in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Introduzione di Pietro Angelini al Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade


 

Questo libro è l'unico che Eliade non ha scritto « di getto »; paradossalmente è anche l'unico in cui è ravvisabile una certa fretta nell'esecuzione: una «fretta» che può, in egual misura, irritare o fascinare. Concepito a trent'anni, nel 1937, iniziato nel 1940, il Traité fu portato a termine solo all'inizio del 1948: undici anni abissali, quasi un'era, per uno scrittore che prima della guerra procedeva al ritmo di dieci articoli al mese e un libro all'anno. Eppure, come il lettore avrà modo di rendersi conto, la lavorazione - nonostante due grosse e forzate soste - non subì alcun rallentamento di ordine intellettuale (raramente il tormento e il dubbio hanno intralciato la produzione scientifica di questo autore), registrando anzi negli ultimi mesi un'accelerazione che lasciò alla fine lo scrittore stremato e che oggi ancora provoca nel lettore una sorta di vertigine. Un libro, in altre parole, meditato a lungo e costruito con arte, che supera indenne il cerchio di fuoco degli anni più neri (per l'Europa e per l'uomo Eliade) ma che proprio alle ultime battute si scompone un poco, nella morsa dei tempi editoriali: sono gli ultimi capitoli - i più teorici - a risentire maggiormente dell'affrettata confezione (e su questi puntualmente si attesteranno le sparute obiezioni critiche che l'opera provocherà). A godere dei vantaggi di questa stesura trafelata fu viceversa il lettore non addetto ai lavori: Eliade, come scrittore, dava il meglio di sé quando era chiamato a esprimersi a tamburo battente, e anche in questo caso la sua prosa anziché aggrovigliarsi nella furia si srotola e avvince come un liscio serpente. E così abbiamo un libro bifronte, lento e rapido, che appaga e stimola. Il caso è interessante, giacché paradossi del genere sono frequenti nella storia dell'editoria e nella storia della letteratura, ma non nella storia delle scienze. Vediamo prima le ragioni della lentezza - relativa del resto, considerato che abbiamo davanti lo spartito di una ouverture in cui è già concentrato tutto il pensiero di Eliade - e cominciamo, come i lenti fanno, dall'inizio.

Il 1937 - quando il libro viene progettato, sia pure in termini vaghissimi - è l'ultimo anno di moderata libertà per il popolo rumeno regnante Carol II, ed è anche l'ultimo anno di pace per Eliade che è ancora libero di vivere ed esprimersi all'ombra dei due protettivi alberi che la situazione politica e lo status gli offrono: di giorno lavora al riparo delle istituzioni regie e del prestigio che ha ormai acquisito con la fama d'indianista e il successo dei romanzi, mentre di notte - senza dover cambiare abito - può abbandonarsi al sogno che il visionario e determinatissimo Codreanu sta propagando tra i giovani e gli intellettuali: un sogno che ha radici profonde nella cultura rumena e che si avvale della diffusa nostalgia per la vita austera e cristiana dell'antica comunità rurale oltre che di un clima di tenace resistenza al timido processo di modernizzazione in atto nel paese. Eliade vive intensamente, e senza contraddizioni, questo periodo di transizione e di crisi che gli permette di godere dei favori della Corte e della simpatia della piazza. Anche sul piano professionale, la sua posizione riflette i vantaggi della doppia scelta: è docente incaricato di Storia della metafisica all'Università di Bucarest e il suo «capo», il titolare della cattedra nonché maestro, è Nae Ionescu, da molti ritenuto il massimo - o più propriamente l'unico - ideologo della Guardia di Ferro. Un momento così propizio difficilmente poteva ripresentarsi, ed Eliade, più o meno consapevolmente, aveva già deciso di sfruttarlo. Forse avvertiva nella Destra che montava l'assenza di una teoria di largo respiro, di una filosofia della cultura meno frammentaria e fragile di quella abbozzata dal Maestro. Di fatto compie un passo che non gli sarà perdonato dai colleghi d'università: insieme e accanto al lavoro più strettamente specialistico comincia a coltivare progetti a carattere «generalistico». Dopo quattro anni d'insegnamento prudente, circoscritto agli argomenti che conosceva da solido esperto, d'un tratto cambia stile e annunzia agli studenti che terrà un corso - per il successivo anno accademico - sul «simbolismo religioso».

Non è solo un programma, è una svolta: infatti - lo veniamo a sapere dalle sue Memorie -[1] Eliade aveva messo in cantiere per il 1938, «un libro teorico sulla struttura dei miti e del simbolo», ovvero l'embrione del trattato che abbiamo di fronte.

«Ma il destino doveva decidere altrimenti»..., il corso fu sospeso e il progetto del libro precipitosamente finì in un cassetto. L'acrobatica passeggiata di Eliade sul filo teso della Storia, durata fin troppo, doveva bruscamente interrompersi, e non per un piede in fallo, ma per l'arrivo di una tromba d'aria. Com'è noto, quel che avvenne non è noto: si sa che Eliade ha preferito tacere sulle vicende del versante «notturno» del suo passato rumeno, e si sa anche fino a che punto estremo il suo silenzio è stato rispettato dai suoi adepti e dai suoi protettori. Da una decina d'anni, tuttavia, anche questo muro - d'insipienza forse più che di omertà - è crollato[2], e sia pure faticosamente e lacunosamente il percorso compiuto da Eliade prima e durante la guerra è ricostruibile, almeno per quel che ci interessa qui.

Il 1937 è l'anno in cui la Guardia di Codreanu esce dalla semiclandestinità e si presenta alle elezioni sotto la sigla Totul Pentru Tără («Tutto Per La Patria», ossia il nome che ha assunto da qualche anno): il successo che ottiene - 66 deputati eletti, tra cui lo stesso Eliade[3] - allarma e scompone il governo: il primo ministro Calinescu proclama nullo il voto e dà il via (con il consenso del re) a una disordinata «caccia al legionario». Sono giorni difficili per Eliade, che negli ultimi tempi si era alquanto esposto, scrivendo cose grottesche sui fogli del partito[4], e che si salva (fisicamente) solo grazie al prestigio e al doppio binario su cui ha viaggiato. Dalla bufera tuttavia non esce completamente illeso: perde il posto all'università (Ionescu è stato arrestato), è costretto a subire imbarazzanti interrogatori e viene in tutti i modi invitato a dissociarsi dal movimento, cosa che fa e non fa[5]: alla fine è «trasferito» nel campo di concentramento di Miercurea Ciuc, dove lo attende con presumibile impazienza il «capo». Si trattò comunque di una esperienza moderatamente drammatica, come egli stesso ci riferirà: dopo sei mesi di « soggiorno obbligato » più che di vera e propria prigionia, Eliade era di nuovo libero. Ma non libero di riprendere, come se nulla fosse, la doppia e asprodolce vita di un tempo: ora, dall'una e dall'altra parte ha qualche nemico (e qualche amico in meno). Il clima rumeno, forse, non fa più per lui.

Segue un periodo di stallo, i mesi passano e il progetto del grande libro resta chiuso nel cassetto: Eliade sembra aver perso lo smalto e l'entusiasmo, si impantana in un paio di lavori che non riesce a concludere, è indeciso se tornare alla letteratura a tempo pieno... Confusamente capisce che è tempo di morire, di cambiar pelle: ma questa morte iniziatica non può venire che dal superamento di altre prove, di altri strappi dolorosi e necessari; deve, senza più indugi, rinunciare al passato e al presente, vale a dire al suo Maestro e al suo Paese. Solo a queste condizioni Eliade poteva - doveva - «diventare» l'autore del Trattato e del grappolo di opere che immediatamente seguiranno.

Il destino stavolta fu cavaliere, e crudelmente generoso: ridusse i problemi a uno e lo risolse. Il 15 marzo 1940 Nae Ionescu, appena cinquantenne, muore per un attacco cardiaco, lasciando un prezioso vuoto: nel senso che apre un varco all'«uscita» di Eliade sia dal labirinto ideologico in cui si era evidentemente perso sia - fisicamente - dalla Romania. Pochissimi giorni passano e già Eliade è convocato da Rossetti, il più autorevole dei suoi protettori a corte, che lo invita - «adesso che è morto Ionescu, niente la trattiene più in Romania... » - a non lasciarsi sfuggire l'irripetibile occasione che gli verrà offerta: di essere inviato a Londra come addetto culturale presso la legazione reale rumena. Orfano spiritualmente (e politicamente) e per di più disoccupato, Eliade coglie in effetti al volo l'opportunità e il 10 aprile è già in viaggio per Londra, con il presentimento - nemmeno troppo vago - di lasciarsi per sempre Bucarest alle spalle.

Anche un'altra occasione Eliade - forse inconsciamente, certo opportunamente - colse al volo, nel terremoto che s'avvisava: dimenticò tutto. Quei tre-quattro anni che vanno dall'adesione al partito legionario fino alla partenza da Bucarest scomparvero dalla sua vita, inghiottiti in un buco nero. Perché meravigliarsene? Eliade non era un moralista, era un mistico; e come tale impermeabile (almeno teoricamente) alle trafitture della memoria intesa come ricerca autonoma di valori. Il problema semmai è un altro, e di ordine più generale: per quali vie si è diffuso il contagio (specialmente nel mondo accademico e tra gli addetti al lavoro editoriale) di questa greve forma di amnesia? Per decenni, i profili biografici e i questionari degli intervistatori hanno rispettato, con sconcertante fissità, questo mandato (apprezzato ma - a quanto risulta - non imposto dall'autore), rafforzando con il pretesto della «discrezione » la legittimità e a suo modo il fascino di questo buco nero.`[6] E se tutto ciò ha favorito l'inostacolabile ascesa di Eliade, non ha altrettanto giovato alla sua immagine: il silenzio, alla lunga, ha finito con l'insospettire - forse oltremisura - anche i critici più disattenti e soprattutto ha esasperato i migliori discepoli, la cui posizione si faceva ogni giorno più imbarazzante e culturalmente difficile. È grazie a loro che Eliade, negli ultimi anni di vita,[7] ha recuperato una rata di memoria.

Una rata, una soltanto, può sembrare poca cosa per lo storico, ma per l'adepto i messaggi cifrati contenuti nel secondo volume delle Memorie (uscito peraltro postumo) costituirono un vero pacchetto di rivelazioni ed indicazioni, utili in particolare alla ricostruzione della genesi del Trattato e del Mito dell'eterno ritorno. Nei primi tre, aggrovigliatissimi, capitoli di queste memorie - che si riferiscono appunto agli anni in questione - Eliade ammette di aver compiuto un «errore», fatale e tuttavia imprecisabile, perché su questo punto l'amnesia è ancora totale e il processo di anamnesi é appena agli inizi (come sembra dirci, molto in codice, il romanzo autobiografico Diciannove rose uscito nel 1982). E aggiunge: se non avessi compiuto questo errore, forse il Trattato non avrebbe mai visto la luce... Ora, è chiaro che Eliade non considera «un errore» le speranze che ha nutrito nel programma della Guardia di Ferro; considera «un errore» la «militanza» (eventuale!) in un movimento paramilitare come il legionario che si era già macchiato di diversi crimini. Per entrambi i motivi, nel corso degli interrogatori subiti nel '38, si era rifiutato di firmare una dichiarazione di dissociazione dal movimento: l'unica, pesante responsabilità che egli si addossa è quella di aver seguito fin troppo a lungo e ciecamente il suo Capo e la sua politica. Di Ionescu dirà infatti nel succitato volume di memorie:

 

Direttamente o indirettamente, tutti noi, suoi discepoli e suoi collaboratori, eravamo solidali con le concezioni e con le opzioni politiche del Professore. La morte di Nae Ionescu mi aveva profondamente colpito: (.... ) tuttavia, in un certo senso, mi «liberava» dal nostro passato immediato, vale a dire dalle idee, dalle speranze e dalle decisioni del Professore negli ultimi anni, con le quali, per spirito di devozione, mi ero dichiarato solidale.[8]

 

Era impossibile, per Eliade, scrivere il Trattato e i suoi complementi all'ombra di Ionescu e della Guardia, nelle strettoie di una visione del mondo che lasciava spazio soltanto alle fanfare assordanti e ai colpi di mano e di coltello. Ed era impossibile scrivere questi libri in Romania, in un paese culturalmente isolatissimo e povero di biblioteche e d'interlocutori, che stava rotolando comunque verso la dittatura e sotto il tallone nazista: un paese in cui non c'era spazio per la «storia delle religioni».[9] Restava, certo, il dolore del doppio strappo: ma da questo sfinimento - che toccò il punto più fondo ai funerali di Ionescu [10]-, come accade ai rumeni di tante leggende, Eliade trasse la materia e la spinta di una morte iniziatica.

