi tentativo di pensare Dio mediante il 
		tomistico principio di analogia, e quindi di attribuirgli qualsivoglia 
		connotazione determinata. 
		Colui che voglia rinvenire Dio nonostante questa abissale e 
		apparentemente incolmabile distanza, l’«uomo nobile»27 
		—come Eckhart lo definisce citando il passo del Vangelo: «Un uomo 
		nobile partì per un paese lontano per ottenere un regno, e poi tornò» 
		(Lc 19,12)—, deve morire al corpo, all’«uomo esteriore»28 
		attaccato al mondo e alle creature, per poter finalmente approdare alla 
		dimensione dello Spirito, ovvero alla dimensione dell’«uomo interiore» 
		che coincide con «il seme di Dio per diventare Dio» (1 Gv 3, 9). 
		L’uomo interiore non ha più nessun contatto con le creature, quindi la 
		sua natura è pura come quella divina. Il contatto con le creature, anche 
		le più nobili, è sempre dannoso per lo spirito. Eckhart cita il 
		Cantico dei Cantici per conferire forza metaforica al suo asserto: «Non 
		fate caso al mio colore scuro […] io sono bella e ben fatta, ma 
		il sole mi ha abbronzato»29. 
		Ciò prova, secondo Eckhart, che lo stesso sole, principio vivificante 
		per gli uomini e le creature, «nasconde e scolorisce l’immagine di 
		Dio in noi»30. 
		Nel sermone Intravit Iesus in quoddam castellum…31 
		Eckhart paragona l’uomo interiore o spirituale a una vergine32, 
		la cui illibatezza consiste nel non essere contaminata da alcuna 
		immagine. Tuttavia, rispetto a Dio lo spirito di un simile uomo si deve 
		piuttosto definire «donna»33, 
		poiché esso e solamente esso gode di quella meravigliosa fecondità che 
		consente di generare il Figlio in un sé che è divenuto uno con il Padre 
		e di dimorare con lui in un’unica luce che trascende ogni spazio e ogni 
		tempo, diffondendosi in un eterno eppur sempre nuovo “ora”34. 
		La via indicata da Eckhart è, come risulta da ciò che si è detto in 
		questo elaborato, quella della povertà interiore, quella di chi «niente 
		vuole, niente sa, niente ha»35, 
		di chi ha fatto il vuoto fuori e dentro di sé nell’attesa di ricevere il 
		Signore. È forse proprio questa la chiave per comprendere le sibilline 
		parole di Gesù: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma 
		chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 17,3) e: 
		«Chi odia l’anima sua in questo mondo, la conserva per la vita eterna» 
		(Gv 12,25)36. 
		Questo è il messaggio più profondo dell’insegnamento eckhartiano; un 
		messaggio particolarmente attuale nell’epoca in cui viviamo, in cui 
		sembra che l’uomo, perso tra le cose futili e le distrazioni, non riesca 
		più a tornare a sé e alla vera spiritualità. Il mondo di oggi è secondo 
		alcuni governato dal principio della prestazione: tutto ciò che 
		si fa è in funzione di un determinato fine o, meglio, di un determinato 
		utile. In altri termini, ogni azione da noi compiuta deve sempre essere 
		in grado di giustificarsi davanti alla domanda: “perché?” 
		Chiudo questo mio elaborato con un bellissimo passo eckhartiano che 
		propone un’alternativa più nobile e umana al modo di vivere 
		disumanizzante che la civiltà ha assunto come modello da ormai diversi 
		secoli: «Se qualcuno chiedesse per mille anni alla vita: “perché 
		vivi?”, ed essa potesse rispondere, non direbbe altro che: “io vivo 
		perché vivo”…e se si chiedesse a un uomo vero, che opera dal suo fondo 
		proprio, “perché operi le tue opere?”, se questi dovesse rispondere 
		correttamente, non dovrebbe dire altro che: “io opero perché opero”, e 
		se tu gli chiedessi “perché vivi?”, risponderebbe: “non lo so, ma vivo 
		volentieri!”»37 
	 
 
	
		 
		 
