in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Pagine dal Diario indiano

di Mircea Eliade

tratte da India, Torino, Bollati Boringhieri, 1991
[Bucuresti, Editura Cugetarea, 1934, 1935, Paris, Editions de l'Herne, 1988]

 

Riproduciamo di seguito alcuni brani dal libro in cui il grande storico delle religioni M. Eliade (1907-1986) ha pubblicato parte del suo diario risalente al soggiorno in India, avvenuto fra il 1928 e il 1931.

Swarga-Ashram

Sulla riva sinistra del Gange, a due miglia da Rishikesh, si trova un ashram senza pari, che accoglie il fiume carico del gelo dei ghiacciai, ancora schiumante dopo aver superato le gole di Lakshmanjula. All'inizio si scorge soltanto il tempio bianco, santuario di Shiva, e alcune casette nascoste tra gli alberi. Qui il Gange si allarga tra il fianco della montagna invaso dalla giungla sulla riva destra e, sulla riva sinistra, un greto di sabbia argentea dove passeggiano gli eremiti all'imbrunire. Due barche assicurano la traversata verso l'ashram e il ritorno.

I traghettatori sono due robusti montanari, pii e lavoratori; non accettano mance perché sono pagati dal mahant (il superiore dell'ashram). Quando tutte e due le barche si trovano sull'altra riva, bisogna gridare forte per chiamare i barcaioli.

I raggi cadono perpendicolari sui flutti. Montagne da una parte e dall'altra. Il Gange scorre, mentre la stessa vita calma, monotona, concentrata dei monasteri indiani fluisce a Swarga-Ashram. L'acqua si calma formando piccoli laghi tranquilli tra enormi rocce nere. La spiaggia è orlata di una duna di cactus, poi è la foresta, striata di liane legnose, alcune elastiche, altre rigide e spinose; e la prodigiosa vegetazione della giungla -muschio e cespugli, arbusti e cordami verdi che si dondolano al vento. Le liane s'incrociano e si mescolano ovunque, benché i monaci le taglino per liberare i sentieri, e gli abitanti di Lakshmanjula vengano a raccoglierle ogni autunno per il fuoco. La foresta non è vecchia, è piuttosto l'avanguardia della giungla che scende dalla montagna, ma è fitta, piena di scoiattoli, di serpenti, di pavoni e gatti selvatici. In autunno, quando si prosciugano le sorgenti e la vegetazione della giungla s'impoverisce, gli sciacalli si spingono in cerca di cibo fin quasi all'eremitaggio. La notte sento le loro urla sinistre e solitarie, e più l'autunno avanza, più si avvicinano. Le grotte dei dintomi nascondono spesso tigri e pantere scese dal monte Pauri. Vanno di notte ad abbeverarsi nel Gange: creature di luce sotto i raggi lunari, signori imperturbabili in questa contrada dove nessuno uccide.

... Scendo a Swarga-Ashram alla ricerca di uno swami di cui ho inteso parlare sin da Delhi: swami Shivananda, che si è ritirato qui da sette anni. Chiedo di lui in una farmacia ayurvedica, dove un vecchio si offre di portarmici. Questi è un ometto alla soglia della rinuncia, venuto a cercare il luogo dell'"ultima meditazione". Ha deciso di abbandonare famiglia, figli, affari, per i quali ha sprecato la vita in una vana fatica e in neri peccati. Si confessa con una stupefacente spontaneità, e conclude asserendo che la vita familiare e una mistificazione, la società una fonte di peccati, non rinunciando a illustrarmi il suo pessimismo con deliziosi episodi personali. Da giovane, ha viaggiato molto in Persia, in Afghanistan e in Arabia, adottando dovunque le abitudini locali: ha mangiato carne di montone, si è ubriacato ed e andato a letto con tre donne in una stessa notte secondo il costume arabo. Ha conosciuto a Bassora delle prostitute romene e il passato, risuscitato nella sua anima pentita, gli strappa le lacrime. Siamo costretti a fermarci finché non cessi di piovere. Una schiera di scimmie scende dagli alberi e ci circonda, credendo che ci siamo fermati per distribuir loro noccioline...