 

 

L'idea-base del Trattato, ci dice l'autore, «balenò» chiarissima nella notte del 9 settembre 1940: la notte in cui Londra subì il più spaventoso bombardamento della sua storia. Eliade era lì già da qualche mese e aveva impiegato bene il molto tempo libero che l'incarico di addetto culturale - in quei tempi una sinecura - gli lasciava, recandosi spesso al British Museum e raccogliendo in quella straordinaria biblioteca gran parte del materiale documentario che gli serviva per il libro e che non era riuscito a procurarsi in Romania. Per gettarsi a capofitto nell'impresa, tuttavia, occorreva evidentemente ancora una «scossa»; che arrivò, inattesa e tremenda per tutti, come una morte collettiva, in quella notte del 9 settembre. Eliade si trovava a cena a casa di un collega della legazione, quando l'allarme scattato con le sirene lo costringe a scendere a precipizio in un rifugio antiaereo. E qui, mentre si scatena l'apocalisse e la testa sembra scoppiargli, rivede e rivive, come in un lacerato brevissimo film muto, le vicende decisive degli ultimi anni - come sappiamo oscuramente rimosse - e insieme, nel preciso momento, ha anche una «folgorante rivelazione » del libro da scrivere. Ma lasciamo a lui la parola:

 

Annoto, per il momento, l'idea fondamentale: le ierofanie, cioè la manifestazione del sacro nelle realtà cosmiche (oggetti o processi che appartengono al mondo profano), hanno una struttura paradossale, perché mostrano e camuffano allo stesso tempo la sacralità. Seguendo questa dialettica delle ierofanie fino alle sue ultime conseguenze (il sacro rivelato e nel contempo occultato nel Cosmo, in un essere umano - esempio supremo: l'incarnazione -, in una «Storia santa»), si potrebbe identificare un nuovo camuffamento nelle pratiche, nelle istituzioni e nelle creazioni «culturali» moderne. Evidentemente, si sapeva che le funzioni biologiche importanti (l’alimentazione, la sessualità, la fertilità), le arti (la danza, la musica, la poesia, le arti plastiche), i lavori e i mestieri (la caccia, l'agricoltura, le costruzioni di ogni genere ecc.), le tecniche e le scienze (la metallurgia, la medicina, l'astronomia, la matematica, la chimica) avevano avuto all'origine una funzione e un valore magico-religioso. Ma io volevo mostrare che, anche sotto le sue forme radicalmente desacralizzate, la cultura occidentale camuffava dei significati magico-religiosi che i nostri contemporanei (con l'eccezione di alcuni poeti e artisti) non sospettavano...[11]

 

Londra, dopo quella notte, viene evacuata, ed Eliade si rifugia a Oxford, insieme alla moglie e a molti sfollati: anche qui può disporre di una famosa biblioteca e di ancora maggiore tempo libero. Quando l'anno finisce - e alla radio si ascoltano notizie degli eccidi della risorta Guardia di Ferro - un capitolo del libro è già stato steso e il disegno complessivo è già quello che leggiamo. Sarà - ha deciso - «una vasta sintesi di morfologia e storia delle religioni», in due volumi, e si intitolerà Prolegomeni alla storia comparata delle religioni (e con questo nome, difeso da Eliade fino all'ultimo, è il caso di chiamarlo anche qui, almeno per qualche pagina, nella forma abbreviata: Prolegomeni). Ma a questo punto dobbiamo fermarci, per cercare di vedere in che cosa consiste la «folgorazione» del 9 settembre 1940.

Consiste anzitutto in tre parole-chiave: ierofania, cosmo e storia santa. Sono concetti che ora Eliade ha ben netti e che reggeranno l'intelaiatura dei Prolegomeni, la cui materia - è vero - si avvarrà della descrizione di temi mitici già individuati in precedenti opere,[12] ma si organizzerà anche lungo l'asse di una visione globale e unitaria. Esito a definire invece parola-chiave il termine «struttura», che è presente solo sulla carta e che Eliade non riuscirà mai a convertire in nitido strumento euristico: resterà uno pseudo-concetto, largamente parassitario e non utilizzabile a livello operativo. Al contrario dei primi tre, che godono fin dalla formulazione di una autonomia sufficiente a consentirci una piccola serie di considerazioni preliminari.

Il termine ierofania è ormai entrato a far parte - anche grazie alle opere di Eliade - del lessico delle scienze religiose e perfino del lessico delle persone mediamente colte; e come succede, l'uso troppo frequente e disinvolto ha appiattito e polverizzato il senso specifico della locuzione eliadiana. La ierofania intesa come «una manifestazione del sacro» riflette un uso improprio e teologico del termine che, preso alla lettera, rischia di sottintendere una separazione tra lo studio del «sacro in sé» e lo studio delle sue manifestazioni; e tra l'altro non giustifica l'importanza che Eliade attribuisce alla introduzione di questa parola-chiave nell'ambito della storia delle religioni. Nei Prolegomeni le ierofanie servono alla intuizione della «struttura paradossale del sacro» che non solo si manifesta ma anche si camuffa nel profano: e con ciò Eliade si crea le condizioni per portarsi al di là delle concezioni del sacro elaborate sia dalla Scuola sociologica francese sia dalla Scuola fenomenologica, e di partecipare (sia pure a distanza) al lavoro di scavo iniziato qualche anno prima da Caillois e dal Collège de sociologie. Il sacro cioè come paradosso, come il prodotto del corto circuito attivato da ogni forma di coincidentia oppositorum. E qui però Eliade si ferma: non va oltre. Lo «sfondamento» nel sincronico rischia di compromettere il suo modo, nostalgico, di essere nel mondo, rischia di «sradicarlo» definitivamente. Nel 1940 ha rinunciato praticamente a tutto: ma non al Tutto delle origini.

Da questa evidente impasse Eliade esce facilmente, ma facendo marcia indietro per quanto riguarda il rigore metodologico: «diacronizza» l'opposizione tra sacro e profano, spostandola sull'asse dell'opposizione tra il «prima» e il «dopo». Il risultato (che può essere compreso solo da chi è impegnato nell'esperienza del sacro) è un'adialettica opposizione tra un sacro «assoluto» e un sacro «relativo» o misto e cioè degradato. A questo punto viene da chiedersi come mai Eliade continui a parlarci di «strutture»: l'impressione (non solo mia) è che usi il termine, dai Prolegomeni in poi, nell'accezione fenomenologica, e precisamente rifacendosi alla definizione già di per sé sommaria di Van der Leeuw: «(...) possiamo descriverla come il tracciato di un piano entro quel groviglio di linee caotiche detto realtà. Tale piano si chiama struttura, e la struttura è una coesione, né unicamente sperimentata, né unicamente astratta per via logica o causale, bensì capita»[13]; dove l'ultima parola va intesa naturalmente nel senso diltheyano, «afferrata, compresa con partecipazione». Comunque è anche vero che col tempo Eliade si è reso conto degli equivoci che il termine poteva generare e lo ha sostituito con quello - appena più appropriato - di «forma» con esplicito riferimento alla Urpflanze di Goethe, il vegetale primigenio riesumato anche dal Propp.[14] Una forma «sospirata», più che presa a modello, che fa scivolare l'autore indietro, all'antropologia religiosa «degenerazionista» di Frobenius e padre Schmidt, senza con ciò dividerne le chiusure ideologiche.

Ma allora: perché Eliade definisce «storica» e non fenomenologica (o tipologica, come dirà De Martino) l'indagine che compie nei Prolegomeni? Scorrendo i titoli dei primi capitoli - che sono anche quelli che Eliade scrive più speditamente - sembra di trovarsi di fronte a un rifacimento «popolare» (meno articolato, meno denso) del trattato di Van der Leeuw, la Phänomenologie der Religion, uscito sette anni prima[15]; ma la somiglianza si limita alla scelta e alla disposizione delle costellazioni tematiche e nemmeno dell'intero arco, mentre all'interno il discorso procede con taglio e intento diversi se non opposti: l'argomentazione di Van der Leeuw segue un tracciato « a ventaglio», dove le cratofanie si succedono secondo una progressione che riflette il grado d'intensità del rapporto uomo-potenza, mentre Eliade traccia una successione di «stalattiti» che illustrano la storia «discendente» di ciascuna ierofania, il passaggio da un sacro assoluto a un sacro che si imbeve di profano. Se il primo offre un panorama di vertiginosa coerenza, il secondo «narra» come fossero miti le metamorfosi del sacro: perché per Eliade la storia del sacro non può essere che una storia sacra.

«Un fenomeno religioso - ci dice - risulterà tale soltanto a condizione di essere inteso nel proprio modo di essere, vale a dire studiato su scala religiosa »,[16] e va bene: la storia delle religioni secondo questo più che legittimo principio, non si può limitare a uno studio delle religioni «nella storia», perché si svolge in un ambito liminale che sfugge all'osservazione storica. Il problema è che Eliade non prende tale principio come un punto di partenza per nuove escursioni, ma come punto di arrivo: in esso si «accomoda», e la ricerca si converte in un «ribadimento», spesso solenne, di ciò che è stato già trovato, scoperto, in illo tempore. Quella che noi chiamiamo metastoria o storia mitica, altro non è che la storia stessa delle religioni. Sicché lo storico del XX secolo dovrebbe - a rigore - limitarsi a ricostruire la storia esemplare elaborata dai popoli e le culture che sono oggetto del suo studio, una storia che «si riduce esclusivamente agli avvenimenti mitici accaduti in illo tempore e che non hanno mai cessato di ripetersi fino ai nostri giorni»[17]. È così, ad esempio, che Eliade «spiega» il simbolismo dell'axis mundi: ricorrendo al mito guaranì della perfezione originaria; ed è così che spiega il fenomeno del passaggio da una forma di religione a un'altra: evocando «la possibilità, posseduta da ogni forma religiosa, di accrescersi, purificarsi e nobilitarsi; possibilità per un dio tribale, ad esempio, di farsi, mediante nuova epifania, il dio di un monoteismo (...)»[18]. Questo modo di procedere favorisce - è vero - la germinazione quasi incessante di nuovi orizzonti e interessanti associazioni, e qua e là di brillanti intuizioni - laddove, ad esempio, dice che

 

si scopre nella «storia» degli Esseri Supremi e delle divinità celesti un fenomeno rivelatore al massimo grado per l'esperienza religiosa dell'umanità: queste figure tendono a scomparire dal culto. In nessun luogo rappresentano una parte dominante, perché altre forze religiose le hanno allontanate e sostituite: culto degli antenati, spiriti e dèi della natura, demoni della fecondità, Grandi Dee ecc. È notevole che la sostituzione avvenga quasi sempre a beneficio di una divinità o forza religiosa più concreta, più dinamica, più feconda[19]

 

- ma è anche un modo di procedere sottrattivo e assertivo, che tende a disanimare ogni sorta di dubbio.

In questa prospettiva, la storia delle religioni si autoconsacra non solo come una storia sui generis, ma anche e soprattutto come una «disciplina dello spirito», una campana di vetro entro cui rifugiarsi, al riparo degli artigli della storia «umana», imprevedibile e irripetibile, che fuori preme. Come in un gioco di specchi, la disciplina finisce col funzionare come i dispositivi mitico-rituali che studia...

