in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Salvezza attraverso l'Esperienza
della Morte

Celestino CAVAGNA

____________________________________________________________________________

1) Prefazione

2) La Grande Morte nel Buddhismo

3) L'esempio di San Giovanni della Croce

4) Pratica della Meditazione Zen

 

 

1) Prefazione

La Salvezza è lo scopo principale di ogni religione, ma il significato di questa parola è vasto, e non sempre è usato nello stesso modo. Le persone ordinarie spesso pensano alla salvezza come felicità, come vita fortunata e ricca; o qualche volta come guarire da malattia fisica o psicologica. Anche questa è salvezza, ma non è tutto. La religione insegna un livello più alto di salvezza, insegna come avvicinarsi all'origine della vita dell'universo, alla purezza perfetta dell'amore. Questo nel Cristianesimo è divenire uno con Cristo, con Dio il Padre, con lo Spirito Santo, è comunione con la Santa Trinità. Nel Buddismo questo è comprendere la Realtà Ultima, come vuoto, come libertà da ogni inganno e attaccamento, come saggezza suprema e perfezione.

La salvezza ha di sua necessità una via di sforzo positivo, di fare qualche cosa, di perfezionare se stessi; ma ha anche una via negativa di lasciar andare tutto, di rinunciare a tutto, di morire, così che la Vera Realtà può splendere in tutta la sua luce, non oscurata dal ragionamento e dalle illusioni umane.

 

Vorrei qui esaminare delle vedute buddiste e cristiane di questo secondo aspetto della salvezza.

Nel Buddismo come nell'esperienza cristiana, la salvezza è vista come la Vera Vita che può essere raggiunta solamente attraverso l'esperienza della Morte.

Ho avuto l'opportunità di studiare il Buddismo Zen giapponese all'università Komazawa di Tokyo, e praticare la meditazione Zen sotto la guida di un maestro cristiano, il Gesuita Padre Enomiya Lassalle, e del maestro buddista laico Yamada Ko-un.

Come mi fu insegnato, lo scopo della meditazione Zen è di rinunciare a sé e a tutti i pensieri discriminanti Ego-centrati e vivere in semplicità la Vera Vita.

Fra i cristiani ho scelto San Giovanni della Croce, perché nel suo modo di vivere e nel suo insegnamento lui accentuò l'importanza di morire a se stessi con Cristo, fino a scegliere la Croce per il proprio nome.

 

Nell'esperienza cristiana la salvezza è vista come Morte e Risurrezione. Noi dobbiamo morire a noi stessi con Cristo e rinascere con Lui alla Vita Nuova. Gesù vuole che noi moriamo con Lui:

 

  •  

    • "Chi non prende la sua croce e non mi segue, non e' degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà". (Mt 10:38, 16:25-26; Mc 8:35-36; Lc 9:24, 17:33; Gv 12:25)

      "In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto." (Gv 12:24)

San Paolo che per grazia di un'esperienza mistica ha potuto essere uno con Cristo, anche lui enfatizza l'idea di morire con Cristo ed essere uno con lui nella risurrezione. E per lui questo voleva dire una vita corretta, libera da peccati e passioni.

 

  •  

    • "Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione." (Rm, 6:4-5)

      "Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui". (Rm 6:8)

      "Non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti e le vostre membra come strumenti di giustizia per Dio.". (Rm 6:13). "Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato." (Rm 6:7)

Questa idea di morire con Cristo qualche volta volle dire anche il vero sacrificio della propria vita. Nei primi tre secoli della storia della Chiesa i martiri erano felici di accettare la morte ed essere per sempre in Cielo con Cristo. In tempi di durezze e di persecuzioni la morte fisica era a volte inevitabile, e sacrificare la propria vita per Cristo era visto come salvezza certa.

Dopo che le persecuzioni furono finite, il monachesimo cominciò come un modo di rinunciare alla propria vita e vivere in povertà e preghiera per essere una cosa sola con la morte e la risurrezione di Cristo.

Molti santi da allora hanno vissuto e insegnato agli altri questa esperienza spirituale della Morte.

 

2) La Grande Morte nel Buddismo

 

Pensando la salvezza, il Buddismo dà grande importanza alla via negativa, all'accettazione della sofferenza e della morte, allo sperimentare la morte in modo spirituale. C'è in qualche modo una visione comune di vita, dove pensare alla morte con tutto il cuore e l'anima è il modo per condurre una vita positiva ed entusiasta.

Gautama Buddha fece della sofferenza, della morte e della liberazione da esse il centro del suo insegnamento.

Possiamo vedere delle espressioni dalle "Suttanipata" (Parole di Illuminazione), una delle più vecchie scritture buddiste Pali che si dice contengano alcune delle parole del Buddha stesso:

 

  •  

    • "Quelli che sono nati non hanno modo per evitare la morte; tu arrivi alla vecchiaia e poi muori. Realmente questo è il destino di quelli che sono nati." (575)

      "Come gli oggetti di terracotta fatti dall'artigiano alla fine si distruggono, così è per la vita umana." (577)

      "Sono presi dalla morte e vanno all'altro mondo, e neanche il padre può salvare il figlio, né i parenti possono salvare i loro parenti." (579)

      "Così le persone di questo mondo si perdono per la vecchiaia e la morte; gli uomini saggi capiscono così la realtà di questo mondo e non si rattristano." (581)

      "Uno che è impigliato nelle illusioni e ha perso se stesso, se nel piangere e rattristarsi trova qualche utilità, gli uomini saggi facciano pure lo stesso." (583)

      "Ma nel pianto e nella tristezza non può avere la pace del cuore; l'unico risultato è nuova sofferenza e il suo corpo diviene macilento ed esausto." (584)

Dai tempi antichi la meditazione sulla morte (Nenshi) fu usata come un addestramento per essere liberi dalla paura della morte e dalla concupiscenza, che causa attaccamento alle cose ed impedisce la comprensione della verità. Pensare che la morte è qualcosa di inevitabile, abituarsi all'idea che uno deve morire, immaginare la propria morte o persone morte di fronte ai propri occhi.

Nel 21mo capitolo del "Dai-chidoron" di Nagarjuna (Mahaprajnaparamita-padesa) sono descritti più in dettaglio i nove tipi di meditazione sui cadaveri come un modo liberarsi dall'attaccamento al corpo umano. C'è prima la percezione di un cadavere gonfio; un cadavere che cambia colore; un cadavere che si deteriora; sangue sul terreno fuoruscito da un cadavere; un cadavere coperto di pus; un cadavere lacerato da uccelli selvatici e animali; i lembi sparsi di un cadavere; percezione di ossa essiccate e bianche e infine percezione di ossa ridotte in ceneri.

“Nenshi” (meditazione sulla morte) fu usata moltissimo come metodo di addestramento nella setta Zen in Cina e Giappone. In Giappone specialmente, i guerrieri che spesso erano in situazione di affrontare la morte, connetterono in un certo modo l'addestramento Zen con la libertà dalla paura della morte.

