in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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L'esperienza del non-sé (Bernadette Roberts)


 

Capitolo primo



La mia passata esperienza mi aveva portato a conoscere intimamente vari tipi e livelli di silenzio. C’è un silenzio interiore; c’è un silenzio che discende dall’esterno; un silenzio che ferma l’esistenza e un silenzio che inghiotte l’universo intero. C’è un silenzio del sé e delle sue facoltà: volontà, pensiero, emozione. C’è un silenzio in cui non c’è nulla, un silenzio in cui c’è qualcosa; c’è infine il silenzio del non-sé e il silenzio di Dio. Se esistesse un sentiero su cui poter segnare le tappe della mia esperienza contemplativa questo sarebbe il sentiero sempre più vasto e profondo del silenzio.

In un’occasione, tuttavia, è sembrato che questa strada fosse giunta al termine: è stato quando sono penetrata in un silenzio da cui non sarei mai totalmente riemersa. Ma, prima di iniziare il racconto, devo fare una premessa: in precedenza, in alcune occasioni, ero sprofondata in un silenzio che pervadeva ogni facoltà in maniera così assoluta da provocarmi una sottile sensazione di paura. Era la paura di essere inghiottita, di perdermi, di essere annullata e cancellata, forse per sempre. In quei momenti, per tenere lontano il terrore, con un movimento interiore abbandonavo il mio destino a Dio. Era come un pensiero, un atto di volontà, una sorta di proiezione. E ogni volta che facevo questo, il silenzio si rompeva e io gradualmente tornavo al mio sé abituale e alla sicurezza. Finché un giorno le cose andarono diversamente.

Nella strada in cui abitavo, poco oltre casa mia, c’era un monastero sul mare, e i pomeriggi in cui potevo liberarmi e uscire mi piaceva trascorrere qualche ora da sola nel silenzio della sua cappella. Quel pomeriggio non era diverso dagli altri. C’era come ogni volta un silenzio diffuso, tentacolare, e come ogni volta io attesi che l’affacciarsi della paura lo rompesse. Ma in quest’occasione la paura non venne. Forse per l’abitudine dell’attesa o perché la paura era sotto controllo, per qualche secondo provai un senso di suspense, di tensione, quasi in attesa che la paura mi toccasse. Durante quei secondi di attesa, provai la sensazione di essere in bilico sull’orlo di un precipizio, o in equilibrio su una corda sottile, avendo il noto (me stessa) da un lato e l’ignoto (Dio) dall’altro. Un movimento di paura avrebbe voluto dire piegare verso il sé e il conosciuto. Sarei passata, questa volta, o sarei ricaduta nel mio sé, come sempre? Dal momento che non era in mio potere muovermi o scegliere, capii che la decisione non era mia; dentro di me era tutto calmo, silenzioso e immoto. In questa calma, non avvertii il momento in cui la paura e la tensione dell’attesa mi abbandonarono. Immobile, continuai ad aspettare un movimento proveniente dall’esterno e quando questo non venne restai semplicemente in una grande calma.

La suora stava agitando rumorosamente le chiavi della cappella. Era l’ora di chiudere, e l’ora di andare a casa, a preparare la cena ai ragazzi. In passato, era sempre stato difficile dovermi improvvisamente strappare a un silenzio profondo: le mie energie in quel momento erano al loro minimo e muovermi richiedeva altrettanto sforzo che sollevare un peso morto. Questa volta invece improvvisamente mi accadde di non pensare ad alzarmi ma di farlo, semplicemente. Penso che non fu una cosa da nulla quello che imparai, perché lasciai la cappella come una foglia portata dal vento. Ero sicura che una volta fuori avrei ritrovato le mie normali energie e il controllo della mia mente, ma quel giorno la cosa fu problematica: ricadevo continuamente nel grande silenzio. Andare verso casa fu una costante lotta contro la completa incoscienza, e quando cercai di approntare la cena fu come voler smuovere una montagna.

Per tre logoranti giorni, non feci che lottare per rimanere sveglia e tenere a bada il silenzio che a ogni secondo minacciava di sopraffarmi. L’unico modo in cui riuscii a sbrigare un minimo di faccende domestiche fu tenendo ostinatamente in mente quello che stavo facendo: adesso sbuccio le carote, adesso le taglio, adesso prendo una pentola, adesso metto l’acqua nella pentola, e così via, fino a quando ero così esausta che dovevo correre a letto. Non facevo in tempo a mettermi giù che sprofondavo nel vuoto. A volte mi sembrava di essere stata fuori di coscienza per ore, quando invece erano passati solo cinque minuti: altre volte avrei giurato che fossero passati solo cinque minuti quando invece si era trattato di ore. In quel vuoto non c’erano sogni, né la coscienza di ciò che mi circondava, non c’erano pensieri né esperienze: non c’era assolutamente nulla.

Il quarto giorno, sentii il silenzio alleggerirsi, così che potei stare sveglia con minore sforzo e, di conseguenza, trovai il coraggio di andare a fare la spesa. Non so come accadde, fatto sta che a un tratto mi trovai a essere scossa da una signora che mi chiedeva se stessi dormendo. Le sorrisi, cercando di orientarmi, poiché sul momento non avevo la più pallida idea di come fossi finita in quel negozio o di cosa stessi facendo. Per cui, dovetti ricominciare tutto da capo: adesso spingo il carrello, adesso devo prendere delle arance, e via dicendo. La mattina del quinto giorno, non riuscii a trovare le pantofole in nessun posto, ma, al momento di preparare la colazione per i ragazzi, aprii il frigo e ci trovai qualcosa di decisamente assurdo.

Al nono giorno, il silenzio era talmente diminuito d’intensità che mi sentii sicura che, ancora un po’, e tutto sarebbe tornato normale. Ma, via via che passavano i giorni e mi riscoprivo in grado di funzionare come al solito, notavo contemporaneamente che c’era qualcosa che mancava, per quanto non riuscissi a toccarlo con mano. Qualcosa, o meglio una parte di me, non era tornato. Una parte di me era ancora in silenzio. Era come se un pezzo della mia mente avesse definitivamente calato la serranda. Me la presi con la memoria, che era l’ultima a tornare; quando questa infine tornò, mi accorsi che era diventata piatta e spenta, come la sbiadita pellicola di un vecchio film. Era morta. Non soltanto il passato lontano, ma anche quello di pochi minuti prima, si erano come svuotati.

Ora, quando qualcosa è morto, si rinuncia presto a volerlo risuscitare; allo stesso modo, quando la memoria si è spenta, uno impara a vivere come non avesse un passato, impara a vivere nel momento presente. Che questo ora potesse avvenire senza sforzo, e non per disperazione, era il risultato positivo di un’esperienza altrimenti massacrante. E anche quando riconquistai la memoria pratica, la capacità di vivere nel presente rimase. Con il ritorno della memoria pratica, tuttavia, ridimensionai la passata nozione di ciò che mancava e decisi che l’aspetto silenzioso della mia mente era in realtà una sorta di ‘assorbimento’, un assorbimento nello sconosciuto, che per me naturalmente era Dio. Era come una continua contemplazione del vasto, silenzioso Inconoscibile, una contemplazione che nessuna attività poteva interrompere. Questo fu un altro gradito risultato dell’esperienza iniziale.

L’interpretazione dell’aspetto silenzioso della mia mente come un ‘essere assorti’ sembrò bastare, come spiegazione, per circa un mese, quando cambiai di nuovo idea e decisi che l’assorbimento era in realtà consapevolezza, un particolare tipo di ‘vedere’; per cui quanto era realmente accaduto non era affatto una chiusura, ma piuttosto un’apertura; non era venuto a mancare nulla, era invece stato aggiunto ‘qualcosa’. Dopo un certo tempo, tuttavia, anche questa idea sembrò inadeguata; in un modo o nell’altro non mi soddisfaceva più; era accaduto qualcos’altro, per cui decisi di andare in biblioteca, per vedere se potevo risolvere il mistero con l’esperienza di qualcun altro.

A questo punto scoprii che, se non fossi riuscita a trovare quanto cercavo nelle opere di san Giovanni della Croce, probabilmente non lo avrei trovato in assoluto. E sebbene le opere del Santo mi fossero familiari, non riuscii a trovarvi nessuna spiegazione della mia specifica esperienza; né mi riuscì di trovarla in un solo libro della biblioteca. Ma fu tornando a casa quel giorno, mentre scendevo giù per la collina, avendo di fronte la vista della vallata e dei monti all’intorno, che a un tratto rivolsi lo sguardo al mio interno: e ciò che vidi mi fece fermare di colpo. Al posto del familiare, seppure non localizzato, centro di me stessa, non c’era nulla: c’era il vuoto. Nello stesso momento in cui vidi questo, fui invasa da un flusso di calma gioia e seppi, finalmente, cos’era ciò che mancava: era il mio ‘sé’.

Fisicamente, fu come se mi fosse stato tolto un grande fardello di dosso; mi sentivo così leggera che lo sguardo mi corse ai piedi, sembrava che non poggiassero a terra. In seguito riflettei sull’esperienza di san Paolo: “Ora non io, ma Cristo vive in me”, e mi resi conto che, nonostante il vuoto, nessun altro era entrato a prendere il mio posto; per cui decisi che Cristo era la gioia, il vuoto stesso; Egli era tutto quanto rimaneva di questa esperienza umana. Per giorni mi portai dentro questa gioia, così grande, in certi momenti, che mi stupivo della solidità della diga e mi chiedevo per quanto tempo ancora avrebbe retto.

Considero quest’esperienza il culmine della mia vocazione contemplativa. Era la conclusione di una domanda che mi aveva assillato per anni: dove finisco ‘io’ e comincia Dio? Anno dopo anno, il confine che ci separava era diventato così sottile e vago che per la maggior parte del tempo non riuscivo a vederlo, eppure la mia mente continuava a voler sapere: che cosa è Suo e che cosa mio? Ora il problema era superato. Non c’era più ‘il mio’, c’era soltanto il Suo. Avrei potuto vivere in questo stato di gioia per il resto della vita, ma non era scritto così nel Grande Piano. Sarebbe stata questione di giorni, forse una settimana, e la mia intera vita spirituale – il lavoro, il travaglio, le esperienze e i traguardi d’una vita – sarebbe improvvisamente esplosa in un milione di pezzi mai più recuperabili: senza lasciare nulla, assolutamente nulla.

 

 

Capitolo secondo

 

 

Quando la gioia che mi dava il vuoto cominciò a svanire, decisi di rinvigorirla trascorrendo qualche tempo in solitudine, e in contemplazione del mio vuoto sé. Quantunque il nucleo centrale del sé fosse scomparso, ero sicura che il vuoto che restava, con il suo silenzio e la sua gioia, fosse Dio stesso.

Così un giorno, con una decisione totalmente edonistica, mi sistemai comodamente e volsi lo sguardo al mio interno. Quasi immediatamente, lo spazio vuoto cominciò ad espandersi, e si espanse così rapidamente da dare l’impressione che potesse esplodere. A questo punto avvertii alla bocca dello stomaco la sensazione di chi precipita per cento piani in un ascensore non-stop e sentii che nella caduta mi veniva aspirato ogni senso di vita. Al momento di toccare terra, la consapevolezza: quando non c’è sé personale, non c’è neppure Dio personale. Vidi chiaramente come i due procedano insieme: quantunque non abbia mai scoperto dove siano andati.

Per un po’ restai lì, mentalmente ed emotivamente senza riflessi. Non riuscivo a pensare a ciò che era accaduto, il mio essere non rispondeva in nessun senso. Attorno a me c’era solo silenzio, e in quel completo silenzio attesi a lungo che si instaurasse un qualche tipo di reazione, che prima o poi accadesse qualcosa: ma non accadde nulla. In me non c’era alcun senso di vita, né movimento o emozione; alla fine mi resi conto che non avevo più un ‘dentro’ in assoluto.

Contemporaneamente alla caduta, s’era fatta una pulizia interiore così completa che non avrei avuto mai più l’impressione di possedere una vita che potessi chiamare mia, o un genere di vita qualsiasi. La mia vita interiore o spirituale era finita. Finita l’introspezione: da allora in poi i miei occhi poterono soltanto guardare fuori. Quando questo accadde, non potevo immaginare le terribili ripercussioni che l’improvviso evento avrebbe avuto. Le avrei apprese poco a poco, ed esclusivamente sul piano dell’esperienza: la mia mente non poteva comprendere cosa fosse accaduto, dal momento che l’evento e tutto quanto gli fece seguito esulavano da qualsiasi schema di riferimento a me noto. Da quel momento in poi, dovetti letteralmente cercare a tentoni il percorso lungo una strada del tutto sconosciuta.

Il primo pensiero che ebbi fu: oh no, non un’altra Notte Oscura! L’esperienza mi aveva abituata a queste sparizioni di Dio ed era piuttosto deprimente pensare che non fossero finite. Ma quando non riconobbi nessuna delle reazioni abituali – qualsiasi cosa dall’ansia al tormento, a voi il definirle – sentii che l’esperienza non aveva nulla a che fare con quanto ha descritto Giovanni della Croce e accantonai il concetto. Fra l’altro, non faceva alcuna differenza: dovevo semplicemente affrontare la realtà del qui e ora, una realtà in cui non avevo senso della vita.

Per cui stavo lì, totalmente lucida, in salute, con le varie facoltà intatte, naturalmente viva; in una parola, con tutto il mio organismo regolarmente funzionante: ma non sentivo la vita. Che fare a questo punto? Decisi che potevo darmi un avvio preparando il pranzo; ma, come mi mossi, tutti i movimenti abituali risultarono a un tratto così meccanici che mi sembrò di essere diventata un robot: non riuscivo più a infondere in ciò che facevo alcuna energia personale. Sbrigai le faccende senza che un filo di vita le sostenesse e ogni gesto fu totalmente meccanico, un semplice riflesso condizionato.

Dopo un po’ la cosa diventa opprimente e si comincia ad avere la pressante necessità di trovare la vita, da qualunque parte. Nella speranza di trovarla, uscii in giardino e restai lì, a guardarmi in giro. Sapevo che intorno a me c’era la vita, ma non riuscivo a sentirla; così mi aggirai come un cieco, toccando ogni cosa: le foglie, i fiori; mi protesi, afferrai i rametti del pino e me li lasciai scivolare fra le dita; chinandomi, affondai le mani nel terreno. Alla fine mi sdraiai sull’erba, a palme in giù, e guardai il cielo attraverso i rami del pino, sentendo il venticello passarmi addosso. Era bello stare lì; era tutto a posto. Intorno a me c’era la vita, anche se dal mio interno era sparita.

Più tardi quel pomeriggio, prima che tramontasse il sole, mi spinsi in un posto dove andavo sempre nei momenti di crisi: il rifugio degli uccelli della zona. Distava solo qualche centinaio di metri da casa mia e il percorso offriva splendidi scorsi sul mare, con le sue ampie spiagge e le colline alte contro il cielo, alle spalle del rifugio. Di regola mi arrampicavo solo per un piccolo tratto: oltre il ceppo su cui mi sedevo, c’era un acquitrino la cui acqua fangosa diventava sempre più profonda, via via che si avvicinava a uno dei laghetti formati dal fiume al momento di sfociare in mare. Ma quel giorno mi tolsi scarpe e calze e mi arrampicai nel cuore del rifugio, finché non trovai una piccola roccia affiorante appena sulla melma. Sedetti qui, fra le alte canne e le piante selvatiche, e sprofondai letteralmente nella vita che mi circondava e che, ben presto, mi sommerse.