Un ultimo punto, prima di passare al merito e alla confezione del libro. Correttamente non ci parla di «religione» al maiuscolo (anche se la sua nozione di homo religiosus è alquanto totalitaria), ma di «religioni», al plurale; e altrettanto opportunamente non si interessa a tutte le religioni (e anche in ciò si distingue da Van der Leeuw e i suoi predecessori). Opera subito - fin dal progetto iniziale - una netta distinzione tra le religioni cosmiche e le religioni storiche, e opta per le prime. Alle seconde - vale a dire: l'ebraismo, il cristianesimo, l'islamismo - riserva uno spazio minimo o qualche riferimento isolato (con una dovuta eccezione, come vedremo fra poco), perché non rientrano nel quadro teorico che ha costruito sul suo concetto di sacro: sono religioni «degradate», che hanno perduto il contatto con l'idea di Cosmo, «cadendo» nella storia e rassegnandosi alla sua razionalità. Al contrario delle altre e più antiche religioni - e qui l'elenco sarebbe troppo lungo - che sono rimaste fedeli al mito delle proprie origini ripetendolo e riattualizzandolo mediante il simbolismo rituale. A queste ultime Eliade riconosce uno statuto «autentico», fondante, e ad esse affida il «messaggio» che intende lanciare con i Prolegomeni.

Con una importante eccezione, abbiamo detto: che riguarda il cristianesimo. In esso Eliade ravvisa - con indubbia coerenza date le premesse sopra enunciate - due anime: una cosmico-mistica, l'altra storico-razionale. La prima si manifesta nel cristianesimo precostantiniano, nello gnosticismo, in alcune eresie medievali e ancora nella religiosità popolare; la seconda ha pure lontane radici, ma si rivela compiutamente solo a partire dalla Riforma: è il cristianesimo che «con la sua polemica antipagana ha dissacrato il Cosmo»[20] e che resta fuori non solo dai Prolegomeni, ma dall'insieme degli interessi di Eliade. A differenza del primo - il cristianesimo «cosmico» - che ha un posto centrale nella sua opera e una presenza nei Prolegomeni che stranamente è stata poco notata.

La nozione di cristianesimo cosmico, già prevista da Eliade - vedi il brano della «folgorazione» - come la più alta espressione del concetto di ierofania, entra con discrezione nella materia dei Prolegomeni, spesso dietro i riferimenti alle credenze e alle pratiche «pagane» tanto avversate o manipolate dalla Chiesa cattolica; ma è soprattutto attraverso il ricorso costante a un ricco materiale folclorico (maneggiato dall'autore con grande disinvoltura) che la nozione prende quasi di soppiatto il sopravvento sulle altre. Il cristianesimo cosmico è per Eliade il cristianesimo primitivo che sopravvive in vasta misura nelle campagne d'Europa e in special modo dell'Europa orientale: a questo folclore religioso egli dà un'importanza che oggi può apparire eccessiva dato il contesto, ma che il lettore del tempo - ancora in parte influenzato dall'opera di Frazer e dei congeneri - giustificava pienamente e il lettore di oggi comunque gradisce. Ma c'è di più: risondando questo terreno oltremodo familiare, Eliade può «recuperare» il paese perduto e in qualche misura il groppo ideologico che si porta ancora dentro e che «deve » sublimare nel lavoro culturale. Da qui il passaggio successivo: è il contadino moldavo il principale testimone vivente di questo cristianesimo allo stato puro, è lui che meglio di altri impersona «il vecchio contadino dell'Europa orientale, con le radici che affondano ancora nella Terra-Madre, eppure vicinissimo al Cielo».[21] In questo modo Eliade «salva» e depura dalle scorie di ferro il sogno di Codreanu e al tempo stesso riesuma un tema caro ai tradizionalisti rumeni e in primo luogo a Lucian Blaga «che vedeva nella "cultura popolare folcloristica" - "più particolarmente nelle creazioni anonime nate dallo spirito cristiano come in quelle provenienti dalle eresie" - la fonte della creatività rumena».[22]

Come padre Schmidt, Van der Leeuw e la maggior parte degli storici occidentali delle religioni, anche Eliade considera il cristianesimo - sia pure limitatamente all'espressione cosmica - il vertice del pensiero religioso dell'umanità: ma giustamente non si spinge oltre quella che possiamo chiamare una «constatazione». È possibile - ma non abbiamo le prove per affermarlo - che all'inizio della compilazione dei Prolegomeni la pensasse diversamente: di fatto c'è un passo, quasi in apertura di libro, che sembra più un appunto di lavoro che un programma, in cui dice:

 

Si potrebbe tentare di salvare, nella prospettiva del Cristianesimo, le ierofanie che precedettero il miracolo dell'Incarnazione, valorizzandole in quanto serie di prefigurazioni dell'Incarnazione stessa. Ne conseguirebbe che - lungi dal considerare le modalità «pagane» del sacro (feticci, idoli ecc.) come tappe aberranti e degenerate del sentimento religioso di un'umanità decaduta in conseguenza del peccato - si potrebbero interpretare come tentativi disperati di prefigurare il mistero dell'Incarnazione. Tutta la vita religiosa dell'umanità - vita religiosa espressa con la dialettica delle ierofanie - sarebbe, da questo punto di vista, null'altro che l'attesa di Cristo.[23]

 

Si potrebbe...: ma non si può. In quel condizionale c'è il passato e il futuro di Eliade, che è libero ora di decidere, se fare un monumento al vecchio contadino moldavo o scrivere un buon libro, traducibile in molte lingue. E in fondo sa che «il destino» ha già deciso per lui, in quell'anno zero che è stato il 1940.

 

 

Avevamo lasciato Eliade in Inghilterra: è il 1941 e la sua posizione si è rifatta scomoda e poco limpida. Il suo governo (presieduto dopo l'abdicazione di Carol II dal generale Antonescu) si è schierato a fianco della Germania, per cui Eliade si trova a rappresentare sia pure «a livello prettamente culturale» un paese filonazista, e non è ben visto. Per sua fortuna il governo britannico decide finalmente di rompere le relazioni diplomatiche con la sua Romania e la legazione viene trasferita in un paese «neutrale»: il Portogallo di Salazar, notoriamente amico dei rumeni.

Lisbona è un soffice limbo, a confronto di Bucarest e di Londra: qui Eliade trova buona accoglienza e potenziali interlocutori (conoscerà Ortega y Gasset, Eugenio d'Ors, Carl Schmitt e il bizzarro Ghica, già incontrato a Londra), le migliori condizioni per riprendere il lavoro dei Prolegomeni e impostare Cosmo e Storia.[24] Non rinuncia però a rispolverare il suo abito (poi dismesso) di opportunista in buona fede e trova anche il tempo per scrivere una imbarazzante apologia di Salazar e della sua «rivoluzione ».[25] Qualche nube grigia torna ad addensarsi dopo l'attacco a Pearl Harbor: nel 1942 fa un breve ritorno a Bucarest che si rivela subito inopportuno; si rintana per una settimana in famiglia, evitando di rivedere i vecchi e compromessi amici, e al momento di ripartire per Lisbona compie una serie di gesti simbolici[26] che segnano il suo definitivo distacco dalla patria. E un altro distacco si prepara: la moglie Nina, ammalata di cancro, gli muore quietamente accanto, lasciandolo nello sconcerto. Dal lutto Eliade esce a fatica, ma «esce» interpretando anche questa come una morte simbolica, una nuova prova iniziatica nel labirintico cammino verso la risolutiva resurrezione... E proprio nei mesi a cavallo tra il 1944 e il 1945 che, imponendosi ritmi e tempi «balzachiani», lo scrittore compie il massimo sforzo di concentrazione sui Prolegomeni; tanto che alla vigilia della partenza per Parigi - dove ha deciso di trasferirsi su consiglio di Cioran e di Herescu - il libro sembra quasi finito.

Invece non è finito, anzi deve essere riscritto da capo: in francese. E il primo e oneroso lavoro che Eliade, appena arrivato a Parigi (nell'autunno del 1945), si trova a dover affrontare. La richiesta gli viene da Dumézil, che da quando ha conosciuto Eliade (due anni prima) si è assunto l'impegno di «lanciarlo» in Francia. Come quasi tutti gli ammiratori di Eliade, anche Dumézil subisce il suo fascino in modo acritico: è la «persona», con le sue sette vite, a sedurlo, non l'opera (per la quale mostra più entusiasmo che interesse scientifico). Del resto, non sono i confronti, le battaglie che cerca Eliade, specialmente ora che è «un esule».

La traduzione in francese dei Prolegomeni si rivela meno estraniante e disutile del previsto: costringe Eliade a escogitare uno stile più limpido e diretto, anche più soffice, che col tempo si imporrà come una delle ragioni del suo successo. Inoltre la traduzione ha uno scopo pratico, in quanto Dumézil ha deciso di affidare a Eliade un ciclo di lezioni per la prestigiosa École des Hautes Études e l'argomento concordato concerne il contenuto dei capitoli già stesi dei Prolegomeni. Fu un rito di passaggio questo, per l'autore e il libro che stava crescendo, la cui fase liminale si aggrumò nella lezione d'apertura, tenuta l'8 febbraio 1946. A ben altro pubblico - e livello - Eliade era avvezzo in Romania, come ci racconta lui stesso, in un divertente passo delle sue memorie, che si riferisce probabilmente al 1934:

 

Il mio corso su «Il problema del male e della redenzione» continuava ad attirare un pubblico considerevole. Avevo dedicato alcune lezioni al buddhismo, e mi ricordo che una volta, dopo essere salito sulla cattedra e aver annunciato: «Oggi esporrò la Legge delle dodici cause», la sala ebbe per un attimo un fremito e poi piombò in un silenzio tanto innaturale ed estatico che esitai per qualche istante, non sapendo come cominciare. Molti dei miei amici, ma anche dei miei nemici, venivano ad ascoltarmi. Una volta, dopo una lezione sulle Upanişad, Emil Cioran venne nella sala dei professori e mi disse che avevo parlato con una tale passione e un tale ritmo che, se avessi continuato ancora dieci minuti, sarebbe esploso o si sarebbe suicidato sul posto!...[27]

 

Il 1946 è anche l'anno in cui la compilazione dei Prolegomeni incontra qualche intoppo: è la prima e forse l'ultima volta che vediamo Eliade in palese difficoltà[28] specialmente nella ristesura dell'attuale terzo capitolo, quello sulle ierofanie solari. Ma sono difficoltà che Eliade supera - sia pure in tempi per lui inconsueti - grazie al suo sistema d'immersione, che consiste soprattutto in «orge di letture»: paradossalmente, più il piano si allarga e il materiale documentario si moltiplica, più riesce a padroneggiarlo.

E alla fine dell'anno arriva il premio. Alla vigilia di Natale, Dumézil si presenta all'Hotel de Suède, dove lo scrittore vive con la figliastra, con due regali sottobraccio: ha letto (e corretto) la traduzione francese dei primi nove capitoli del libro e ne è entusiasta, dice che è un libro che sarà presto imitato, plagiato e derubato[29]; ne ha già parlato con Payot, che pare sia disposto a pubblicarlo, magari con una prefazione dello stesso Dumézil. I due doni sono carichi di potenza e prospettiva: l'anno che si apre, il 1947, sarà effettivamente un anno fausto per i Prolegomeni: mancano «solo» da scrivere tre capitoli (che diventeranno quattro), l'introduzione e le conclusioni...

Ma ormai Eliade viaggia a velocità di crociera: superati gli scogli (a noi ignoti) del terzo capitolo, può procedere alla stesura dei capitoli che ha più chiari in mente, sullo spazio e il tempo sacri. Tenendo presente che l'autore sta contemporaneamente lavorando a due opere impegnative come il lungo articolo sullo sciamanismo per la «Revue de l'Histoire des Religions»[30] e Le Mythe de l'éternel retour, l'andatura si può dire sostenuta: il 9 dicembre il dattiloscritto è sul tavolo di Payot, anche se mancano (ma l'editore non lo sa) ancora due capitoli da scrivere. Il giro di due giorni e il libro è accettato, sarà pubblicato subito, ma a due condizioni: il titolo va cambiato, è troppo vago e severo (sarà Payot in persona a trovare e imporre quello definitivo), inoltre la data di consegna della parte ancora «da rivedere» è improcrastinabile, il 15 del mese successivo al più tardi. Eliade non ha scelta, e con la promessa di un congruo anticipo sui diritti accetta, a denti stretti, entrambe le condizioni.