 

Ma c'è nel Buddismo anche una via positiva, una ricerca della salvezza che sta nel migliorare se stessi, praticando con tutta la forza l'ascesi religiosa severa in diversi stadi, verso lo stato di perfezione. Il Buddismo classico Tendai insegna che ci sono 52 tappe verso la perfetta Buddhità, come viene spiegato nello Yo-raku-kyo, un sutra Mahayana. Uno che fa voto di realizzare la perfezione è chiamato Bodhisattva, e la sua ascesi va da 10 stadi di fede (jusshin) a 10 stadi di sicurezza (ju-ju), 10 stadi di pratica (ju-gyo), dieci stadi di devozione (ju-eko), 10 stadi di sviluppo (ju-ji); poi uno stadio di quasi Buddhità (to-gaku), e finalmente la Buddhità perfetta (myo-gaku).

Uno deve cominciare con una fede forte nella perfezione e una volontà forte per realizzarla. Poi deve tenere fissa la sua mente nella sicurezza della verità e riposare in essa con la meditazione. Questa concentrazione pacata sul vuoto della realtà conduce a stadi più alti di comprensione. Evitare i concetti sbagliati, l'ignoranza, l'attaccamento alle idee; sopportare tutte le difficoltà senza scontrarsi contro gli altri, aiutare tutti gli esseri viventi e fare il massimo sforzo per condurli alla salvezza: questi sono i primi stadi della pratica ascetica. I seguenti dieci stadi della devozione significano qui che il Bodhisattva non tiene per sé tutti i meriti che accumula con la meditazione e l'ascesi, ma per amore verso tutti gli esseri viventi, dà via questi meriti in molti modi a quelli che ne hanno bisogno. In questo modo raggiunge uno stato di felicità, purezza, compassione e luminosità. Diventa immutabile, vince le difficoltà, è presente dovunque e ha profonda saggezza. Lo stadio di quasi Buddhità (to-gaku) è uno delle 52 tappe per ottenere e portare a perfezione la Buddhità. Pensando questo processo nella dimensione del tempo, esso può durare un numero inimmaginabile di kalpa, (periodi estremamente lunghi, detti anche eoni). In questo processo come insegna il Buddismo Mahayana, i Bodhisattva rinunciano volontariamente a completare la propria perfezione per aiutare gli altri esseri viventi e condurli tutti alla salvezza.

L'ultima tappa "Myo-gaku", è la Buddhità perfetta, dove il Bodhisattva ha sradicato completamente tutti gli inganni, ha acquisito la saggezza più perfetta e sperimentato l'illuminazione suprema senza limite.

 

Nel Buddismo Zen i maestri spesso parlano della "Grande Morte" (Dai-shi). Questo va oltre la pratica per raggiungere la perfezione. Si tratta di gettarsi in uno stato di morte spirituale, e si ha in cambio la più completa libertà di azione. "La Grande Morte innanzi tutto, e la Grande Vita apparirà." "Grande Morte, Grande Vita: alla fine vi è risurrezione."

Gettare via tutto il pensiero discriminante che noi di solito abbiamo, vuotare completamente la propria mente e dedicarsi alla pratica religiosa. Da qui comincerà la vera vita nuova .

Come il maestro Dogen disse nella sua opera maggiore, lo Shobo-Genzo:

 

  •  

    • "Con questa forza egli dà vita ai quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria, e costringe la mente, la coscienza e la saggezza a morire la loro morte assoluta" (Dogen, Shobo-Genzo, Gabyo no maki)

Costringere la mente, la coscienza e la saggezza a morire la loro morte assoluta è il rifiuto completo di sé, è praticare la meditazione, lavorare, mangiare il riso, bere il tè, dormire con naturalezza completa, senza disturbare la vita col pensiero e il giudizio discriminante, senza pensieri Ego-centrati. Questa vita semplice e naturale che noi possiamo vedere nelle note dei maestri Zen è la pienezza di vita in tutto ciò che uno fa, è dare vita ai quattro elementi.

 

Prendendo un esempio dal Mumonkan (La barriera senza ingresso), una raccolta di aneddoti dei maestri Zen cinesi compilata da Mumon Ekai nel 1229, questa Grande Morte è come spiccare un salto in avanti dalla cima di un palo.

 

  •  

    • Il maestro Sekiso disse, "Come fai tu a spiccare un salto in avanti dalla cima di un palo di trenta metri"? Un altro eminente maestro antico disse, "anche se uno che sta seduto sulla cima di un palo di trenta metri ha ottenuto l'illuminazione, questo non è ancora vero. Dalla cima del palo deve fare un salto in avanti e deve manifestare il suo corpo intero a tutto il mondo nelle dieci direzioni." (Mumonkan, caso 46)

Sedere sulla cima di un palo di trenta metri è lo stadio di perfezione acquisito da una lunga pratica e da un addestramento religioso severo, è il livello più alto a cui uno può arrivare. Ma qui noi possiamo vedere la caratteristica dello Zen. Questa cima del palo è ascesi per se stessa, è la salvezza che uno pensa di avere, ma non è reale.

Uno deve abbandonare la sicurezza a cui è arrivato col suo lungo addestramento, deve sfidare l'ignoto, deve saltare con coraggio nell'incertezza. Uno deve morire, il suo Ego deve rompersi a pezzi e polverizzarsi cosparso per tutto l'universo, dove innumerevoli esseri viventi stanno aspettando il suo aiuto per essere liberati dalle illusioni.

 

Colui che ha avuto questa esperienza è chiamato "Daishitei-no-hito", l'Uomo della Grande Morte; colui che attraverso la pratica di eliminare il pensiero discriminante è completamente morto a se stesso, colui che dalla Grande Morte ha ottenuto una vita nuova; colui che è libero da visioni, voci udite, comprensioni e conoscenza; colui che è libero da ogni coscienza discriminante, un uomo completamente illuminato.

 

C'è un caso interessante nello Hekiganroku (La raccolta di detti della Roccia Azzurra), un altra raccolta compilata nel 1300 dai maestri Setcho Juken e Engo Kokugon. È chiamato "Jo-shu e la Grande Morte", e ci aiuta a capire in che cosa consiste l'esperienza dello Zen.

 

  •  

    • Soggetto principale: Jo-shu chiese To-su, "Cosa ne pensi se un uomo della Grande Morte torna di nuovo in vita?" To-su rispose, "Tu non dovresti andare in giro di notte; torna da me alla luce del giorno."

      Verso di Setcho: "Sempre a occhi aperti in vita, però lui era come se fosse morto; A cosa serve provare il maestro con qualche cosa di tabù?"

      Anche il Buddha disse che lui stesso non era ancora arrivato là;

      Chi sa quando è il momento di gettare ceneri negli occhi dell'altro ? (Hekiganroku, caso 41)

Questo dialogo tra due grandi maestri Zen cinesi, Jo-shu Ju-shin (778-897; discepolo di Nansen), e To-su Daido (819-914 discepolo di Suibi Mugaku), a una prima lettura può essere difficile da capire, ma mostra la Realtà dal punto di vista profondo dei due maestri.

Questo spesso è chiamato "la battaglia del Dharma". Si chiede e si risponde sempre circa l'essenza della realtà, ci si esamina l'un l'altro sulla comprensione della Verità. Qualche volta era tra il maestro e i suoi discepoli, qualche volta tra maestri stessi, e spesso fu fatta di fronte a molte persone. Non interessa se uno è vecchio o giovane, esperto o no, avere una vasta cultura o no, è soltanto questione di manifestare la chiarezza del proprio occhio, la profondità della propria illuminazione. Era anche normale, dopo che uno era stato addestrato da un buono maestro, andare in giro visitando altri maestri per controllare il proprio grado di illuminazione, prima di cominciare a guidare altri.