Mi ero sempre sentita a casa mia in quel luogo. C’era una grande pace e una misteriosa tranquillità. Sapevo per esperienza che non serve pensare per risolvere i problemi della vita; solo se stavo qui, all’aperto, nel cuore della vita vera, spontaneamente avrei visto separarsi quello che aveva un senso da quello che non ne aveva; e una volta tornata a casa, ogni domanda inutile sarebbe stata spazzata via e avrei distinto chiaramente la strada da seguire. E anche quel particolare giorno sentii di essere a casa, probabilmente lo sentii come non mai fino ad allora. Intorno al masso, la vita era intensa e brulicava e traboccava, compensando la mia mancanza di vita a tal punto che era come se niente fosse accaduto. Non c’era dubbio: era questo il mio posto, circondata e protetta da questa cosa elusiva e onnipervadente chiamata ‘vita’. Dopotutto, forse nessun uomo è meglio degli elementi di cui è composto, dato che questi elementi sono la sua stessa vita, pensavo: anche se non sapevo come potesse essere così. Quel che contava era essere lì, nient’altro.

Le settimane seguenti le trascorsi quasi sempre fuori di casa. La vita in casa era divenuta quasi intollerabile: ora era così monotona, spenta e priva di energie personali che tutto quanto riuscivo a fare era sbrigare le indispensabili faccende domestiche, nient’altro. Mentre all’aperto, dovunque fossi, la vita scorreva piena di pace, dimentica, inconoscibile: ed era lì che io dovevo stare. Così vagabondai per le colline, le rive del fiume e la spiaggia, semplicemente guardando, osservando, stando lì.

Sebbene avessi guardato e osservato per tutta la vita, questa volta era diverso, perché non riuscivo a trovare negli alberi, nei fiori di campo o nell’acqua più vita di quanta ne trovassi in me stessa; eppure tutt’intorno c’era vita. È strano come la mente voglia localizzare e definire in dettaglio questa cosa inconoscibile chiamata vita, e quando ha soddisfatto le sue domande si lasci accecare dalla conoscenza e si tagli fuori per sempre dall’unica vera sicurezza che possiede… o questo è quanto avrei presto appreso. Per il momento, tuttavia, io ero alla ricerca di questa sicurezza e non riuscivo a trovarla. Quantunque ogni cosa sembrasse vuota come ero io stessa, sapevo che da qualche parte in natura c’era la vita, e per il momento volevo soltanto essere là e farne parte.

Su una scogliera sul mare, prospiciente un’insenatura rocciosa dove spesso sonnecchiavano le foche, c’era un cipresso nodoso e battuto dal vento, uno dei miei posti favoriti… fino al giorno in cui la guardia forestale mi disse di andarmene per non contribuire all’erosione del suolo. Fra le radici contorte, che impedivano ogni altra vegetazione, c’era un posto in cui sedere senza schiacciare un solo soffione né disturbare la variegata flora che rendeva la scogliera così pittoresca.

Fu qui che la natura mi cedette finalmente il suo segreto, in un semplice momento senza tempo in cui scorsi la chiave di tutto. Non era Dio, ovvero la vita, a essere nelle cose. Era esattamene l’opposto:le cose, ogni cosa, erano in Dio. E noi non eravamo in Dio come gocce d’acqua, che possono separarsi dal mare, ma piuttosto come… beh, l’unico paragone che mi venisse in mente era quello di quando si tira un pizzico a un palloncino: se pizzichi un punto e cerchi di staccarlo, scoppia tutto. L’operazione è impossibile. Non si può dividere una cosa da Dio, perché non appena si lascia andare il concetto di divisione ogni cosa ricade nella totalità di Dio e della vita.

Ma vedere che questo principio è in atto non è lo stesso che spiegarlo. Una cosa è certa: fintanto che restiamo prigionieri delle parole, delle definizioni e di tutto ciò a cui di regola si attacca la mente, non potremo mai vedere la realtà. E fintanto che non riusciremo a superare i nostri concetti sulla vera natura della vita, non potremo renderci conto di quanto in realtà siamo totalmente al sicuro e di come tutta la lotta per la sopravvivenza e la sicurezza individuale sia un assoluto spreco di energia.

Questa intuizione comportò una nuova apertura. Cominciai a vedere le cose diversamente e, soprattutto, smisi di andare di qua e di là in cerca della vita: è chiaro che la vita è ovunque; noi siamo in essa ed essa è tutto ciò che è.

Oggi, riconsiderando gli eventi, mi piace ricordare una particolare lezione appresa nel corso del viaggio. Ho imparato infatti che non basta una sola intuizione a produrre un reale cambiamento. Col tempo, ogni intuizione o illuminazione riesce a filtrare nel nostro schema di riferimento abituale, e una volta che l’abbiamo integrata essa si perde nel contesto della mente: la mente che tende per sua natura a corrompere qualsiasi illuminazione. Il segreto perché un’illuminazione diventi un modo permanente di conoscere e di vedere è nel non manipolarla, non attaccarsi ad essa, non farne un dogma, e neppure ragionarci su. Le intuizioni vanno e vengono, ma perché rimangano dobbiamo fluire con esse; diversamente, nessun cambiamento è possibile. È un errore pensare che, dal momento che ci è stata tirata la palla, sappiamo in che direzione correre. Forse le nostre più grandi intuizioni si perdono in questo modo: noi le caliamo nei nostri soliti schemi mentali e le blocchiamo lì. Ma se quando arriva la palla siamo realmente pronti, il puro e semplice slancio ci solleverà e ci deporrà sulla corrente, dovunque questa stia andando. Se io ho passato quello che ho passato, è stato solo perché dovevo apprenderlo con le maniere forti, dato che quando i pezzi non combaciavano o quando un’intuizione non si adattava ai miei schemi mentali, io entravo totalmente in crisi. Avrei potuto risparmiarmi un sacco di guai se non mi fossi affannata a rincorrere e voler risolvere i miei insolubili quesiti.

Un esempio di che cosa vuol dire imparare con le maniere forti mi capitò a questo punto, con lo svanire di ogni senso del possesso di una vita individuale, per cui fui costretta a cercare la vita al mio esterno. Erano ormai più o meno cinquant’anni che vivevo sentendo la vita al mio interno, così che il periodo era molto difficile: un periodo di transizione e di adattamento, senza la possibilità di vedere davanti o di comprendere cos’era accaduto. Tuttavia feci del mio meglio, e poiché ero abituata a fare la comunione ogni giorno, pensai che avrebbe potuto essermi d’aiuto portare sempre con me l’Eucaristia, in un medaglione che avevo appeso al collo. In seguito alla scomparsa della vita interiore, la normale pratica dell’Eucaristia non aveva più su di me alcun effetto. Mentre in passato mi capitava di venire risucchiata nel suo misterioso silenzio, ora non si verificava più niente del genere; se mai, c’era troppo silenzio. Perciò, visto che l’Eucaristia non riusciva più a restituirmi il senso di una vita interiore, sentendomi doppiamente perduta, decisi che potevo almeno portare l’ostia con me nella mia ricerca di Dio all’esterno.

Dopo alcune settimane, però, mi resi conto che l’espediente non funzionava: non me ne veniva nessun senso di vita, nessuna sicurezza; la situazione era esattamente quella di prima. Fu a questo punto che, il giorno che ho detto, sotto il cipresso, consumai l’ostia e vidi che tutte le cose sono in Dio e che Dio è più vicino e più personale di quanto avessi mai osato aspettarmi. Sentire all’improvviso e con tutta te stessa che vivi e cammini in Dio significa superare totalmente e per sempre il senso di perdita conseguente alla scomparsa di una vita personale.

Se non altro, questo incidente, con molti altri che qui tralascio, testimonia il continuo sforzo di aggrapparmi al mio abituale schema di riferimento, un aggrapparmi che non portò a nulla, finché non abbandonai la presa. Potrei aggiungere che fra le tante idee precostituite che dovetti abbandonare ci fu l’idea stessa dell’abbandono: non ero io che avevo abbandonato il mio sé a Dio, ma piuttosto Dio che aveva abbandonato del tutto il mio sé. Aggiungerò anche che, una volta superato il sé, tutto svanisce, anche ‘quello’ che mi sarei aspettata sarebbe rimasto.

Una settimana o due dopo l’illuminazione di cui sopra stavo facendo ritiro spirituale con i Monaci Eremiti, a Big Sur. Credo fosse il secondo giorno, nel tardo pomeriggio: me ne stavo sulla collina battuta dal vento, di faccia all’oceano, quando apparve all’orizzonte un gabbiano. Planava, si tuffava, giocava col vento. Lo contemplai come non avevo mai contemplato nulla in vita mia. Sembrava fossi ipnotizzata: era come vedere volare me stessa, non c’era fra noi la consueta separazione. E insieme, c’era qualcosa di più che non la semplice mancanza di separazione, qualcosa di realmente meraviglioso e inconoscibile. Volsi infine gli occhi alle colline ricoperte di pini alla spalle del monastero: e anche ora non ci fu divisione, solo una sorta di ‘presenza’, che fluiva con e attraverso ogni vista e ogni particolare oggetto di contemplazione. Vedere l’Unità di tutte le cose è come osservare il mondo attraverso speciali lenti tridimensionali: ecco che cosa si intende quando si dice che Dio è in ogni luogo, pensai.

Avrei potuto restare lì in contemplazione per il resto della mia vita, ma dopo un po’ mi sembrò che fosse tutto troppo bello per essere vero; era uno scherzo della mente, bastava che suonasse la campana e sarebbe tutto sparito. La campana infine suonò, e suonò il giorno dopo, e i giorni dopo ancora per tutto il resto della settimana, ma le lenti tridimensionali rimasero al loro posto, intatte. Quello che avevo preso per un inganno della mente doveva diventare un modo permanente di vedere e di conoscere (che farò del mio meglio per descrivere), via via che il mio mondo dall’interno si spostava sempre più all’esterno. Non sarei più tornata al vecchio modo di vedere la divisione e l’individualità; ma si badi bene, non è il cancellarsi della divisione che conta. Ciò che è importante in questo modo di vedere è Quello in cui la divisione si dissolve.

Prima di andare oltre e provare a descrivere questo nuovo modo di vedere, vorrei dire che con la scoperta che Dio è dappertutto, con la scoperta della sua Unicità, come io la definii, fui compensata mille volte della perdita di un Dio personale al mio interno, e della confusione che questa mi provocò. Sembra che dovessi passare attraverso il personale prima e l’impersonale poi, per poter realizzare che Dio è più vicino tanto del primo che del secondo e li trascende entrambi.

L’idea e le esperienze di Dio come essere personale dentro di noi e impersonale fuori di noi sono qualcosa di puramente relativo, che ha che fare con sé e con il suo particolare tipo di coscienza. Dio è in ogni caso al di là della relatività della nostra mente e delle nostre esperienze; in realtà ci è così vicino che non riusciamo mai a localizzarlo. Ma nel momento stesso in cui si scorge e si realizza questa vicinanza, si scopre che Dio è dovunque ed è insieme tutto ciò che esiste: dovunque si guardi, non c’è altro da vedere. In verità Dio non è nel personale né impersonale, né interiore né esteriore, ma è ovunque nel suo complesso e qui e ora in particolare. In parole semplici: Dio è tutto ciò che Esiste. Tutto, naturalmente, tranne il sé.

 

 

Capitolo terzo

 

 

Alla fine si rivelò assolutamente indispensabile apportare alcuni cambiamenti al mio modo di vivere. Per il momento almeno, mi era diventato impossibile sopportare il flusso costante di banalità e rumore che costituiva il mio ambiente quotidiano. Venute a mancarmi le energie necessarie per controllare e tenere in pugno le condizioni spesso caotiche della casa, la mia efficienza come madre di quattro ragazzi adolescenti crollò bruscamente a zero. Quando il sé non domina più il campo, non c’è più modo di attivare gli abituali meccanismi e il fardello dell’esistenza si abbatte direttamente sulle energie del solo corpo fisico. Pur non avendo mai l’impressione di essere nervosa, agitata, ansiosa e via dicendo, sentivo chiaramente che continuare in quella routine avrebbe significato accettare di portare all’infinito sulle spalle un peso morto; e non riuscivo a farlo.

Fino a quando non mi fu tolto di sotto i piedi il tappeto del mio ‘sé’ non mi ero mai resa conto che il mio agire quotidiano dipendeva totalmente dai vapori che producevo io stessa: intendo vapori della mente e delle emozioni, non vapore fisico. Sembra che l’uomo possieda un’incredibile riserva di energie sottili di cui non ha coscienza fino a che non la perde: per quanto tardi, dovevo accorgermi che queste energie sono in realtà le difese del sé contro il proprio annientamento. Al momento, tuttavia, imparare a sopravvivere senza energie mie proprie mi richiedeva un sacco di tempo: in realtà significava imparare a vivere completamente da capo, e quantunque ora, a distanza di tempo, la cosa mi sia chiara, quando accadde mi lasciò disorientata e confusa come se d’improvviso avessi perso l’uso degli arti.

Quello di cui sembrava avessi bisogno erano grandi estensioni di tempo, che mi permettessero un ininterrotto silenzio e il contatto con la natura: soltanto in quelle condizioni, infatti, mi sentivo a mio agio e in sintonia col flusso della vita. La cosa che infine feci fu sistemare sul bagagliaio l’attrezzatura da campeggio e partire alla volta delle foreste delle Alte Sierre. Qui vissi accampata per cinque mesi, e cioè fino a quando la neve non cadde, costringendomi a scendere a valle.

Andai sulle montagne per imparare a vivere in un modo nuovo: senza tempo né pensiero, senza le emozioni, i sentimenti e le energie del sé. Non avevo la più pallida idea di come sarebbero andate le cose; tutto quanto sapevo era che dovevo andare a scoprirlo. Le scoperte furono numerose e avrei tanto da dire su questa avventura, ma credo di poterla sintetizzare così: prima di trascorrere quel periodo sulle montagne non avevo mai realmente vissuto. Non c’era stato un giorno nella mia vita in cui avessi vissuto, prima d’allora. Senza alcun dubbio entrai nella Grande Corrente, fondendomi così totalmente con essa che nessuna idea di estasi, beatitudine, amore, felicità è pari alla straordinaria semplicità, limpidezza e completezza di quella esistenza.

Non c’è nulla di accidentale, gratuito, semplicistico nella vita della foresta. Al contrario, ogni cosa è vitale, totalmente sveglia, dinamica e intelligente. Non è una vita libera. La Grande Corrente prende la guida portando tutto con sé e che la si segua o no non ha importanza. Non c’è tempo di uscire dalla corrente o di fare una pausa: in breve, è una vita in cui non c’è nulla ma assolutamente nulla che sia privo di significato.

Uno dei grandi misteri che speravo di risolvere in quella solitudine montana era: cosa in noi vede questa unità dovunque?

