in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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L'atto della conoscenza come ascesi della soggettività
(Beppe Fragomeni)


 

Il conoscere  non  è  una  funzione  che prepari l’azione morale, ma  è   a t t o  m o r a l e (*)  che impegna tutto lo spirito:  la  capacità di astrarre dall’hic et nunc, di trascurare ciò che è mio e  tuo,  per giungere all’universale, implica un atto di libertà eroica che insieme adduce il volere. La volontà, quindi, è subordinata all’intelletto e si deve fare consistere la dignità dell’anima nell’eliminazione inesorabile di quanto di irrazionale e di sentimentale e di impulsivo pretenderebbe di piantarsi al centro direttivo della vita.
Il processo conoscitivo si conclude in una unità innominabile, fuori dalla quale deve rimanere il pensiero che discrimina essere da non-essere, i valori delle spirito e le distinzioni  del reale;  ma, non ostante la superrazionalità della meta finale, il conoscere intellettivo esaurisce in sé tutta l’opera dell’anima.
La conoscenza ripercorre il processo della vita divina e salda il cerchio dell’automanifestazione dell’Assoluto:  si eleva dal sensibile e dal diveniente all’eternità dell’idea, riconduce all’unità intelligibile la dispersione fenome-nica, si inserisce in un mondo invisibile che non sa né la morte, né la dolorosa caduta nell’esteriore.
Solo così il mistero cristologico non è più il paradosso che contraddice alla logica umana, ma è il simbolo storico di un ciclo spirituale che si attua in ogni anima e in ogni tempo. C o n o s c e n d o   s è  l ‘ a n i m a   c o n o s c e D i o.
Il   f a r s i   d e l l ‘ a n i m a    per mezzo della conoscenza è lo stesso operare dell’Assoluto che, per l’anima e nell’anima, ritorna a sé e si rivela totalmente a se stesso.
Questa posizione è contro ogni tipo di volontarismo radicato sulle emozioni e sui piacevoli sentimenti religiosi: non conosce compromessi con gli esseri finiti e le cose create: è la scienza dell’Essere Uno e indistinto e, più che alle molteplici essenze determinate, guarda all’Essere Assoluto a cui tendono le essenze quasi per annullare nell’indistinzione tutto ciò che le distingue.
Si compiace anche delle distinzioni, ma solo perché esse conducono la mente alla distruzione inesorabile di ogni distinzione.
I gradi dell’essere perdono così ogni autonomia per livellarsi nell’univocità dell’Essere che non ammette in sé né gradi né distinzioni. E’ impossibile discriminare gli effetti e proporzionarli all’entità della cosa amata: tutto ciò che è, è in Dio che è l’Essere; tutto si conosce in Dio; tutto deve essere amato in Dio.  Al di sopra delle vicende umane e degli interessi effimeri l’anima si libra in piena libertà e guarda ad essi senza odio e senza amore, accettando tutto ciò che è con la medesima serena indifferenza.
Il processo ascensionale dell’anima che tende all’Uno è processo di liberazione dalla molteplicità immediata che è il primo oggetto che si presenti alla nostra coscienza e in cui noi ritroviamo il retaggio della nostra creaturalità.
La meta del suo processo è la conquista della libertà ovvero, poiché soltanto l’intelletto è libero, di una vita intellettiva tutta interiore.
In quanto Dio è sopra tutte le cose, è l’Essere, non l’essere così e così determinato, è necessario che l’uomo trascenda tutte le cose.
La realtà esteriore e sensibile è concatenazione di cause e di effetti, e perciò ogni sua parte rimanda ad un’altra in un rinvio indefinito; l’anima per mezzo dei sensi e con le sue facoltà inferiori si lega all’esterno, perde la sua libertà e insieme oblia se stessa. 
“Tutto ciò che è creato non è libero” ;  anche l’anima come creatura  -  non  in  quanto intelletto  -  non è libera:  le sue azioni esterne sono determinate da un  c e r t o  m o t i v o ,  da un   c e r t o  a f f e t t o ,  per una persona, da una certa avversione per una cosa; più che vere azioni, sono passioni, perché procedono dall’esterno e la loro causa è fuori dall’anima stessa.  L’azione che deriva dall’anima è libera perché coessenziale ad essa;  quella esteriore, invece, è soggetta al fluttuare delle circostanze, può essere ostacolata e costretta e col tempo e l’abitudine si fiacca e vien meno a se stessa.
Perciò  a l l a  b a s e   d e l l a  v i t a  m o r a l e   s t a n n o,  quali condizioni  assolute,  l ‘ u m i l t à ,  l a  p o v e r t à   i n t e r i o r e ,  i l  d i s t a c c o .
Come il processo conoscitivo  è  p o s s i b i l e   s o l t a n t o   p e r   o p e r a  d e l l ’ a s t r a z i o n e  che esclude ogni accidentalità ed ogni elemento particolare e contingente per assurgere alla scienza di ciò che è universale ed eterno, così l’ascesa dello spirito non è possibile se non purificando il cuore dagli affetti che lo legano ai singoli beni e, vincolando l’anima all’esterno, le impediscono di congiungersi a se stessa e di trovare in sé l’Uno.
 