Troviamo swami Shivananda nella sua kutiya sulla riva del Gange, in compagnia di un uomo imponente dallo sguardo ardente, il cui volto mi ricorda quello di Rudolf Steiner- è swami Advaitananda. Quest'ultimo, dottore in legge a Londra, ha percorso in lungo e in largo l'Europa, ha letto molto, e aveva un'invidiabile posizione sociale quando ha abbandonato tutto per consacrare il resto della sua vita alla meditazione nelle solitudini himalayane. Swami Shivananda, uomo del sud, è alto, con spalle larghe, molto scuro di pelle e felice come un francescano; segue il sadhana vedantico e ride spesso; si era conquistato l'amicizia dei notabili europei di Singapore dove ha praticato la medicina per dieci anni. Aveva trentacinque anni quando ha perduto la moglie e un figlio -allora ha lasciato tutto ed è partito a piedi da Singapore verso lo Himalaya, dormendo ai margini della strada, mangiando dove capitava, mendicando di porta in porta. È stato malato per due anni -reumatismo e malaria- ma è guarito grazie allo yoga. Oggi è felice, non esistendo per lui né dolore, né morte, né separazione, giacché il dualismo è apparente e la sola realtà è il Brahman-Atman, unico e identico nell'uomo e nel Cosmo. Il vecchio motivo delle Upanishad, sorprendente però quando lo si incontra realizzato e messo a frutto in un uomo di scienza del xx secolo.

Il terzo swami, dal passato sociale glorioso, è swami Narayan, che occupa una kutiya di pietra bianca, proprio accanto al tempio. Era giudice a Gwalior e, cinque anni prima di andare in pensione -che avrebbe dovuto rendergli parecchie rupie al mese- ha rinunciato a tutto per venire a Rishikesh. Da allora, tranne un perizoma, non porta più vestiti e, malgrado le gelate di gennaio, si è recato in questo modo sino a Badrinath, nella regione delle nevi perenni. Dorme sul legno, si desta prima dell'alba e si bagna nel Gange, poi sprofonda nel sadhana.

Nessuno conosce la via scelta da swami Narayan, perché è vincolato al giuramento del silenzio, e la sola parola che pronuncia è il mantra "Om!", saluto che rivolge a chiunque, salutando, con questo, Dio, che ravvisa in ognuno.

Swami Advaitananda è contento d'incontrarmi, di potermi esporre un parallelo molto astuto tra Bergson e Bradley da una parte, e Shankara, il maestro del vedanta, dall'altra. Conosce all'incirca tutta la filosofia moderna che legge in traduzione inglese e disprezza le pratiche devote che assorbono la maggior parte degli eremiti, considerando che la sola conoscenza metafisica, reale, effettiva, basta alla salvezza dell'uomo.

Swami Shivananda mi offre dei frutti in un piatto di alluminio. La sua kutiya: una celletta in mezzo al giardino, un letto, uno scaffale con dei recipienti, alcune pelli di leopardo e di tigre, due casse di libri. Per quanto semplice e piatta sia la conversazione, un'indiscutibile forza traspare dalle parole dello swami, una nobiltà spirituale che si manifesta in tutti i suoi slanci, in tutti i suoi consigli. È una specie di magnetismo, una magia, perché gli occhi dello yogin acquistano un luccichio metallico, ipnotico, uno sguardo che non si può situare, ma che si avverte statico, dominante, freddo. Come tutti a Swarga-Ashram, lo swami disprezza i "poteri" degli yogin, queste esibizioni incerte e occulte così discusse nel superstizioso Occidente. Il loro yoga è una disciplina personale, una cura del corpo, rende fluido il flusso mentale, è l'assistente immacolato e potente negli esercizi di concentrazione, nella meditazione e nel samadhi. E meglio è realizzata la disciplina, più il discepolo diviene silenzioso e solitario. Finalmente, dopo anni di pratica, il sadhana esige che egli lasci la società -e allora l'eremita si ritira nel Tibet. Lassù le grotte sono piene di monaci che si nutrono di radici e passano le loro giornate in una meditazione incomunicabile, che può essere una semplice perdita dei sensi (come piace credere agli europei), una specie di estasi statica, di possessione merafisica -contemplazioni andate perdute in Europa al tempo degli alessandrini. (1)