Per rendere più chiara la domanda devo tornare un po’ indietro, alle settimane seguite a quel primo ‘vedere’, sulla strada per la collina dei monaci.

Gradualmente, avevo cominciato a notare un cambiamento in quel tipo di percezione visiva. Mentre inizialmente essa era stata molto confusa e generica, presto mi accorsi che quando mi concentravo fisicamente su un fiore, un animale, un’altra persona o qualche oggetto particolare, lentamente la peculiarità di questo recedeva in una confusa Unità, così che nella mia mente l’individualità dell’oggetto andava perduta. A livello visivo, naturalmente, non cambiava nulla, il cambiamento era soltanto nella qualità della percezione in quanto tale. Fino ad allora, non mi era mai capitato di pensare che avevo sempre data per scontata l’individualità di tutti gli oggetti della percezione visiva. Senonché ora, col sovrapporsi ai miei occhi delle lenti tridimensionali, diventava impossibile per la mente percepire o trattenere una qualsiasi individualità: tutti gli oggetti visivi svanivano dalla mente, facendo posto a qualcosa d’altro, o venivano ‘visti attraverso’: non so quale sia la descrizione più esatta del fenomeno. Potrei anche aggiungere che, quantunque non capisca il meccanismo del cambiamento di percezione, considero quest’ultimo uno degli eventi più significativi di tutto il viaggio, poiché non solo è rimasto come carattere permanente e irreversibile della percezione, ma sembra sia stato il necessario veicolo attraverso cui dovevo pervenire al ‘vedere’ finale.

La dinamica del fenomeno è realmente stupefacente. È un tipo di esperienza unico, ma, ripeto, ciò che stupisce non è la perdita di individualità dell’oggetto osservato quanto piuttosto quello in cui l’oggetto si fonde e alla fine scompare. Per il momento io lo chiamai Unità, e naturalmente Dio.

Sono sempre riluttante a usare il termine Dio, perché sembra che ognuno di noi si porti dietro le proprie consolidate immagini e definizioni, che ottundono totalmente la capacità di uscire dal proprio schema mentale, personale e angusto. Se noi abbiamo un qualche concetto di che cosa è Dio, questo dovrebbe necessariamente espandersi e cambiare via via che cambiamo e cresciamo noi stessi. Fa parte della natura stessa del nostro processo vitale: espandersi, sbocciare e fiorire. Come i fiori che per guardare la luce ruotano di 180 gradi su se stessi, anche noi a volte dobbiamo compiere un giro se vogliamo vedere ciò che È. Poiché non sappiamo in quale direzione guardare, dobbiamo attendere, come il fiore, che il sole sorga e ci attiri dolcemente in direzione della luce. Qualunque cosa sia ciò che chiamiamo realtà ultima, non possiamo definirla o caratterizzarla perché il cervello è incapace di elaborare quel tipo di dati: per cui non dobbiamo vedere le parole se non come un mezzo per descrivere un’esperienza umana, la cui natura non conosciamo realmente. Per quel che mi riguarda, l’aprirsi di tutto ciò su cui fissavo gli occhi rivelava una realtà in tutto e per tutto identica, sia che l’oggetto fosse animato o inanimato. È per questo che l’ho chiamata Unità. Se si preferisce chiamarla diversamente, per me fa lo stesso. È vederla ciò che conta.

L’aspetto misterioso di questo vedere era che, mentre riuscivo a mettere a fuoco gli oggetti intorno a me, non riuscivo in nessun caso a mettere a fuoco me stessa. Era impossibile, come guardarsi negli occhi senza uno specchio. Mi sentivo un osservatore esterno intento a osservare un’Unità che includeva tutto fuorché lui stesso. Era come se io non facessi parte di quell’Unità e non facessi parte neppure dell’universo: in realtà non riuscivo a vedere come e dove esistessi. Oltre al corpo, c’era soltanto questo vedere, nient’altro, e questa stessa percezione visiva in realtà non mi apparteneva perché non era localizzata in nessun punto preciso della mia struttura mentale e fisica: sembrava invece risiedere in cima alla testa o leggermente al di sopra di questa, in direzione della fronte. Quantunque continuassi a riferirmi a quella facoltà visiva come ai miei fantastici occhiali, per la sua caratteristica tridimensionale, ero sicura che fosse estranea tanto alla mente che al corpo fisico ordinari.

Mentre cercavo di comprendere la natura del fenomeno, mi imbattei nel concetto di ‘coscienza originaria dell’uomo’, ovvero del tipo di coscienza che tutti noi abbiamo inizialmente. Come ex studiosa dello sviluppo infantile, sapevo che il bambino possiede una coscienza non-relativa, in cui non c’è distinzione fra il soggetto (se stessi) e l’oggetto: di conseguenza al bambino manca la nozione di sé. Inoltre, come è noto, il bambino non pensa, non possedendo ancora un contenuto coscienziale, così come non possiede un contenuto mnemonico. Per cui, alla nascita, siamo tutti privi di una mente riflessiva, autocosciente: condizione che, a mio avviso, coincide con quella del ‘vedere’. Per l’adulto, quindi, vedere può essere un ritorno alla forma originaria della coscienza, una forma che stranamente non sembra ostacolare le normali funzioni della mente pratica. Ecco così che, nel processo di regressione alla nostra coscienza originaria, dobbiamo imparare a vivere senza l’autocoscienza: il lavoro di una vita, probabilmente. E questo non è un viaggio facile da intraprendere. Ma è eccitante pensare che possiamo intraprenderlo in assoluto, e ancora più eccitante è riflettere su quel che accadrebbe se ogni uomo potesse vivere come in origine era destinato a vivere.

Per un certo tempo sembrò che l’idea della coscienza originaria dell’uomo potesse spiegare la natura della mia particolare percezione visiva: ma un giorno scoprii che qualcosa non funzionava nel mio ragionamento. Dal momento che, a quanto pare, il ‘vedere’ non ha autocoscienza, esso di per se stesso costituisce un soggetto, esattamente come l’Unità da esso vista costituisce un oggetto: la distinzione fra il vedere e l’Unità mi è sempre stata chiara e non ha mai dato adito a confusioni. Ecco quindi che in questo caso il vedere (o osservare) non è identico al visto (o osservato): il che, anche in assenza di un sé che agisse il vedere, mi riportava direttamente a un piano puramente relativo di esistenza. Questo significa che la coscienza del bambino può in realtà essere relativa anche se non è autoriflettente. Ma, comunque stiano le cose, io non sono mai riuscita a trovare una connessione fra il vedere e l’Unità: come ho detto, ogni volta essi sono stati separati e distinti.

Mesi dopo, lo stesso problema dell’esistenza o no di una connessione emerse durante una conversazione, e mentre cercavo una risposta, le nozioni di coscienza originaria, vedere e Unità sembrarono fluttuare oltre la finestra e su per la collina, fino a quando non scomparvero finalmente alla vista da qualche parte sopra l’oceano. Così il problema del rapporto fra il soggetto e l’oggetto del vedere rimase irrisolto. Ma al tempo di cui parlo, io mi ponevo ancora dei quesiti, dal momento che da nove interi mesi vivevo con i fantastici occhiali sempre a fuoco sull’Unità, un’Unità che vedevo dovunque, e nulla faceva pensare che le cose sarebbero cambiate.

Questo non significa che io non trovi ancora interessante riflettere su che cosa il bambino possa realmente conoscere e vedere prima che la sua mente sia condizionata dall’ambiente. Contemporaneamente si può prendere in esame la forma di coscienza propria dell’animale e l’eventualità che quest’ultimo possa conoscere e vedere qualcosa che l’uomo, nella sua costante lotta per la sopravvivenza del sé, ha perduto. Ancora, chi può dire quale enorme intelligenza possa essere racchiusa negli stessi elementi che compongono l’uomo e l’universo, un’intelligenza priva di coscienza in assoluto? Una cosa è certa: con la nostra mente pensante, razionale, non arriveremo mai a capo di queste risposte. La nostra mente, strumento limitato qual è, è così continuamente occupata a servire il sé che non riuscirà mai ad affrontare ciò che travalica questi angusti interessi.

Lasciando da parte la questione di che cosa fosse quello che vedeva l’Unità, c’era l’altra domanda irrisolta di che cosa restasse in assenza del sé. Cos’è questo qualcosa che cammina e parla ed è consapevole dello sguardo sull’Unità? Per ovvio che fosse, io non sapevo che pensare di questo mistero e non riuscivo a concepire una sola spiegazione. Per quanto l’identità dell’Unità fosse nota, l’identità dell’occhio che la vedeva, così come ciò che restava in assenza del sé, era impossibile a individuarsi. Di sicuro fra l’Unità, l’occhio e il sé non sembrava esserci alcuna vera relazione.

Alla fine ho scoperto che l’unica risposta alle tante domande che ci assillano è nel tempo. Il tempo significa mutamento, e nel processo del mutamento le mie domande iniziali mutarono anch’esse, sparirono o si risolsero strada facendo. Avevo già imparato che pensare non cambia nulla: era ovvio che, quando il suo solo scopo era risolvere le domande, pensare non mi portasse a nessun risultato. Quantunque fosse inevitabile che sorgessero degli interrogativi, presto imparai che era importante non dare loro risposta prima del tempo.

La stessa cosa, appresi, valeva per le mie esperienze. Scoprii che non appena investivo in un’esperienza un valore, un significato, uno scopo, perdevo il meglio dell’esperienza stessa, bloccandone il corso naturale. Solo nel momento in cui non vi investivo nulla, ero in grado di scoprirne la verità o la falsità. Quello che è falso non dura, a un certo punto cade spontaneamente; mentre quello che è vero rimane: la verità non va e viene, è sempre lì. Per cui fintanto che le nostre esperienze vanno e vengono e noi investiamo in esse valori, pensieri, emozioni, non possiamo scoprirne l’eventuale verità: la verità è ciò che resta quando l’esperienza è finita.

Parlo di questo, perché fu una delle cose che imparai su in montagna. Imparai che, in assenza di movimenti, reazioni, risposte dall’interno, vale a dire dal sé, tutte le esperienze scivolano via come acqua da un sasso. Era come se fossi diventata un osservatore esterno degli aspetti relativi della vita, a cui partecipavo attraverso meccanismi condizionati, mentre partecipavo contemporaneamente all’inesplicabile realtà del fluire della vita, la vita vera. Sembra che, superato il sé, quando dentro non c’è nulla che risponda o s’impossessi dell’esperienza per darle un valore o un significato, la relatività delle nostre esperienze svanisca. Non essendoci nulla rispetto a cui possano relazionarsi, le esperienze perdono il loro aspetto relativo. È per questa ragione che, quando non c’è il sé, sembra che non ci siano neppure esperienze: nessun movimento, emozione, nessuna delle mille risposte di cui il sé è capace. Da questo momento in poi, tutte le esperienze sono di carattere non-relativo, nel senso che l’esperienza è questo, è qui, e non c’è nient’altro al di fuori.

Poiché la cosa è difficile da spiegare, darò un esempio di come sono arrivata a questa comprensione. Nel corso dell’esperienza di cui parlerò, mi resi conto di cosa significhi non avere un sé e non far caso neppure al più incredibile degli eventi.

La zona in cui ero attendata declinava a nord-est in un breve viale. Esattamente dalla parte opposta, il viale si apriva in una ripida discesa che conduceva a una vallata. In cima alla discesa, proveniente, attraverso un percorso sotterraneo, da un luogo distante mezzo miglio, sgorgava dal fianco della montagna un ruscelletto. Dalle sorgenti del ruscello si poteva godere la vista della vallata e delle colline circostanti, con le loro macchie di piante selvatiche, di alberi, di massi. La parete est della valle era costituita da una montagna di solida roccia, alta e severa, che al tramonto diventava rosso fuoco. Gli abitanti del luogo la chiamavano Thunder Mountain.

Andavo spesso lassù, non solo per vedere il panorama ma anche per aspettare gli animali che venivano ad abbeverarsi. Quel giorno tuttavia era andata in giro a raccogliere legna da ardere e mi fermai solo per riposare. Poiché giù al torrente non succedeva nulla di particolare, me ne stavo in piedi guardando la vallata, senza fissare niente di preciso, quando notai nell’aria un particolare addensarsi di intensità. Qualunque cosa fosse, era qualcosa che convergeva da tutte le parti e progressivamente si espandeva, cancellando ogni cosa sul suo cammino. Contemporaneamente crebbe a un grado tale di intensità vibratoria, quasi elettrica, da esercitare una vera e propria attrazione magnetica sul mio corpo. In un primo momento, la sentii come la consueta Unità, ma via via che si intensificava cominciai a rendermi conto che si trattava di qualcos’altro, qualcosa di totalmente sconosciuto. L’Unità si era sempre rivelata attraverso un mezzo, ma se questa era l’Unità si stava manifestando senza alcuna mediazione ed era mille volte più potente: di una potenza a cui non si poteva resistere. Quale che fosse la sua realtà, sapevo che finire nella sua zona d’attrazione voleva dire essere travolti come un granello di polvere. Pensai che fosse finita e che il mistero di ‘quel che rimane’ non sarebbe durato per molto. Un altro secondo e la luce – la luce dell’occhio che assisteva a quel prodigio – si sarebbe spenta. Sapevo in qualche modo che questo non doveva accadere, ma insieme non c’era nulla che potessi fare per evitarlo. Non potevo distogliere gli occhi poiché non c’era dove altro guardare; non c’era energia con cui muovermi; internamente tutto era immobile e silenzioso: nessuna risposta, nessun pensiero, nessuna emozione. Sarebbe stato quel che sarebbe stato.

Al limite della disintegrazione accadde qualcosa. Con nessun’altra guida che se stesso, il corpo si distolse, compì uno scarto, che lo rimise di fronte al bosco e alla legna da raccogliere. Così continuai per la mia strada; ma non ne feci molta che dovetti sedermi, perché il mio corpo era così debole e scosso che sembrava dovesse andare in pezzi.

L’esperienza si ripeté varie volte mentre ero in montagna e non una volta riuscii a trovare il meccanismo per sottrarmi all’incantesimo. Sebbene rischiassi di essere attirata all’interno dall’intensità, da sola non ero in grado di strapparmi o distogliermi. Pure, la cosa avveniva e sempre all’ultimo momento.

Non seppi mai cosa pensare dell’esperienza, ma ogni volta che si verificava, mi dicevo che era la fine, e che la luce – la luce di ogni coscienza, originaria e non originaria – se ne sarebbe andata per sempre. Sarebbe stato il buio totale, un buio come quello sperimentato in passato, in cui non c’è assolutamente nulla: un annullamento più completo della semplice perdita del sé, per quanto non abbia idea di cosa questo significhi.

Sentivo che avrei avuto bisogno di una gran forza per affrontare l’intensità senza esserne annientata: ma che tipo di forza era, e come procurarsela? Forse era la forza che occorreva a sostenere la visione e penetrare in Dio, ma non ne ero certa; né riuscivo a immaginare come si potesse vedere direttamente Dio e non morire. Di fronte a una richiesta del genere un uomo potrebbe disperare e fuggire. Pure io sentivo che, qualunque cosa fosse stata a portarmi fin lì, questa stessa cosa mi avrebbe dato la forza di andare fino in fondo. Nel mio diario definii l’esperienza: “una crepa nel muro”.