Astrazione e povertà: esse non sono due cose diverse ed eterogenee, ma due aspetti di una stessa esigenza originaria. Ambedue sono avviamenti alla liberazione dal sensibile, ed ambedue sono già libertà in atto: ambedue sono mezzi che devono condurre all’unità interiore, ed ambedue sono condiziona te  da  un’unità  già  conquistata :  -  n o n    p o t r e b b e    i l   p e n s i e r o d i s c r i m i n a r e     d a l l ‘ a c c i d e n t a l e    s e   n o n     f o s s e     g i à l u c e    a    s e   s t e s s o   e    a l l a    p r o p r i a    d i s c r i m i n a z i o n e e   n o n   p o s s e d e s s e   i n   s è   i l  c r i t e r i o   d e l l a   v e r i t à ;  né potrebbe la volontà iniziare la propria purificazione se lo splendore dell’Unità già non la rischiarasse interiormente rendendo possibile il primo atto eroico.
L’aspetto drammatico di ogni elevazione mistica è sempre questo: -i mistici di ogni tempo ci descrivono l’ascesa come  una conquista graduale e naturale, al sommo della quale sarebbe permesso all’anima di godere della propria libertà divina, mentre in realtà essa  è possibile solo a condizione che l’anima avverta già il disgusto della realtà sensibile e senta in sé la presenza dell’Uno liberatore, sia cioè già libera.
Il mistico non diventa ma nasce tale; e se anche sembra talora che, nel corso della vita, un determinato avvenimento orienti improvvisamente un’anima verso una visione mistica delle cose,  si tratta pur sempre di un istante sacro che non ha storia e che non è la conclusione voluta di una preparazione mentale completamente profana al suo inizio.
Il mistico nasce per generazione come Figlio,    c a v o    c h e   s i a   d i   s è   e   d e l l e   c o s e   d e l   m o n do .  Infatti, la povertà è distacco da tutto ciò che è immagine, da tutto ciò che l’uomo esteriore può chiamare suo; è l’eliminazione dell’accidentale e del vano ed è perciò ritrovamento dell’essenziale: la nuda povertà, il non possedere nulla, l’essere vuoto di tutto, produce nell’uomo una inversione di tendenza che lo riporta sui propri passi, là da dove era venuto (conversione). E ne consegue che l’anima “
tanto humilior tanto est capacior”;  “In humilibus terra coelum est, imum summum est”.
L’anima col suo morire alle cose esteriori, coopera con l’azione divina e riconquista attimo per attimo, il suo essere: l’anima creata diviene, si fa, e  la sua attività morale è inizialmente un’ascesa, non un possesso:

- l’anima del mistico  -  adoperando un paragone caro a sant’Agostino, a Plotino, allo pseudo Dionigi, a san Tommaso d’Acquino  -  è simile all’artista che trae una figura dal marmo (o dal legno); egli non immette l’immagine nel legno, ma toglie le schegge che ne coprono la figura; non dà nulla al marmo, ma ne toglie, ne scava lo spessore, ne leva il superfluo, finchè risplende quello che sotto rimaneva nascosto.
 