Swami Purnananda di Rishikesh non dorme mai. Durante la notte lavora, pensa, mentre il giorno insegna il sanscrito e la filosofia religiosa ai suoi discepoli. Da mezzanotte fino al sorgere del giorno, mantiene un bizzarro stato di sonno yogico, durante il quale -si dice- possiede qualità profetiche, doni di chiaroveggenza e udito a distanza -ma non potrei confermarlo. In ogni modo lo stato di trance dura soltanto due ore e, a giudicare dal ritmo respiratorio, stenterei a credere che dorma.

Perdipiù, al suo risveglio, lo swami sembra aver risolto dei problemi filosofici, o ancora semplici questioni quotidiane. IL risveglio è annunciato dalle campane che si sentono per tutta la lunghezza della riva del Gange alle tre del mattino. Sono le campane dei templi e dei santuari -segnale della veglia e della meditazione. Si dice che a quest'ora, in cui ogni essere è addormentato, Krishna discenda dai cieli per distribuire elemosine ai poveri, consolare gli afflitti e proteggere i deboli. Nel resto del tempo, uomini e dei si occupano della terra, ma alle tre del mattino il sonno li avvolge tutti. Ecco perché Krishna, invisibile e umile, discende donando ai poveri.

La preghiera e la meditazione dell'alba dei monaci -poveri del Signore- è benedetta...

... Il mio primo tramonto a Swarga-Ashram, mentre mi dirigo in compagnia del mio swamiji verso la dimora del superiore. Il Gange è rosso sangue, le montagne sembrano di porpora, uno strano chiarore si propaga su questa vallata himalayana fuori dal mondo.

Ho deciso di passare l'inverno in questo eremitaggio e devo chiedere l'autorizzazione al mahant. Me l'accorda di buon grado, senza farmi domande sulla mia religione, sulla mia nazionalità o sul denaro di cui dispongo. Devo comunque rispettare le regole del romitorio: lasciare i miei abiti europei per una veste gialla o per due pezzi di stoffa bianca (segni dello studente, il brahmacharin), calzare sandali ed essere vegetariano. Obbedisco con gioia: ne ho abbastanza di quei vestiti che attirano l'attenzione, abbastanza di queste calzature che devo togliermi ad ogni porta, rimettermi per traversare la corte, togliermi di nuovo sul limitare del santuario...

L'indomani faccio venire i miei bagagli da Rishikesh, spazzo la kutiya che il mahant mi ha messo a disposizione -una celletta solitaria con la soglia di cemento all'ombra dell'"albero di Shiva", con un letto e una lampada-, metto a posto i miei abiti che per molto tempo non mi serviranno e, avvolto nelle due strisce di tessuto bianco, scendo a bagnarmi nel Gange. Una ventina di passi tra le rocce, ed ecco il fiume che scorre con le sue acque verdi e fredde, ancora impregnate dell'asprezza delle nevi...

... Sono passati due mesi da quando ho deciso di fermarmi e molte cose ho imparato, molte più di quelle scritte in questo memoriale, ma non ho incontrato nessuno che mi abbia saputo dire dove si trovi Agartha...

 


La vita degli eremiti a Swarga-Ashram

... Le campane suonano per la seconda volta. È mattina, ma non si vede ancora il sole, perché sorge dall'altra parte delle montagne. Cornacchie e pavoni; un crocidare monotono, e questo grido acuto, metallico, penetrante dei pavoni selvaggi. La giungla è fresca dopo il vento della notte. Il Gange esala lo stesso profumo intenso di neve sciolta.