 

 

Capitolo quarto

 

 

La neve cadde presto quell’anno. Dopo due giorni di pioggia, mi svegliai di notte sentendo un gran silenzio, il silenzio che accompagna immancabilmente la neve. La tempesta lasciò trenta centimetri di neve, che trasformarono i boschi e le montagne tutt’intorno in un paesaggio totalmente nuovo, in cui mi parve di non essere mai stata prima. Per diversi giorni le strade furono bloccate, ma la neve non fece in tempo a sciogliersi che pesanti nuvole nere cominciarono ad addensarsi, basse sugli alberi: quando vidi arrivare la jeep del guardaboschi, seppi immediatamente cos’era venuto a dirmi.

Di tanto in tanto, in passato, l’uomo s’era fermato al campo: ci eravamo scambiati episodi curiosi riguardanti gli animali e non era mai mancato da parte sua il racconto di quando aveva dovuto tirar fuori dai guai questa o quella persona che s’era fermata lassù troppo a lungo. Dal momento che era imminente una nuova nevicata, disse ora, era il caso che mi muovessi prima che le strade ghiacciassero bloccandomi là, per quanto tempo, stavolta, lui non sapeva.

Così feci i bagagli, cacciai le noci che mi rimanevano nelle cavità degli alberi e nelle tane dei miei amici della foresta e mi attardai a contemplare per l’ultima volta il paesaggio, sapendo che era la fine dei più bei mesi della mia vita, una fine inevitabile fin dall’inizio. Sapevo che, per quante volte mi fosse accaduto di tornare lassù in futuro, non sarebbe stata mai più la stessa cosa. Da molto tempo avevo imparato che l’essenza del movimento della vita non è nell’appagamento né nella sicurezza, ma piuttosto nella crescita, nel cambiamento e nella sfida, laddove le circostanze esterne riflettono semplicemente le necessità del momento sulla spinta del fluire della vita. Che cosa avrei trovato una volta scesa a valle non sapevo, ma ero sicura che nulla ormai avrebbe potuto alterare l’eterna corrente che avevo scoperto sulle montagne, una corrente che avrebbe continuato a portarmi con sé “nel suo perpetuo andare”.

La mia prima destinazione fu un terreno destinato a campeggio prospiciente il mare. Nonostante fosse un bel posto, mi scoprii incapace di apprezzarlo: notai infatti un sottile cambiamento in quello che ora mi arrivava attraverso le mie nuove lenti tridimensionali. Invece di vedere ogni separatezza dissolversi nell’Unità, ora vedevo dissolversi tutto in un inesplicabile vuoto. Dove per tanti mesi c’era stato ‘qualcosa’ ora non c’era più nulla.

Col tempo questo vuoto si fece sempre più totale e difficile da sopportare. Senza una vita ‘interiore’ o il minimo movimento interno, il vedere in quanto tale era diventato la mia vita; ne ero totalmente dipendente, senza di quello non avevo più niente.

Ma se la costante vista del vuoto era tediosa e quasi intollerabile, pure si rivelò nulla al confronto di ciò in cui mi imbattei una mattina, mentre camminavo lungo la spiaggia.

Del tutto improvvisamente fui colpita dalla coscienza che la vita intorno a me si era completamente fermata. Dovunque guardassi, al posto della vita vedevo un orrendo nulla invadere e soffocare qualunque cosa o immagine fosse a portata di sguardo. Era un mondo strangolato a morte da un vuoto insidioso, per cui ogni movimento residuo era solo lo spasimo finale della morte. Il ritiro improvviso della vita lasciava sulla sua scia una visione di declino, agonia e morte così mostruosa e terribile a contemplarsi che pensai fra me: è impossibile vedere questo e sopravvivere! Il gelo mi invase.

La reazione immediata fu di difendermi dallo spettacolo, di allontanare la visione trovandole una spiegazione e un significato: in una parola, di liberarmene razionalizzandola. Ma per quanto volessi difendermi, mi fu chiaro tutt’a un tratto, come un colpo improvviso alla testa, che non avevo una sola arma. In quello stesso istante compresi in che cosa consiste ciò che chiamiamo sé: è una difesa dell’uomo per non vedere il nulla assoluto, per non vedere un mondo vuoto di vita, una vita vuota di Dio. Privo di sé, l’uomo è senza difese contro una visione del nulla cui non può sopravvivere.

Rendendomi conto che non potevo più contare su alcuna difesa da parte mia, restai in attesa di una qualche reazione, in particolare di un moto interiore di paura. Sapevo in qualche modo che all’insorgere della paura il sé sarebbe saltato su con tutto il suo armamentario: poiché a questo punto era ovvio che la paura, madre di tutte le invenzioni, era il nucleo attorno a cui il sé era costruito e da cui dipendeva per vivere, al punto da non potersene quasi distinguere. Ma poiché non ci fu nessuna reazione, nessun movimento di paura, conclusi che dentro di me il sé era stato congelato e sepolto, in piena coscienza del suo stato di immobilità, totale impotenza, morte. Evidentemente, senza volerlo ero stata attirata e intrappolata in questo mostruoso stato di non-sé: uno stato irreversibile, dal momento che, una volta andato via, il sé non può più tornare. Accerchiata da un terrore che non riuscivo a sentire e a cui insieme non riuscivo a sottrarmi, mi sembrò in quel momento di essere condannata a restare nell’umana condizione di chi deve fissare senza potersi difendere un nulla spaventoso.

Fino a quel momento, non m’ero affatto preoccupata del sé né di dove fosse andato l’anno prima; piuttosto, m’interessava capire cosa rimanesse in sua assenza. Dal tempo della sua scomparsa avevo conosciuto una grande libertà: la libertà di incontrare l’Unità che si trova oltre il sé. Ma in quel preciso momento il silenzio interiore non veniva vissuto come libertà dal sé ma piuttosto come un sé imprigionato: un sé congelato e immobile che era parte integrante del tutto, parte integrante dell’insidioso nulla che soffocava a morte ogni cosa. In quello stesso momento me ne sentivo fulmineamente gelata. Come potevo sopravvivere un solo momento in più?

Sembrava che l’unica risorsa rimastami fossero le mie gambe, due gambe che riuscivano ancora a correre, per quanto si sentissero gelate e immobili. Avevo imparato in precedenza a muovermi senza alcun bisogno di volizione personale, cioè ad agire istantaneamente, senza pensare, senza dover essere autocosciente. Una volta ancora la cosa funzionò e mi trovai a correre lungo la spiaggia. Ma mentre lo facevo, fu come se qualcos’altro corresse con me, incalzandomi, spingendomi oltre ogni resistenza fisica: “Corri, corri più che mai! Ne va della tua vita!”. E io ci credevo!

Ora, io non ero abituata neppure a fare del jogging e dovetti farmi di corsa due miglia, di cui una parte in salita, su per un’erta scogliera; ma quando raggiunsi la macchina dimenticai ogni stanchezza. Saltai dentro, guidai fino in città e parcheggiai vicino all’incrocio principale. Avevo deciso di trascorrere il resto della giornata in compagnia dei miei simili, e fu un bene trovarmi lì.

Essendo quella una città universitaria, la zona del centro era piena di giovani. A un angolo del marciapiede, una jazz-band suonava con gli amplificatori a tutto volume; più avanti c’era un trio che suonava più in sordina; avanti ancora, un violinista solitario, impegnato in vivaci melodie irlandesi. Le vetrine esponevano maschere di Halloween esotiche e bizzarre; i caffè erano pieni di folla. Le librerie al contrario erano tranquille come biblioteche, e mi ci soffermai appena, preferendo infilarmi in uno dei caffè pieni di voci e ordinare una birra. Mentre sedevo lì, osservando la gente intorno a me, decisi che non avere un sé era altrettanto brutto, se non peggiore, che averlo; perché, una volta oltre il sé, era altrettanto probabile che capitasse di attraversare un nulla mostruoso quanto che si incontrasse un meraviglioso, indefinibile ‘qualcosa’, come a me inizialmente era sembrato accadere. Mettere via il sé è, da parte nostra, un deporre le armi innanzitempo, prima di avere la certezza di cosa c’è avanti. È assolutamente un rischio folle. Senza sé, l’uomo è totalmente esposto ai venti della sorte, buoni o cattivi che siano. Guardando tutti quei giovani intorno a me, fui felice che avessero un sé; in realtà la più grande fortuna che potessi augurare a un essere umano era quella di avere un sé. Perché così non sarebbe mai riuscito a vedere quello che io avevo visto, qualcosa di intollerabile da viverci.

Per me, naturalmente, era troppo tardi. Per questa volta ero sopravvissuta, ma chi poteva dire cosa sarebbe successo l’indomani? Fortunatamente ero incapace di pensare al momento seguente, quanto di immaginare come qualcos’altro potesse andare male; piuttosto volli cercare di scoprire come e quando in passato avessi fatto lo sbaglio che mi aveva portato in questo vicolo cieco e cacciato in questo tremendo pasticcio. Tutto ciò che riuscivo a pensare era che avevo fidato troppo in Dio… ma questo è sul serio possibile?

M’ero chiesta spesso se fosse possibile abbandonare troppo del nostro sé a Dio, se ci fosse un limite oltre il quale un uomo non dovrebbe andare. Dobbiamo davvero abbandonare la nostra mente, la nostra memoria, la nostra intera esistenza, perdere tutto quanto conosciamo per arrivare a lui, lo Sconosciuto? Una cosa è rinunciare all’esercizio della nostra volontà accettando prove e tribolazioni, un’altra privarsi di ogni volontà o energia che si possa chiamare nostra. Offrire il proprio sé a Dio va bene, ma ottenere che egli lo accetti è spaventoso: almeno questo è quello che sentivo in quel momento. Il fatto era che io mi ero spontaneamente consegnata a ‘qualcosa’ che neppure conoscevo, e perché non avessi previsto il presente risultato era un’altra cosa che non sapevo. Per cui c’era un solo modo di spiegare la situazione: pensando di essermi ceduta a Dio, mi ero in realtà ceduta al nulla. E allora: è senz’altro possibile fidare troppo in Dio, ma solo se non c’è nessun Dio, solo se superato il sé c’è il puro nulla.

Però, se non c’era Dio, questo voleva dire che per tutto il tempo io avevo fidato soltanto in me stessa: a questo punto, cos’era peggio? Tutt’e due le situazioni finivano per portare in uno stesso vicolo cieco. Ma se non puoi fidare né nell’uno né nell’altro, cosa rimane? Il vero problema era qui: se non c’è un sé e non c’è un Dio, cosa c’è? Avevo appena visto quello che c’era e non potevo vivere neppure con quello. Non c’è nulla di bello nel puro e semplice nulla, lo stesso Sartre lo ha definito nauseante; per cui si può concludere che l’unica cosa al mondo su cui possiamo fidare è… ma sì, il denaro.

Col sé o senza il sé, con una fede o senza una fede, per sopravvivere l’uomo ha bisogno di denaro e beni materiali: probabilmente è l’ultima compensazione per la mancanza di un sé e di un Dio. Noi imputiamo l’avidità al sé, ma è probabile che le cose stiano diversamente: probabilmente il materialismo non nasce dal sé ma dal nulla che si trova oltre il sé. Poiché, quando non c’è né sé né Dio, cos’altro possiamo fare della nostra vita se non renderla economicamente vivibile? E per quel che mi riguardava, pensavo che quanto prima fossi entrata nella competizione del denaro, tanto più gloriosamente ne sarei uscita; dopotutto, la vita deve continuare malgrado le nostre peggiori esperienze.

Tornata al campeggio, tuttavia, non ero più così ottimista. Avevo una vita confusa fra le mani e sbrigarmela col qui-e-ora prometteva alcuni giorni orribili. Cercai di tenermi occupata in modo da non ricordare cos’era accaduto e soprattutto girai alla larga dalle spiagge, da cui era sparita la vita. Ciò che dovevo affrontare era questo sé congelato, l’idea del quale potrebbe essere rappresentata come le ‘dita di ghiaccio’ di uno sconosciuto terror panico, che abitualmente arrivava quando la mia mente era in riposo. Per quanto apparentemente tenuto sotto controllo e a una certa distanza, sapevo che esso stava acquattato sul fondo della mia mente e poteva farsi avanti a ogni momento. Proprio in questa occasione mi resi conto di come la mia vita dipendesse totalmente dalla resistenza della solida calma al mio interno, poiché sapevo che sarebbe bastata la benché minima sensazione di timore o paura, e le dita di ghiaccio, che erano come lampi improvvisi di luce nella mia testa, avrebbero invaso il mio intero essere, col risultato della pazzia. Senonché io non avevo nessuna controllo su quel silenzio; esso neppure mi apparteneva, era piuttosto tutto quanto rimaneva di un sé che non c’era più. Per cui la mia sorte era affidata ormai al precario equilibrio fra il silenzio interiore e l’oscuro terrore che poteva a un tratto affacciarsi nella mia mente.

Per evitare ogni possibile confronto, cercai di tenermi molto occupata, il che con quattro ragazzi non era difficile. Già altre volte loro mi avevano salvata perché, malgrado i litigi, le stanze sporche, la musica ad alto volume, mi costringevano a stare coi piedi per terra e le mani occupate. In questo momento, accudirli era tutto quanto dovevo fare.

Data la situazione, occorreva cancellare l’appuntamento per un prossimo ritiro presso i monaci eremiti di Big Sur: solitudine e silenzio erano l’ultima cosa di cui avessi bisogno. Presi dunque il telefono e dissi al frate che non c’era modo di far fare alla mia auto l’erta salita che portava da loro. Lui rise: “Se vedesse che razza di ferrivecchi riescono ad arrampicarsi su per la collina, crederebbe al miracolo; oltretutto se non riesce a farcela, può lasciare la macchina giù, mandiamo frate E. a prenderla.” Non c’era nulla da fare. Potevo mai dirgli di quelle ‘dita di ghiaccio’ che mi seguivano dappertutto? M’avrebbe di sicuro consigliato un ospedale psichiatrico.

Il giorno in cui mi avviai in macchina lungo la costa, un forte temporale investì Big Sur. Dovetti fermarmi due volte e aspettare una schiarita per poter vedere oltre il parabrezza. Dopo la seconda sosta, decisi di fermarmi al primo telefono che avessi trovato e di spiegare ai frati che rinunciavo; se c’era un tempo così quaggiù, figuriamoci che sarebbe stato salire fino in cima alla collina. Sfortunatamente il temporale cessò e prima che arrivassi ai piedi della salita dei monaci il cielo si era totalmente rasserenato.

Decisi di aspettare frate E. che scendeva ogni giorno alle dodici in punto incontro al postino; pensai che poteva venirmi dietro per aiutarmi nel caso avessi avuto problemi. Dopo che l’ebbi aiutato a scaricare la broda per i maiali, dono del convento al contadino confinante, il frate salì in macchina e mi pregò di seguirlo: “Così, se avrà dei problemi, almeno io potrò proseguire!”.