Cinque settimane per completare un libro fin lì meditato e costruito nel corso di otto, dieci lunghissimi anni! Una follia, ma anche una esperienza irripetibile, un'altra sfiaccante «prova» che Eliade non si fece sfuggire... Cinque settimane di lavoro frenetico, di notti insonni, di continui e inevitabili rimandi a un volume «complementare» da far seguire, per scrivere proprio i capitoli più teorici, nonché le pagine introduttive e conclusive, e rileggere e rivedere il tutto, cinque o seicento cartelle, le note: un tour de force memorabile e stravolgente (per l'autore e per il libro), che si concluse in data 24 gennaio 1948, con le seguenti parole sul Giornale: «Finalmente ho terminato l'ultimo capitolo dei Prolegomeni»[31]. Il sollievo è tale, che Eliade può digerire con relativa calma la notizia che gli giunge qualche tempo dopo, e cioè che Payot è costretto - per la mancanza di carta - a far ritardare di alcuni mesi l'uscita del Trattato.

Ora, sono tre gli interrogativi - che pure il lettore certamente si pone - a cui dobbiamo in qualche modo rispondere. Intanto: come esce il libro da questo lungo e «tragittoso» viaggio, da Bucarest a Parigi? Secondo: l'opera scientifica è uscita indenne dalla lotta finale con il tempo? Terzo: il nucleo concettuale è rimasto lo stesso, rispetto alla folgorazione tanto enfatizzata (a posteriori) da Eliade?

Il disegno dell'opera non ha tratto particolari vantaggi dalla estensione dei tempi di lavorazione: ha la legnosità di tutte le ordinate classificazioni, e se non fosse per la grande leggibilità delle rubriche, questo modo di procedere un po' «vecchiotto» alla lunga potrebbe disturbare. L'ordine in cui si succedono le ierofanie - uraniche, solari, lunari, acquatiche, litiche, telluriche, biologiche, spaziali e temporali - non è tuttavia casuale e nemmeno ci troviamo di fronte, come è stato detto,[32] a «un asse grossolanamente orientato dall'alto in basso»: è semmai uno schema che sembra ricalcare modelli letterari, un descensus ad inferos descritto con lo stupore degli esploratori di Jules Verne, che parte dalla più «pura» esperienza del sacro (la sbigottita contemplazione del cielo stellato) per calare alla fine nella terra intrisa di sangue. Uno schema tardo-ottocentesco, comunque, non privo - per il lettore di oggi - di un vago effetto d'antan. Mancano degli anelli, questo sì: sorprende il non-risalto di un tema «forte» come quello della regalità sacra, come invano cercheremo nelle pieghe del discorso il suo «rovescio» e cioè il tema della rivolta contro l'ordine cosmico. Sono esclusioni che Eliade non motiva, e nemmeno dichiara, che rischiano di passare come implicite scelte ideologiche.

Maggiori problemi pone allo studioso il modo con cui Eliade esegue il gigantesco lavoro comparativo. Non si può tirare in ballo a questo riguardo la «fretta» - come è stato fatto [33]- che pure c'è, ma non è la fretta delle ultime settimane, è la fretta del generalista che deve per isolare una «struttura» disporre del maggior numero possibile di esempi. Il metodo di Eliade - se di metodo si può parlare - in questo senso è senz'altro «antiquato », era già antiquato negli anni quaranta, perché non si discosta - se non nella qualità - dal metodo dei grandi comparatisti di fine e d'inizio secolo. È lui stesso del resto a ribadire nel 1951 che

 

lo storico delle religioni giunge alla comprensione di un fenomeno solo dopo averlo adeguatamente confrontato con migliaia di fenomeni simili o differenti, solo dopo averlo situato fra di essi; e queste migliaia di fenomeni sono separati gli uni dagli altri tanto nello spazio che nel tempo.[34]

 

La quantità degli esempi, in altre parole, non è un'opzione, ma è insita nella natura stessa dell'oggetto di studio, perché

 

la stessa dialettica del sacro tende a ripetere indefinitivamente una serie di archetipi, tanto che una ierofania realizzatasi in un certo «momento storico» spesso si sovrappone, quanto a struttura, a una ierofania più antica - o più giovane - di un millennio. E in base a questa tendenza del processo ierofanico a riprendere all'infinito una stessa paradossale sacralizzazione della realtà che noi possiamo comprendere un fenomeno religioso e scriverne la «storia».[35]

 

E perciò, anche se Eliade ha effettivamente la tendenza che gli è stata riconosciuta a risalire alle fonti principali, alle traduzioni migliori, e «a privilegiare due categorie di elementi: le grandi religioni dell'Asia e le tradizioni orali dei popoli senza scrittura»[36], tuttavia è costretto, come Frazer, a far ampio ricorso ai testi delle letterature classiche e delle letterature popolari o semicolte, che «sbaragliano» il lettore, più che informarlo. A ciò si aggiunga che Eliade spesso si concede delle associazioni che il lettore si vede consegnare «al posto» delle comparazioni: associazioni che alludono e non indicano (vedi la frequenza con cui Eliade ci dice, testualmente, che un certo uso «compare un po' dappertutto», o che un certo fatto «ricorda» una serie di altri fatti ecc.), oppure associazioni che indicano troppo e niente, lanciate come sono «a raffica» (un esempio, tra i tanti: «In certi luoghi si fa alla dea tellurica l'offerta di bambini seppelliti vivi; così in Groenlandia, se il padre è gravemente ammalato, si seppellisce il bambino; in Svezia furono sepolti vivi due bambini durante un'epidemia di peste; presso i Maya si facevano questi sacrifici quando imperversava la siccità»)[37]. Ed è facile, ma anche inutile, insistere su questo punto, che evidentemente nulla ha a che vedere con i tempi di lavorazione.

Il che non può dirsi a proposito della trasparente debolezza degli ultimi due capitoli: è qui che la fretta non ha pagato. Il lettore esigente, che per il lungo corso del libro ha pazientemente atteso lo sbocco o il quaglio della misteriosa sostanza liquida che ha «sentito» scorrere e serpeggiare nel testo, può rimanere deluso: la chiarificatrice teoria del mito e del simbolo che Eliade gli ha promesso a partire dal primo capitolo (paragrafo 3) è ancora una volta elusa, o meglio rimandata ad altra occasione (l'autore si impegna a far seguire un «volume complementare»). Sicché i due capitoli, non aggiungendo sostanzialmente alcunché di nuovo a quanto precedentemente esposto e più volte ribadito, finiscono col risultare o di troppo o d'«insostenibile leggerezza». Eliade - è vero - mette molta carne al fuoco in queste pagine d'interessanti appunti, ma evita in tutti i modi di confrontarsi con gli apporti teorici dei suoi contemporanei, che pure ben conosce. Così che il lettore può presumere di trovarsi su un terreno insondato dai mitologi o su un terreno già delimitato una volta per tutte che esclude a priori l'esistenza di un simbolismo non religioso, con la conseguenza pratica di non poter disporre degli strumenti necessari a una ricezione controllata e critica. Al lettore insoddisfatto si può consigliare ora - visto che il promesso «volume complementare »[38] non è mai uscito - di integrare il Trattato con alcuni dei brevi saggi che l'autore ha successivamente pubblicato[39], mantenendo in certa misura la promessa del '48. Ma è giusto che sappia - il lettore - fin d'ora che la teoria eliadiana del mito come modello archetipale non è del tutto originale: sembra anzi largamente debitrice, almeno nei confronti dei concetti kerényiani di Gründung e Begründung, come aveva notato già nel 1953 Ernesto de Martino[40]. Scrive infatti il Kerényi in un famoso saggio del 1941 (che Eliade nel Trattato cita appena di sfuggita):

 

A giusta ragione si è parlato della «vita per citazioni» dell'uomo dell'età mitologica e a giusta ragione si è cercato di rendere chiara questa idea a mezzo di immagini di cui non si potrebbe trovare nulla di meglio. Prima di agire, l'uomo antico avrebbe sempre fatto un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di palombaro, per affrontare così, protetto e in pari tempo trasfigurato, il problema del presente.[41]

 

Passo che risuona nelle parole di Eliade scritte tra il 1945 e il 1947:

 

nel particolare suo comportamento cosciente il «primitivo», l'uomo arcaico, non conosce atto che non sia stato posto e vissuto anteriormente da un altro, da un altro che non era un uomo. Ciò che egli fa, è già stato fatto; la sua vita è la ripetizione ininterrotta di gesti inaugurati da altri. Questa ripetizione cosciente di gesti paradigmatici determinati tradisce un'ontologia originale...[42]

 

E con ciò siamo già nel vivo del problema che ci aspetta da ultimo: la comparsa nell'orizzonte eliadiano della figura del «primitivo». Assente dal quadro balenato nel 1940, e sostanzialmente estraneo agli interessi dell'Eliade degli anni rumeni, il «primitivo» assume nella scena definitiva del Trattato un inatteso ruolo di primo piano (inatteso dico relativamente ai tempi, ma coerente rispetto alle innovazioni in atto nelle scienze religiose). Il «primitivo» di Eliade, tuttavia, è un primitivo sui generis: non è soltanto quello riscoperto nel corso dell'immersione del 1940 nelle biblioteche britanniche (determinante comunque per un trentenne che aveva letto sull'argomento Frazer o poco più) e nemmeno è il soggetto storico[43] che sta emergendo dal processo di decolonizzazione (che Eliade segue con occhio attento all'indipendenza dell'India); è invece, più che altri, la terza incarnazione, dopo l'eremita orientale e il contadino rumeno, dell'homo religiosus. Il «mondo» dei primitivi, in tale prospettiva, è diverso dal nostro, è un «cosmo»; e il pensiero dei primitivi è non altro che un pensiero religioso. Da questo momento, Eliade tende anche a unificare le tre versioni storico-geografiche dell'homo religiosus, la triade anzidetta, in un solo concetto a cui dà il nome di arcaico; lanciando così - o meglio rilanciando - un termine fino ad allora custodito come un tesoro dai dotti tedeschi, ma destinato a espandersi, anche grazie a Eliade, nel vocabolario medio-colto dei francesi e degli italiani. Il termine ricorre spesso nel Trattato, e dato che Eliade non si preoccupa di definirlo, dobbiamo noi compiere un sforzo per cercar di intendere quest'altra parola-chiave del suo pensiero.

A prima vista il termine sembra scelto e usato con molta approssimazione, come la risultante di un doppio gioco di sinonimi e contrari; si presenta cioè come un aggettivo riferito a «uomo»: l'uomo « molto antico », che vive lontano anni-luce dall'uomo « moderno », o l'uomo «pagano», che esiste libero in natura e che - pur in una prospettiva paradossalmente cristocentrica - non si è fatto incatenare come l'uomo della «tradizione giudaico-cristiana» sulla nave della «storia ». Ma non è in queste dicotomie che si esaurisce il concetto: si vede presto che Eliade con questo termine vuole scalare le cime abissali che il pensiero tedesco ha racchiuso nel prefisso -ur. Ossia quel filo invisibile, teso già da Goethe con il suo Urphänomen («il fenomeno originario»), che passa attraverso le dottrine del simbolo elaborate da George Klages, per annodarsi all'etnologia e alla storia delle religioni con la mediazione del concetto di Ursprung di Frobenius:[44] un filo che probabilmente Eliade individua e raccoglie nelle pieghe del pensiero di Jung, autore tra l'altro nel 1930 di un breve saggio su L'uomo arcaico.[45] Tuttavia, dal concetto junghiano di archetipo prende subito le distanze: a Eliade interessa poco la «fondamentale» unità dell'inconscio collettivo, per lui è fondamentale solo l'unità delle esperienze religiose, che non è di ordine psichico, ma ontologico; E qui il passo ulteriore (e finale) diventa arduo: con l'equazione arcaico = ontico, già presente nel Trattato, Eliade si trova faccia a faccia con Heidegger, e non regge. I limiti della sua formazione filosofica[46] balzano spietati a impedirgli il passo, e Eliade non può far altro che girare rigido intorno all'«ontico» come il fedele gira intorno al tempio, definendolo e ridefinendolo con aggettivi (vero, autentico, reale ecc.) sempre diversi e sempre uguali.

