Marco Vannini, Mesiter Eckhart: dal silenzio alla parola

  in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

  home page   cerca nel sito   iscrizione newsletter   email   aggiungi ai preferiti   stampa questa pagina    
 

 

  SU DI ME
 Vita       
 Pubblicazioni

 Corsi, seminari, conferenze

 Prossimi eventi
 
  DISCIPLINE
 Filosofia antica       
 Mistica
 Sufismo
 Taoismo
 Vedanta              
 Buddhismo              
 Zen
 Filosofia Comparata
 Musica / Mistica
 Filosofia Critica
 Meditazione
 Alchimia
 Psiché
 Tantrismo
 Varia
 
  AUTORI
 Mircea Eliade       
 Raimon Panikkar
 S.Weil e C.Campo
 René Guénon, ecc.
 Elémire Zolla     
 G.I.Gurdjieff  
 Jiddu Krishnamurti
 Rudolf Steiner
 P. C. Bori       
 Silvano Agosti
 Alcuni maestri

 


Marco Vannini, Mesiter Eckhart: dal silenzio alla parola


 

* La generazione della Parola, del Verbo, nell'anima è uno dei tratti più noti e importanti del pensiero di Eckhart, ed è interessante sottolineare il suo rapporto col silenzio.

Se prendiamo, ad esempio, il sermone tedesco 30, che prende spunto dal versetto paolino 2 Tm 4,2, vediamo che Eckhart traduce il latino praedica verbum con

«pronuncia, esprimi, produci, genera la Parola!»[1].

Qui, come molte altre volte nei suoi sermoni, il testo scritturistico viene dolcemente piegato al fine di permettere al Maestro di esprimere la propria dottrina.

La generazione della Parola avviene nel silenzio e a partire dal silenzio:

«Dormi di fronte a tutte le cose; il che significa che non devi sapere niente né sul tempo, ne sulle creature, né sulle immagini» [2].

Sia pure brevemente, anche qui Eckhart ripete la sua dottrina del distacco/silenzio rispetto a tutte le creature, la temporalità, le immagini[3], come condizione primaria della generazione della Parola. Si noti che «immagini» significa rappresentazioni, contenuti, pensieri: il Maestro sta qui insegnando, dunque, una rimozione totale del «sapere» dell'uomo, che è colto nella sua dipendenza spazio temporale, dunque nel suo condizionamento, nella sua non libertà, nella sua non assolutezza, nella sua irrilevanza. Tale «sapere», legato al tempo e alle creature, si esprime infatti attraverso il riferimento alla dimensione mondana, storica, temporale appunto. Esso va tutto quanto rimosso: l'anima deve essere in profondo silenzio, anzi, «dormire» di fronte ad esso. Non ha qui spazio alcuno il sociale, lo storico, che è tutto determinato. Le rappresentazioni religiose biblico-cristiane, le «storie della salvezza», gli interventi di Dio nella storia, i «perché» che giustificano questo o quell'evento sono rimossi come irrilevanti, o, peggio, falsi e dannosi. Nel pensiero di Eckhart questo «sapere», infatti, non solo è determinato - psicologicamente, culturalmente, socialmente-, legato a un fine personale e dipendente da un «perché», ma, in quanto si pone come assoluto, vero, autoritativo, rappresenta anche una bestemmia. Essa è radicata in quella insincerità che tralascia di guardare in fondo all'io, di cercare le sottili ragioni della sua affermatività, della sua volontà di essere e di potere, ragioni che passano anche nel contenuto religioso[4].

Le affermazioni eckhartiane hanno un significato etico in stretto rapporto con la sua dottrina spirituale. Anche il sermone in esame indica tre punti:

1) «cogli Dio in tutte le cose, perché Dio è in tutte le cose; 2) ama Dio sopra ogni cosa, e il tuo prossimo come te stesso. Se preferisci che cento marchi siano tuoi piuttosto che di un altro, non sei nel giusto. Se ami una persona più di un'altra, sei nel torto, e lo stesso se ami tua madre o tuo padre o te stesso più di un altro uomo. E se trovi preferibile la beatitudine in te stesso piuttosto che in un altro, non sei nel giusto. . . 3) ama Dio ugualmente in tutte le cose. Ad un uomo che ama Dio sarebbe altrettanto facile abbandonare l'intero mondo, quanto un uovo. . . » [5].

Insegnamento etico e dottrina spirituale sono lo stesso: si tratta di distaccarsi dall'io. Abbandonare se stesso è più difficile e più importante che abbandonare l'intero mondo[6], ma è nel distacco da se stesso - dall'io come centro di volizioni, di rappresentazioni, di «immagini» - che allo strepito dei contenuti subentra la pace dell'unitas spiritus, che Dio scende nell'anima. Proprio come, per legge di natura, il vuoto trova subito quel che lo riempie, così Dio non può fare a meno di scendere ed abitare nell'anima silenziosa, che ha fatto il vuoto in se stessa[7].