All’inizio tutto andò liscio ma quando arrivammo al tratto più difficile e ripido, il frate tirò il freno, scese, venne da me e mi disse di fare altrettanto perché doveva mettere una nuova lama al trattore, parcheggiato a mezza costa alla nostra sinistra.

Ora io non sapevo se il freno a macchina della mia macchina avrebbe tenuto, e sinceramente non ero neanche certa che avrebbe retto per molto il freno a pedale, per cui gridai: “Mi faccia posto che passo!”. Ma come poteva farmi posto? All’immediata sinistra c’era un ripido terrapieno, a destra un vero e proprio dirupo; era ovvio che qualcuno ci dovesse rimettere. Chi ci rimise fu la mia povera auto, ma superato l’impasse il resto filò a meraviglia.

Una volta su, tuttavia, invece di sentirmi sollevata, vidi come l’intera situazione fosse decisamente comica: dopotutto la mia auto era apparentemente in miglior forma di alcuni dei macinini con cui giravano i frati. In compenso, la strada era stata asfaltata di recente. E così eccomi lì, probabilmente la più riottosa partecipante a un ritiro mai salita lassù: e se avessi saputo quello che mi aspettava sarei tornata subito giù. Nessuno sa mai in che momento e in che posto il destino ha deciso di sferrargli i suoi colpi, e certo sarebbe stato difficile immaginare perché a me sarebbe toccato quassù, sulla collina dei monaci.

I primi due o tre giorni corsero via così lisci che pensai di essermi finalmente tirata fuori dai guai, ma il pomeriggio del terzo o del quarto giorno le dita di ghiaccio si ripresentarono e in un momento di spacconeria decisi di affrontare la faccenda, qualunque fosse. Non potevo continuare a scappare da questa storia tutta la vita, dovevo portarla allo scoperto, guardarla in faccia e venire a patti, poiché non sopportavo più di sentirla in agguato dietro ogni angolo della mia vita quotidiana. Decisi di uscire all’aperto, sedermi da qualche parte e fissarla in viso, finché uno di noi due cedesse il campo, ovvero si togliesse di mezzo.

Non credo di riuscire a rendere l’idea di quello che vuol dire guardare fisso un invisibile orrore senza sapere che cosa sia. Il semplice sapere in che cosa esso consiste può essere quanto basta a difendersi: ma quando uno ha passato in rivista tutto, ma proprio tutto quello che ha un nome senza risultato, deve semplicemente rassegnarsi a non conoscerlo e ad affrontarlo comunque. Questa cosa che io dovevo fissare era semplicemente la sintesi di ogni idea di ‘terrore’, ‘spavento’, ‘paura’, ‘pazzia’ e simili. In una parola era un assassino mentale, psicologico.

Per quanto sapessi che tutto il dramma si svolgeva esclusivamente nella mia testa, la mia mente pensante era quasi istupidita in sua presenza: per questo si aveva l’impressione che la cosa fosse anche esteriore, e potevo personificarla come dita di ghiaccio, simili a dardeggianti tentacoli di luce. Quantunque non fosse localizzata in un punto preciso, era facile fissarla poiché era tutt’attorno a me, non c’era dove altro guardare.

Ci fu un momento in cui pensai che potesse essere un rabbioso, maniacale sé che voleva rientrare. Un altro momento sembrò che fosse solo la paura di un improvviso collasso o il timore della pazzia; ancora, mi dissi che poteva essere solo la menopausa. Ma sono convinta che sapere non sarebbe servito neanche un po’; a quel punto non si poteva fare niente al riguardo: quale che fosse la sua missione nella mia vita, essa stava per compiersi lì e in quel momento.

Quanto più a lungo guardavo quelle dita, tanto più esse si avvicinavano, a volte quasi sfiorandomi, quindi d’un tratto ritraendosi; sembravano, nella mia mente, in costante movimento. All’inizio la mia sola reazione fu la comparsa della pelle d’oca, accompagnata da brividi intermittenti; ma in un secondo momento la mia testa incominciò a bruciare, sembrava che dovesse incendiarsi mentre davanti agli occhi mi sprizzavano lampi di luce, non riuscivo a vedere nient’altro. Quindi sentii i piedi lentamente gelarmisi e la sensazione di gelo diffondersi verso l’alto fino a invadere tutto, tranne la testa. Infine ricaddi indietro contro la roccia in preda a uno stato convulsivo, la testa che mi batteva selvaggiamente.

Sentivo che stavo per scoppiare, per spaccarmi letteralmente in due, ma non mi ero mai trovata in questa situazione e non avevo idea di cosa sarebbe accaduto. Giacqui in attesa, un’interminabile attesa del crack, mentre fisicamente era come fossi andata in frantumi. Dentro, non c’era un solo movimento: né paura, né emozioni di alcun genere. Ogni tanto, cercavo di fissare l’attenzione su questa grande calma, per scoprire che non mi dava nessun senso di forza o di fiducia; era qualcosa di altrettanto estraneo di una mosca che mi ronzasse sulla testa. Era come se il mio corpo fosse stato lasciato a sopportare l’urto di un assalto cui né la mente né le emozioni potevano partecipare. Pure, se questi fossero stati presenti, il risultato avrebbe potuto essere peggiore, non so. Ma le mie condizioni fisiche erano talmente terribili, che neanche per un momento dubitai che solo un miracolo potesse salvarmi; al tempo stesso non è che lo aspettassi, e neppure ci speravo; e del resto la mia mente non sarebbe riuscita a formulare la benché minima preghiera. Tutto ciò che volevo era uscire da quell’incubo, morendo se necessario.

Non avvertii in che momento esattamente quell’orrore finì, perché la cosa seguente di cui ebbi coscienza fu una profonda tranquillità in cui non c’era alcuna sensazione fisica in assoluto. Dopo un po’, qualcosa dovette farmi voltare la testa. Mi trovai a guardare, dritto ai miei occhi, un piccolo fiore di campo giallo, non più distante di trenta centimetri.

Non so descrivere quell’attimo di visione; le parole non possono renderlo. Diciamo solo che sorrideva… un sorriso di benvenuto proveniente dall’intero universo. Davanti all’intensità di quel sorriso non restai accecata, né il corpo fisico dovette sottrarsi all’impatto; finalmente riuscii a resistere all’enorme intensità.

Mi ci volle un po’ per rendermi conto che il mio corpo stava ancora sdraiato sulla collina perché, in un primo momento, sembrava che non avessi un corpo. Per quel che ne sapevo, avrei potuto essere un filo d’erba o un sasso della collina. Dopo un po’ tuttavia il corpo divenne evidente e decisi di provarlo, per vedere se avesse intenzione di rimettersi in movimento. Ancora una volta si mosse senza pensiero, solo che questa volta il ritorno della sensibilità fisica fu accompagnato da una leggera scossa. Quando mi fui alzata in piedi, fu gratificante sentire il corpo rilassato come se nulla fosse accaduto. Così risalii la collina esattamente come ne ero discesa: ma questo solo fisicamente, perché in realtà qualcosa se n’era andato giù per la collina e non sarebbe tornato mai più.

Tranne che per l’assenza di quella cosa orribile, che non rividi mai più, rifeci la mia strada senza provare alcun senso di reale esistenza. Sebbene cercassi ovunque in quello che avrebbe dovuto essere il mio organismo, avevo ora la sensazione che questo non avesse una propria sostanza, nulla più di cui non avessi sperimentato che poteva dissolversi o scomparire all’improvviso senza lasciare nulla al suo posto. Quanto a ‘quello’ che restava, non avevo alcuna idea di cosa fosse, dove fosse o perfino se ci fosse. Sebbene ovviamente qualcosa si arrampicasse su per la collina, solo molto più tardi ne avrei scoperto la vera natura; per il momento, tutto ciò che sapevo era che c’era stato un grande cambiamento.

Oggi, guardandomi indietro, riesco a vedere quello che accadde sulla collina come un’iniziazione a quello che avrei chiamato il Grande Passaggio, uno stato insolito di esistenza che sarà descritto nel capitolo seguente.

Alcuni giorni dopo questo evento, mi trovai a lamentarmi con padre L. del fatto che non riuscivo più ad avere il controllo della mia esistenza. Egli mi chiese: “D’accordo, ma che ne dici della tua esistenza empirica, del tuo sé empirico: è qui seduto a parlare con me o no?”. “Esteriormente sembrerebbe di sì”, gli risposi, “ma se chiudo gli occhi non riesco più a vederlo”. Gli spiegai quindi come, durante la preghiera e in ogni momento in cui non facevo nulla, il mio corpo si dissolvesse, o così sembrava, tanto che se non ci tenevo gli occhi puntati non ero sicura di avercelo. A questo punto egli alzò le braccia al cielo, esclamando: “Oh Dio, è una cosa dell’altro mondo!”. Ma mentre io continuavo a lamentarmi, restò lì a meditare su che ne sarebbe stato della teologia scolastica se la scienza avesse provato che non esisteva niente come una sostanza permanente nella materia.

Finalmente mi scoprii a cercare di rassicurarlo. Gli suggerii che il concetto dell’uomo come materia in conflitto con lo spirito poteva rivelarsi l’opposto di quello che si era tradizionalmente creduto; vale a dire che Dio poteva rivelarsi come pura materia (ovvero sostanza permanente) e la materia come puro spirito (o Dio): in altre parole materia e spirito potevano essere in realtà la stessa cosa. Con questo intendevo dire che era possibile che lo scienziato fosse il contemplativo, o il pesce d’altura che s’affanna a nuotare in cerca del Mare in cui già si trova; mentre viceversa il contemplativo poteva rivelarsi l’inconsapevole scienziato che, senza rendersene conto, ha già incontrato la sostanza permanente.

Ma il padre non m’ascoltava: era partito per uno dei suoi trip mentali d’ordine teologico e io sapevo dove sarebbe finito. Alla fine sarebbe rimasto con un pugno di mosche in mano e a quel punto sarebbe semplicemente restato lì seduto a guardar fuori dalla finestra, in alto la collina, in basso il mare aperto, in cui ogni teoria e ogni pensiero finisce inevitabilmente col dissolversi e sparire. Lo lasciai quindi a scoprire i propri vicoli ciechi e continuai per la mia strada a cercar di capire come poteva succedere che il proprio corpo fosse ben visibile ed evidente fintato che si tenevano gli occhi aperti, ma se ne perdesse ogni traccia nel momento in cui si chiudevano gli occhi.

Dovrei forse aggiungere che il continuo dissolversi del corpo era molto diverso dalle esperienze extracorporee di cui ho sentito parlare. Evidentemente, queste esperienze rivelano una divisione fra il sé superiore e quello inferiore, laddove nella mia esperienza non c’era una divisione del genere; evidentemente non c’era più un sé che potesse dividersi. A causa di queste esperienze, tuttavia, alla fine giunsi a considerare il corpo, come del resto ogni forma visibile, come qualcosa di etereo e illusorio; e poiché la stessa forma è composta di una sostanza inconoscibile e impalpabile che permane stabilmente al di là di qualsiasi cambiamento, mi sembrò che fosse questa sostanza quello che rimaneva in assenza del sé. A ogni modo, l’intera motivazione empirica dell’esistenza del sé perse consistenza una volta per tutte in seguito all’esperienza fatta sulla collina e a tutt’oggi resta irrecuperabile.

Prima di avventurarmi oltre, devo notare che ci fu una curiosa ironia nel fatto che l’evento di cui ho detto avvenisse proprio sulla collina dei frati. Un paio d’anni prima, quando i frati avevano aperto la propria casa-ritiro alle donne, le aspiranti al ritiro dovevano ottenere prima il permesso del priore del monastero: in altre parole dovevano passare un esame. Allo scopo io feci un viaggio speciale sulla costa per incontrare il padre priore, il quale, dopo avermi benevolmente concesso il permesso, mi chiese: “Mi dica, cosa spera di ottenere da un ritiro con noi?”. Gli dissi che non sapevo con certezza, ma che durante l’ultimo anno avevo sentito, intimamente, come se stessi preparandomi a una grande esplosione… Di colpo, egli s’irrigidì sulla poltrona: “Per l’amor di Dio, non lo faccia qui!”, esclamò, “Stiamo giusto cercando di abituare i frati ad avere donne intorno e questo rovinerebbe, letteralmente brucerebbe, la cosa per tutti!”.

Bene, non avevo idea di che cosa il padre priore pensava io intendessi con ‘grande esplosione’, ma sapendo che prima di farsi frate era stato dottore in chimica, pensai che dovesse aver avuto qualche brutta esperienza che aveva impresso il suo marchio su ogni altra connotazione del termine. Parlando di grande esplosione io avevo in mente un meraviglioso sboccio spirituale, preferibilmente con implicazioni creative.  Mai nei miei sogni più folli avevo sospettato che il mio sé stesse per esplodere in un milione di pezzi, per non ricomporsi mai più. Un’aspettativa del genere non era contemplata dalla mia agenda cristiana, e quanto al fatto che dovesse realizzarsi sulla collina dei frati… certo sarebbe stata una disgrazia per tutta la Chiesa. Ma come ho detto, non si sa mai quando e dove il destino ci raggiungerà. Che io dovessi incontrare il mio proprio sul colle dei frati fu certo una sorte ironica, un’eventualità che non avrei potuto prevedere, ma che comunque non andò perduta.

 

 

Capitolo quinto

 

 

Quantunque i meccanismi del cambiamento che si produsse durante il viaggio mi fossero sconosciuti, fui immediatamente in grado di riconoscere tanto la presenza di qualcosa di nuovo quanto l’assenza di qualcosa di vecchio; e il cambiamento avvenuto sulla collina, che coincise con l’inizio della seconda metà del viaggio, può meglio esser compreso se lo si rapporta ai cambiamenti che si erano manifestati in precedenza.

Inizialmente, con lo svanire del senso di una vita interiore attiva e funzionante, c’era stata la tendenza a proiettarmi all’esterno nella visione dell’Unità, con la scomparsa di tutto quanto fosse particolare e individuale. La stessa visione dell’Unità non si situava al mio interno, ma in un primo momento si manifestò come una sorta di lenti tridimensionali sovrapposte alla mia abituale percezione visiva e, in seguito, si concretizzò in un vedere che partiva dall’alto della testa. Adattarmi a questo nuovo modo esteriorizzato di vita richiese quasi un anno, dopo di che ebbe luogo sulla collina un secondo importante cambiamento. L’essenza di questo secondo cambiamento fu il venire meno di ogni cosa esterna, il che significò la scomparsa della grande Unità che m’ero abituata a vedere e contemporaneamente delle lenti a 3D, che ora non riuscivano più a focalizzare un solo oggetto o una sola idea. Fu come se il vedere, privo di oggetto, tutt’a un tratto si fosse spento. Nell’insieme questo equivaleva a vivere in uno stato in cui non c’era nulla dentro e nulla fuori: uno stato di totale mancanza di conoscenza, difficilissimo da controllare e sopportare. Cercherò ad ogni modo di descriverlo.