L’ascensione dell’anima non ha dunque lo scopo di produrre piani di vita spirituali, di creare abitudini virtuose, di trasformare la natura umana e di adattarla a norme esterne più o meno razionali.
L’anima  è   d i v i n a   n e l   s u o   f o n d o   e   d e v e   d i v e n t a r e   c i ò  c h e  è :  e  p e r  c o n d u r l a   a l l a  s u a   m e t a  s u p r e m a,   b a s t a    g e t t a r    v i a    l o     s c o g l i o    e s t e r i o r e,   b a s t a  s c o p r i r e,   s v e l a r e,   p u r i f i c a r e.   Ogni aggiunta sarebbe superflua:  è  necessario  anzi  eliminare  ogni  superfluo.  L a   v i r t ù,   p i u t t o s t o   c h e   u n   h a b i t u s   m o r a l i s,   è   c a t a r s i. Perciò l’anima, che nel suo fondo fa una cosa sola con Dio, per trovare il suo intrinseco valore ha bisogno di  n o n   f a r e   più che di fare.  Essa deve pure agire; ma le sue opere esteriori si possono paragonare all’opera negativa del maestro, nella pedagogia del Rousseau, la quale non contribuisce a creare nel fanciullo attitudini nuove, ma a svelare l’originaria natura e l’intrinseca dignità del suo spirito.
Le opere esteriori hanno soltanto un valore strumentale: la loro funzione di   m e z z i  si esaurisce quando abbiano potuto eliminare qualche cattiva abitudine; ma poiché l’opera come tale è sempre una dispersione nell’esteriore e pertanto un allontanarsi dalla divina interiorità, Meister Eckhart arriva a dire che in tutte le esercitazioni esteriori Iddio si trova tanto quanto lo si ritrova nel peccato.
Il valore dell’opera esteriore va dunque ricercato  i n   c i ò   c h e   n o n    è   o p e r a   e   c h e   n o n   è   e s t e r i o r e ;  l’azione esterna non può essere buona e grande se l’interiore è minimo o manca del tutto.
La stessa preghiera, intesa a chiedere grazie a Dio e a imporre, in certo modo, i limiti dell’umano  desiderio  alla  volontà  divina, deve essere condannata:   s o l a   h u m i l i t a s    e s t   o r a t i o,   poiché l’umiltà non chiede se non il   f i a t   v o l u n t a s   t u a   e   prepara  perciò  un  cuore  puro  e  libero.
La spontanea propensione dell’uomo, come determinata creatura,  ad uscire da se stesso per realizzare la divina somiglianza, quando non deriva da riflessione e da raziocinio, è sempre sembrata un dono extraumano, una grazia divina;  e così tutto l’itinerario dell’io empirico all’Essere Uno,  in quanto condizionato a un’azione dall’Essere stesso,  è sempre apparso   n o n   come un’ascesa dell’umano al divino, ma come    u n   m o m e n t o   e t e r- n o   d e l l a   v i t a   s t e s s a   d e l l a   d i v i n i t à,   c h e   s i   a t t u a   n e l l ‘ a n i m a :  “gratia est supra omnem creaturam, supra opus, supra potentias intellectivas in abdito animae, ubi solus Deus illabitur”….nascosta nell’anima, dove soltanto Dio può penetrare.
L’uomo può   r o m p e r e   l ’ i o   p s i c o l o g i c o   attraverso il processo di spoliazione di quanto di estraneo ed improprio soffoca l’anima. Questo processo è possibile quando si sia capaci di distacco e di astrazione, soprattutto nei confronti di se stessi.  Così si libera la propria essenza, il proprio Sé, la “scintilla dell’anima”, l’ “acies mentis”,  l’ “anima nuda”,  l’ “apex mentis,  il “fiore dell’intelletto”,  il “centro dell’anima”,  la “divina scintilla” ,  il “fondo dell’anima”,  la “natura propria”, la “rocca dello spirito”, la “domus Dei”.  In realtà, malgrado i molti nomi, il  fondo dell’anima è innominabile come la Divinità: come Dio assume i nomi delle Persone divine in quanto si esplica nell’atto della generazione eterna, così l’anima assume diversi nomi solo in rapporto alle sue operazioni e facoltà.