Queste affermazioni, centrali e ben note in Eckhart, ci permettono di chiarire un punto molto dibattuto[8], e di particolare attualità: quello dei rapporti tra il Maestro domenicano e il buddismo. Le affinità sono indiscutibilmente profonde. Lo sciogliersi degli schemi mentali grazie alla indifferenza a conseguimenti personali, l'esperienza buddista del vuoto, l'esperienza del liberarsi del pensiero dal condizionamento tramite il riconoscimento del nulla, della vacuità di ogni oggetto del pensiero stesso, è presente anche in Eckhart. Anche in lui questa è la necessaria purificazione dal determinismo, dal condizionamento universale. È la rimozione di tutti i contenuti, ivi comprese le «verità» religiose e la dipendenza da questa o quella rappresentazione del divino. Però in Eckhart ciò non diviene «verità», non si pone come ulteriore contenuto vero - che sarebbe a sua volta frutto di un tipo di vita, dipendente dal condizionamento degli eventi e dal fluire delle immagini.

«L'uomo inferiore sfugge sempre a se stesso»:

la scoperta della insignificanza dei contenuti, la scoperta di quel nulla che è al fondo dell'anima, ha senso solo come liberazione, e dunque come gioia infinita in un distacco sempre rinnovantesi - non come ulteriore determinazione su «come le cose stanno». Ecco perché Eckhart insiste sul «sapere nulla»[9]: formula certamente paradossale, ma significativa. Le formulazioni teologiche, metafisiche, della esperienza intellettuale e spirituale sopra indicata sono spesso fuorvianti, perché si prestano ad indicare un passaggio ontologico che è proprio quel che si vuole evitare. Infatti l'ontologico è, per così dire, il luogo in cui si condensa e si irrigidisce una esperienza, «una»Lebensform - cui corrisponde, deterministicamente, «una» Denkform -. Tradotto dal linguaggio metafisico in quello psicologico (attenzione: non nello spirituale, perché lo spirituale è irriducibile al metafisico; la signoria dello spirito sta su un piano superiore a quello del determinismo psichico, come pneùma è superiore a psychế)[10], il metafisico esprime proprio quella che si vuole fissare come assolutezza di una esperienza, di un pensiero: assolutezza che è ben motivata, ma solo all'interno di quel pensiero, di quella esperienza, e cozza in modo irrimediabile contro altri pensieri e esperienze. La affermazione del puro nulla, come la troviamo nel buddismo, si inserisce tutta in questo tentativo di assolutezza ontologica e, in quanto tale, testimonia ancora una dipendenza, un legame, una volontà (l'uomo distaccato, invece, «nulla vuole»), che è poi quella di difendere un tipo di vita — poniamo del monaco asceta.

Si comprende allora che il comando di «amare Dio sopra ogni cosa» non è affatto in contraddizione con la negazione di ogni immagine divina, di ogni determinazione relativa al divino quasi che, senza immagine, non vi fosse fede. Al contrario: l'immagine e la determinazione dipendono da una forma di vita e stanno per essa; rimangono dunque nell'ambito del condizionato, là dove il divino serve alla temporalità e alle creature, che rappresentano il vero fine. Il riferimento a Dio «senza immagini» (la Gottheit, non il Gott determinato nei modi) è la fede razionale, aprirsi sempre nuovo e più ricco alla vera trascendenza. La dissoluzione dei contenuti, il distacco, non danno il possesso di una realtà ontologica, ma la lasciano essere proprio nel suo vero essere trascendenza. L'Altro non c'è in quanto «conosciuto» che significa poi utilizzato, posseduto a fini diversi da lui medesimo, e, dunque, bestemmiato[11], ma c'è una profonda gioia, che esprime, in modo estatico, il supremo valore. Rimane comunque assolutamente fondamentale il fatto che il distacco è un rivolgersi a Dio con tutto il cuore, ma non a Dio determinato nei modi, perché così starebbe per un legame. Solo il rivolgersi a Dio al di sopra dei modi permette davvero di fare il vuoto, ovvero è veramente distacco, e non ricerca di una condizione.