Dapprincipio l’esperienza del vuoto ovunque guardassi era stata solo sconcertante per la sua relativa novità. Senza dubbio, la ragione per cui la mente non riusciva più a concentrarsi su particolari oggetti o idee era il totale vuoto che trovava in questi: un vuoto che non si apriva e dissolveva più nell’Unità. Ma via via che passavano i giorni e le settimane senza un accenno di tregua o di compensazione, la situazione divenne sempre più invivibile: vedere continuamente il nulla assoluto dentro e fuori produceva un senso di indicibile aridità, una condizione esistenziale insopportabile.

Dopo un certo tempo cominciai a sentire come se la mia testa (la mente, il cervello) fosse stretta in un torchio, così che non potevo più muoverla. Non potevo volgere gli occhi indietro, verso il passato, né di qua o di là, nel disperato tentativo di fissare l’attenzione su qualcosa del presente immediato. Tutto quello che potevo fare era guardare dritto davanti: ma dritto davanti non c’era niente da vedere, era come fossi bendata e avanti avessi solo un vuoto nero e totale.

Dal momento che la mia mente non riusciva a concentrarsi su nulla né ad appoggiarsi ad alcunché di conoscibile, presto cominciai a sentire come se il cervello stesse andando a fuoco e la terribile pressione che avvertivo dietro gli occhi mi stesse portando alla cecità. Questa pressione senza tregua all’interno della testa era una specie di crudele guardiano che mi ordinava in permanenza di vedere: “Vedi! Devi vedere! Puoi vedere! Guarda e vedi!”. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, era un martellamento continuo, finché capii che non mi sarei mai liberata da quell’orrenda situazione e non mi sarei mai sottratta al tremendo guardiano, a meno che finalmente non avessi ‘veduto’. Ma veduto cosa? Che cosa si presumeva cercassi? E come avrei mai potuto vedere, dal momento che non avevo occhi per vedere? Davanti a me c’era sempre e soltanto il vuoto e il nulla.

Per la sua terribile angustia chiami questa situazione interiore il Grande Passaggio. Non avevo idea di dove fossi o di dove stessi andando. Se la prima parte del viaggio era stata, in pratica, il movimento dal sé al non-sé, questa seconda metà era il movimento dal non-sé al non-dove; non credo infatti che il sé imboccherebbe il Passaggio: non potrebbe sopportare quello che vi si deve sopportare.

Sapevo per istinto che questa era una condizione pericolosissima, sentivo di camminare sull’orlo della follia o di uno stretto precipizio fra la vita e la morte, e che la sopravvivenza era totalmente affidata al non-sé: quella solida, inamovibile quiete di ogni cosa al mio interno. In qualche modo sapevo che il benché minimo movimento interiore poteva improvvisamente farmi perdere l’equilibrio e sarei scivolata via per sempre.

A volte ero tentata di vedere questa grande quiete come Dio, ma penso che mi sbagliassi e più avanti spiegherò perché. Un’altra tentazione era quella di vedere Dio nel terribile guardiano, perché malgrado i suoi categorici, implacabili, spietati ordini di ‘vedere e andare avanti’, sentivo per istinto che egli sapeva dove era diretto e cosa faceva. C’erano momenti in cui pensavo di mettermi alla ricerca di qualche farmaco che desse sollievo al mio cervello bruciante, ma non avendo mai assunto psicofarmaci in vita mia non avevo idea di quali potessero essere i risultati né riuscivo a credere che un dottore ne sapesse più delle sue medicine. Così affidai al guardiano il compito di portarmi in salvo, di modo che il viaggio facesse il suo corso e finisse quando era il momento; interromperlo al contrario per qualche motivo poteva significare non completare mai il Passaggio e non sapere mai se e che cosa mi aspettasse dall’altra parte.

Un’altra ragione per cui non presi in considerazione l’uso di psicofarmaci fu che sentivo il pressante bisogno di essere sempre sveglia e all’erta, in un momento in cui le mie energie personali erano ridotte al minimo. Ci fu un’occasione in cui semplicemente osservai, come un osservatore immobile osserva una luce allontanarsi e svanire del tutto, il ridursi graduale e ineluttabile dell’ultima parvenza di energia fisica che possedevo. Fu allora che appresi che la dinamica della vita non è in realtà nel fluire e nel divenire di ogni cosa, poiché, malgrado l’andare e venire di quello che chiamiamo vita ed energia, qualcosa rimane che non si muove e non partecipa all’andirivieni. Qualcosa che è semplicemente lì, semplicemente in osservazione: e ‘questo’ che rimane è la vera vita, mentre non lo sono tute le energie che vanno e vengono. Ma che cos’è quel ‘qualcosa’ che rimane lì e osserva? E che cos’è quello che affronta il passaggio? Che cos’è questa forma che impedisce la dissoluzione? E che cos’è ciò che resta quando non c’è più sé? Certo non ero io. Io ero quello che era svanito. Poteva dunque essere Dio? Bene, se lo era io non lo sapevo perché non riuscivo a vedere assolutamente nulla.

Quel giorno, osservare il mio stesso fluire mi impartì un’importante lezione. Mi insegnò quale fosse il significato della pressante insistenza sul “continuare a camminare, andare dritti avanti, confermarsi per nessun motivo” che fino a quel momento non avevo capito. Nell’osservare la vita che si stava spegnendo non provavo nessuna ansia. Nulla in me rispondeva a ciò che vedevo, finché all’ultimo mi venne fatto di pensare che a un certo punto poteva accadere di andarsene e non tornare mai più. Ma una prospettiva del genere non poteva realmente far paura a un morto: non avevo abbastanza energia per preoccuparmi. La mia vita era ora nelle mani di un fato misterioso e non c’era altro da fare che accettare la sorte. Eppure, in un momento così privo di scelta come quello della morte, sentii che non avevo ancora veduto, e che non mi sarebbe stato comunque permesso di andarmene per sempre prima che il viaggio fosse stato portato a termine. Così mi resi conto che dovevo comunque continuare la marcia, continuare a trascinare i piedi sulla terra, poiché, anche se non riuscivo a intravedere come il passaggio in cui mi trovavo avrebbe potuto essere completato qui e ora, la prospettiva di trascorrere un’eternità nel buio più totale era ugualmente respingente.

Come continuare ad andare era uno dei problemi più difficili e penosi del passaggio: occorreva imparare a sopravvivere facendo a meno di ogni minimo senso di energia personale.

Per cominciare, scoprii che era necessario tenere la mente costantemente occupata con risorse esteriori, dato che in quella strettoia non riuscivo a pensare, riflettere, formulare un’idea o un pensiero; mentre improvvisamente scoprii che ero in grado di ascoltare i pensieri e le idee altrui mantenendo contemporaneamente la mente perfettamente silenziosa e in riposo, perché la mia comprensione delle questioni pratiche restava intatta. Fintanto che ascoltavo, la mia mente era silenziosa in maniera del tutto spontanea. Questo fu l’inizio: in un secondo momento scoprii che riuscivo anche a leggere libri che non esigevano sforzo mentale e non esercitavano una specifica pressione sulla mia mente. Pur non potendo cimentarmi con la filosofia, trovai utile e interessante leggere tutti i libri sull’alpinismo che trovai in biblioteca.

Venne infine anche il giorno in cui mi accorsi che potevo anche parlare e conversare mantenendo la stessa mente silenziosa e inattiva; il che accadeva solo nei limiti in cui il parlare veniva direttamente da ‘sopra la testa’, ossia spontaneamente, senza pensiero o riflessione. All’inizio, queste conversazioni erano necessariamente brevi e limitate alle questioni pratiche, ma col tempo l’abilità di parlare direttamente dalla sommità della testa divenne una funzione stabile. In seguito chiamai questa facoltà la mia ‘mente non riflettente’ e gradualmente riconobbi che era di gran lunga superiore alla normale mente pensante, in quanto, come cercherò di spiegare più avanti, permette una grande chiarezza.

Per il momento, comunque, stavo appena cominciando a scoprire l’ascolto e la lettura come un modo di controllare la pressione nel mio cervello. In una parola, stavo lentamente imparando a sbrigarmela per continuare a vivere nelle condizioni del Passaggio evitando i rischi della passività  e dell’inerzia.

Fu per evitare questi rischi che alla fine mi immersi in un nuovo tipo di attività. Era l’attività di una mente priva di pensiero e conoscenza: non c’erano energie investite nel sé, non un briciolo di soddisfazione in una cosa qualsiasi, nessuna meta all’infuori della sopravvivenza. Fu esattamente a questo punto, anche se allora non me ne resi conto, che cominciai ad affiorare a un modo di vivere totalmente nuovo, un modo di vivere che non si può concepire e neppure immaginare possibile fintanto che non ci si arriva dal lato opposto della conoscenza, ossia da quello della non-conoscenza.

L’aspetto di gran lunga peggiore del Passaggio fu quello della mancanza di gratificazione (e, bisogna dire, anche quello della durata: quattro mesi; pochi giorni o una settimana, si sopporta, ma trovarsi per quattro interi mesi in una camicia di forza mentale porta, giorno dopo giorno, al limite dell’intolleranza). Anni prima mi ero imbattuta, leggendo, in un brano a proposito di uno stato di non-conoscenza che l’autore definiva più o meno “una totale dissociazione psicologica priva di compensazioni”. Per quanto allora non riuscissi a immaginare a che cosa ci si riferisse, sentii istintivamente che doveva essere qualcosa di terribile e fui felice di non avere mai conosciuto niente di simile. Ora, durante il Passaggio, l’espressione mi affiorò alla memoria come la migliore sintesi della situazione in cui mi trovavo che la mia mente potesse formulare. Per quanto non ne conoscessi l’uso strettamente psicologico - l’autore era uno psicologo – la adottai per esprimere la mia condizione, quella di chi è totalmente tagliato fuori, dissociato dal noto, il sé, senza nessun fattore compensatorio al posto del vuoto che ha incontrato. Essa significava uno stato senza emozioni, energie, moti interiori, intuizioni, visioni, relazioni con una cosa al mondo: nient’altro che il vuoto assoluto, da qualunque parte mi girassi. La totale sterilità di questa condizione non è quasi umanamente sopportabile, specie se si protrae per un certo tempo, e il fardello della completa mancanza di conoscenza era un peso che alla lunga minacciava di schiacciarmi: schiacciarmi senza tuttavia uccidermi. Avevo già visto che la morte non era una via d’uscita, perché prima o poi il Passaggio doveva essere compiuto e non sarei stata libera dal peso della non-conoscenza fino a quando non fossi riuscita a vedere.

Questo stato non può essere paragonato alla ben nota Notte Oscura: infatti è qualcosa di più e di assai peggiore della purificazione della mente e della volontà nella loro ignoranza dello Sconosciuto. È uno stato psicologico estremo in cui la mente non può dimorare neppure nel conosciuto, e tanto meno nello Sconosciuto. Per quanto la realtà empirica restasse, non la si poteva mettere a fuoco a livello percettivo, né si potevano focalizzare a livello visivo i singoli oggetti. Gli abituali oggetti della mente venivano invece percepiti nella loro globalità, il che provocava momenti di tensione, in particolare quando ero al volante o giravo per il mercato. Uno stato del genere poteva essere paragonato allo sguardo sul mondo del bambino, in cui quest’ultimo vede ciò che vede l’adulto, senza avere però la percezione e la capacità di attenzione dell’adulto, in quanto la sua mente è ancora nello stato non-relativo della non-conoscenza. Bene, per una mente matura, inserita nella realtà, capace di conoscenza, tornare a questa condizione non-relativa mantenendosi insieme nell’ambito della normalità è un’impresa di proporzioni gigantesche. Pure, abbastanza curiosamente, la grazia salvifica, almeno la grazia riconoscibile ed evidente, è nella stessa mente condizionata.

Avevo sempre nutrito una certa avversione nei confronti del modello condizionato di pensiero e comportamento dei behaviorismi, ma durante il Passaggio compresi come esso fosse la condizione fondamentale della sanità mentale e come le abitudini indotte di una mente equilibrata e integrata fossero assolutamente essenziali per affrontare il passaggio. Per cui gli anni precedenti al viaggio, anni di sperimentazione e di verifica dell’equilibrio psichico, furono della massima importanza; al punto che tutto ora dipendeva da questa stabilità del comportamento condizionato. Fatte due o tre eccezioni, non sperimentai nulla che si potesse chiamare grazie divina e corroborante. Per lo più, procedetti sotto il pesante, enorme fardello di una così assoluta mancanza di conoscenza, che sembra addirittura incomprensibile come ce l’abbia fatta ad andare avanti.

Nelle poche occasioni in cui trovai il sostegno divino, non ci fu modo di equivocare sulla sua natura. Questi momenti vennero verso la fine del Passaggio – cosa di cui sono in grado di rendermi conto soltanto a distanza di tempo – e furono sempre preceduti da un accumularsi di tutti gli aspetti intollerabili di questa condizione: la durata, l’apparente eternità, l’affaticamento, la pressione dietro gli occhi, lo stato mentale precario, la totale mancanza di comprensione; in breve, la tremenda condanna del non sapere e non vedere. Tutto questo e altro all’improvviso diventava insostenibile e sotto il suo peso mostruoso qualcosa cedeva. Qualunque cosa sia quello che resta in assenza del sé, esso si disintegrava, svaniva come un sottilissimo velo nell’infinito. Era la cancellazione di tutto tranne che del gioioso, divertito sorriso del divino, un sorriso in qualche modo totalmente soggettivo. La parola più immediata e incisiva con cui descrivere il fenomeno è ‘fondersi’, una vera e propria fusione dell’essere in cui Dio era tutto ciò che rimaneva.

Nonostante questa momentanea tregua, presto tornavo  alla condizione consueta, per cui dovevo ricredermi sul fatto che questo fosse il ‘vedere’ finale. Il dissolversi di quello che rimaneva non era evidentemente il vedere che si esigeva da me. Se mai la cosa mi colpiva come un pietoso rabbuffo del guardiano, come se la mia aridità si fosse sciolta e lui mi dicesse: “T’ho detto che puoi vedere! Tu vedi continuamente e lo sai! Non puoi dubitarne!”. In effetti, non c’erano dubbi. La natura del passaggio non ammette dubbi intellettuali; ma per lo stesso motivo non ammette certezze. In realtà non ammette nulla.

Se si tolgono questi due momenti di tregua, la mente era immersa in un vuoto crudele, in cui non aveva dove guardare, dal momento che non poteva concentrarsi su nulla. A questo punto mi ricordai di Cristo, quando dice che non ha dove posare il capo: nel senso, almeno così io lo intendo, che non c’è nulla al mondo su cui possa concentrare l’interesse, nulla a cui la sua mente possa aggrapparsi a livello percettivo o concettuale.

Infine divenne chiaro che il Passaggio era oltre la disperazione e anche oltre la pazzia: in quanto ‘chi’ rimane per impazzire, o ‘cosa’ resta a provare disperazione? Se il sé fosse stato vivo, sarebbe impazzito immediatamente; e se non altro, io sarei saltata su a ogni occasione per gettare la spugna e tagliare la corda. Ma le nostre nozioni di ansia e di disperazione sono solo giochetti con cui ci difendiamo paragonati al carico della non-conoscenza, contro cui non ci sono difese possibili; né, quanto a questo, c’è più nulla o nessuno da difendere. Sarebbe stato quanto mai gratificante avere un sé, perché il sé è la compensazione di cui l’uomo ha bisogno di fronte allo stato della non-conoscenza, o in ogni caso questo pensavo io.