 

La grazia

 

La grazia non agisce né opera, ma è, come la divinità stessa; l’opera è soltanto la sua manifestazione.  La grazia è ciò che rimane nel fondo spirituale, una volta eliminata la creaturalità, è l’Uno immobile nell’intimo dell’anima.  La grazia più che un’opera eccezionale di Dio, è lo stesso essere di Dio nell’anima, è innata   l u c e   i n t e l l e t t u a l e   che,  in quanto superiore alle facoltà psichiche collegate al sensibile, deve essere detta soprannaturale, ma che in realtà è la stessa natura genuina dell’anima.  Ma poiché   l’anima è soltanto potenzialmente intelletto, poiché la conoscenza superiore non è possesso immediato, ma conquista che richiede da parte nostra un’opera liberatrice,  è naturale che quest’opera sia nostra e che la grazia che la rende possibile sembri fuori di noi.     L a    g r a z i a    è     l’ e t e r n o   e   l ‘ i n c r e a t o   n e l l ‘ a n i m a ,  ma in senso dialettico.   E difatti l’anima non è divina, ma si fa divina e conquista il suo vero essere solo nell’atto con cui si spoglia della creaturalità e svela ciò che giaceva nascosto nel fondo    e  c h e   p u r    r e n d e v a   s i l e n z i o s a -m e n t e   p o s s i b i l e   l a   s u a   o p e r a   l i b e r a t r i c e ;  e, d’altra parte, Dio non è grazia operante se non nell’anima e per l’anima, mentre in se stesso non opera, ma è.        L ‘ e f f l u s s o    è    c o r r i s p o n d e n t e   a l l ‘ i n f l u s s o   e d   i n v e r s a m e n t e;   e  il  tutto  si  compie  in  Dio,
poiché nulla è fuori di lui, e si compie nell’anima, poiché essa, nella sua nudità  interiore,  non  esce   da  sé,      m a    r i t r o v a   i n    s è    l a   s u a  v e r a   n a t u r a.
A questo proposito vale la pena di rileggere una pagina di Alessandro Klein, tratta da Meister Eckhart e la dottrina mistica della giustificazione, Mursia :
 

“All’origine della religiosità mistica predicante la necessità della deificazione dell’uomo si ritrova la percezione di una sostanziale inconsistenza delle creature.

Al mistico le creature manifestano la loro nullità; e nella vacuità che rivelano è scoperta la ragione della loro vanità, del tedio che suscitano, della loro inettitudine a soddisfare l’uomo, a consolarlo. (…)

 

La rivelazione della nullità delle creature, da cui il mistico muove, è al tempo stesso rivelazione di Dio come pienezza dell’essere.

 

Vedere il nulla delle creature  è  vedere Dio: “Una volta dissi: “Allorchè  San Paolo vide nulla, allora vide Dio”. Ora io modifico questo detto migliorandolo, ed affermo:  “Allorchè San Palo vide  il   nulla, allora vide Dio”

 

Nella loro nullità le creature si fanno trasparenti a Dio:  v u o t e  d i e s s e r e, lasciano trasparire l’essere che Dio è  (come loro fondamento). Dietro il nulla delle creature si staglia l’essere di Dio.

 

Ma d’altro canto è rispetto a Dio che le creature si manifestano come nulla: “Tutte le creature sono (…) un nulla rispetto a Dio”.

 

La pienezza dell’essere divino è lo sfondo in virtù del quale appare la trasparenza, ossia la nullità delle creature: ”Allorchè (San Paolo) vide Dio, allora vide tutte le cose come un nulla”.   Le creature come nulla e Dio come l’Essere si palesano simultaneamente agli occhi del mistico, e sono le une la condizione del palesarsi dell’altro. Si tratta infatti di due momenti o aspetti /complementari/ e perciò inscindibilmente intrecciati di una stessa rivelazione.
Se da una parte è la nullità delle creature che fa trovare Dio,  d’altra parte è Dio che fa conoscere la nullità delle creature .
In un’inesplicabile reciprocità d’azione le creature distolgono da sé rimandando a Dio, e Dio chiama a sé distogliendo dalle creature.
E’ così:  merita e perviene alla sapienza di Dio chi tutto il resto considera nulla, ma occorre già possedere la sapienza di Dio per reputare nulla tutto il resto.
Il tedio del mondo suscita il desiderio di Dio e il desiderio di Dio il tedio del mondo. Si intrecciano nel mistico, facendolo tale,  la scoperta della nullità delle creature e quindi della menzogna con cui esse si offrono  alla conoscenza dell’uomo  comune  (o “uomo esteriore”) fingendosi quello che non sono,  e il desiderio di un Dio già sempre saputo (ignoti nulla cupido!) ma non ancora pienamente posseduto.