È singolare che Eckhart ripeta, certamente senza averla mai letta, la formula neoplatonica: l'intelletto è il tempio di Dio[12]. Questo tempio deve essere assolutamente vuoto, perché Dio vi abiti, ma nondimeno v'è Dio. Se c'è difficoltà nello spiegare il concetto di Dio qui usato, portandolo necessariamente in un piano descrittivo-ontologico che non è il più appropriato, può essere più agevole fare riferimento a una Lebensform. Paradossalmente (ma sembra che non si possa parlare di questo argomento altro che per paradossi) bisogna dire che quella eckhartiana non è «una»Lebensform, dal momento che il distacco sempre rinnovantesi e sempre più articolato «non v'è uomo distaccato che non possa distaccarsi ancora di più»[13] -sta in ogni forma di vita e si apre continuamente alle nuove forme di vita. Perciò essa non si lascia concludere in una sintesi, che è sempre appropriativa e finalizzata a un utile - nemmeno in una sintesi teologica. Le teologie possono essere bellissime (pensiamo ad esempio a quelle della scuola renana, cui appartiene in certo modo anche Eckhart), ma sono sempre legate e dipendenti da qualcosa. Il contenuto teologico - rivelazione, redenzione, unicità di Dio, Trinità, ecc. -, come tutti i particolari apparentemente più astratti, dice qualcosa sulla vita, sulla concezione dell'uomo e del mondo. Esso è comunque legato e dipendente dall'io, in modo più o meno rozzo, più o meno sottile - dal brutale potere alla rassicurazione psicologica. Il distacco è invece libertà, signoria dello spirito, che non indugia più su nessun particolare («niente sa») e neppure su temi «fondamentali», come la realtà di Dio. I contenuti sono padroneggiati, e non in una sintesi che li ordina, magari circolarmente, ma su di un altro piano, in un'altra regione[14], che è quella della pace e della verità. Perciò è indifferente ad essi - non nel senso che li disprezzi, ma nel senso che li ha compresi: come

«le opere sono per il distacco» [15],

così l'esperienza di una forma di pensiero è anche il suo superamento. Ed è chiaro che non ci si può intendere con chi di quei contenuti è ancora prigioniero, ed aggredisce con le alternative violente: credi o non credi in questo? E qui Eckhart ripeterebbe che essi parlano di cose che non comprendono, da cristiani carnali e non spirituali[16], ma la fede non è una credenza e

«l'anima che sta nella luce della ragione non sa più niente dei contrari» [17].

Possiamo dire che la Lebensform eckhartiana è estatica e teopatica. Estatica nello stretto senso della uscita dall'io, dello spogliamento dall'io naturale, e dunque da tutti i contenuti affermativi, ivi compresi quelli teologici. A questa «uscita» corrisponde la presenza di Dio, la vita di Dio in noi. Si dice così non per indicare un oggetto, ma per esprimere nel modo più vitale e sintetico una condizione radicalmente diversa da quella naturale comune, che è condizionata, legata al fine, dipendente dal tempo e dai contenuti. Si parla di vita di Dio in noi non però come metafora, ovvero solo per indicare una esperienza di gioia estatica (sottolineiamo: non soltanto fine del dolore, come nel buddismo, ma profonda letizia), di libertà, di fine della dipendenza dalle cose, ma perché l'esperienza del distacco è l'esperienza della grazia.

Abbiamo infatti insistito sul peso del determinismo, cui niente sfugge, ed è più che lecito chiedere come sia possibile parlare di libertà. Al condizionamento niente può sottrarsi: bisogna essere pronti a riconoscere questa verità, e dunque a guardare risolutamente in faccia l'assenza di fondamento. Il fondamento (Grund) non c'è, non c'è il terreno solido su cui costruire; appare invece l'abisso (Ab-grund) del nulla. Però l'intelletto può distaccarsi anche da questo orrore del nulla, della mancanza di fondamenti, proprio contemplandolo fino in fondo ed assumendolo in sé senza sbigottire. Ciò nientifica il nulla, senza alcuno sforzo, ed è proprio la operazione intellettuale con cui si supera la opposizione finito-infinito, naturale-soprannaturale. Noi accettiamo il non-valore del nostro valore, accettiamo quietamente e serenamente (Gelassenheit = Abgeschiedenheit) [18] che tutto ciò - ivi compreso quel che chiamiamo intelletto e spirito - sia inserito nella ruota dell'universale determinismo, come è giusto che sia. Allora la accettazione, la comprensione, e più ancora l'amore (amor fati) che, nonostante tutto, si continua ad avere per quella dispiegata verità, appare assolutamente libero, al di sopra del condizionamento, soprannaturale. Perciò parliamo di grazia, come di qualcosa che è divino, incondizionato, senza sforzo. Con ciò non si vuole affatto reintrodurre surrettiziamente un «soprannaturale» prima escluso. Tutta la virtù dell'uomo, tutto il «vigore della intelligenza che contempla»[19], che pure ha condotto a rimuovere lo psicologico, tutta la nobiltà dello spirito, che rifiuta ogni coinvolgimento nella rete della finitezza, del determinismo, che fa il vuoto di sé medesimo, - proprio per la logica che l'ha condotta fin qui, ad un certo punto scompare, si fa da parte («diventa interiore a se stesso»), si nientifica. È qui che il distacco più profondo lascia spazio a qualcos'altro, che siamo portati a chiamare grazia (gratia quia gratis datur), anche se, peraltro, si tratta sempre del movimento del distacco stesso[20]. La lingua e la tradizione ci inducono a ciò, per indicare qualcosa di lontano e opposto alla naturalità, alla volontà di permanere, all'utilitarismo cui servono tutti i contenuti.