Altre strade si aprivano, più praticabili, che pure non escludevano il ricorso al concetto irrinunciabile (per Eliade) di «arcaico»... La più evidente l'autore l'aveva già imboccata, seguendo - non pedissequamente - il solco tracciato da Lévy-Bruhl e gettandovi nuovi semi. Eliade conosceva bene l'opera del filosofo francese[47] e pur non amandola se ne servì spesso, in particolar modo nel Trattato e più di quanto non appaia dalle parche citazioni: dal nostro libro di fatto emerge, senza la precisa volontà dell'autore, una nozione di «mentalità arcaica», che non è solo complementare a quella di «mentalità primitiva», ma è anche più spessa e articolabile. In altre parole, il Trattato può essere letto come un radicale ripensamento, in chiave non naturalistica ma fenomenologica, del mondo prelogico, che ne esce trasformato in «sistema». Un sistema alternativo, in quanto frutto di un lavoro ermeneutico, al sistema che di lì a poco avrebbe proposto Lévi-Strauss con il suo Pensiero selvaggio. Non era questa, sicuramente, l'intenzione di Eliade, che comunque a differenza di Lévy-Bruhl si pone il problema dell'unità ed estende all'umanità tutta il «tema» della scelta delle diverse rappresentazioni dello spazio e del tempo: il quadro che viene a sovrapporsi alla scala delle ierofanie si presta - per prospettiva e per respiro - a un gran numero di applicazioni, superiore senza dubbio a quelle che offre il lavoro pionieristico ma imbalsamatorio di Lévy-Bruhl. Senza contare che il concetto eliadiano di «arcaico» finisce per risultare - quasi paradossalmente - più preciso e forse più adeguato del concetto di «primitivo» di Lévy-Bruhl, che lo usa ancora come un equivalente d'«inferiore»; mentre Eliade può (lo ha fatto raramente, ma lo ha fatto) identificare il suo uomo arcaico con l'uomo neolitico.

È questo un punto che il Trattato tocca più volte, ma non sviluppa: ossia la religiosità cosmica come un prodotto specifico della cultura del neolitico. È anche un punto d'inconsueta (anche se sempre relativa) «solidità», che lascia di solito perplessi gli abituali lettori di Eliade; ma è l'autore stesso che a molti anni di distanza ha ripigliato l'argomento: «È grazie all'agricoltura che l'uomo ha afferrato l'idea di ciclo - nascita, vita, morte, rinascita - che ha valorizzato la sua stessa esistenza integrandola in questo ciclo cosmico».[48] Si tratta di una «scoperta» che risale - a quanto ci dice l'autore - agli anni del suo soggiorno in India:

 

Ho avuto la fortuna di trascorrere, poco prima della mia partenza, alcune settimane in India centrale - fu in occasione (...) di una specie di caccia al coccodrillo - tra gli aborigeni, dei Santali, ovvero dei preariani. E sono rimasto colpito nel vedere che l'India affonda ancora radici profondissime non soltanto nell'eredità ariana o dravidica, ma altresì nell'humus asiatico, nella cultura aborigena. Era una civiltà neolitica, fondata sull'agricoltura, ovvero sulla religione e la cultura che accompagnarono la scoperta dell'agricoltura, in particolare la visione del mondo della natura in quanto ciclo ininterrotto di vita, morte, resurrezione: ciclo specifico della vegetazione, ma che governa altresì la vita umana e costituisce al tempo stesso un modello per la vita spirituale... Ho riconosciuto quindi l'importanza della cultura popolare rumena e balcanica. Al pari di quella dell'India era una cultura folclorica, fondata sul mistero dell'agricoltura. Evidentemente, in Europa orientale le espressioni di ciò erano cristiane; si credeva, ad esempio, che il grano fosse nato dalle gocce di sangue di Cristo. Ma tutti questi simboli hanno un fondo molto arcaico, neolitico. In effetti, ancora trent'anni fa, c'era, dalla Cina al Portogallo, un'unità di base, l'unità spirituale solidale all'agricoltura e assicurata da questa, e quindi dall'eredità del neolitico. Questa unità di cultura, per me, fu una rivelazione.[49]

 

Una rivelazione che trova la sua prima - non compiuta - espressione nel Trattato, e che deve aver posto l'autore di fronte al classico bivio: gli si era aperta davanti una delle strade (forse la più impervia) per la comprensione della genesi storica delle ierofanie.[50] Non l'ha rifiutata del tutto, ma nemmeno l'ha imboccata, a ennesima dimostrazione del suo non dogmatico antistoricismo: e comunque ha voluto lasciarci un «segno» di questa liminale esitazione.

 

 

Il libro comparve nelle vetrine dei librai parigini il 18 gennaio 1949: lo stesso giorno editore e autore lo presentavano alla stampa.

 

Mi rendevo conto - ricorda Eliade - dell'interesse e del valore di questo libro. L'apprezzamento entusiasta di Dumézil e, in seguito, le lettere ricevute da tanti studiosi che ammiravo, come pure le prime recensioni, estremamente favorevoli, confermarono la mia fiducia nel destino del libro. Il Trattato andò esaurito, fu rapidamente ristampato e, alcuni mesi dopo la sua uscita, la casa editrice Einaudi acquistava già i diritti per la traduzione italiana. (Ma né io, né Gustave Payot potevamo immaginare, allora, il successo che avrebbe incontrato presso i lettori e i critici, né il numero delle lingue nelle quali sarebbe stato tradotto).[51]

 

Comincia subito, dal febbraio dello stesso anno, la storia tutta in discesa della fortuna del Trattato, che proseguirà inarrestabile fino agli anni sessanta.

A parte il caso Italia, che esamineremo tra poco, il consenso è unanime: l'applauso più lungo viene da H. Corbin, H. C. Peuch, J. Wach , G. Bachelard e P. Ricoeur; ma sono solo questi due ultimi - mi pare - a utilizzare il libro in concreto.[52] Chi ha probabilmente argomenti validi da avanzare a sfavore, tace. Ancora oggi non finisce di sorprendere il pesante silenzio (diplomatico?) di un Kerényi[53] o di un Lévi-Strauss[54] Per leggere, a livello internazionale, una esplicita e autorevole presa di distanza dal Trattato, bisogna attendere il 1968, quando la fama di Eliade è ormai più che consolidata. Mi riferisco all'articolo per la IESS (Religion: Anthropological Study) redatto da C. Geertz, che a proposito delle nuove tendenze relative all'analisi delle forme simboliche osserva:

Forse la strategia più diretta - certo la più disarmante - consiste semplicemente nell'accettare le innumerevoli espressioni del sacro nelle società primitive, nel considerarle come intrusioni reali del divino nel mondo e nell'individuare le forme che queste espressioni hanno preso su tutta la Terra e nel tempo. Il risultato consisterebbe nell'isolare le principali classi di fenomeni religiosi considerati come autentiche manifestazioni del sacro - quelle che Eliade, l'esponente principale di questo approccio, chiama ierofame - e seguire l'ascesa, il predominio, il declino e la scomparsa di tali classi nei mutevoli contesti della vita umana. Il significato dell'attività religiosa, il peso del suo contenuto, viene scoperto attraverso una indagine scrupolosa, interamente induttiva delle modalità naturali di tale comportamento (culto del Sole, simbolismo dell'acqua, culti della fertilità, miti di rinnovamento ecc.) e dello stesso Figlio di Dio, nel flusso della storia.

A parte le questioni metafisiche (qui oltremodo intrusive), le debolezze di questo approccio nascono proprio da ciò che ne fa la forza: una drastica limitazione delle interpretazioni della religione al tipo che può essere prodotto da una metodologia decisamente baconiana. Da una parte, questo approccio ha portato, specialmente nel caso di uno studioso erudito e instancabile come Eliade, alla scoperta di alcune estremamente suggestive combinazioni di certi schemi religiosi con particolari condizioni storiche (...). Ma dall'altra parte, ha posto al di là dell'ambito dell'analisi scientifica tutto quel che non è la storia e la morfologia delle forme fenomeniche di espressione religiosa. Lo studio delle credenze e delle pratiche tribali è ridotto a una sorta di paleontologia culturale il cui solo scopo è la ricostruzione, a partire da frammenti sparsi e deteriorati, dell'«universo mentale dell'uomo arcaico ».[55]

 

Da ciò si potrebbe dedurre che solo negli anni sessanta e solo nel settore angloamericano degli studi di antropologia religiosa s'inizi a leggere in modo più disincantato il Trattato, che dal 1958 ha cominciato a circolare anche in traduzione inglese. Il che non è vero: perché c'è il caso Italia, troppo spesso ignorato. Di fatto già negli anni cinquanta il Trattato era stato sottoposto - in condizioni di relativa serenità - a un esame critico; in particolare all'interno (forse troppo all'interno) del dibattito sul metodo delle scienze religiose instaurato dalla cosiddetta Scuola romana.[56] Ma dobbiamo - per inquadrarlo - fare qualche passo indietro nel tempo.

Eliade si era fatto «scoprire» in Italia molto per tempo: negli anni trenta già godeva della stima di Buonaiuti, Macchioro, Tucci, Pettazzoni, e perfino di Evola;[57] ma un giudizio esplicito sulla sua opera non viene avanzato, almeno fino al 1948, quando è de Martino a rompere il ghiaccio recensendo le Techniques du Yoga.[58] Da questo momento l'autore viene letto con più attenzione ed entra a far parte dei riferimenti culturali di una vasta cerchia di studiosi e non soltanto di specialisti dei singoli settori di pertinenza. Questo soprattutto a partire dalla pubblicazione del Traité, che fin dai primi mesi del 1949 circola nelle sedi più appropriate e in quelle più disparate. Tra i primi a riceverlo è Giovanni Papini, che lo consulta a lungo per il suo lavoro sul Diavolo, e che per lettera dirà all'autore: «Ho seguito la Sua carriera. Nel mio studio, tra i libri di prima qualità, tengo a portata di mano il Suo mirabile Traité d'histoire des religions e aspetto con impazienza il Suo Mythe de l'éternel retour. (...) Lei è, oggi, ciò che Frazer è stato per la generazione più vecchia»;[59] formulando con ciò - forse involontariamente - un giudizio non privo di sale.

Di altro spessore, ma sempre per lettera e più che mai «a caldo» (datato 4 febbraio 1949) è il giudizio di Pettazzoni, che saluta il libro scrivendo:

 

Ecco finalmente un Trattato di storia delle religioni scritto da un punto di vista religioso! È quel che ci mancava, anche dopo la Fenomenologia di Van der Leeuw. Sin d'ora ci si può render conto dell'importanza della vostra opera, mentre si aspetta il volume complementare, che si annuncia ancora più interessante, da un punto di vista come il mio, più strettamente storico che fenomenologico.[60]

 

E si tratta, a ben vedere, di un giudizio già impeccabile e a suo modo completo: nella stessa espressione gratulatoria il Pettazzoni da un lato dimostra una volta di più la sua estrema tolleranza teoretica, dall'altro fissa subito quello che è per lui il principale limite del libro, che va valutato per quello che è, e cioè una «introduzione», largamente fenomenologica e sostanzialmente provvisoria, priva di una propria autonomia, a cui deve far seguito una trattazione storiografica. A questo «deve», Pettazzoni si abbarbica - facendoci oggi sorridere - anche nella recensione al libro che scriverà poco tempo dopo. Qui ovviamente il tono è diverso e qualche riserva si fa strada, pur tra i molti (ma talvolta generici) apprezzamenti. Intanto, in attesa di quel Godot che è il secondo tomo del Trattato, ogni suo sforzo è concentrato sul reperimento dei «segni» che lo annunciano e magari lo anticipano, e facendo esplicitamente ampio credito all'autore cerca nel libro ogni possibile riferimento alla «storia» come lui (Pettazzoni) la intende. Ad esempio nota che «già in questo primo volume la storia preme da ogni parte, e l'Eliade non si limita allo studio fenomenologico delle ierofanie, anzi traccia per ciascuna di esse una più o meno consistente linea di sviluppo».[61] Più o meno consistente: ma a chi sta parlando Pettazzoni? Non certo all'avveduto lettore della sua rivista, che sa bene quale sia il suo concetto laico di storia. O a Pettazzoni sfugge (ma è possibile?) che la storia eliadiana che si svolge per entro le ierofanie è storia sacra o meglio - come suggerisce lo stesso Eliade - mito tout court? Prendiamolo come un incidente di percorso, provocato dalle nebbie della diplomazia, e passiamo oltre: sono nebbie destinate subito a diradarsi. C'è infatti un passo sui culti solari che fa sobbalzare Pettazzoni: «Queste valenze [ctonio-funerarie] sono evidenti nell'altra variante vedica del dio solare, Sàvitri, spesso identificato con Sūrya; è psicopompo e conduce le anime alla sede dei giusti. In certi testi, Sāvitrī conferisce l'immortalità agli dèi e agli uomini; è lui che rende immortale Tvaştrī. Psicopompo o ierofante (= colui che conferisce l'immortalità), la sua missione ci trasmette un'eco indubitabile dei prestigi che appartenevano al dio solare nelle società primitive».[62]

L'estrema approssimazione di questo accenno comparativo è evidente, ma è la sua perentorietà che disturba Pettazzoni. Tanto più che Eliade, quasi anticipando la possibile reazione del «maestro », si affretta a precisare, in nota, che sta parlando

 

beninteso, di simmetrie tipologiche, non di relazioni "storiche". Prima della storia, l'evoluzione, la diffusione, le alterazioni della ierofania, c'è una struttura della ierofania. Data la scarsezza di documenti, è difficile - e per il nostro assunto è superfluo - precisare in qual misura la struttura di una ierofania fu in principio afferrata nel suo insieme e da tutti i membri di una società data. Ci basta distinguere qui quel che una ierofania poteva significare, o non poteva significare.