Ciò nondimeno, il meccanismo che permette di sopravvivere al Passaggio mi resta oscuro. Il sé era morto, in silenzio per sempre. Il guardiano, non più di una pressione sul mio cervello, continuava a esigere che la mia mente fosse tranquilla e ‘vedesse’. E il mio corpo ingurgitava cibi sostanziosi nel suo debole tentativo di compensare la perdita dell’energia del sé. Probabilmente è all’interno dello stesso Passaggio che si forma il meccanismo del superamento, se non altro perché quella è l’unica strada percorribile. Non ci sono scelte, non ci sono opposizioni, non c’è morte né follia; è lì e tu ci sei dentro, semplicemente, è un Passaggio e lo devi attraversare.

Passati quattro mesi, avevo in qualche misura imparato come venire a patti con una condizione del genere. Con ‘venire a patti’ non intendo un atto di rassegnazione ma solo un adattamento all’inevitabile. Per quanto ne sapevo avrei potuto vivere a quella maniera per il resto dei miei giorni, motivo per cui facevo del mio meglio per costruirmi un modo di vita che mi permettesse di andare avanti. Probabilmente è estremamente importante il fatto che finii con l’adattarmi al vuoto, rendendomi conto che solo il tempo poteva farci qualcosa, come dimostrava il fatto che dopo un po’ il problema aveva finito col passare quasi inosservato.

Sembra che quando il vuoto dell’esistenza non prende più tutta l’attenzione, il ‘fare’ diventi tutto. Così, nel corso del Passaggio, l’accento si spostò dal semplice esistere, come l’avevo conosciuto sulle montagne, al fare, che ora divenne un modo di vita. E tuttavia, in quel periodo, mentre passeggiavo per le colline, a tratti ero assalita dalla tristezza di fronte al vuoto e alla totale sterilità dell’uomo e della natura. Mi rattristava il fatto che l’uomo viva tutta la vita nella falsa presunzione che dietro, sotto o oltre ciò che è, si nasconda una realtà ultima. E ricordavo la mia intera vita di ricerca, di cui ora vedevo che spreco assoluto era stata.

Tutte le esperienze della mia vita non erano state altre che un trip mentale, una grande beffa, un girare a vuoto di cui ora mi ritrovavo al punto di partenza, sapendo della vita e di Dio né più né meno di quello che sapevo al momento della mia nascita. Che pensare di tutta l’energia sprecata a studiare, meditare, praticare, cercare, lottare, soffrire, sperimentare e così via? Tutto uno spreco! In realtà, tutto ciò che l’uomo sa è al cento per cento riflessione e pensiero volenteroso, ciecamente stimolati, questo è certo, da un sé che chiede ostinatamente di sopravvivere. Che imbroglio da parte della mente! Che inganno senza rimedio! E quale uomo al mondo non è stato preso per il naso e cacciato in questa trappola, la trappola rappresentata dal sé? Eppure, cosa c’è al di là del sé? Se sono il vuoto e il nulla tutta la verità e nient’altro che la verità, l’uomo non può fare a meno del suo sé e dei suoi inganni; deve avere questa compensazione per una realtà ultima che si rivela puro e semplice nulla.

Incessantemente in queste passeggiate per le colline e lungo il fiume mi domandavo anche se ci fosse in me un’ultima traccia di quella che si chiama ‘fede in Dio’. Inizialmente ero stata ansiosa di rinunciare a quel qualcosa chiamato sé perché avevo in qualche modo la certezza che Dio fosse oltre esso. Così avevo creduto e avevo amato, e fino al Grande Passaggio non m’ero sentita ingannata. Ma ora quella fede era definitivamente andata in pezzi, non riuscivo a trovarla in nessun posto. In suo luogo c’era una mite delusione e l’accettazione ultima di ciò che è: vale a dire del fatto che tutto ciò che abbiamo è ciò che vediamo.

Questo significa anche il semplice fare qualsiasi cosa ci sia da fare in qualsiasi momento del giorno, senza farsi domande, attaccarsi a cavilli, sollevare obiezioni. Fare semplicemente quello che si presenta da fare, nient’altro.

E questa era la fine del discorso. Avevo finalmente trovato la grande verità: tutto è vuoto, il sé ha semplicemente riempito il vuoto, tute le parole dell’uomo sono vuote etichette fornite da una mente che non sa niente di niente del mondo in cui vive e non riesce a tollerare uno stato di non-conoscenza. E va bene: potevo convivere con questa realtà.

Per quanto l’urto contro la grande verità mi fosse quasi costato la vita, finalmente stavo scoprendo come conviverci; dopotutto era questo lo scopo del viaggio: scoprire la verità e niente di meno. Potevo continuare a rattristarmi per tutti quelli che ancora sprecavano la propria vita nell’inconsapevole ricerca del vuoto, ma non ardevo dal desiderio di informarli prima del tempo: sapere la verità non porta necessariamente a vivere meglio una vita che deve continuare comunque, contenga o no la verità. A questo punto, con questa ‘visione’, certa di aver completato il circolo, potei finalmente mettere via l’intera faccenda e darmi da fare per guadagnarmi da vivere.

 

 

 

Capitolo sesto

 

 

Si era verso la fine dell’inverno e le acque fangose del fiume erano ostruite dai detriti bruciati di un incendio montano che risaliva a due anni prima. Ogni giorno, mio figlio ed io sostavamo sulla riva a misurare l’altezza delle acque rigonfie, dopo di che lui, che aveva buoni occhi e un lancio robusto, si divertiva a prendere di mira coi sassi i leggeri pezzi di legno che l’acqua portava con sé. Un giorno però lui tardava a venire, per cui scesi giù e mi sedetti sul greto, osservando il bosco morto nella sua rapida discesa verso il mare. Senza alcuna ragione o alcuno stimolo, un sorriso mi affiorò in volto e nel frammento di secondo del riconoscimento ‘vidi’: finalmente vidi e seppi che avevo visto. Ne fui certa: il sorriso, ciò che sorrideva e ciò a cui il sorriso era rivolto erano Uno: altrettanto indistinguibilmente uno quanto una trinità indivisa. E quello che vidi fu semplicemente che la realtà era questa. Non ci fu intuizione, visione o movimento di sorta: fu un vedere naturale e spontaneo come un sorriso su un viso, nient’altro. Nel mio diario definii il fenomeno ‘il sorriso di riconoscimento’.

Dal momento che quello che avevo visto non poteva essere trattenuto e afferrato dalla mente, continuai a guardare il fiume, via via che sospingeva avanti i detriti e scorrendo lavava le rive, nel suo deciso fluire verso l’incontro col mare. Più tardi feci una passeggiata e vidi che, quantunque il Grande Passaggio fosse ormai superato, ogni cosa sembrava uguale a sempre. Niente era cambiato ed era un bene vedere che le cose stavano così. Se c’era qualcosa di miracoloso e spettacolare in quel mio vedere, questo era il fatto che tutto era come sempre e che niente era cambiato. Questo voleva dire che anch’io ero come sempre ed ero arrivata alla fine del passaggio restando normale, integra e sana di mente. Ero riconoscente per questo; era quasi troppo bello per essere vero. E insieme, come poteva essere diversamente quando ‘quello’ che resta alla fine del passaggio è Esso stesso normale, integro e sano?

Può sembrare strano che provassi più gioia per essere uscita dal passaggio che per quello che al suo interno era stato rivelato. Bisogna capire però che non potevo essere felice per quello che era stato rivelato dal momento che non riuscivo ad afferrarlo e dargli credito. Era così assolutamente semplice, così completamente ovvio e così totalmente soggettivo che era impossibile capire perché non l’avessi visto prima; al tempo stesso non si vede come avrei potuto giungere a quel vedere di mia spontanea iniziativa. Doveva essere rivelato.

Quello che appresi fu che lo sconosciuto oggetto del sorriso era identico al soggetto; non solo, ma lo stesso sorriso era identico all’uno e all’altro. E che cos’è il sorriso? È ciò che resta quando non c’è il sé. Il sorriso non è lo sconosciuto soggetto né lo sconosciuto oggetto e insieme è identico a essi. Esso è l’aspetto manifesto dello Sconosciuto. Le implicazioni di questo ‘vedere’ sono spaventose; al tempo stesso esse si sottraggono alla comprensione della mente.

Di conseguenza, la piena portata di quella particolare percezione non era immediatamente evidente. Per quanto la pressione dietro gli occhi non si ripresentasse più e la mia mente godesse di un naturale silenzio, la vita proseguì come in passato; non avevo la coscienza di un reale cambiamento. Ed ecco che, circa una settimana dopo, mentre correvo a prendere un autobus mattutino, l’abituale vuoto fu rimpiazzato da qualcos’altro, qualcosa che non si situava nello spazio come una presenza, ma sembrava più diffuso e intenso della stessa Unità che avevo visto con le lenti tridimensionali. Lì per lì considerai la cosa come un totale inganno, uno scherzo della mente; tra l’altro arrivava troppo tardi, ormai ero al di là di quel tipo di lusinghe che in passato non mi aveva procurato che guai. Così ignorai la cosa, mi rifiutai di darle spazio e attenzione, e se avessi avuto un sé, avrei probabilmente provato a suo riguardo una sensazione di sdegno. Continuai a camminare guardando dritto avanti, e andai al lavoro.

Ma anche ‘quel qualcosa’ andò al lavoro e mi accerchiò al punto che mi riuscì difficile distrarne gli occhi. La cosa andò avanti per parecchi giorni, finché capii che quanto più cercavo di ignorarlo tanto più esso mi avrebbe forzato a guardarlo. Perciò alla fine guardai: questo bastò perché subito dileguasse e svanisse, ma nello stesso istante in cui svanì seppi perché.

Non si può guardare ciò che È, perché questo non può diventare un oggetto della mente; né d’altra parte può essere un soggetto. Ciò che È non può per sua natura essere in nessun caso soggetto né oggetto. Così, nel momento in cui lo guardiamo con la nostra mente condizionata (funzionante sulla base del rapporto soggetto-oggetto), ciò che È sparisce: abbiamo tentato di farne un oggetto, e questo è impossibile. La mente relativa non può percepire questa realtà, solo una mente non condizionata la vede, perché ciò che È è ugualmente non-riflessivo e non-autoconscio. Dal momento che ciò che È è tutto ciò che esiste, non c’è nulla che esso debba vedere fuori o dentro di sé; di conseguenza non possiede niente che equivalga a una mente relativa, riflessiva, autoconsapevole.

Né esso è nella maniera più assoluta una mente o una coscienza, poiché nessuno sa che cosa è ma solo che esiste. Quindi, una volta che ci saremo liberati di una mente riflessiva, relativa, autoconsapevole, allora e soltanto allora potremo incontrare ciò che È: quello che vede e che viene visto e l’atto stesso del vedere sono Uno.

Apparentemente la pressione a guardare era una pressione sulla mente relativa, presumibilmente messa fuori uso durante il Passaggio, quando non era in grado di focalizzare o trattenere in sé un solo oggetto. Così, quando infine all’improvviso fui messa di fronte a qualcosa da guardare, ci fu una sorta di riluttanza mentale a farlo. Era come mi fosse stato chiesto di indietreggiare o di guardarmi indietro: ero estremamente diffidente rispetto a un’azione del genere; dopotutto non volevo imbarcarmi in altri viaggi, se non era necessario. Ciò nonostante, il mio guardare finale servì un grande scopo, e determinò il cambiamento per cui il vedere iniziale sulla riva del fiume non poteva bastare.

Aver realizzato che ciò che È non può essere visto da una mente relativa né divenire un suo oggetto significò aver trovato la chiave meravigliosa e unica per vederlo costantemente. Non dovevo guardarlo in nessun modo. Fu come se il momento della sua scomparsa avesse segnato anche il definitivo e completo abbandono del campo da parte della mente relativa; ed ecco che questo aprì la strada a un nuovo modo di vedere, conoscere e agire; perché ora avevo la chiave. Ora riuscivo a comprendere e, comprendendo, potevo gioire. Sembra che, fintanto che è viva e vitale, la mente abbia bisogno di entrare in una qualche forma di comprensione, altrimenti la più grande rivelazione, pur non passando inosservata, non potrebbe entrare nella pienezza della sua manifestazione umana. Dopo tutti i mesi di tortura per la mancanza di conoscenza, poter sapere appena qualcosa, per quanto incompleta, era una rivelazione in se stessa.

Una delle cose che compresi fu che ciò che È non è soggetto all’alternanza dell’andare e venire; al contrario, ciò che va e viene è il tipo di mente relativo che è intimamente connesso col sé, e spontaneamente non è in grado di uscire mai da sé stesso. Ma una volta che il sé scompare, questa mente riflessiva e autoconsapevole lo segue, e quello che resta è ciò che È. Non si è più in grado di guardare all’esterno e scorgere relazioni, e non si vede più il vuoto. Tutto quel che si vede è ciò che È, e questo può essere a volte estremamente intenso, anche se non è qualcosa di estatico, ineffabile o trascendente. Al contrario è ovvio, naturale e quasi comune perché è quello che vediamo ovunque guardiamo. E insieme, com’è difficile capirne il meccanismo! In ogni caso, sebbene esso sia tutto, c’è una cosa che non è: il sé, che blocca la visione di ciò che resta quando il sé è scomparso, vale a dire di ciò che È.

È questo in conclusione ciò che scoprii alla fine del passaggio; una volta che cominciai a vedere, una nuova esistenza mi si aprì davanti. Ci furono ancora mesi di adattamento, durante i quali feci molte scoperte, la cui natura non è facile comunicare, quantunque debba provarci.

La scoperta chiave è quello che io chiamo ‘fare’: un’attività non riflessiva, priva di sforzo, che va distinta dal tipo di attività deliberato e consapevole, per cui occorre costante sforzo e controllo. Per questa ragione, il fare non ha niente a che vedere con quello che possiamo produrre coi nostri sforzi e con le nostre energie personali; al contrario, è quello che segue automaticamente quando ogni sforzo ed energia personale è cessato. L’espressione ‘privo di sforzo’ si riferisce al fatto che nell’azione non è coinvolta alcuna energia del sé, per quanto a livello fisico ci si possa ammazzare di fatica.

Per capire la differenza tra il fare e i precedenti modi di attività occorre rifarsi al processo di condizionamento cui ogni bambino è sottoposto dai propri genitori. In questo caso l’attività investita nel sé sfocia nel vuoto perché lì non c’è nulla; mentre con l’attività in cui non c’è autoinvestimento o autoconsapevolezza c’è qualcosa: questa attività non è vuota ed è quel che io chiamo ‘fare’. Il motivo per cui uso questo termine è che chi fa, così come l’oggetto del fare, appartengono al regno dello sconosciuto; soltanto l’atto del fare rientra nell’ambito del noto. Noi non conosciamo ‘quello’ che sorrideva, né a ‘che cosa’ sorridesse; tutto ciò che conosciamo è il sorriso, per quanto le tre cose siano identiche. Questo significa che ciò che È può essere conosciuto esclusivamente per la sua identità con i suoi atti (o il suo fare).