Si dice di Jo-shu che entrò nella vita monastica da bambino e praticò sempre con impegno, ma fu illuminato solamente dopo circa 60 anni di pratica, sotto il maestro Nansen. Dopo che Nansen morì lui andò in giro per visitare alcuni maestri e incontrò in questo periodo To-su Daido. Si stabilì poi sul Monte Jo-shu quando aveva circa 80 anni e istruì molti discepoli nella Via per circa 40 anni. Si dice che sia morto a 120 anni. To-su Daido era un maestro molto giovane; quando Jo-shu venne da lui, aveva soltanto 30 anni, ma già era responsabile del Monte To-su, e nel confronto con Jo-shu mostra la sua grandezza.

Nel dialogo, Jo-shu parla di un uomo che ha sperimentato la Grande Morte, uno che ha provato l'inesistenza assoluta, che con la meditazione ha fermato il pensare ingannevole della coscienza ordinaria, il cui occhio è illuminato e la cui mente è purificata. Come cambia la sua vita dopo questa esperienza? Egli ritorna in vita, alla vita ordinaria di ogni giorno, al suo lavoro e al suo pensiero normale, all'incontro con altre persone. Come viene influenzato dall'esperienza dell'illuminazione?

To-su risponde bruscamente, non andare in giro di notte come un ladro che vuol rubare qualche cosa, non c'è nulla da prendere dalla cosiddetta "esperienza di satori." Non voglio parlare circa questa buia esperienza mistica, dimenticalo. Vieni da me durante il giorno, guarda alla vita quotidiana, questo è il vero mondo; questa è la Vera Vita.

Certamente la morte spirituale è assolutamente necessaria per capire la Realtà, ma uno deve dimenticare questa esperienza. Se c'è anche solo un piccolo attaccamento ad essa, non è reale, è di nuovo l'Ego che prova piacere nel suo conseguimento spirituale.

Setcho, commentando questo dialogo aggiunge: Jo-shu era illuminato ed era come morto a se stesso; che bisogno c'era di esaminare il maestro To-su con una domanda che sapeva non avrebbe dovuto chiedere? La Grande Morte è un morire interminabile; Nemmeno gli antichi Buddha e i grandi maestri possono mettere un limite ad essa. Non c'è una cosa come "sono arrivato a perfezione." Ma questo gettarsi cenere negli occhi l'un l'altro provoca a morire di più, a morire interminabilmente. Questa è la spada del maestro che uccide e che dà la vita.

 

Il maestro Dogen (1200-1253), il grande maestro giapponese del periodo di Kamakura che portò dalla Cina il metodo di meditazione Zen nella forma della scuola So-to, chiama quest’esperienza: "Shinjin-datsuraku", Corpo e mente caduti via. Corpo e mente, cuore e anima completamente dimenticati e liberi da ogni restrizione e attaccamento.

Quando era giovane non era soddisfatto del Buddismo classico che studiò al Monte Hiei a Kyoto. Egli aveva trovato una discrepanza tra l'ideale della pratica ascetica e il migliorare se stesso verso la Buddhità perfetta, e il pensiero "Hongaku" portato in Giappone da Saicho, secondo cui ogni essere vivente ha in se stesso la natura del Buddha, e il "satori" è innato in ogni persona.

È detto nelle "Note dei Tre Grandi Venerabili", una raccolta di scritti della scuola So-to che narra la storia di Dogen, Ejo e Ghikai, i primi tre abati del monastero d’Eiheiji:

 

  •  

    • Studiando l'essenza dei maestri e il vasto insegnamento del Buddismo, ho potuto imparare che la propria natura è la stessa cosa della verità originale e assoluta. In questo anche il Buddismo classico e la scuola esoterica sono d'accordo. Ma qui sorge un grande dubbio: perché mai i Buddha e i maestri di tutti i tempi hanno bisogno di diventare monaci e dedicarsi ad una pratica religiosa severa?

Se l'uomo è un Buddha dalla sua nascita, perché non può vivere secondo la mente di Buddha, perché non vede la luce della verità, perché è impigliato in molti inganni e si rende cieco e soffre?

Per capire meglio la natura dell'uomo, la verità e il modo di ottenere la liberazione dagli inganni Dogen andò in Cina alla ricerca di un buon maestro, e dopo aver visitato molti luoghi finalmente incontrò il maestro Nyojo, il maestro giusto.

Da lui imparò il "corpo e mente caduti via."

Una volta stava meditando nella sala e il monaco vicino a lui, che era stanco, si era addormentato. Da dietro il maestro Nyojo gridò: "Questo è il tempo per dedicarti completamente alla meditazione, come se il corpo e la mente fossero caduti via, e perché tu dormi"?. Dogen si ricorda di avere avuto in quel momento una profonda comprensione e quando più tardi andò a incontrare il maestro, dopo aver bruciato l'incenso di fronte a lui come saluto, il maestro gli disse: "Che cos'è questo bruciare l'incenso?". Dogen rispose: "Eccomi qui, il corpo e la mente sono caduti via." Il maestro di nuovo: "Veramente corpo e mente sono caduti via. "Cader via", questo è il corpo e la mente", e approvò l'illuminazione di Dogen. Il corpo e la mente di Dogen ora erano liberi da qualsiasi attaccamento, egli aveva compreso che non c'era nulla da trovare o da ottenere. Lo stesso sedere in meditazione era una manifestazione dell'illuminazione; la posa corretta, la mente quieta e libera da pensieri e preoccupazioni sono esse stesse lo splendore della natura di Buddha che uno ha in sé dalla sua nascita.

Questo è un insegnamento tipico di Dogen: la pratica religiosa e l'illuminazione sono una cosa sola. Uno non pratica meditazione per arrivare a qualche cosa, a qualche livello più alto di coscienza, ma la pratica come spinto da dentro dalla sua Natura Essenziale, questo è "satori", questo è capire la realtà.

Dall'altra parte la meditazione e la pratica nella vita d’ogni giorno ampliano e approfondiscono la propria comprensione della realtà.

Il centro dell'insegnamento di Dogen è: solamente sedere in meditazione (Shikantaza). Non pensare a nessuna cosa, non volere assolutamente nulla, nemmeno l'illuminazione, non guastare la bellezza della realtà con attaccamento ad esperienze mistiche. La meditazione si compie da sola, la Grande Vita si sta mostrando, il Buddha Eterno sta meditando. E lo stesso è per la vita d’ogni giorno. Camminare, sedere, dormire, mangiare, bere, lavorare, leggere, pregare, parlare con altre persone, aiutare gli altri, tutto questo non è opera propria, questo è la Realtà al lavoro, non c'è posto per nessun Ego. Tutto ciò che accade in noi o intorno a noi è soltanto "Il gioco della Grande Inesistenza."

 

 

3) L'Esempio Di San Giovanni della Croce

 

San Giovanni della Croce, il grande mistico spagnolo del XVI secolo, aveva come caratteristica della sua vita e del suo insegnamento un rifiuto completo di se stesso, l'accettazione della povertà, sofferenza e umiliazione come un'imitazione della croce di Cristo. Lui guidò molte persone religiose, insegnando loro a morire al vecchio uomo così che uno può essere fatto rinascere da Dio in modo soprannaturale.