Vestiti dei loro abiti arancioni, gli eremiti scendono sul greto per il bagno mattutino. Si immergono completamente più volte, tappandosi con le dita orecchie e narici e ripetendo dei mantra. Dopo di che si lavano le vesti, le stendono sulle rocce ad asciugare e si ritirano nella loro kutiya. Ricompaiono di nuovo quando si sente il martellare della khetra: scalzi o con sandali di legno, la ciotola di rame del mendicante in mano, scendono i sentieri elemosinando cibo. Mangiano con le dita, come ogni indiano, senza parlare, servendosi solo della mano destra, perché il nutrimento è un'offerta del corpo degli dei e il pasto è soprattutto un rituale. Il braccio sinistro poggia col gomito sul pavimento, e sarebbe una grave indelicatezza, in tutta l'India, se un ospite toccasse qualsiasi cosa con la mano sinistra durante il pranzo. Ciò che resta è gettato via o dato alle vacche; nessuno può toccare gli avanzi. Non appena il pranzo finisce, gli eremiti si avviano verso la spiaggia per lavarsi il viso, la bocca e le mani. Non c'è popolo più pulito degli indiani. Il bagno quotidiano viene considerato, più che necessario, indispensabile. La maggior parte fa ogni giorno due bagni completi. Prima e dopo il pasto, si lavano accuratamente le mani e il viso, e dopo ogni atto impuro, quale che ne sia la natura, ripetono le abluzioni mattutine. Certamente fra gli ortodossi ce ne sono di quelli che, esagerando, fanno il bagno e si cambiano d'abito dopo la visita di ogni straniero, e che non accettano di mangiare se non insieme a individui della stessa casta. Se, per strada, l'ombra di uno shudra li sfiora, fanno dietrofront e vanno a bagnarsi ritenendosi impuri...

Swarga-Ashram ricorda il motto del monastero di Rabelais: "Fai ciò che vuoi". Non sono neppure obbligatori i servizi religiosi del tempio di Shiva, dove ogni sera s'intrecciano ghirlande di fiori rossi. Più di centotrenta sadhu vi abitano, ma al tempio non ne vengono mai più di due o tre. Nulla è imposto a chi ha definitivamente rinunciato ai doveri e alle gioie di questo mondo. IL loro Dio è uno e unico ma ciascuno lo chiama come crede: alcuni Narayana, altri Shiva, altri ancora Shankara, e alcuni sadhu si appagano di quel mantra divino che e "Om!", simbolo dell'impronunciabile presenza del divino in tutto. Quando si incontrano il loro saluto e lo stesso: "Om! namo Narayanaya!" ("Orn! rispetto a Narayana!"). Ma se vengono a sapere che qualcuno adora Dio sotto il nome di Shankara, gli altri sadhu, quando lo incrociano, lo salutano pronunciando; "Shankara! Shankara!"