 

Candore o iattanza? Accademicamente, Pettazzoni non calca la mano, ma nemmeno può fare a meno di osservare che «portata così l'interpretazione sul piano delle possibilità, essa si risolve in una scelta fra possibilità diverse, tutte virtualmente opinabili, alcune più o meno autorevolmente opinate, ma senza un criterio oggettivo che dia ragione dell'opzione».[63] La recensione si chiude con il proponimento di Pettazzoni di ritornare in seguito sull'argomento; ma anche se qualche occasione non mancò,[64] è solo negli ultimi mesi di vita che lo storico riprende in esame il Trattato, in quelli che usiamo chiamare Gli ultimi appunti[65] e che risalgono all'autunno del 1959. I tempi sono mutati, anche Pettazzoni è cambiato: quello che è rimasto lo stesso - a dispetto delle aspettative - è Eliade, che nel frattempo non ha scritto il secondo tomo del Trattato, ma ha continuato ad approfondire i temi della seconda metà del libro in una serie di articoli e volumi che ha largamente sconcertato Pettazzoni. Il vecchio storico, con grande coraggio intellettuale, riprende il discorso interrotto e lo azzera: Eliade ormai sta sulla sponda opposta alla sua, e il tono e gli argomenti sono quelli di una battaglia culturale (che l'autore probabilmente ancora non voleva render pubblica). Dato che pochi e saltuari sono, a questo punto di rottura, i riferimenti al Trattato, non entro nel merito di questi appunti, il cui spessore teorico ci costringerebbe a toccare questioni di fondo che esulano dal quadro che mi sono prefisso. Va comunque segnalato il contesto in cui viene ora, nel 1959, inserita l'opera di Eliade: in una schematica storia della «sacrologia» della prima metà del secolo, non accanto ai nomi di Kerényi e Van der Leeuw, ma a conclusione della linea inaugurata da Frazer e che passa per Lévy-Bruhl, padre Schmidt e Jung. Il che ci dice che Pettazzoni intendeva sì combattere le teorie di Eliade, ma non certo «ridimensionare» l'autore.

Nel frattempo, il Traité era stato tradotto in italiano ed era uscito nella «collana viola» di Einaudi, ma solo a termine di una lunga peripezia politico-editoriale. Cesare Pavese, direttore per il 51 per cento della collana,[66] si era «innamorato» - pure lui - di Eliade, e aveva fatto acquistare con gran tempismo i diritti del libro, come abbiamo già visto pagine addietro. Ernesto de Martino - che funge da direttore esterno - invece cerca di temporeggiare: preferirebbe puntare sul Mythe de l'éternel retour (che anche Pavese ritiene migliore del Traité) o meglio sul libro sullo sciamanismo che Eliade sta già preparando. Ma Pavese finisce per avere la meglio, perché ha dalla sua l'argomento decisivo: ha infatti fiutato subito che il libro «dato il titolo e l'impostazione, promette di riuscire un gran successo editoriale. Dobbiamo pensare anche a queste cose».[67] Per cui de Martino cede, a patto che il titolo esca senza la sciapa prefazione di Dumézil e con una sua prefazione: l'ormai collaudato compromesso su cui si era innestata fin dall'inizio la collana. Il libro fu affidato, per la traduzione, a Virginia Vacca[68] e, per la supervisione, allo stesso de Martino. Il lavoro si annunciava di non facile esecuzione («non è difficile come testo - osserva Pavese - ma è rognosissimo per il suo regime bibliografico e per il modo delle citazioni») eppure fu condotto a tempo di record: alla fine del 1949 era praticamente già pronto. Pavese accolse però la notizia con un sorriso a denti stretti: perché proprio in quei mesi era scoppiato il «caso Eliade».

È un episodio più grigio che oscuro delle cronache politico-culturali del nostro dopoguerra, nel momento in cui si apre la famelica doppia caccia alle streghe. Nessuno sapeva fino ad allora chi era - cosa era stato - Eliade: tranne Ambrogio Donini, lo storico del cristianesimo dirigente del PCI, assai dentro al mondo diplomatico, e naturalmente i funzionari dell'ambasciata rumena in Italia. Bastò un soggiorno a Roma di Eliade, nell'estate del '49, per far accendere la miccia: trapelò subito la notizia del delicato incarico svolto a Lisbona dallo studioso, in rappresentanza del governo filonazista di Antonescu, e del suo poco chiaro passato rumeno. Era il minimo e il massimo che si poteva dire su di lui, in quelle circostanze, ma più che sufficiente per mettere nei pasticci la casa editrice: Pavese e de Martino - in questo caso solidali - si trovarono a dover prendere pateticamente le difese di Eliade, per salvaguardare la linea aconfessionale della collana dagli attacchi esterni e interni (C. Muscetta e A. Giolitti avevano addirittura chiesto di far uscire dal catalogo Einaudi tutte le opere del reprobo) e anche dalle intromissioni d'inopportuni «soccorritori» (sul Traité avevano messo gli occhi J. Evola e il suo editore Bocca, di Torino). Con il suicidio di Pavese e l'inevitabile sbandamento della collana, i tempi naturalmente si allungarono; ma il tempo giocò a favore di de Martino che alla fine l'ebbe vinta. In piena estate 1954, come dire quasi clandestinamente, il libro uscì: accompagnato, come previsto, da una succinta introduzione di de Martino.

Succinta, ma non succosa. Delle tante prefazioni redatte da de Martino, è questa certamente la più deludente e la più datata: quindi non ci chiederemo qui per qual motivo l'editore abbia deciso di sopprimerla nelle successive ristampe.[69] Ha però il pregio indiscutibile - a differenza delle «presentazioni» di cui godrà Eliade in Italia - di essere scritta con l'inchiostro, e non con l'incenso. È vero: i riferimenti al Trattato in sé sono quasi inesistenti, a de Martino interessa prima di tutto (e qui solamente) «inquadrare» l'opera nella storia culturale recente e «avvertire» il lettore che il metodo di Eliade non è filosoficamente fondato; per cui la prefazione assolve solo in parte il compito che le è proprio, di offrire uno o più stimoli alla lettura. La mia impressione è che de Martino abbia sostanzialmente «snobbato» il Trattato per molti anni[70] e che lo abbia preso in seria considerazione soltanto alla fine della sua vita, nel corso delle letture critiche eseguite per La fine del mondo. È qui che il Trattato viene dato come un testo esemplare, che deve molto alla Fenomenologia di Van der Leeuw, e che più di quest'ultima è indicativo del modo di procedere dei fenomenologi, che tende sempre a eludere ogni tentativo di ricostruzione ierogenetica:

 

Dire che per il primitivo sono significativi solo gli eventi che hanno un modello metastorico (mitico), e che un evento è per il primitivo insignificante perché non ha un precedente mitico, è un enunciare che le cose stanno così perché stanno così, e un descrivere la coscienza mitica primitiva nella sua limitazione: ma il vero problema ierogenetico è di far risultare in modo necessario tale limitazione, comprendendone la funzione esistenziale, la qualità culturale ».[71]

 

Sulla scia dell'ultimo Pettazzoni e di de Martino, e cioè con estrema cautela se non con diffidenza, si muoveranno in seguito gli altri storici delle religioni nell'uso scientifico del Trattato: dal tacito dissenso di A. Brelich alla netta ripulsa di V. Lanternari,[72] dal progressivo distacco di A. di Nola alle avare aperture di U. Bianchi. La fortuna del libro in Italia ha messo radici in altri campi del sapere: negli anni sessanta e settanta il Trattato troneggia incontrastato - tra le opere di vario stimolo - nelle biblioteche dei teologi e degli filosofi, degli psicologi e dei sociologi, dei demologi e perfino degli storici dell'arte. Solo alla fine degli anni settanta il vento cambia, e cambia di colpo: ma non sono i nodi teorici che vengono al pettine, è soltanto la parrucca del «guru degli hippies» a volar via, con indispettito e spropositato scandalo.

Il dibattito - se così si può chiamare - che si accese in Italia vent'anni fa,[73] man mano che sempre più trapelavano le informazioni sul passato rumeno di Eliade, non ha certo giovato alla già sommaria valutazione dell'apporto scientifico della sua opera, e ha rischiato più volte di aggrovigliarsi nella irrisolvente cultura del sospetto, quando non è decaduto nella rissa tra vecchi fiancheggiatori e figli traditi. Ex eliadiani confessi erano infatti Alfonso di Nola e Furio Jesi, da cui partirono i primi sassi: ma se il primo ebbe il senso di non accanirsi sopra un corpo ormai inerte, limitandosi a liquidare il Trattato con un giudizio pesante ma legittimo,[74] il secondo arrivò a «smontare» lo stesso libro per cercarvi (e naturalmente trovarvi) un nascosto messaggio «antisemita». Dimenticava Jesi - per l'occasione tratto in inganno da un brano del Journal[75] - una cosa che pure sapeva benissimo: che in un libro-mondo quale è il Trattato si può trovare di tutto, dall'elogio del martirio alla rivalutazione dell'infanticidio, e che certamente alcuni di questi temi facevano parte anche della mistica legionaria, ma non per questo esulano dalla storia delle religioni. Più in generale: la differenza che esiste tra le concezioni non occidentali del tempo e il concetto di storia che è proprio della tradizione giudaico-cristiana è un dato di fatto, non è un'invenzione di Eliade (anche se è stato forse il primo a enfatizzarla); se poi l'autore conferisce alle prime uno statuto ontologico e al secondo un fondamento storico, si può al massimo rimproverargli di non essere un buon filosofo o di essere un primitivista un po' indocentrico, non certo di essere un filo-occidentale (sarebbe troppo).

Il resto è storia recente, e non la tocco, perché un punto di particolare importanza non mi è chiaro: siamo oggi effettivamente capaci di leggere Eliade senza miti? Segni incoraggianti in questo senso, anche se timidi, non mancano,[76] e talvolta provengono da settori un tempo fortemente impregnati di eliadismo magico. Ma viene anche da chiedersi se è possibile - e se è davvero proficua - una lettura «demitizzata» di Eliade. Questo autore è un pianeta immenso, per metà ancora sconosciuto (nel senso che poco «studiate» sono ancora le sue ricerche sulle vie di salvezza - alchimia, yoga, sciamanismo - il meglio forse che ci ha dato), e che misterioso resterà fino in fondo; perché è uno storico di sé, della sua religione (se così si può chiamare). Proprio per non ridurre Eliade a un Delvaux della storia delle religioni, è forse venuto il momento di far saldare le sue due anime, il «narratore» e l'erudito, e di riconoscere nella disposizione mistica l'elemento che le infuoca. L'operazione, che in fondo è semplicissima ma evidentemente poco rassicurante, potrebbe restituirci un Eliade nudo e «novo»: un grande scrittore religioso senza toga, un testimone colto e prezioso di esperienze che non possiamo continuare a «fissare» a distanza, nel documento etnografico.

 

[1] M. Eliade, Memorie, II: Le messi del solstizio (1937-1960), Jaca Book, Milano 1995, p. 17 (ed. orig. 1988).