Una delle sue parole favorite era "nada", nulla e in qualche modo ha delle somiglianze col Buddismo Zen. Nel disegno del Monte Carmelo, quando lui scrive nel centro:

"Il percorso del Monte Carmelo, lo spirito perfetto: nulla nulla nulla nulla nulla nulla, e anche sul Monte nulla", le sue parole assomigliano a quelle di un maestro Zen.

Lui diede ai molti frati, monache e laici che chiesero la sua guida spirituale, consigli concreti sul come morire a sé stesso, ai peccati, alle passioni ed enfatizzò l'importanza di un completo rifiuto di se stesso per arrivare all'unione con Dio, la felicità suprema dell'anima. Questo rifiuto completo è "La Morte" come un addestramento che dura tutta la vita, per ottenere la liberazione dall'Ego. L'Unione con Dio, sebbene può essere un'esperienza mistica e provvisoria, è la coscienza profonda che trasforma la vita di uno, che gli fa accettare tutto con gioia, anche le sofferenze più amare e rende uno capace d’amare e volere bene a tutte le persone.

 

Nei suoi scritti, specialmente "L'Ascesa del Monte Carmelo" e "La Notte Scura" paragona il viaggio spirituale verso l'unione con Dio ad una notte scura che l'anima deve passare.

La prima parte di questa notte è la purificazione dai desideri che sono un peso per l'anima nel viaggio spirituale. La seconda parte è una purificazione della tre facoltà dell'anima: intelletto, memoria e volontà. L'Intelletto è purificato così che l'anima possa essere perfetta nella virtù della fede; la memoria è purificata così che l'anima possa essere perfetta nella virtù della speranza, e la volontà è purificata così che possa essere perfetta nella virtù della carità.

Nel primo libro della "Ascesa" circa la necessità di mortificare i desideri egli parla del danno che essi fanno all'anima, come essi tormentano l'uomo, lo oscurano, lo accecano e lo corrompono, indeboliscono l'anima e la rendono tiepida nella pratica della virtù. Così bisogna liberarsi da tutti i desideri, anche i più piccoli per raggiungere l'unione con Dio.

Nel tredicesimo capitolo del primo libro da' alcuni consigli pratici sul come entrare "nella notte dei sensi", e purificare i desideri.

 

  •  

    • Le massime seguenti contengono un rimedio completo per mortificare e pacificare le passioni. Se messe in pratica, queste massime daranno meriti abbondanti e grandi virtù.

      Sforzati di essere sempre inclinato:

      non al più facile, ma al più difficile;

      non al più delizioso, ma al più aspro;

      non al più gratificante, ma al meno piacevole;

      non a ciò che vuol dire riposo per te, ma al lavoro duro;

      non a ciò che consola, ma a quanto non consola;

      non al massimo, ma al minimo;

      non al più alto e prezioso, ma all'infimo e al più disprezzato;

      non a volere qualche cosa, ma a volere nulla;

      non andare in giro cercando il meglio delle cose temporali, ma il peggio;

      e desidera di entrare per Cristo nella nudità completa, nel vuoto, e nella povertà in ogni cosa del mondo.

      Tu dovresti abbracciare sinceramente queste pratiche e tentare di superare la ripugnanza della tua volontà verso di esse. Se le mettessi sinceramente in pratica con ordine e discrezione, scopriresti in loro grande delizia e consolazione.

      (L'Ascesa del Monte Carmelo, 1, 13 5-7)

Questo modo di pensare di San Giovanni della Croce fu influenzato grandemente dalla propria vita. Egli fu molto povero nella sua infanzia ed ebbe una vita di privazioni. Come frate divenne famoso per la sua intimità con Dio, la su profonda intuizione e l'abilità di guidare persone; ma patì la gelosia da parte di altri frati. Quando insieme con Madre Teresa di Gesù cominciò la riforma dell'ordine Carmelitano, incontrò molte incomprensioni, e dovette soffrire persecuzioni e perfino l'imprigionamento. Tutti queste fatiche normalmente indurirebbero il cuore e farebbero sì che uno si rivolti contro il mondo, ma Giovanni accettò tutto come una prova da Dio, come un modo per purificare e raffinare la propria anima. Attraverso l'esperienza della sofferenza e il rifiuto di sé, egli poté sperimentare una profonda intimità col mistero di Cristo, poté provare grandi consolazioni spirituali, e fu ripieno di comprensione e compassione per i sofferenti.

Suo padre veniva da una famiglia ricca di commercianti di seta di Toledo, ma fu escluso e privato delle proprietà della famiglia perché sposò, nonostante l'opposizione dei membri della famiglia, una donna di ceto basso. Così scelse una vita di povertà e lavorò sodo con sua moglie. Giovanni nacque nel 1542, ma subito dopo il padre morì e la famiglia fu ridotta in estrema povertà. La madre Catalina si vide rifiutare ogni aiuto che chiese alla famiglia del marito, e dovette lavorare sodo per allevare i tre bambini. A Giovanni fu fatto frequentare la Scuola del Catechismo, un'istituzione che come un orfanotrofio si prendeva cura dei bambini dei poveri, dando loro cibo, vestiti e istruzione elementare. Giovanni cominciò anche lavorare molto giovane, e imparò molti mestieri attraverso l'apprendistato da artigiani locali. Quando aveva 17 anni stava lavorando in un ospedale, e gli fu permesso di frequentare il collegio dei Gesuiti a Medina del Campo, dove poté studiare grammatica, retorica, greco, latino e religione, purché continuasse il suo lavoro all'ospedale. In seguito sentì un forte desiderio per la vita religiosa e a 20 anni entrò nell'ordine Carmelitano, e fu ordinato prete a 24 anni.

Poco dopo incontrò Madre Teresa di Gesù che gli chiese di aiutarla nella riforma dell'ordine Carmelitano che voleva intraprendere. Lo scopo era portare al convento una maggiore vita contemplativa, più preghiera mentale, più povertà nel modo di abitare, di vestire, di mangiare e una maggiore separazione dal mondo. Ai frati fu anche richiesto di andare a piedi nudi e per questo essi furono chiamati "Carmelitani Scalzi". La riforma piacque a molte persone giovani, e il gruppo aumentò rapidamente in numero. Ma molti nell'ordine si sentirono minacciati da questa riforma, e tentarono ogni sforzo per fermarli. Con l'aiuto del Nunzio Del Papa l'ordine tentò di sopprimere la riforma, e Giovanni stesso fu arrestato e tenuto prigioniero per più di mezzo anno in un convento di Toledo. Quasi ogni giorno gli fu chiesto di rinunciare alla riforma, ma egli non acconsentì, e la sua ribellione fu punita con molestie e frustate, così dure che ci vollero anni per guarire le ferite.

La riforma fu riconosciuta più tardi attraverso l'intervento del re Filippo II nel 1580 e Giovanni ebbe alcuni anni di calma e di pace e poté passare il suo tempo in contemplazione e nel suo lavoro preferito: ascoltare le confessioni e dare guida spirituale a monaci, monache, e persone laiche.

Ma verso il 1590, ebbe di nuovo guai, e stavolta all'interno della riforma stessa. Fra' Giovanni contrastò l'opinione del Vicario generale dei Carmelitani scalzi su delle questioni durante il capitolo, e l'anno seguente non venne rieletto a nessun incarico nell'ordine riformato.