Inizialmente il processo di apprendimento della differenza esistente tra il fare e l’attività centrata sul sé può essere paragonato al camminare su un asse d’equilibrio, in cui il fare significa avere i piedi direttamente piantati sull’obiettivo, così che si cammina sul solido. Il non-fare, ossia l’attività investita nel sé, significa non trovare una presa, non avere nulla sotto i piedi. All’inizio si procede lungo l’asse per tentativi ed errori, ma alla fine camminare sull’asse diventa una seconda natura: o meglio, si comincia a scoprire che fa parte della nostra vera natura ed è il modo in cui dovremo camminare per il resto della nostra vita. Di conseguenza quando, per così dire, sentiamo sotto i piedi la presenza di qualcosa, sappiamo di stare sull’asse, di vivere e agire alla maniera giusta e naturale; quando viceversa sotto i piedi abbiamo il vuoto, siamo fuori dall’asse e non c’è più un vero fare. Si può dunque dire che il fare è la manifestazione di qualcosa, o di ciò che È, mentre il non-fare, l’attività investita nel sé, è la manifestazione del nulla in assoluto. Quando durante il viaggio l’accento era caduto sull’assenza del sé, quell’esistenza priva di sé era stata vista come sempre più vacua, vuota e del tutto inservibile. Ma quando l’esistenza priva di sé scompare del tutto, quello che resta è il fare, che è come un asse, una guida e quel qualcosa che coincide con ciò che È.

Il contenuto del fare, vale a dire ciò che facciamo, è tracciato via via dall’inconoscibile direzione dell’asse, che è stretta e diritta e non tollera giri tortuosi. Una volta sull’asse noi non siamo più liberi di andare e venire, in quanto è solo il sé che gode di questa libertà. Una condizione priva di scelta non conosce i comuni attributi della libertà; qui c’è soltanto la libertà dal sé, che si scopre non essere affatto libertà. Chi c’è, a essere libero? Chi c’è a scegliere e provare, a porre i traguardi e tracciare il sentiero? Chi era libero ormai è svanito e quello che resta cammina ora sull’asse, al pari di un albero che, privo di pensiero, deve crescere e vegetare secondo una direzione predisposta dalla sua natura, una natura tanto intelligente da restare per sempre totalmente inconoscibile alla mente umana. Così, sapere cosa fare o dove mettere i piedi è un problema che non esiste: quello che si deve sapere semplicemente c’è e quello che non si sa non c’è. In altre parole il ‘che fare’ è strutturato nell’asse stesso, così che il fare è identico al suo contenuto, a ciò che esso fa. Ed ecco che conoscere, vedere, fare sono uno e un solo atto senza alcuna frattura che li divida.

Ciò che un tempo creava la divisione tra il fare e il suo contenuto era il sé con tutte le sue scelte, i valori, i giudizi, le idee e tutto il resto, il sé che non salirà mai sull’asse né potrà mai trovarlo, poiché è bloccato da tutte le sue cosiddette libertà. Non sapere cosa fare, cosa pensare, cosa dire, come vivere è infatti, per contrasto, uno stato di perpetua confusione. Mentre su quest’asse ciò che È procede secondo una sicura, irrevocabile, inconoscibile direzione, col risultato che il conoscere e il fare coincidono. E tuttavia questo modo di conoscere è assolutamente insolito, in quanto non proviene da una mente pensante e riflettente: accade invece che ogni cosa che ci si trova davanti è nota o ignota, e in questa condizione molte cose che in passato non si sarebbero potute conoscere e neppure vedere appaiono evidenti e chiare. Come questo possa accadere non so, ma che in assoluto accada è fonte di grande stupore e fa parte integrante della chiarezza di mente che diviene possibile una volta sull’asse: una volta che si diventa tutt’uno con ciò che È.

Una seconda scoperta, anche questa realizzata negli ultimi mesi del viaggio, fu l’incontro con la mente silenziosa. Per quanto avessi dimestichezza con molti tipi di silenzio e avessi pensato spesso di sperimentare una mente silenziosa, questo ultimo silenzio era assolutamente unico e diverso da ogni altro prima incontrato. Dato che vorrei descriverlo in dettaglio più avanti (visto che è così difficile farlo capire),  per ora dirò soltanto che la mente silenziosa sembra una mente priva di coscienza autoriflettente, quantunque in possesso di tutte le altre sue funzioni. La ragione per cui il sé non può pervenire coi suoi sforzi a questo silenzio è che lo stesso silenzio è ciò che resta quando ogni autoriflessione e autoconsapevolezza si estingue. Così si spiega il fatto che non avessi mai incontrato questo silenzio prima di intraprendere il viaggio e che lo abbia riconosciuto per quel che è solo alla fine. Un’altra cosa che scoprii alla fine fu che effettivamente il fare prende il posto del pensare e di conseguenza lascia la mente ordinaria in silenzio.

È difficile rendere giustizia alle tante scoperte rese possibili dal viaggio, ma voglio soffermarmi su quelle che risultarono più sorprendenti e, all’inizio, un tantino sconcertanti.

Una di queste fu la scomparsa del senso estetico o di quel particolare senso di ordine, bellezza, armonia che troviamo nell’ambiente che ci circonda. Come appassionata di musica classica, convinta da sempre che la musica potesse durare oltre le sfere celesti, fui sorpresa di scoprire che il silenzio, come anche il semplice suono della natura, supera le opere dei più grandi maestri. Sebbene non sappia come spiegarlo, a un certo punto la musica diventò rumore e il silenzio diventò armonia.

Notai anche che quando diventava impossibile mettere a fuoco l’individualità e la singolarità degli oggetti, tutto il senso della loro armonia complessiva spariva. Invece i contenuti del conosciuto, con le sue leggi e le sue regole ben chiare, con il suo ordine, ora venivano visti come un tutto unico, uno spontaneo slancio di vita che, come una singola nota tenuta, poteva facilmente dissolversi se la tensione cadeva. Per cui nulla si può predire. Ciò che è manifesto non è soggetto ad altra regola o legge all’infuori di se stesso, per quanto semplice e ovvio sia il suo disegno esteriore.

Per sua stessa natura, questo modo di vedere ebbe come risultato uno stile di vita semplificato. In assenza della bellezza, a nessun oggetto può essere attribuito più valore che a un altro, di conseguenza ogni possesso che non sia strettamente utilitario diventa bagaglio in eccesso. La cella più spoglia e la semplice vita dei boschi ora mi colpivano come l’unica scelta autentica di vita e, non fosse stato per i figli, avrei gettato tutto al vento e mi sarei ritirata dal mondo. Una conclusione così ascetica può sembrare mortificante, ma in realtà quando niente è bello in particolare, diventa bello tutto, di una bellezza che non abbiamo bisogno di possedere perché siamo già parte di essa e posseduti da essa. In realtà, la grande bellezza di ciò che È è la sua Unità. Ecco, l’Unità mette in ombra la particolarità della forma, rendendo possibile vedere, oltre l’apparenza, la cosa in Sé.

Un’altra scoperta la feci quando mi resi conto della necessità di assumere una qualche parvenza di autocoscienza. La cosa mi fu chiara quando, dopo aver passato una giornata fuori di casa e in mezzo alla gente, scoprii che al mattino m’ero dimenticata di pettinarmi e sembravo una strega. In seguito a questo fatto, stesi un programma organico per cercare di ricordarmi di me stessa: in realtà, per ricordarmi di tutto.

Alla fine del Passaggio ero certa che la mia memoria fosse stata danneggiata definitivamente. Non era comunque una mancanza di memoria, era piuttosto un fatto di cadute temporali, come se interi spezzoni di tempo mancassero dal normale fluire della vita. Per quanto tentassi di trovare qualche metodo compensatorio per garantirmi contro queste cadute, niente funzionò. Sulla lunga distanza, il tempo si prese cura di sé, poiché la memoria pratica gradualmente tornò e io fui sollevata dall’impossibile sforzo del dover ricordare.

Evidentemente con la scomparsa dell’autocoscienza ci fu anche una certa perdita di coscienza corporea. Questo può spiegare la continua sensazione di dissoluzione della forma fisica che provai durante la seconda metà del viaggio. Col tempo mi sono adattata a vivere in questo modo, senza una precisa coscienza della forma. In una certa misura, questo comporta avere maggiore cura del corpo che in passato, visto che ora il corpo non mi dice nulla. Sebbene il dolore fisico sia ancora avvertibile, non so più cosa sia sentirsi stanca, riposata, soddisfatta, appagata e cose del genere: in qualche modo queste sensazioni familiari devono avere un’invisibile connessione con la coscienza di sé. E per questa ragione prendersi cura del corpo finisce col non differire molto dal prendersi cura di una pianta: quando sai che ha bisogno, d’acqua, di nutrimento, di sole, le dai quel che serve. Non puoi ‘sentire’ al posto della pianta, ma se possiedi spirito d’osservazione e sai qualcosa del suo funzionamento non c’è problema a mantenere una forma corporea, pur soggetta a un costante processo di cambiamento e ai limiti del tempo. Sebbene consideri il corpo assolutamente reale, trovo tutte le forme che compongono l’universo estremamente fragili o quanto meno delicate, dal momento che possono dissolversi tanto facilmente nell’unico Esistente, a parte il quale nessuna forma ha un’esistenza individuale sua propria.

Ho detto in precedenza che mi domandavo spesso se la calma indistruttibile che c’era al mio interno non potesse essere Dio. Credo che in qualche modo fossi convinta che un giorno o l’altro il silenzio del non-sé si sarebbe fatto da parte e avrebbe rivelato il grande Sconosciuto, il Divino, la cui invisibile presenza mi era dolorosamente mancata durante l’assenza del sé. Ma con la perdita definitiva della coscienza di una qualsiasi calma interiore, abbandonai l’idea, dal momento che neppure il silenzio del non-sé sembrava più esistere. Tuttavia, una volta che il viaggio fu terminato, o quando realizzai che Dio non si lascia sperimentare sullo stesso piano delle esperienze relative del sé, vidi come in realtà era possibile che fosse stato Dio tutto il tempo. Sembra che dovessi prima riconoscere che quella stessa calma e quello stesso vuoto pervadono ogni cosa, non soltanto me, per poterli vedere come il legame di connessione fra tutto ciò che È. Di conseguenza, soltanto quando vidi come fosse assolutamente impossibile localizzarlo dove che fosse, mi resi finalmente conto di come questo grande silenzio fosse tutto e dovunque; e sia in verità ciò che È.

Per molti versi questo viaggio può paragonarsi a un albero: un albero d’improvviso abbattuto ma non ancora morto. La linfa, il sé, scorre ancora nelle sue vene e solo gradualmente e lentamente finirà con l’arrestarsi. All’inizio, l’albero sperimenta semplicemente il rifluire e venir meno delle proprie energie vitali e si stupisce del fatto che, pur svuotandosi, in qualche modo continua a vivere. In tal modo scopre che quello che una volta riteneva essenziale per vivere, la linfa, in realtà non è affatto essenziale, poiché anche quando la linfa se n’è completamente andata egli non muore. Ma il processo del morire dell’albero alla sua normale maniera di vivere presenta una differenza rispetto al viaggio: poiché l’albero non sa mai se o quando è morto, in quanto non sperimenta mai l’afflusso di una nuova vita via via che la vecchia vita defluisce. Per me questo fu l’aspetto più disorientante del viaggio. M’ero fino in fondo aspettata che, dal momento che il sé scompariva lasciandomi vuota, una forma di vita divina sarebbe apparsa a colmare il vuoto. Quando questo non avvenne mi sentii dolorosamente persa.

Oggi, a distanza, comprendo appieno il significato di ciò che sosteneva con insistenza Giovanni della Croce parlando ai suoi studenti: che Dio non può mai essere realmente sperimentato dalle facoltà dell’uomo. Dunque ciò che sperimentiamo di Dio siamo francamente noi stessi: infatti, questo è il solo mezzo che abbiamo per sperimentarlo. La mente, le emozioni, i sentimenti, in una parola tutte le nostre esperienze di vita interiore sono semplicemente le nostre reazioni a ‘quello’ che non possiamo conoscere, vedere, sperimentare in altro modo. Quante volte, a questo punto, abbiamo scambiato noi stessi per Dio? O magari scambiato Dio per noi stessi? C’è solamente un modo per scoprirlo ed è di non avere nessun sé in assoluto. Dal momento che il sé non può sperimentare Dio come egli È in realtà, l’unico modo per raggiungere questo obiettivo è di essere pronti ad abbandonare fino in fondo tutto ciò che conosciamo come sé.

Questo spiega perché non si sperimenti nulla che somigli ad un afflato divino o a un sostituto a immagine di Dio dopo che il sé è svanito: infatti non è questa l’esperienza di Dio stesso, che non è autoconsapevole e non sperimenta alcun afflato divino. Forse è per questo che talvolta ci riferiamo a Dio come al grande vuoto o al nulla, ma Dio non è questo, assolutamente. Quello che chiamiamo vuoto e nulla è semplicemente un concetto e un’esperienza relativa, come il passare dal positivo al negativo prima che entrambi scompaiano definitivamente e che tutto quel che resta sia ciò che È.

E tuttavia, se c’è un aspetto del viaggio che vorrei veramente mettere in risalto questo è l’evidente necessità di venire infine a patti con quel nulla e quel vuoto dell’esistenza che a me sembrarono l’equivalente del vivere, una volta che mi trovai senza Dio o un qualche suo sostituto. Soltanto quando accadde questo, solo quando l’adattamento a una vita senza realtà ultima fu completo, quando non restò più né speranza né fede, solo quando dovetti finalmente accettare l’esistente, realizzai all’improvviso che l’esistente è la verità stessa e tutto ciò che È. Dovetti scoprire che è solo quando ogni singola idea ed esperienza interiore, conscia ed inconscia, si è estinta, completamente estinta, che la rivelazione della Verità diventa possibile.

Quantunque non abbia potuto stabilire con precisione quando il viaggio si sia concluso, tendo a calcolarne la fine in coincidenza col momento in cui non riuscii più a scorgere relative differenze fra l’avere il sé e il non averlo, o col momento in cui mi venne a mancare del tutto la sensazione della quiete interiore. Originariamente, la consapevolezza del non-sé era semplicemente la consapevolezza dell’assenza del sé con tutte le sue abituali reazioni, sentimenti, emozioni, pensieri, esperienze. In questo senso, la consapevolezza del non-sé è puramente relativa a ciò che è stato il sé. Ma via via che, col processo di adattamento e aggiustamento a un nuovo modo di vivere, la distanza fra i due aumenta, l’antica vita-col-sé sbiadisce sempre più fino a svanire del tutto: e con essa sparisce il relativo contrasto. Questo significa che non si è più consapevoli del silenzioso, calmo, imperturbabile non-sé, che è stato tanto necessario per compiere il viaggio, particolarmente nel Grande Passaggio. Così, con lo svanire del non-sé seppi che il viaggio era finito; oramai era soltanto un evento passato: e come tutti gli eventi passati, via via che recede nella memoria e perde la sua importanza per il qui e ora, esso sempre più impallidisce e si spegne.

 

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