[2] In Italia, come vedremo, le notizie erano filtrate già da tempo, ma a «chiudere» il caso sono giunti i volumi di Mac Linscott Ricketts (Mircea Eliade. The Romanian Roots, II, Columbia University Press, New York-Boulder 1988) e di C. Mutti (Mircea Eliade e la Guardia di Ferro, Il Veltro, Parma 1989 e Le penne dell'Arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro, Barbarossa, Milano 1994). Per altre informazioni bibliografiche cfr. la Prefazione al sopracitato vol. di Memorie redatta, con visibile sofferenza, da Roberto Scagno, il più infaticabile (e anche più serio) curatore delle opere di Eliade in Italia.

[3] Mutti, Mircea Eliade cit., p. 23. Qualche accenno alla vicenda elettorale si trova nei contributi di A. Deac (in Storia del popolo romeno, a cura di A. Otetea, Editori Riuniti, Roma 1971; ed. orig. 1970) e di Z. Barbu (in Il fascismo in Europa, a cura di J. S. Woolf, Laterza, Bari 1968).

[4] Ringrazio V. Lanternari per avermi messo a disposizione gli articoli di Eliade apparsi tra il 1933 e il 1938 su «Vremea» e su «Cuvantul», e M. Lorinzki per avermeli coraggiosamente tradotti, sette anni fa.

[5] Eliade, Memorie, II cit., p. 26 e passim. Firmando una dichiarazione di dissociazione dal movimento, Eliade non avrebbe poi potuto sostenere la sua totale estraneità alla Guardia di Ferro e al tempo stesso avrebbe tradito N. Ionescu, a cui era intimamente legato. Saggiamente, non firmò.

[6] L'episodio più sgradevole si è verificato nella rinomata intervista concessa a C. H. Rocquet e pubblicata in volume a sé (La prova del labirinto, Jaca Book, Milano 1980; ed. orig. 1978), dove si ripercorrono le vicende della giovinezza di Eliade saltando a piè pari ed elegantemente i cinque anni in questione. Il sortilegio si ripete in occasione della seconda edizione italiana del libro (1990) che si presenta «aggiornata» da un minuzioso profilo biobibliografico, redatto da I. P. Culianu, il noto e sfortunato allievo di Eliade, per il quale gli anni tra il 1935 e il '40 sono tutti dedicati al lavoro scientifico, ai viaggi all'estero e ai corsi universitari.

[7] Fino al 1979 (stando a quanto ci dice il Journal - vol. 3, Gallimard, Paris 1991 - in data 17 agosto) Eliade pare intenzionato a non voler parlare degli anni a ridosso della partenza da Bucarest: gli sembra di aver « già detto tutto » nei meandri del romanzo (La foresta proibita) che ha pubblicato nel lontano 1955. Confusamente muta poi avviso: il secondo volume delle Memorie, rimasto interrotto per la morte dell'autore e uscito postumo, dedica le prime cinquanta pagine agli anni fino ad allora «proibiti». Una metafora in positivo di questo «ritorno di memoria» si può cogliere - ipotizza C. Mutti nei suoi lavori - nel racconto Diciannove rose, uscito in Francia nel 1982 e in Italia (Jaca Book, Milano) nel 1987; che forse - non è un caso - è anche l'esito più debole della narrativa di Eliade.

[8] Eliade, Memorie, II cit., p. 14. Dopo la morte di Ionescu, l'autore prenderà le distanze dagli «eccessi» del movimento legionario, in particolare quelli perpetrati nella notte del 29 novembre 1940 in cui fu trucidato N. Iorga, l'enciclopedico e famoso scrittore e uomo politico che tanto aveva fatto sognare l'«adolescente miope». Crimini che secondo Eliade «annullavano il senso religioso, "sacrificale", delle esecuzioni dei legionari sotto Carol e compromettevano irrimediabilmente la Guardia di Ferro, considerata da quel momento come un movimento terrorista e filonazista» (Memorie, II cit., p. 49: corsivo mio).

[9] Che Eliade sentisse «stretta» l'amata Romania mi pare non ci siano dubbi: a parte la frequenza dei suoi viaggi di studio e lo stimolo intellettuale che ogni volta ne trae, un segno forte è rappresentato dalla scarsa considerazione in cui erano tenute, nell'ambiente accademico rumeno, le sue opere a carattere storico-religioso (l'autore era maggiormente stimato come narratore e viaggiatore). Sulle resistenze incontrate in patria, numerosi sono gli accenni nel Giornale e nelle Memorie, nonostante la reticenza di Eliade a parlare dei rilievi mossi alle sue opere.

[10] «Mi viene in mente con inquietante precisione il momento in cui, mentre portavo con altri tre amici la bara di Nae Ionescu alla tomba, inciampai e con grande sforzo riuscii ad appoggiarmi su un ginocchio fino a che qualcuno si precipitò verso di me e mi aiutò a rialzarmi. Conoscevo la superstizione popolare: chi cade portando un morto alla fossa è destinato a morire nel corso dello stesso anno... » (Memorie, II cit., p. 12).

[11] Ibid, p. 48.

[12] In particolare nel fondamentale Cosmologia e alchimia babilonesi, Sansoni, Firenze 1992 (ed. orig. 1937); ma anche in Fragmentarium, L'Herne, Paris 1989 (ed. orig. 1939).

[13] G. Van der Leeuw, Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino 1960, p. 530 (ed. orig. 1933). Cfr. Anche la recensione di Eliade alla traduzione francese dell'opera, pubblicata su «Critique», n° 39, 1949, e compresa ora nella raccolta Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988 (ed. orig. 1986).

[14] Cfr. la citata intervista di C. H. Rocquet, p. 130. L'omaggio di Propp a Goethe si trova a p. 98 dell'edizione italiana della Morfologia della fiaba (Einaudi, Torino 1966).

[15] Mi riferisco all'edizione (Mohr, Tübingen 1933) utilizzata da Eliade nel Traité, non alla Einfübrung che risale al 1925. Nella ricordata recensione all'ed. francese della Fenomenologia, Eliade avanza qualche riserva sull'uso del concetto di «potenza», che sembra derivare da quello di mana.

[16] Questo ormai famoso assioma si trova a p. XLV della presente edizione.

[17] Cfr. infra, p. 360.

[18] Cfr. infra, p. 423.

[19] Cfr. infra, pp. 107 sg.

[20] M. Eliade, Giornale, Boringhieri, Torino 1976, p. 247 (ed. orig. 1973).

[21] Eliade, La prova del labirinto cit., p. 148.

[22] Eliade, Giornale cit., p. 377.

[23] Cfr. infra, p. 32, nota 39.

[24] È il titolo originale di Le Mythe de l'éternel retour (titolo quest'ultimo imposto da Gallimard).

[25] Si tratta, a mio avviso, dell'episodio più grigio dell'intera vicenda politico-culturale dell'autore: ce ne parla lui stesso - senza un filo di autoironia - nel secondo volume delle Memorie cit. (specialmente pp. 64 sg.). In precedenza, anche questo « particolare » sfuggiva regolarmente ai compilatori delle note biobibliografiche e agli intervistatori. Eppure il libro (Salazar si revolutia in Portugalia) era stato pubblicato dalle edizioni Gorjan di Bucarest nel 1942.

[26] Due segni premonitori: «lascia» a Bucarest l'originale del suo Diario, tenuto ininterrottamente (a quanto ci dice) dal 1928 al 1940, che andrà poi perduto; e rinuncia a partecipare a un facile concorso universitario in cui è in palio una cattedra di Filosofia della cultura, creata apposta per lui da N. I. Herescu.

[27] M. Eliade, Memorie, I: Le promesse dell'equinozio (1907-1937), Jaca Book, Milano 1995, p. 288 (ed. orig. 1980).

[28] I tempi di lavorazione dei Prolegomeni, relativamente agli anni 1945-48, sono puntualmente registrati nel Journal, per cui da questo momento mi limito a segnalare le fasi salienti.

[29] Eliade, Giornale cit., p. 40; Cfr. Anche Memorie, II cit., p. 87.

[30] Le problème du chamanisme («Revue de l'Histoire des Religions», n° 81, 1946) uscì nell'estate del 1947.

[31] Eliade, Giornale cit., p. 67.

[32] D. Dubuisson, Mitologie del XX secolo. Dumézil, Lévi-Strauss, Eliade, Dedalo, Bari 1995, p. 240 (ed. orig. 1993).

[33] E. Leach, recensendo Mefistofele e l'androgino («The New York Review of Books», 20 ottobre 1966), accusa Eliade di essere un erudito piuttosto superficiale e di «rovistare frettolosamente negli schedari » (riportato da Mac Linscott Ricketts, In difesa di Eliade, in « I quaderni di Avallon», n° 13, 1987; ed. orig. 1973).

[34] M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, p. II (ed. orig. 1951).

[35] Ibid., p. 13.

[36] J. Ries, Scienze delle religioni e scienze umane. L'opera di M. Eliade, in « I quaderni di Avallon » cit., p. 120.

[37] Cfr. infra, p. 227.

[38] Sul contenuto di questo annunciato «volume complementare» si veda la lettera del 10 febbraio 1949 a Raffaele Pettazzoni edita da N. Spineto in M. Eliade e R. Pettazzoni, L'Histoire des religions a-t-elle un sens? Correspondance 1926-1959, Cerf, Paris 1994, pp. 200 sg., che riproduciamo tradotta in appendice alla presente edizione, pp. 437 sg.

[39] Mi riferisco alle raccolte Images et symboles (Gallimard, Paris 1952) e Mytbes, réves et mystères (idem, 1957), entrambe tradotte in Italia.

[40] Nel saggio Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni («Società», n° 9, 1953).

[41] Origine e fondazione nella mitologia, in C. G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Einaudi, Torino 1948, p. 18 (ed. orig. 1941).

[42] Eliade, Il mito dell'eterno ritorno, Borla, Bologna 1968, p. 17 (ed. orig. 1949).

[43]  « Il mondo intero era sul punto di trasformarsi e almeno una delle trasformazioni importanti non poteva che rendermi felice (...). L'India si trovava alle soglie dell'indipendenza e, inevitabilmente, l'Asia rientrava nella Storia. Per me, questo avvenimento non aveva soltanto un significato politico. Ben presto sarebbe diventato possibile un nuovo confronto - su un piano di uguaglianza - tra la spiritualità orientale e quella occidentale. Ma il dialogo sarebbe stato possibile solo se la vera spiritualità orientale - cioè, la sua matrice religiosa - fosse stata correttamente conosciuta e compresa in Occidente. La Fenomenologia e la Storia delle religioni, come le praticavo io, mi sembravano essere la preparazione più adeguata a questo dialogo imminente. D'altra parte, il mondo arcaico - i "primitivi" che gli antropologi studiavano da un secolo - non poteva conservare ancora a lungo la sua presentazione coloniale. Ma, per gli occidentali, comprendere la spiritualità arcaica era ancor più difficile, perché ciò presupponeva un minimo di comprensione del pensiero mitico» (Memorie, II cit., pp. 72 sg.; corsivo mio).

[44] Sul filone in questione sono da vedere le sottili - anche se un po' tortuose - ricerche di F. Jesi, a partire da Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del '900, Silva, Milano 1967.

[45] Ristampato in Seelenprobleme der Gegenwart, Rascher, Zúrich 1930 (trad. it. Il problema dell'inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1967, pp. 146-71).

[46] Sulla fragilità non solo terminologica del lessico filosofico eliadiano, cfr. la dura - e fin troppo accalorata - requisitoria di Dubuisson, Mitologie del XX secolo cit., pp. 229-52, che entra pure nel merito del «rapporto» con Heidegger (pp. 279-90).

[47] All'epoca dei Prolegomeni, Eliade utilizza praticamente tutte le opere principali di Lévy-Bruhl, a eccezione dei Carnets (non ancora resi pubblici). Un breve accenno alla «mentalità prelogica» si trova in The History of Religions in Retrospect: 1912-1962, pubblicato sul « Journal of Bible and Religion», n° 31, 1963 (ora in La nostalgia delle origini, Morcelliana, Brescia 1972, p. 29).

[48] Eliade, La prova del labirinto cit., P. 56.

[49] Ibid., pp. 54 sg.