Questo incidente poteva ferire chiunque, specialmente chi spese così tanta energia per il bene dell'ordine e soffrì tanto per esso, ma Fra' Giovanni accettò questa situazione come un dono di Dio. Dio gli stava dando il riposo di cui aveva bisogno; lasciato da parte e alleviato dalle responsabilità e dal lavoro, aveva più tempo per vivere in contemplazione profonda.

L'anno dopo si ammalò e morì a Dicembre dopo aver trascorso del tempo in un convento a Ubeda, pressoché dimenticato da tutti e soffrendo la molestia di un confratello ostile che provava antipatia per Giovanni per la sua reputazione di santità. Scelse lui stesso quel luogo perché nessuno sapesse dov’era.

Le seguenti parole dal secondo libro dell' "Ascesa del Monte Carmelo" rivelano come egli fermamente credette nella necessità di negare se stesso e prendere la croce sui passi di Gesù.

 

  •  

    • Oh, chi può spiegare l'estensione del rifiuto di se stessi che il nostro Signore desidera da noi! Questa negazione di sé deve essere simile a una completa morte temporale, naturale e spirituale, ovvero, per riferimento alla stima della volontà che è la fonte ogni rifiuto.

      Il nostro Salvatore si riferì a questo quando dichiarò: Colui che desidera salvare la propria vita la perderà (se qualcuno vuole possedere qualche cosa, o lo cerca per se stesso, lo perderà); Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. [Mt.16:25; Lk.9:24]. La seconda affermazione significa: Colui che rinuncia per Cristo a tutto quanto la sua volontà può desiderare e può godere, scegliendo quello che ha più somiglianza alla croce - che il nostro Signore nel vangelo di San Giovanni chiama "odiare la propria vita [Gv. 22:25] - costui la guadagnerà.

      Sua Maestà nostro Signore insegnò questo ai due discepoli che vennero a chiedergli di stare alla Sua destra e sinistra. Senza rispondere alla loro richiesta di gloria, Egli offrì loro il calice che lui stesso stava per bere, come qualcosa di più sicuro e più prezioso su questa terra che non il godimento. [Mt. 20:22]

      Questo calice simboleggia la morte a se stesso attraverso lo spogliamento e l'annientamento. Come risultato di questa morte uno può camminare lungo la strada stretta nella parte sensibile della sua anima, come noi dicemmo, e nella parte spirituale (nella sua comprensione, gioia e sentimenti)

      (L'Ascesa del Monte Carmelo, II, 7 6.7)

Uno può chiedere che salvezza c'è nella povertà, nelle privazioni, nelle incomprensioni, persecuzioni e sofferenze. Alcuni possono pensare alla salvezza solo come una ricompensa nel mondo futuro, dopo un’intera vita di sofferenza e perseveranza.

Ma noi possiamo vedere in San Giovanni che il rifiuto di sé, insieme con la preghiera continua e la pratica della carità trasformò la sua vita intera nella vita più felice che uno potesse desiderare, e fu capace di dare amore, pace e felicità a ognuno.

 

Mi sembra di riconoscere innanzitutto la Vita Nuova di San Giovanni nel carattere gioioso che sempre aveva. Egli aveva un dono speciale per l'umorismo e nonostante come superiore fosse naturalmente serio, amava far ridere le persone. I frati erano felici di averlo insieme a ricreazione. Lui notava immediatamente persone tristi e depresse e cercava di alleviare la loro tristezza con parole gentili. Come superiore usava sempre gentilezza e carità nel correggere le persone e mai usò metodi aspri. Era paziente con tutti; nel sacramento della penitenza per esempio, i peccatori induriti, gli scrupolosi o altri che di solito i confessori non gradiscono, cercavano lui, e lui non limitò i suoi sforzi per capirli e dare loro pace.

Nel convento spesso chiedeva l'opinione degli altri frati circa molti problemi che accadevano. Tutto questo creava intorno a lui un ambiente di serenità e di gioia.

Egli era sempre ripieno di fiducia e libero da ogni preoccupazione e ansia. In tempi in cui il convento era molto povero, lui incoraggiò ognuno ad essere fiduciosi nell'aiuto di Dio, e ogni volta l'aiuto arrivò in modi misteriosi. Quando perseguitato da altri religiosi dell'ordine, lui vide in quello la mano di Dio, ed esortò altri a non essere turbati per i persecutori, ma a ringraziare Dio per le prove che raffinano la propria anima. In tale modo il suo atteggiamento aiutò a tenere sempre un'atmosfera di calma e di pace nel convento .

 

Un altro aspetto della sua Vita Nuova fu come lui sempre si sentì in unità di spirito con tutte le persone, sentendo le loro necessità, le loro sofferenze e sempre li aiutava, ripieno di amore bruciante. La sua cura più speciale era per i poveri. Lui stesso ebbe un'infanzia molto povera, e in quei tempi di sfortuna e di bisogno materiale, spesso andò oltre la direzione spirituale e diede soldi a diverse persone dai piccoli fondi del convento, o qualche volta andò fuori a mendicare per aiutare dei poveri che non potevano mendicare da soli.

Inoltre ebbe una preoccupazione speciale per gli ammalati. Il suo lavoro nell'ospedale di Medina quand'era giovane, gli lasciò una profonda compassione per gli ammalati. Spendeva lungo tempo vicino al letto dei suoi frati, parlando e incoraggiandoli; o andava in cucina a preparare dei pasti speciali per gli ammalati. Quando c'era bisogno di qualche medicina costosa , andava in giro lui stesso a chiedere elemosine per comprarle.

Spesso anche condivideva il lavoro manuale che opprimeva i frati o le monache dove lui andava per le confessioni. Costruire muri, fare riparazioni, o anche intraprendere compiti umili come scopare o fregare i pavimenti o pulire il giardino.

Amava moltissimo la natura, e qualche volta conduceva i suoi frati in montagna per ricreazione, o passava lungo tempo pregando vicino al fiume o meditando nella quiete di una caverna.

Meditava la Bibbia (il suo libro preferito) e la liturgia della Chiesa con tale intensità che il suo aspetto cambiava. Una volta durante la Settimana Santa soffrì così intensamente per la Passione di Cristo che non poteva lasciare il convento per ascoltare le confessioni delle monache. Una volta a Natale prese la statua di Gesù Bambino nelle sue braccia e andò in giro per il convento cantando e ballando con gioia.

Tutti questa gioia e il grande amore che sentiva verso tutte le persone, derivava dalla sua unità e intimità con Dio. Durante la preghiera a volte arrivava a estasi profonde e dimenticava tutto. C'è un racconto famoso come una volta alla festa della Santa Trinità mentre parlava con Madre Teresa di Gesù circa il mistero della Trinità, entrambi caddero improvvisamente in estasi profonda e furono elevati in alto dalla forza dello Spirito. Madre Teresa disse in seguito: "Uno non può parlare di Dio a Padre Giovanni della Croce perché lui subito va in estasi e causa lo stesso agli altri."