Non a caso abbiamo ricordato il neoplatonismo: l'esperienza eckhartiana non è originariamente cristiana, ma pre- ed extracristiana. Non meraviglia affatto che il platonico Porfirio combattesse le teologie (non solo cristiane) nel loro impianto irrazionale e mitologico: anche Eckhart fa implicitamente lo stesso, proponendo la dottrina della generazione del Verbo. Bisogna infatti sottolineare ancora che nell'esperienza del distacco non v'è riferimento a una teologia; anzi, le teologie sono rimosse nella loro determinatezza, così come sono rimosse le Scritture, necessariamente determinate e positive. La dipendenza da una teologia, da un testo «sacro» nel senso di intoccabile, è negazione del distacco proprio in quanto esso è fede: rivolgersi dell'anima, nel suo fondo che è l'apice più alto, verso il valore supremo. Il coraggio di non dipendere da un contenuto, da una forma di pensiero, non è altro che il coraggio di non legarsi a una forma di vita, di non cadere nella catena alienante del determinismo. L'esperienza del distacco, del continuo rivolgersi a Dio non come contenuto, ma proprio come a quella grandezza che distrugge tutti i contenuti, non è una esperienza specificamente cristiana; casomai, la diremmo essenzialmente aristocratica: Eckhart la chiama dell’ «uomo nobile»[21], che passa accanto alle cose, senza dipendenza, senza appropriazione, lasciandole essere nel loro essere[22]. È alla grandezza e nobiltà del fondo dell'anima che corrisponde il distacco, l'essere oltre, la fede e la grazia. È in questo fondo che diviene presente la luce per cui si parla di generazione del Verbo.

Questa esperienza è la platonica esperienza della identità tra amore e distacco. Amore è distacco dal proprio io e dall'utile, dimenticandosi di sé nel bene; distacco è amore, perché è possibile staccarsi dall'io solo in rapporto con altro dalla creatura fino al creatore, alla giustizia e alla verità, secondo il cammino mirabilmente descritto nel Convito. Perciò non v'è in Eckhart - a differenza del buddismo - la affermazione di un tipo di vita monastico, la rottura con la vita quotidiana e col matrimonio. Sia pure in ordine gerarchico - scandito, spinozianamente, dalla progressiva letizia che è segno di maggior perfezione -, il distacco non è qualitativamente diverso dall'amore per la creatura: perciò non rimane chiuso, determinato, all'interno di un tipo di vita, ma si esercita con uguale intensità su tutti i tipi di vita, su tutte le «opere», le quali sono, appunto, per il distacco[23].

La generazione del Verbo è in questo atto di distacco amore: atto semplicissimo e difficilissimo, essenziale e possibile in ogni istante, in cui si produce libertà, luce, gioia. Non è un sapere nel senso di conoscenza di contenuti relativi a Dio: un Dio pensato - dice Eckhart - va e viene col pensiero, è relativo a ciò per cui è pensato e regge solo per esso. Si tratta però di un sapere in senso forte, etimologico del termine; ovvero di una profonda esperienza, razionale e vitale insieme, che conduce a un diverso livello di consapevolezza - ad una diversa «sapienza», più che a una diversa scienza -, ad un essere diverso, anzi all'essere[24]. Appare infatti chiaramente come lo psicologico, il campo del determinato nei contenuti, sia propriamente il male, il non essere. È ciò che non può rendere ragione di se stesso, che rimanda incessantemente ad altro, che «ha un perché», e che, non a caso, termina sempre nella naturalità animale, nella sarx. È il terreno della alienazione, del dolore, in cui ciò - che fa male è l'io che non sussiste senza contenuti, come essi non sussistono senza di lui. Il «senza perché» estatico dell'amore/distacco è, invece, il terreno dell'essere, del bene, in cui non si ricerca più Dio, perché

«non ho bisogno di quel che possiedo»:

l'uomo spirituale, l'uomo nobile, è nello spirito, tutt'uno con Dio[25].

Conseguenza importantissima di ciò è che il rapporto tra Dio e l'uomo non sta nei contenuti, nello spazio e nel tempo, ove tutto è transitorio, soggetto al determinismo, finito, cioè cattivo. Il rapporto tra Dio e l'uomo non passa, dunque, per libri, popoli, profeti, chiese, rivelazioni nello spazio e nel tempo: lì tutto è determinatezza, alienazione, male. Eckhart in questo è chiarissimo:ciò che è fuori dell'Uno è male. Il rapporto tra Dio e l'uomo è nello spirito, nulla interposita natura, fuori della finitezza spazio temporale, fuori dall'io e dal tu. È nell'intelletto, al di sopra dei contrari, nella unità e nel silenzio.