[50] Già A. Brelich, recensendo Images et symboles aveva notato questa «apertura» nel pensiero di Eliade, e aveva anzi aggiunto: «mi sembra che il punto centrale in cui tra le posizioni dell'Eliade e quelle dello storicismo potrebbe instaurarsi un dialogo fecondo, non sia stato sfiorato ancora» (in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», nn. 24-25, 1953-54).

[51] Eliade, Memorie, II cit., p. 103.

[52] «Bachelard aveva letto, con grande interesse, mi disse, il Trattato e ne ha parlato molto nei suoi corsi, in quanto in esso ci sono una quantità di immagini per analizzare il simbolismo della terra, dell'acqua, del sole, della Terra-Madre... » dice Eliade in La prova del labirinto cit., p. 91. Quanto a Ricoeur, filosofo poco amato per il suo freudismo, viene letto con interesse improvviso il 15 ottobre 1959: «Appassionante articolo di Paul Ricoeur: Le symbole donne à penser (« Esprit », luglio-agosto 1959). Ricoeur si chiede come si possa pensare partendo dai simboli religiosi. Trae i suoi esempi dal mio Trattato. La prima loro esegesi è quella da me stesso tentata. Ricoeur, in quanto filosofo, ricorre a un'ermeneutica che, da parte mia, non ho osato impiegare nel Trattato. Dovevo prima di tutto convincere i "dotti" - orientalisti, sociologi, filosofi - che avevo ragione di basare le mie argomentazioni su documenti e non su "speculazioni". In seguito, in alcuni articoli (l'ultimo uscirà questo stesso mese nel volume preparato con Kitagawa per la Chicago University Press, in memoria di Wach), ho tentato di sistemare le mie idee sul simbolo. Ma ancora non ho avuto il tempo di esprimere a mio agio tutto il mio pensiero su questo problema, che è nel contempo la chiave grazie alla quale l'uomo moderno può ancora penetrare il fenomeno religioso. E anche il cammino attraverso il quale si può arrivare a rinnovare la problematica della filosofia contemporanea » (Giornale cit., p. 225). L'articolo che Eliade aveva appena finito di scrivere è Osservazioni sul simbolo religioso, che ora si può leggere nella raccolta Mefistofele e l'androgino cit., pp. 177-99).

[53] Del sussiego e del fastidio con cui Kerényi guardò l'opera di Eliade, colpevole di aver banalizzato i presupposti del suo pensiero, ci parlano A. Magris (in Carlo Kerényi e la ricerca fenomenologica della religione, Mursia, Milano 1975) e F. Jesi (nei saggi su Kerényi in Materiali mitologici, Einaudi, Torino 1979). Lo stesso Eliade ne parla, con un certo imbarazzo (alle pp. 95 e 143 del Giornale cit., e a p. 136 delle Memorie, II cit.).

[54] Secondo Dubuisson (Mitologie del XX secolo cit., p. 220) esiste un velato accenno a Eliade nell'opera di Lévi-Strauss, ma risale a L'Homme nu, che è del 1971. Dice: «Dietro il falso rimprovero [che mi si muove] di avere impoverito i miti, si nasconde un larvato misticismo, alimentato dalla vana speranza che un senso riposto si riveli dietro il significato apparente, un senso che giustifichi o almeno scusi tutte le aspirazioni confuse e nostalgiche che non osano esprimersi direttamente» (L'uomo nudo, Il Saggiatore, Milano 1974, p. 602).

[55] C. Geertz, Religion. Anthropological Study, in Intemational Encyclopaedia of the Social Sciences, MacMillan Press, New York 1968, vol. 13, p. 403.

[56] Con questa dizione si è soliti indicare il gruppo di studiosi d'ispirazione laica che si formò nel dopoguerra dentro o a fianco della rivista fondata da Raffaele Pettazzoni, « Studi e Materiali di Storia delle Religioni».

[57] Il primo scritto di Eliade in Italia (Il male e la liberazione nella filosofia Samkhya-Yoga) comparve su «Ricerche religiose» (n° 6, 1930), la nota rivista diretta da Ernesto Buonaiuti; a questo fece seguito un secondo articolo (Il rituale hindu e la vita interiore, ibid., n° 6, 1932) che il Buonaiuti giudicò «dotto e suggestivo ». Per il resto, il rapporto tra Eliade e il mistico modernista non si spinse mai al di là del reciproco affetto. Più complesso forse il rapporto con Vittorio Macchioro, l'anticrociano interprete dei misteri orfici, che fu tra i primi in Italia a leggere e apprezzare il libro sullo Yoga del '36, senza peraltro poi utilizzarlo (imitato in ciò da Eliade che si innamorò per breve tempo della sua interpretazione dell'orfismo). Di Pettazzoni ed Evola si dirà più avanti: quanto a Tucci - il principe incontrastato degli orientalisti italiani - oltre che a pubblicare sulla sua rivista («Asiatica») due articoli inviatigli da Eliade, ebbe un ruolo decisivo per quanto riguarda l'inserimento dell'autore nel mondo accademico, insieme a Pettazzoni, ma non mi sembra che sul piano scientifico vi sia stato tra i due un grande scambio di idee (è comunque un punto che lascio in sospeso). Con tutti questi studiosi (tranne forse Evola) Eliade era entrato in contatto per sua iniziativa, fin dagli anni venti, creando anche - per eccesso di entusiasmo - qualche incidente «politico», come ci racconta candidamente lui stesso a più riprese; ne fecero le spese i più «esposti» politicamente: Buonaiuti e Macchioro.

[58] In «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n° 21, 1947-48.

[59] Cfr. la lettera del 13 maggio 1952 pubblicata da M. Mincu e R. Scagno nel prezioso Mircea Eliade e l'Italia Jaca Book, Milano 1987, p. 233), dove si possono seguire le fasi del lungo rapporto (1927-56) epistolare e dal vivo con Giovanni Papini, l'autore prediletto dall'«adolescente miope».

[60] La lettera (in francese nell'originale) è stata pubblicata in Francia da N. Spineto (Eliade e Pettazzoni, L'Histoire des religions cit., pp. 197-99) che ha esaurientemente documentato il percorso, anch'esso lungo (1926-59) e curiosamente «liscio», di questo rapporto.

[61] «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n° 22, 1950.

[62] Alle pp. 130 sg. della presente edizione.

[63] Pettazzoni, rec. cit., p. 166.

[64] Ad esempio nell'articolo Manuali di storia delle religioni, redatto per «Numen», n° 1, 1954.

[65] Raccolti, pubblicati e presentati da A. Brelich nel n° 31 (1960) di «Studi e Materiali di Storia delle Religioni».

[66] Per maggiori informazioni cfr. E. de Martino e C. Pavese, La collana viola, a cura di P. Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

[67] Ibid., p. 131. Ma cfr. Anche la lettera del 30 aprile 1949.

[68] V. Vacca aveva già tradotto parte delle Mille e una notte per la collana dei « Millenni » (1948) e tradurrà anche la Fenomenologia della religione di G. Van der Leeuw (Boringhieri, Torino 1960).

[69] Questo a partire dal 1976, da quando cioè il volume è entrato a far parte della «Universale Scientifica ». Viene ripristinata, insieme alla disprezzata prefazione di Dumézil, in appendice alla presente edizione (cfr. rispettivamente pp. 439-42 e 429-35)

[70] Scarsissimi e ininfluenti (prefazione a parte) i riferimenti al Trattato, forse l'opera di Eliade meno citata da de Martino: per la valutazione dell'insieme rimando invece al mio contributo apparso in Ernesto de Martino nella cultura europea, a cura di C. Gallini e M. Massenzio, Liguori, Napoli 1997, intitolato appunto Il rapporto tra E. de Martino e M. Eliade.

[71] E. de Martino, La fine del mondo, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977, p. 247.

[72] Nella Grande festa, che è del '59, Lanternari scrive tra l'altro, con esplicito riferimento al Trattato (oltre che al Mito dell'eterno ritorno): « (...) la rifondazione religiosa del ciclo vitale (che non è una rigenerazione "paradisiaca", essendo legata a prementi esigenze esistenziali) ha una sua precisa funzionalità, in quanto vale a riaprire il corso normale della vita profana. Pertanto è in funzione della vita profana che va vista operare la festa, con la sua provvisoria evasione dal mondo. L'errore dell'Eliade sta in ciò, che sottovalutando l'immensa portata positiva, il fecondo valore storico-dinamico del momento profano entro le civiltà religiose, egli finisce precisamente con l'invertire i reali rapporti esistenti fra sacro e profano all'interno di ciascuna cultura» (La grande festa, Dedalo, Bari 1976, 2ª ed., p. 541). Sul preteso barrage operato da de Martino e da Lanternari nei confronti di Eliade, è intervenuto V. Bottone con «Verità» del mito, «verità» della storia: l'etnologia storicistica italiana e la fenomenologia religiosa di M. Eliade, in «Prospettive Settanta», n° 2, 1982.

[73] La storia del dibattito è stata riassunta da A. di Nola in Mircea Eliade tra scienza delle religioni e ideologia «guardista», in «Marxismo oggi», nn. 5-6, 1989, dove il lettore troverà le indicazioni bibliografiche essenziali. Naturalmente, il Trattato è stato raramente preso in considerazione, nella foga degli interventi; comunque sono da segnalare: I. P. Culianu, Mircea Eliade, Cittadella Editrice, Assisi 1978 (che ha in certo modo provocato il dibattito, più con i suoi silenzi che con la ricostruzione - peraltro buona - dell'apparato teorico); F. Jesi, Cultura di destra e religione della morte, in «Comunità», n° 179, 1978; R. Scagno, Libertà e terrore della storia. Genesi e significato dell'antistoricismo di M. Eliade, Print Centro Copyrid, Torino 1982; C. Fiore, Storia sacra e storia profana in Mircea Eliade, Bulzoni, Roma 1986.

[74] Per di Nola il Trattato, a differenza delle opere di Eliade sullo Yoga e sullo sciamanismo, resta al di fuori della storia delle religioni: «inesorabilmente distante da ogni criterio metodologico proprio della storia delle religioni [il Trattato], resta un esempio di letteratura fenomenologica aggravata dagli intenti mistico-missionari ricordati» (Mircea Eliade cit., p. 71).

[75] Il brano è il seguente: «Sfoglio oggi il mio Trattato di storia delle religioni soffermandomi soprattutto sul lungo capitolo sugli dei del cielo; mi chiedo se il messaggio segreto del libro sia stato capito, la "teologia" implicata nella storia delle religioni così come viene da me decifrata e interpretata. Nondimeno il senso ne risulta abbastanza chiaro: i miti e le "religioni", in tutta la loro varietà, sono il risultato del vuoto lasciato nel mondo per essersi Dio ritirato, trasformato in deus otiosus e scomparso, dall'attualità religiosa. (...) Si sarà capito che la "vera" religione inizia solo dopo che Dio si è ritirato dal mondo? » (Eliade, Giornale cit., p. 230). Ora, mi sembra che Jesi interpreti quel «vera» nel significato di «autentica» (in ciò ingannato dall'uso che spesso ne fa Eliade). Invece è proprio il contrario: l'autore intende dire «la religione come noi l'intendiamo», basata sul culto, su quell'insieme organizzato di credenze e di pratiche che siamo soliti definire religione tout court, e che effettivamente «inizia» dopo che il dio creatore si è allontanato dal mondo e l'attenzione si sposta dal passato mitico al presente regolato dal regime dei riti, e cioè sul culto di esseri soprannaturali esistenti nel presente. Eliade, in questa nota di diario, non fa che ribadire la natura del suo trattato, che non è una storia delle religioni, ma una «storia del sacro»: del sacro che fonda, non il sacro che si «depaupera» nelle religioni storiche.

[76] Mi riferisco ad alcuni interventi (di P. Pisi, di A. Faivre, di I. Chirassi Colombo, ecc.) che hanno vivificato il Convegno di Bergamo del 1996 e che ora si possono leggere nel volume Confronto con Mircea Eliade a cura di L. Arcella, P. Pisi e R. Scagno, (Jaca Book, Milano 1998).

 

Da: http://gianobifronte.it/2_ARGOMENTI/2o_religioni/2o7_e_dintorni/a1_06_
trattato_di%20_storia_delle_religioni.htm

 

 

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