Fra' Giovanni stesso, parlando a proposito della Vita Nuova disse:

 

  •  

    • Spiritualmente parlando, ci sono due generi di vita:

      Una è beatifica, e consiste nella visione di Dio che si ottiene dopo la morte naturale, come San Paolo dice: Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un'abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli. [2 Cor. 5:1]

      L'altra è la perfetta vita spirituale, il possesso di Dio attraverso l'unione di amore. Questa è acquisita attraverso la mortificazione completa di tutti i vizi e i desideri e della propria natura. Fino a che questo non è realizzato, uno non può arrivare alla perfezione della vita spirituale di Unione con Dio; come l'Apostolo stesso dichiara in queste parole: "Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete." [Rom. 8:13] (la Viva Fiamma dell'Amore, Stanza 2 n.32)

In questo modo, più che in ogni altro, la comprensione di salvezza come morire a se stessi con Cristo e vivere la Vera Vita della Risurrezione, è particolarmente chiaro nella vita e insegnamento di San Giovanni della Croce.

 

4) Pratica della Meditazione Zen

Infine vorrei dire qualche cosa circa la mia esperienza personale di meditazione Zen con Padre Enomiya Lassalle e il Maestro Yamada Ko-un. Essi mi hanno insegnato che l'esperienza della morte consiste nell'essere semplici, nel dimenticare sé stessi; vivere in modo giusto e vero e praticare continuamente la meditazione. Meditare con impegno, non per ottenere qualche cosa, ma per dimenticare sé stessi e capire in profondità la nullità di sé e del tutto. Questa è libertà e verità. Inoltre, controllare se quello che è compreso è vissuto nella vita di ogni giorno (personalizzazione dell'esperienza). Vedere nei sentimenti, nei pensieri, nel modo di incontrare le persone, nel modo di affrontare i problemi, se uno si è veramente svuotato ed è libero. La prova della vera comprensione (satori), è la capacità di essere una cosa sola con tutte le persone, è di essere a proprio agio in ogni situazione. Se non c'è questo, non ci può essere la "Vita Nuova", non ci può essere salvezza, è solamente una spiritualità fatta di parole e di idee.

 

Il mio primo sesshin (ritiro Zen di diversi giorni) con Padre Lassalle a Shinmeikutsu (la casa di ritiro Zen cattolica, sui monti alla periferia di Tokyo) fu alla fine di marzo del 1979. Ero già abituato da prima a sedere in meditazione Zen da solo, ma quella era la prima volta che partecipavo a un sesshin completo di cinque giorni, e non immaginavo come sarebbe stato. L'amico con cui andai aveva partecipato già molte volte a dei sesshin, e mi disse non era così duro. Avrei sentito male alle gambe all'inizio, ma poi mi sarei abituato.

Con molta fiducia entrai nella casa di ritiro e mi sentii subito a mio agio col silenzio e l'austerità di Shinmeikutsu, e pensai che per me sarebbe stato un buon sesshin .

Mi sedetti un po' nello Zendo (sala di meditazione) da solo per gustarne l'atmosfera, e poi avemmo un incontro di introduzione e di spiegazione dettagliata dei giorni del sesshin.

L'orario era piuttosto severo, con davvero molto tempo di meditazione. Non avevo problemi col silenzio e pensai che sarebbe stata una bella esperienza lo stare una settimana intera senza parlare. Mi piaceva anche il cibo giapponese vegetariano e non mi preoccupai più di niente.

 

Il seguente è l'orario quotidiano del sesshin a Shinmeikutsu. E' anche lo stesso orario dei sesshin nei monasteri Zen dai tempi antichi:

 

  •  

    • 4:00 Levata

      4:20 Zazen (sedere in meditazione zen)

      5:00 Messa, Zazen

      6:00 Colazione

      6:30 Samu (lavoro manuale), interruzione

      7:30 Zazen (40 minuti), Kinhin (camminare in meditazione)

      8:30 Conferenza sullo Zen

      9:30 Zazen, Dokusan (incontro privato col Maestro), Kinhin.

      10:30 Zazen

      11:00 Pranzo, momento di riposo

      1:30 Tè, Zazen, Kinhin

      2:30 Zazen, Dokusan, Kinhin

      3:30 Zazen, Kinhin, preghiera della sera

      4:30 Cena

      6:30 Zazen, Kinhin

      7:30 Zazen, Dokusan, Kinhin

      8:30 Zazen

      9:00 Ultime istruzioni del maestro, Tè

      9:30 Riposo

Il primo giorno ci alzammo alle 4:00. In 15 minuti ero pronto ed entrai nella sala di meditazione, sedetti in posizione aspettando la campana che dà il segnale d'inizio dello zazen. Nel silenzio profondo nessuno si muoveva , sembrava perfino che nessuno respirasse. Il suono vibrante dei tre colpi di gong entrò nei miei orecchi e nel mio cuore profondamente, conducendomi a un più profondo silenzio interiore. Continuai a seguire mentalmente il respiro e capii che per me stava iniziando una vita nuova. Finalmente potevo avere un vero addestramento Zen con un buon maestro, una cosa che desideravo da molto tempo.

Dopo lo zazen ci fu kinhin, la meditazione camminando, poi la Messa. La colazione fu molto semplice, riso in brodo con un po' di tsukemono, le salamoie giapponesi. Seguì il samu: lavoro nella casa, pulire la sala di meditazione, i corridoi, i gabinetti; oppure fuori, pulendo intorno alla casa, e il giardino.

Una piccola interruzione e di nuovo zazen. 40 minuti erano un po' lunghi e le mie gambe cominciavano a far male più che mi aspettassi ma tentai di concentrarmi meglio che potevo. Padre Lassalle ci tenne una conferenza circa il corretto modo di sedere della meditazione Zen, poi di nuovo zazen, kinhin, zazen fino alle 11:00 quando ci fu il pranzo e poi potemmo riposare per un paio d'ore. Si dovrebbe essere concentrati continuamente, anche durante il riposo, ma ruppi il silenzio per parlare del mal di gambe con l'amico con cui condividevo la stanza. Lui mi rassicurò che il primo giorno è sempre duro, ma dal secondo giorno ci si abitua. Nel pomeriggio la meditazione divenne più difficile per il dolore di gambe. Stavo facendo del mio meglio ma il tempo sembrava così lungo, non potevo concentrarmi bene, e aspettavo solo la fine della seduta. Venne il momento della cena, una breve interruzione e di nuovo lo zazen. In qualche modo vennero le 9 di sera e sentii un grande sollievo per aver terminato la giornata. Nelle ultime istruzioni Padre Lassalle ci consigliò di non allentare mai la concentrazione, impegnandoci al meglio nello zazen, come se fosse una questione di vita o di morte.

 

Il secondo giorno cominciai lo zazen di nuovo con tutta la forza ma compresi che le gambe ancora facevano male.

La conferenza di Padre Lassalle fu circa l'effetto della meditazione Zen, e fui colpito e ripresi speranza quando lui parlò di "Joriki", la forza spirituale che viene dalla meditazione. Qualcosa che migliora le funzioni di tutto il corpo e allevia anche il dolore. Il pomeriggio sedere in zazen divenne di nuovo molto difficile. Capii che non stavo migliorando, ma perdendo coraggio. Non mi stavo concentrando, ma soltanto desideravo fortemente che la seduta finisse presto. Qualche volta perfino contavo i miei respiri fino a cinquanta, immaginando che nel frattempo il gong avrebbe certamente segnalato la fine della seduta. Qualche volta il dolore era così forte che tutto il mio corpo tremava, e quando mi alzavo alla fine della seduta non potevo stare in piedi. Cominciavo a dubitare che avrei potuto finire i cinque giorni di meditazione zen. Alla seduta della sera le cose peggiorarono. Cominciai a pensare che il giorno seguente, avrei potuto prendere l'autobus al mattino presto e abbandonare il sesshin. Forse non ero preparato fisicamente, forse ero troppo stanco, avrei dovuto fare più esercizio fisico prima di andare a un sesshin. Avrei potuto fare meglio la prossima volta.