Il silenzio di cui qui ci occupiamo non è solo una assenza di parole, non è solo la fine dello strepito dei contenuti - e dunque la fine dell'io stesso, privo di contenuti su cui appoggiarsi. Inteso così, non è ancora quel che Eckhart vuoi dire. Silenzio è proprio il fondo dell'anima, che è uno sprofondarsi infinito. Non è in quel fondo, ma quel fondo stesso; nel senso che non si tratta di una condizione di assenza, quasi di letargo o di sospensione della attività dell'intelligenza, ma, al contrario, della sua più intensa vita. «Fondo», come tutte le altre immagini simili, usate da Eckhart e dalla letteratura del genere, vuole indicare soltanto il distacco dal fine e dalla causalità, l'uscita dal condizionamento e da quel flusso di contenuti (di «immagini») in cui si pone l'io. Mentre la vita diversamente condotta, la vita comune, appare povera e dolorosa, lontana dall'essere, «fondo» allude a un grado più profondo di realtà, che si coglie sotto (nel senso del fondamento) lo scorrere senza senso dei contenuti. Nel «fondo» i contenuti rimangono quelli consueti e quotidiani - non v'è nessuna eccezionalità nell'ordine psicologico -, ma sono per così dire sospesi, distaccati dallo spazio e dal tempo, isolati dalla catena delle cause e dei perché. Lì, sub specie aeternitatis, essi divengono oggetto spirituale. «Spirito» chiamiamo, infatti, la vita nel e del distacco, morto l'io e la volontà personale, in una dimensione tutta nuova ed estatica di pace e di gioia, e, insieme, di profonda realtà.

Il silenzio è il distacco, il distacco è il silenzio. Non una condizione estrinseca, ma il modo stesso di essere dell'intelletto, distinto dall'anima (in questo senso è correttissimo il celebre passo del De anima), ovvero non dipendente dai legami dell'io e dal de terminismo psichico, e perciò stesso superiore all'identico e al diverso, contemplazione pura, vita quasi divina (ricordiamo ancora il passo aristotelico De Anima, in, 430 a) perché in questo atto di contemplazione siamo simili a Dio, anzi, tutt'uno con Lui. È in questo atto - di gioia infinita perché di libertà - che «consiste» il fondo dell'anima, ed è in questo stesso atto che il Verbo si genera. Perciò la generazione del Verbo è immediatamente presente nel silenzio. Non si tratta, infatti, di due atti diversi quello negativo/purificatorio e quello positivo/generante, ma, casomai, di due aspetti dello stesso atto, che è, come si è detto, amore e distacco insieme. È esso che ha sciolto i legami (l'affermazione di sé, il denaro, il potere, la agostiniana «concupiscenza»); è esso che ha mostrato la nullità di ogni con tenuto. Ma questa forza «negativa» non è altro che l'aristocratica virtù dell'uomo nobile, che non si accontenta dell'utile e vuole soltanto la giustizia.

L'essenzialità del rapporto verità-giustizia, virtù-grandezza è centrale in Eckhart. Non puoi sfuggire all'utilitarismo, al meschino sforzo di permanere, in cui sei posto naturalmente, e che ti porta inequivocabilmente alla falsità di pensiero e di parola, alla servitù alle circostanze, altro che con la virtù classica, con la stoica megalopsychia: un movente devi avere, e se non hai quello della areté, hai fatalmente il male. Infatti solo l'obiettivo della grandezza porta alla universalità, ovvero alla impersonalità, e insegna a distruggere l'io, a farsi da parte per la e nella giustizia. Dio è la giustizia, ripete spesso Eckhart, e l'uomo giusto, che è la giustizia stessa, è perciò tutt'uno con Dio[26].

Pronuncia la Parola, genera la Parola, significa dunque sii la Parola. L'uomo nobile, distaccato, «diventato interiore di ciò che è in lui stesso», è innanzitutto il giusto, ed è la giustizia la generazione di Dio. È nella giustizia, nell'amore e nel distacco elementi che non possono essere mai separati, e di cui ciascuno ha bisogno dell'altro, o, per meglio dire, di cui ciascuno è un aspetto dell'altro che si pronuncia la Parola, ovvero che si è Logos. Non si conosce Dio come altro, ma lo si è, proprio in quanto Logos. Dio è il distacco. Dio è negazione della negazione[27]: i testi eckhartiani sono chiarissimi e inequivocabili. Questo non significa affatto negazione della trascendenza o panteismo, come hanno creduto alcuni dallo spirito rozzo[28]. Dio come altro (Gottheit, Deus sine modis) rimane anche altro, termine fisso dell'amore e della intelligenza dell'uomo — e stavolta davvero non utilizzato, non consumato e falsato. La teologia trinitaria, non in quanto schema mitologico, ma in quanto modello e strumento di ogni dialettica, permette ad Eckhart di affermare che è Dio a generare in tè la Parola, così come in eterno la ha generata e continuamente la genera, proprio mentre tu generi la Parola stessa. Ed è qui che il Maestro domenicano rivela il suo profondo radicamento nel cristianesimo, tale da non poter esser neppure immaginato fuori da questa tradizione.