		  
		NOTE 
		1 Per avere 
		notizie biografiche dettagliate su Eckhart cfr. la Notizia – La vita 
		e il processo di Maestro Eckhart, in: Maestro Eckhart, Trattati e 
		Prediche, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, Milano 1982, pp. 
		57-66. 
		2 Cfr. il trattato Il distacco, 
		in: Maestro Eckhart, Trattati e Prediche cit., pp. 
		171-184. 
		3 Marco Vannini, Mistica e Filosofia, 
		Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 41. 
		4 Come la definisce Pier Angelo Sequeri 
		nel saggio Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993, 
		passim. 
		5 Marco Vannini, Meister Eckhart e 
		il fondo dell’anima, Città Nuova, Roma 1991, p. 83 e: M. Vannini, 
		Mistica e Filosofia cit. Il passo di Porfirio sul nous 
		come neos di Dio si trova nelle Lettere a Marcella, cap.19 
		(ed. Les Belles Lettres, Paris 1982, p. 117). 
		6 In: Meister Eckhart, Opere 
		tedesche, a cura di Marco Vannini, La Nuova Italia, Firenze 1982, 
		pp. 123-129. 
		7 Ibid., p. 123. 
		8 Dal sermone Mortuus erat et 
		revixit, in: Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di 
		Marco Vannini, Milano 1985, p. 121. 
		9 Cfr. ibid., pp. 119-125. 
		10 M. Vannini, Mistica e Filosofia
		cit., p. 41. 
		11 Meister Eckhart, Opere tedesche
		cit., p. 177. 
		12 M. Vannini analizza 
		l’interpretazione eckhartiana di questa frase del Vangelo giovanneo alle 
		pp. 165-166 di Mistica e Filosofia cit. 
		13 Cfr. ibid., p. 40. 
		14 Ibid., p. 165. 
		15 Questa proposizione è la quarta di 
		quelle censurate dalla bolla In agro dominico, ovvero la bolla di 
		condanna nei confronti di Eckhart e della sua dottrina, pubblicata il 27 
		marzo 1329 ad Avignone da Giovanni XXII. Il testo della bolla è 
		riportato integralmente nel volume: Maestro Eckhart, Trattati e 
		Prediche cit., pp. 62-66. 
		16 Così Eckhart chiama il fondo 
		dell’anima nel sermone Intravit Iesus in quoddam castellum et mulier 
		quaedam, Martha nomine, excepit illum in domum suam, riportato da M. 
		Vannini nel volume Meister Eckhart e il fondo dell’anima cit., 
		pp. 135-141. 
		17 Dell’eterna nascita del Figlio 
		Eckhart parla nell’opera latina In Iohannem, n. 8. 
		18 Cfr. il trattato Dell’uomo nobile, 
		in: Meister Eckhart, Opere Tedesche cit., p. 53. 
		19 Cfr. i capitoli n. 5 e n. 6 del 
		saggio di M. Vannini, Mistica e Filosofia cit., in cui questi 
		concetti sono illustrati molto chiaramente mediante l’esposizione delle 
		forti analogie tra il pensiero di Eckhart e quello di Hegel, «massimo 
		filosofo cristiano [nella cui opera] la tradizione mistica 
		tedesca giunge a piena maturazione speculativa», pp. 98-136. 
		20 Dal sermone Videte qualem 
		caritatem, in: Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di 
		Marco Vannini, Milano 1991, p. 229. 
		21 Cfr. il sermone Intravit Iesus in 
		quoddam castellum…cit., pp.140-141. 
		22 Dal sermone Unus deus et pater 
		omnium, in: Maestro Eckhart, Trattati e Prediche cit., 
		pp. 285-291. 
		23 Eckhart espone la sua 
		interpretazione della frase dell’Esodo nella Questione 
		Parigina 1: Se in Dio siano lo stesso essere e pensare, tradotta da 
		M. Vannini in Meister Eckhart e il fondo dell’anima cit., 
		pp. 124-130. 
		24 Cfr. ibid., p. 125. 
		25 Cfr. ibid., pp. 125-126. 
		26 Cfr. ibid., p. 126. 
		27 Cfr. il trattato Dell’uomo nobile, 
		in: Meister Eckhart, Opere tedesche cit., pp. 45-55 e la 
		predica Homo quidam nobilis abjit in regionem longinquam accipere 
		regnum et reverti, in: Maestro Eckhart, Trattati e Prediche
		cit., pp. 253-258. 
		28 Meister Eckhart, Dell’uomo nobile
		cit., pp. 45-46. 
		29 Ibid., p. 50. 
		30 Ivi. 
		31 Cfr. nota n. 16. 
		32 Meister Eckhart, Intravit Iesus 
		in quoddam castellum…cit., p. 135. 
		33 Ibid., p. 136. 
		34 Ibid., p. 138. 
		35 Dal sermone Beati pauperes 
		spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum, in: Marco Vannini, 
		Meister Eckhart e il fondo dell’anima cit., pp. 141-148. 
		36 All’interpretazione di questa frase 
		Eckhart dedica l’omonimo sermone riportato in: Maestro Eckhart, 
		Trattati e Prediche cit., pp. 265-269. 
		37 Dal sermone In hoc apparuit 
		caritas dei, in: Meister Eckhart, Opere tedesche cit., 
		p. 158. 
		  
		 
		  
		BIBLIOGRAFIA 
		MAESTRO ECKHART, Trattati e Prediche 
		(introduzione, traduzione e note a cura di Giuseppe Faggin), Rusconi, 
		Milano 1982. 
		MEISTER ECKHART, Opere Tedesche, a cura di Marco Vannini, La 
		Nuova Italia, Firenze 1982. 
		MARCO VANNINI, Mistica e Filosofia, Edizioni Piemme, Casale 
		Monferrato 1996. 
		MARCO VANNINI, Meister Eckhart e il fondo dell’anima, Città Nuova 
		Editrice, Roma 1991. 
  
	 
 
 
Da:
http://members.tripod.com/holderlin/eckhart.html 
  
 
 
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