Ricordai la fiducia che avevo in me stesso quando cominciai il giorno prima. Veramente volevo praticare zazen, e spesso dicevo agli amici che lo zazen era per me. Lo Zazen era il modo per approfondire l'intuizione e comprendere la Verità così com'è. Ero sicuro che era il modo di vivere adatto a me.

Potei vedere che non era una questione di preparazione fisica, ma era come se dovessi morire a me stesso, non solo nelle idee e i sentimenti, ma anche con tutto il mio corpo. Stavo mentendo, stavo prendendomi molta cura del mio caro "Io". Stavo mostrando agli altri un'immagine spirituale di me, qualcuno a cui piace la meditazione e può praticare zazen. Pensavo di essere "un bravo meditante", come dicono nello Zen. Ma la bugia divenne chiara a causa del dolore di gambe, la maschera sbriciolò via e mi sentii pieno di vergogna di me stesso. Se avessi lasciato il sesshin il giorno seguente, non sarei mai potuto sedere di nuovo, avrei trovato sempre delle scuse per rimandare la meditazione, o avrei pensato che forse non avevo bisogno di meditazione zen per niente, e potevo benissimo usare soltanto la preghiera cristiana stando seduto comodamente. Non erano solo le mie gambe che stavano facendo male ma tutto me stesso, specialmente il mio orgoglio.

Sentii che le mie guance erano bagnate. Lacrime calde stavano fluendo lentamente dai miei occhi e la mia respirazione era eccitata.

 

Decisi di non andare via. Volevo finire il sesshin. Volevo praticare zazen, e arrivare all'esperienza di comprendere la Verità come facevano i maestri Zen. Pensai ai martiri cristiani al tempo delle persecuzioni, o ai prigionieri politici in alcuni paesi che sopportano le torture per i loro ideali e che anch'io potevo sopportare un po' di dolore di gambe. Il giorno seguente quando ebbi la prima opportunità di incontrare Padre Lassalle privatamente, gli dissi sinceramente che non riuscivo più a sopportare il dolore di gambe ma che volevo continuare fino alla fine. Lui mi disse che potevo sedere da solo nella stanza piccola fuori dalla sala di meditazione, così avrei potuto muovere le gambe quando il dolore era troppo forte e non avrei disturbato gli altri. Feci quanto mi disse, ma con un forte sentimento di fallimento vedendo gli altri sedere silenziosi nella sala.

Il quarto giorno non potevo sedere cinque minuti senza muovermi, e fui consigliato di sedere con le gambe diritte in giù lungo il rialzo del posto di meditazione. Il quinto giorno anche la mia spina dorsale cominciò a far male, ma non dissi più niente. Alla fine dell'ultima seduta della sera qualcuno colpì l’asse di legno fuori della sala di meditazione per segnare la fine del sesshin. Prima lentamente, poi più veloce con ritmo crescente, come il suono di una biglia di vetro che cade sul pavimento. I cinque giorni trascorsi mi erano sembrati degli anni e quel suono mi parve un sollievo molto grande, sebbene sentissi che mi stava invitando ad altri sesshin e a un addestramento più lungo.

Quando il sesshin era finito dissi a Padre Lassalle che era stata una grande esperienza per me; era come se fossi morto a me stesso, o a quello che credevo di essere. Lui rise e mi disse che nessuno è mai morto per essere stato seduto in meditazione, che il mio impegno deciso verso la meditazione zen era una buona cosa ma era solo metà della Via, l'altra metà consisteva nel continuare la meditazione per tutta la vita.

Dopo quella volta presi di nuovo parte a molti sesshin. Questi non furono così dolorosi come il primo; poco per volta mi stavo abituando. Non era il dolore alle gambe che diminuiva ma la determinazione che era aumentata con la pratica. Qualche volta potevo sedere realmente in concentrazione profonda e sentirmi a mio agio, ma qualche volta non riuscivo a concentrarmi, preoccupato di diverse cose. La pratica Zen è lenta e richiede lungo tempo, richiede tutta la vita.

Dopo cinque anni ebbi il forte desiderio di approfondire la concentrazione e l'intuizione, dedicando più tempo alla meditazione, sotto la guida di un maestro. Potei ottenere un anno libero da impegni parrocchiali e seguire la guida del maestro Yamada Ko-un di Kamakura, a cui fui presentato da Padre Lassalle. Andai a vivere a Kamakura affittando una stanza e ogni sera dalle 6:30 alle 9:00 frequentavo il San-Un Zendo dove insieme con 20 o 30 altre persone potevo sedere in meditazione e avere quasi ogni sera l'incontro privato col maestro Yamada. Avevamo ritiri zen due volte al mese per tutta la domenica e ogni circa due mesi avevamo sesshin di 4 giorni o 5 giorni.

 

Il maestro Yamada mi accettò come discepolo il 21 Gennaio 1984. Il suo insegnamento negli incontri privati con me cominciò col primo caso del Mumonkan: "Il cane di Jo-shu" .

"Quando pratichi meditazione, ripeti mentalmente "Mu"( il Nulla) a ogni respiro; non cercare altro se non di divenire una cosa sola con il Mu. Non pensare quando mediti, ma solo ripeti mentalmente "Mu, Mu Mu", e la prossima volta portami la risposta. Che cosa è il Mu?

Feci quanto mi disse. Ripetevo continuamente Mu quando meditavo; qualche volta mentre viaggiavo in treno, e ogni qualvolta potevo riposare la mente prima di dormire, stavo ripetendo mentalmente Mu. Ma ogni volta che incontravo il maestro Yamada nell’incontro privato, le mie risposte erano soltanto idee e pensieri circa il Mu. Ogni tentativo era rifiutato e non sapevo più che cosa rispondere.

"Non ti ho detto di pensare al Mu, soltanto di portarmelo. Se tu realmente divieni uno con il Mu dovresti capirlo. Ripeti Mu quando respiri, a ogni respiro, non perderlo mai. Se hai distrazioni, ogni volta torna indietro al Mu, torna sempre indietro al Mu, ripeti Mu soltanto come uno stupido, per sempre. Non preoccuparti del significato del Mu. Non è filosofia, non è teologia, Mu è solamente Mu."

Qualche volta non sapevo come rispondere, e dicevo "sto ancora cercando il Mu." Lui era tagliente nel rispondere:

"Non devi cercare il Mu, il Mu cerca se stesso. Questo è il Mu"

e guardandomi fisso disse con respiri profondi:

"Mu, Mu, Mu. Tu devi dimenticare te stesso e soltanto ripetere Mu, all'infinito. La pratica del Mu è senza fine. Devi fonderti nel Mu. I tuoi sono solo pensieri, non è il Mu. Impegnati di più, impegnati di più. Non c'è l’Io, non c'è il pensare, c'è solamente il Mu.

Ricorda quanto disse il maestro Harada: Il Mu sta muificando il Mu."