Le affermazioni eckhartiane non sono affatto contraddittorie od oscure. Il riferimento concreto a qualcosa che è vero, reale qui ed ora l'esperienza di assoluta luce e verità nel distacco fa uscire tale esperienza dall'ambito del finito e condizionato e, pur mantenendola pienamente nell'umano, le fa assumere un valore appunto assoluto. Essa appare fondata non in uno sforzo soggettivo, ma in una realtà eterna, che non muta, anche se l'uomo non la comprende, anche se l'uomo non la è. Perciò, come sopra dicevamo, al di là di ogni parallelismo, Eckhart si distingue da ogni psicologia o meditazione «laica». La generazione del Verbo avviene sempre mentre l'uomo si riferisce e si rivolge con tutto il cuore a Dio, assoluta verità e giustizia, al di sopra di ogni rappresentazione, ovvero di ogni bisogno e legame personale. È in questo rivolgersi, assolutamente distaccati, che si diviene Logos, o che il Logos si genera in noi [29].

Rimane però da comprendere nel suo rilievo filosofico e teologico proprio il significato di quelpraedica Verbum inteso come generazione della Parola, e non solo come accoglimento o conoscenza di una Parola già sussistente e già data. Si tratta proprio di produrre, di generare, una Parola altrimenti non data e non sussistente per noi. Questo si comprende con la riflessione sul rapporto divino umano e sul determinismo .

Anche partendo dal presupposto di un divino esistente prima e fuori del mondo (come in effetti siamo partiti, storicamente), la riflessione mostra che esso, nel mondo, diviene sempre intramondano, proprio se vuole essere reale — e dunque storico, finito, umano. Attenzione: qui bisogna evitare di far scattare la trappola linguistico concettuale costituita dalle coppie di termini divino-umano, soprannaturale-naturale. Essi sembrano antitetici e reciprocamente escludentisi, ma una analisi più attenta mostra che non lo sono affatto, se non in un uso ingenuo (a volte rozzo e terroristico). Proprio il mondo cristiano, dalle sue origini fino alla riflessione hegeliana, ha reso esperti della ricchezza di significato e della non rigidità dei due termini e dei due concetti. Però, anche se umano, storico, finito, naturale, non esclude di per sé divino, assoluto, soprannaturale, resta il fatto che ogni divino, nel mondo, passa necessariamente nelle categorie mondane, nel finito, nel determinato. Quando l'uomo cerca oggettivisticamente il divino lo cerca cioè come un Altro, precedente ed esistente al di fuori (lo cerca per conoscerlo, diremmo) trova sempre l'essere così e la finitezza: qualcosa che è sempre, necessariamente, dall'uomo e dell'uomo[30].

Dio non è davvero nel mondo, se non in quanto Parola, Verbum, Logos, e se non in quanto generato dall'umano, ovvero proveniente dal fondo dell'anima. Logos è ciò che l'intelletto produce, ma anche l'intelletto stesso: in questo duplice senso Dio nel mondo è solamente Logos. Perché esso non è un oggetto o un contenuto determinato (e neppure determinato come sostanza e soggetto assoluti, alla maniera di Hegel), ma quella vita e quella luce che sono nell'intelletto, che l'intelletto è nel momento del suo agire in quanto intelletto, ovvero nel distacco. Gli dèi come oggetti sono tutti morti - ed Eckhart lo sapeva bene - molto prima che l'Illuminismo e le moderne scienze delle religioni sbriciolassero i testi sacri e le rivelazioni; ma Dio è vivo in quanto Spirito, generato non attraverso riferimenti ad altro - che è sempre proiezione di bisogni psicologici e di condizionamenti di vario tipo, e che rimane sempre assolutamente altro -, generato non attraverso il riferimento mitico, ma nel Logos - ovvero nella verità, nella virtù, nell'amore e nel distacco. Si intende dire così che la generazione del Verbo non è fissazione di un oggetto, determinazione di un contenuto, «conoscenza di Dio». Anzi, questo è il suo contrario: niente di ciò che è affermativo sfugge al determinismo, e tutto rientra in quell'utilitarismo di cui le religioni e le teologie possono essere la massima potenza[31]. Al determinismo sfugge solo il negativo: l'atto di libertà - fede e ragione insieme[32] - che incessantemente rimuove il positivo come finito e incessantemente si muove al disopra dei legami con le cose, come impersonale giustizia. Solo l'intelletto è libero e deiforme, anzi, Dio è intelletto[33].