 

Torniamo brevemente sull’atto morale

 

L’atto morale si compie soltanto nel superamento di un limite e la vita morale è  attività perennemente tesa al superamento della realtà esteriore.  Pertanto, l’atto morale si identifica con  la volontà buona  attraverso la quale l’uomo può realizzare la propria nudità interiore. Innegabilmente, quindi,  l a  v i r t ù   è oggetto di faticosa conquista che, però, culmina  n o n in un complesso di doveri e di costumi e di abitudini, faticosamente sorretto da norme sociali e da convenzioni storiche, ma in una assoluta libertà interiore che sa guardare a tutte le vicende umane senza legami passionali e sa dominare ogni accadimento esteriore con il suo spirito divino, che  nell’Uno ha riconquistato se stessa.
Al  culmine  della  dolorosa ascesa  si  compie  il  prodigio  interiore  della n a s c i t a   e t e r n a :  

-         nella prima nascita l’uomo è immerso nel temporaneo e ne molteplice e comincia il suo vivere con la morte. Il suo morire alla morte è il suo vivere essenziale, il suo nascere all’eterni, Iddio genera allora nell’anima il Figlio;

-          l’identità dell’anima al Figlio rende possibile la conoscenza della verità universale;  

-         l’identità del “fondo dell’anima”   alla Divinità rende possibile la  unione suprema.

 

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Ora, se non vogliamo che la innata tensione all’Uno sia vano ed esasperante desiderio, se non vogliamo che la vita dello spirito manchi quaggiù al suo scopo e si consumi nella disperata attesa di una unione ultraterrena, come se un assurdo ostacolo separi quaggiù l’anima dalla Divinità onnipresente, è necessario postulare la divinità dell’anima stessa.
In noi è la tensione che può precipitarci verso il male e perderci, in noi è la luce stessa di Dio nella quale Dio si riconosce e si ama e nella quale noi siamo una sola cosa con lui.
Il mistico sa, come il poeta Holderlin, che soltanto il divino può conoscere il Divino. 
La scintilla di cui parla Eckhart, non è una facoltà, ma la radice di ogni facoltà, come la Divinità è la scaturigine della divina ipostasi: essa è l’essenza stessa dell’anima, è l’anima nuda, e come tale non conosce né ama.
Se l’anima, in quanto intelletto,  è un patire e un ricevere, è cioè il Figlio del Padre, perché la sua vita è similitudine e relazione nell’intelligere, essa,  come fondo originario è pura essenza, non è più rapporto ma l’Assoluto stesso. Essa è una e semplice, assolutamente libera e spoglia di ogni forma, determinazione e proprietà; e se Dio vuole guardare in essa vi deve guardare solo come Uno, non come Padre, né come Figlio, né come Spirito santo, altrimenti gli costa i nomi divini e la proprietà delle Persone.

 

 

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“Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati” –

“ Beati i poveri in spirito ………”

 

Chi desidera qualcosa da Dio non è figlio ma servo di Dio. Il giusto non serve a Dio, ma ama liberamente la giustizia e ciò che fa lo fa amando il mondo dal punto di vista di Dio stesso,  sicchè assimila quanto lo circonda tramutandolo in opere giuste:  instaurata la vita assoluta nell’anima ed eliminato ogni compromesso con premi e lusinghe di un superiore utilitarismo trascendentale, realizza l’espressione più coerente e pura:  ogni residuo della mentalità giudaica, fondata su leggi e compensi, è inesorabilmente distrutto ed il Cristianesimo assurge al suo più alto grado di rivendicazione della dignità e della libertà umana.
La   n a s c i t a   e t e r n a    non è una scialba anticipazione dell’al di là, ma la generazione stessa del Verbo, il compimento della vita divina,  l’attuazione integrale del destino dell’anima.

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(*) ATTO MORALE. Parlando di morale, non intendiamo riferirci alla morale storica e tantomeno a quella civile o convenzionale, relative entrambe, ma alla morale il cui atto si realizza allorchè l’uomo si ri-lega alla sua realtà interiore. Secondo Meister Eckhart, l’atto morale si compie nel superamento di un limite. La vita morale, quindi, è attività perennemente tesa al superamento della realtà esteriore. Pertanto, l’atto morale si identifica con la volontà buona  attraverso la quale l’uomo può realizzare la propria nudità interiore.

 

 

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