Quasi ogni volta che incontravo il maestro era la stessa cosa. Cominciai ad avere paura di lui. Stavo facendo del mio meglio, almeno nella mia intenzione.

 

Ad Aprile un giorno dissi al maestro Yamada che avevo cominciato a frequentare dei corsi sul Buddismo all'università Komazawa di Tokyo, pensando che lui sarebbe stato contento. Ma la sua reazione fu inaspettata. Mi gridò all'improvviso:

"Io non ti dissi di studiare, ti dissi solo di ripetere Mu tutto il giorno. Mu non può essere capito studiando. Devi dimenticare tutto te stesso ed essere una cosa sola col Mu."

Tentai di spiegare che lo studio non era per capire il Mu, ma soltanto per passare meglio il mio tempo libero. Ma lui fu molto severo.

"Smetti di studiare, e pratica con impegno! Oppure vai via. Se non hai fiducia in me, vai dove vuoi, ma non darmi più fastidio. Sono occupato con molte persone che vogliono realmente praticare."

Fui scosso da quella reazione e capii come la pratica del Mu doveva essere seria. Sebbene non potessi smettere la scuola, mi promisi di fare veramente tutto per poter mostrare il Mu al maestro, e praticai con più impegno, dedicando più tempo alla meditazione. Dalla sua parte, lui non mi chiese più dello studio, e continuò a guidarmi con tutto il cuore.

Una volta mi disse:

"Tu stai praticando con molto impegno, ma questo non è abbastanza. Devi praticare e meditare come se dovessi morire."

Non potei dimenticare queste parole. A poco a poco capii che non era questione con quanto impegno facevo, ma una questione di non fare, non di cercare di ottenere qualcosa, ma di lasciare andare ogni cosa, era questione di morire. Non pensare, non desiderare, non desiderare nemmeno di capire il Mu. Cominciai a meditare come un morto. Ogni volta che sedevo in meditazione, ripetevo solamente Mu, immaginando che era la mia ultima seduta, che la mia vita finiva, che non avevo un futuro di cui preoccuparmi, che era l'unica opportunità che avrei avuto in tutta l'eternità. Senza pensare, senza tentare di dare risposte intelligenti al maestro, dicevo solo "non capisco", o soltanto ascoltavo lui e mi inchinavo in silenzio.

Col tempo ero come posseduto dal Mu, sentivo che la parola Mu detta a ogni respiro stava divenendo come una spina dorsale in me, era come un ruscello che scorreva dentro di me tutto il tempo.

La mia coscienza era molto chiara, ero molto calmo e il tempo della meditazione passava in fretta.

Alcune parole sentite durante il sesshin alla sera, quando il supervisore batte l'asse di legno all'ingresso della sala, col ritmo crescente tipico che segna la fine di ogni giorno, aiutò grandemente la mia concentrazione.

 

  •  

    • "Vi dico in tutta sincerità,

      Vita e Morte sono una questione importante,

      Esse sono fugaci e rapidamente passano via,

      ciascuno di voi sia ben sveglio e allontani le illusioni,

      sia accurato, e non si comporti secondo il proprio modo di vedere".

Seppi più tardi che queste parole sono scritte sull'asse di legno all'ingresso della sala di meditazione, secondo le regole del maestro cinese O-baku (850), e gridate ogni sera durante il sesshin per incoraggiare gli studenti a praticare sinceramente.

Il Maestro Yamada osservava attentamente la mia pratica. Un giorno in Giugno mi disse durante l'incontro privato che il Mu era vicino, a portata di mano. Si alzò in piedi improvvisamente di fronte a me e disse: "Guarda bene qui, questo è il Mu!" Compresi che lui realmente era una cosa sola con il Mu, potevo vederlo chiaramente, e desideravo di poter dire lo stesso anch'io.

Durante il sesshin alla fine di Luglio, mentre sedevo meditando come al solito come se fossi morto, rinunciando a tutto, nemmeno pensando più a comprendere, pronto anche ad accettare di essere mandato via dallo Zendo se il maestro Yamada non fosse stato soddisfatto di me, ebbi un'esperienza strana. Il supervisore durante il kinhin mi disse di andare all'incontro col maestro. Congiunsi le mie mani e fatto l'inchino, lasciai la fila per andare alla stanza del maestro. Notai però che non avevo il cartellino del mio nome, e andai indietro alcuni passi a prenderlo dalla mensola. Improvvisamente, in un istante compresi quanto ero stupido nel cercare il Mu, il Mu ero io, Io non ero nulla se non un cartellino con un nome. Quello che sempre credevo di essere, il mio Ego, non era nulla se non un cartellino attaccato a un corpo che va in giro, mangia, lavora, dorme e fa diverse cose.

Quando dissi al maestro che il Mu ero io, e gli dissi la storia del cartellino del nome, lui mi fece delle domande per esaminare se stessi dicendo la verità, e mi disse di tornare al mio posto e meditare più profondamente. Sedetti di nuovo ma non potevo stare tranquillo. Mi sentivo molto eccitato, il mio corpo stava tremando, sudavo, e avevo strani sentimenti, come sogni. Era come se qualcosa dentro di me si stava gonfiando e spingeva forte, il mio corpo si stava tagliando e stava aprendosi in fuori. Una specie di nebbia avvolgeva tutte le cose intorno, il mio corpo stava sbriciolandosi a pezzi e scomparve, tutte le cose intorno erano come gusci d'uovo che si aprivano, erano vuoti e si rompevano a pezzi. Era come un sogno che mostrava il vuoto di tutte le cose.

In ogni modo la meditazione era più importante e divenni quieto e continuai a ripetere Mu. Ero molto felice, e ogni persona, ogni oggetto intorno a me, sebbene quieto e zitto, era come sveglio e vivo. Tutto era così naturale e perfino i suoni e i rumori che prima disturbavano la meditazione, ora mi riempiva di gioia.

Il maestro Yamada più tardi mi disse:

"Tu hai aperto un piccolo buco nella realtà, e ora puoi cominciare a meditare e praticare per tutta la vita. La realtà è come un grande palazzo. Tu hai solo guardato dentro attraverso un piccolo buco nel muro di cinta. Ora devi andare alla porta d'ingresso, devi aprirla ed entrare nelle stanze, facendo della stanza più interna la tua abitazione permanente.

Continua a sedere in meditazione ogni giorno."

Per un altro mezzo anno ricevetti quasi ogni giorno la guida del maestro Yamada, poi ritornai al lavoro della parrocchia, e lo vidi soltanto alcune volte all'anno quando era in vita.

 

Sto ancora cercando un buon maestro, e nel frattempo il mio nuovo Zendo è la vita di ogni giorno. Ogni persona che incontro o con cui lavoro ogni giorno, tutto quanto accade nella mia vita sta mostrando il grado del mio morire all'Ego. Affetti e antipatie, essere feriti da situazioni sgradevoli, o essere ottusi al bisogno degli altri, tutto questo è il termometro della forza dell'Ego.

Personalizzare l'esperienza, morire la Grande Morte e ritornare in vita, alla Grande Vita è un addestramento di lunga durata. Tra gli inganni di ogni giorno, la Vita Grande ed Eterna sta mostrando la sua faccia.

 

Da: http://cele-jp.com/bukkyo/salvezza.htm

 

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