Noi generiamo, dunque, la Parola, nel senso che il divino non è, nel mondo, se non Logos, vivente Spirito, e se non generato dall'uomo. Questa è la sua condizione di verità; che provenga da noi stessi[34], perché, se non lo si produce dal profondo di noi stessi, ovvero se si è costretti a rimandare ad altro, si verifica 'sempre una non-verità, una inadaequatio. Infatti quell'essere altro, quella assolutezza cui si rimanda come fondamento, appare sempre determinata e finita, per quanti sforzi si facciano di ricondurlo al «soprannaturale». Anzi, più ci si sforza in questo senso, e più la finitezza appare chiara: più la si pone come trascendente e più appare nella sua dipendenza dallo spazio-temporale, dallo storico, dal condizionato. Così, ad esempio, nella religione cristiana i titoli cristologici (messia, salvatore, ecc. ), una volta presentati come assoluti, si disfano nell'analisi storica: la finitezza soltanto è in grado di dare loro un senso.

Si tratta invece di partire dall'opposto. Non dalla mitologia, non dalla pretesa conoscenza di Dio, ma dalla esperienza concreta, qui ed ora, della verità e della giustizia. È da questa esperienza, propria dell'uomo razionale in quanto tale, e dal suo senso reale, che appare il Logos, che si genera lo Spirito, che si è Spirito. Allora diviene anche chiaro l'imbroglio concettuale della pretesa opposizione naturale-soprannaturale. Tutto è naturale, nel senso di qui ed ora - anche il rimando al soprannaturale —(e questa è la parte di verità diciamo così feuerbachiana); ma v'è ugualmente la esperienza di grazia, di distacco, di «soprannaturale», nel senso di radicalmente diverso dalla naturalità comune e dal suo determinismo. In questo aprirsi della libertà, del regno dello Spirito, in questa gioia e ricchezza, sorge spontaneo il riferimento a Dio. Tale riferimento non appartiene allora alla dipendenza, al bisogno, all'ordine dello psicologico - e dunque della alienazione -, ma è invece frutto della ricchezza e nobiltà dello spirito, della libertà e dell'intelligenza. Proviene, come si è visto, dall'interno di noi stessi, da quel fondo in cui è terminatala spazio-temporalità, in cui - morto l'io - niente si sa, niente si vuole. In quell'« eterno presente», dove

«Dio è bene tuo proprio come è bene suo proprio, è Dio per te come lo è per sé, e non di meno»[35],

non si ristà all'oggetto come servi, ma si crea, si genera. È nella creazione che le cose hanno senso: rimandata alla oggettività la Parola perde significato, diviene falsa - un contenuto che si può smontare nel suo determinismo, affidato alla storia e dalla storia eroso. L'oggettività è infatti la dimensione servile, quella della utilizzazione; è la dimensione del «perché», ma chi agisce per un perché è un servo, un mercenario - dice Eckhart - e non sarà mai uomo libero, uomo nobile, figlio di Dio.

La Parola, il Logos, è il fondo dell'anima, la vera essenza dell'uomo. Pronunciare, generare la Parola, non significa dunque soltanto ripetere la realtà di Cristo/Logos essendo verità e giustizia, ma, prima ancora, significa trovare la realtà, l'essere: uscire dalla alienazione, dal dolore infinito del «mare della dissomiglianza»[36], entrare nella gioia e nella pace.

«Ci sono molte persone che non lo comprendono - conclude Eckhart - e questo non mi sembra strano; infatti l'uomo, per comprendere ciò, deve essere molto distaccato, ed elevato al di sopra di tutte le cose mondane. Ci aiuti Dio a giungere a questa perfezione. Amen»[37].

Marco Vannini


 

* Il presente articolo riprende il saggio pubblicato in Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, a cura di Massimo Baldini e Silvano Zucal, Morcelliana, Brescia 1989, pp. 17-31, che raccoglie gli Atti del convegno “Il silenzio e la parola”, tenuto a Trento il 15-17 ottobre 1987, presso l’ Istituto di Scienze Religiose di quella città. Sono state apportate lievissime modifiche e integrazioni bibliografiche[nda].

[1] Cfr. Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1985, p. 102.

[2] Ivi, p. 104.

[3] Più diffusamente il tema è trattato altrove; ad esempio nel sermone Dum medium silentium (ivi, pp. 139-152).

[4] La chiesa non è un luogo più santo della stalla o del focolare, dice Eckhart; anzi, può divenire luogo di falsità e di negazione di Dio più di ogni altro luogo, se permane l'affermazione dell'io. Sulle singolari e profonde affinità di certe riflessioni eckhartiane con la tematica nietzscheana, mi permetto rimandare al mio Nietzsche e il cristianesimo, D’Anna, Firenze 1986.

[5] Ivi, pp. 104-105.

[6] Cfr. le Istruzioni spirituali, in M. Eckhart, Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1999, pp. 60-61.

[7] Cfr. ad es. il trattato Del distacco (in Dell’uomo nobile, cit., p. 132), o il sermone Omne datum optimum (in Meister Eckhart, I Sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, pp. 112-118).

[8] Cfr. ad es. D. T. Suzuki, Misticismo cristiano e buddista. Roma 1971, o, più specifica, l'opera del traduttore giapponese di Eckhart, S. Ueda: Die Gottesgeburt in der Seele und der Durchbruch zur Gottheit. M. Eckhart und der Zen-Buddhismus, Mohn, Gutersloh 1965.

[9] Cfr. il sermone Beati pauperes spiritu (in Sermoni tedeschi, cit., p. 131): l'uomo povero è quello che «niente vuole, niente sa, niente ha». La frase «L'uomo interiore sfugge a se stesso (al suo proprio essere)» è nel sermone Gott ist diu minne (op. cit., p. 176).

[10] La distinzione classica è fatta propria, come opposizione, anche da S. Paolo (1 Cor. 2, 10 e s.).

[11] Cfr. ad es. il sermone Omne datum optimum (in I Sermoni, cit.) o Gott hat die Armen (inSermoni tedeschi, cit.).

[12] Cfr. il fondamentale sermone Intravit lesus in templum (in I Sermoni, cit., pp. 91-98). Che ilnoùs sia il neòs di Dio è affermato da Porfirio, Lettera a Marcella, 19.

[13] Cfr. le Istruzioni spirituali (in Dell’uomo nobile, cit., p. 61).

[14] Opposta alla regio dissimilitudinis di agostiniana memoria (Conf. VII, 10).

[15] Cfr. il sermone Mortuus erat et revixit (in Sermoni tedeschi, cit.).

[16] La distinzione si trova in Agostino, De vera religione, 10-11.

[17] Cfr. il sermone In occisione gladii (in I sermoni, cit., p. 144). Sul problema del rapporto fede-ragione, studiato in Eckhart e in Hegel, mi permetto rimandare al mio Dialettica della fede, Marietti, Casale Monferrato 1983, e soprattutto al mio Mistica e filosofia, Piemme, Casale Monferrato 1996.

[18] Sulla equivalenza dei due termini eckhartiani ha riflettuto anche Heidegger, nel suoGelassenheit (tr. it.: L'abbandono, Il Melangolo, Genova 1983).

[19] Plotino, Enneadi v, 5, 8.

[20] Così, nelle Istruzioni spirituali (Dell’uomo nobile, cit., pp. 115-116), Eckhart dichiara insignificante il problema della natura e della grazia, nel senso di stabilire da dove proviene la pace presente.

[21] Vedi l'omonimo trattato, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 219-233.

[22] Vedi Del distacco, cit.

[23] Vedi nota 16.

[24] II male è non essere; il peccatore è nulla, non ha essere, non è essere (cfr. ad es. ilCommento alla Genesi, a cura di M. Vannini, Marietti, Genova 1989, n. 244, p. 139).

[25] Cfr. ad es. i sermoni Gott hat die Armen e Scitote, quia prope est regnum dei (in Sermoni tedeschi, cit., pp. 162 e 178).

[26] Cfr. ad es. i sermoni lusti vivent in aeternum (I Sermoni, cit., p. 135) e lustus in perpetuum vivet (Sermoni tedeschi, cit., p. 108).

[27] Dio viene chiamato “supremo distacco” al termine del trattato Del distacco (cfr. Dell’uomonobile, cit., p. 146). Spesso Eckhart definisce Dio come “negazione della negazione”: cfr. ad es.Sermoni tedeschi, cit., p. 42).

[28] Così Eckhart chiama i suoi accusatori nell’ autodifesa. Vedi la Rechtfertigungschrift citata più avanti, alla nota 34.

[29] Perciò è radicalmente sbagliato ogni tentativo di ridurre Eckhart nell'ambito di categorie meramente psicologiche (cfr. ad es. E. Fromm, Avere o essere, Mondadori, Milano 1977), od anche soltanto filosofiche. La dimensione propria di Eckhart è quella del religioso.

[30] Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, prop. 6.41, 6.432 (Dio non rivela sé nel mondo).

[31] Quanto la religione possa essere utilitarismo (e dunque non vera religione), lo spiega a fondo Hegel nel capitolo «La lotta dell'illuminismo con la superstizione» della sua Fenomenologia dello Spirito.

[32] Vedi ancora il mio Dialettica della fede, cit.

[33] Cfr. i sermoni Euge, serve bone et fidelis e Videte qualem caritatem (in Sermoni tedeschi, cit., pp. 164 e 223).

[34] Ricordiamo la splendida affermazione eckhartiana, che taglia corto con ogni alienazione religiosa cinque secoli prima di Hegel o Feuerbach: «Nos non debemus scire de quocunque propter quid vel de quare extra nos, nec deum, nec creaturam... quia ad quodcunque movemur aliter quam ex nobis, hoc totum est actus mortalis peccati» (Rechtfertigungsschrift II, art. 31; ed. Théry, p. 236).

[35] Cfr. il sermone in esame, op. cit., p. 107

[36] Vedi nota 15.

[37] Op. cit., p. 107.

 

Da: www.rivista.ssef.it

 

TORNA SU