Il mio vicino è un naga (asceta nudo) del Panjab, giovane, bello e pio. Non conosce né teologia, né etica, né metafisica, come d'altronde ignora il sanscrito, ma mi dice che Dio sarebbe davvero meschino se si rivelasse solo ai sanscritisti. Il mio naga non pratica un'ascesi violenta, si contenta di una semplicità naturale e trascorre le giornate a leggere l'immenso Bhagavatapurana e a pronunciare una stessa parola: "Shankara". Quando lo interrogo sulla salvezza della sua anima, mi risponde che basta per questo pronunciare il nome divino. La notte, tuttavia, pratica il pranayama (yoga del respiro), e spesso mi ha invitato nella sua capanna allo spuntar delle stelle per iniziarmi a questa tecnica che prolunga la coscienza nel sonno -un sonno senza sogni- e persino nella catalessi. Il suo è il ben noto metodo della scuola dello hathayoga, così come viene praticata nello Himalaya e nel Tibet. Si tappa le orecchie con la cera e adotta una posizione stabile (asana), le gambe incrociate, la schiena perpendicolare (in modo che i plessi, sacro, prostatico, solare, cardiaco, faringeo e cavernoso coincidano su una stessa linea mediana che comincia dal muladharachakra e termina nel sahasrarachakra), le mani in equilibrio sui ginocchi, gli occhi chiusi, mentre si concentra sul "plesso sottile" (ajnachakra) situato tra i sopraccigli. Dopo aver ottenuto la concentrazione necessaria (pratyahara, vale a dire l'annullamento delle attività sensoriali periferiche), la satura ripetendo mentalmente il mantra "Om", poi rallenta a poco a poco il ritmo respiratorio distanziando sempre più le inspirazioni, fino ad arrivare a una inspirazione ogni quattro secondi. Il corpo acquista un'immobilità rigida, talvolta catalettica, e si può costatare dal suo ritmo respiratorio che l'asceta dorme, nel senso che tutte le sue attività sensoriali e mentali sono sospese. In questa condizione, liberato dagli ostacoli della vigile coscienza diurna, il naga esplora la zona inaccessibile del sonno. D'altronde, la pratica del pranayama non ha altro senso se non quello di spostare la coscienza della veglia in zone che normalmente appartengono all'inconscio... Quando lascio la capanna, egli conserva la stessa immobilità statuaria: non un muscolo facciale si muove, e si può seguire con precisione le tappe della sua respirazione ritmica -prima il gonfiarsi della parte inferiore dei polmoni per il ritirarsi del diaframma, poi della parte mediana per il sollevamento dello sterno, e infine della parte superiore attraverso l'incurvatura dell'arco toracico, come stabilisce ogni trattato di hathayoga.

... La libertà degli eremiti non concerne solo le pratiche religiose, ma anche la loro condotta personale. Ciascuno può fare ciò che vuole, prega quando gli va e rispetta le credenze di chiunque. Nessuno manifesta quell'atteggiamento rigido degli occidentali, che credono di essere i soli ad aver trovato il vero Dio e pensano che tutti gli altri siano degli eretici. Nessuno tenta di convertirti (questo pregiudizio semita del monoteista intollerante e proselita). Le loro conversazioni vertono sul Brahman, Dio uno, immanente in tutta la creazione e che tuttavia la trascende, perché è immutabile, non qualificato e non deducibile attraverso relazioni. I loro testi sacri: la Bhagavadgita, le Upanishad, l'Imitazione di Cristo, i Brahmasutra, col commento di Shankara, e gli Yogasutra di Patanjali. Ma non leggono soltanto; meditano e mettono in pratica la spiritualità rivelata in questi libri. Gran parte del loro tempo la passano nella loro kutiya a pregare; la preghiera non è tuttavia sempre religiosa nel senso cristiano del termine, ma piuttosto un esercizio spirituale di purificazione interiore, un'"atletica" metafisica. Anche se non tutti sono filosofi, tutti pensano col loro cervello. Il loro pensiero e talora monotono, mediocre e poco immaginativo, improntato alla Gita e alla letteratura popolare religiosa, ed esprime fino alla sazietà quello stesso e sempre ricorrente motivo dell'identità profonda tra Atman e Brahman. Le conversazioni con questi sadhu sono sterili e stancanti, ma nessuno può dire fino a che punto abbiano portato a compimento quella banale verità, fino a che punto il loro "dogma" resti una semplice e vacua formulazione.

In ogni caso, sono particolarmente sorprendenti la loro indiscussa sincerità e la loro totale tolleranza per qualsiasi fede, da qualunque parte provenga. Le si riscontrano persino nei sadhu più mediocri, sempre ansiosi di sentir parlare di Gesù Cristo, di san Francesco, di Kabir, di Guru Nanak e di qualsiasi altro guru inviato da Dio. Da quando mi sono stabilito all'ashram, sono venuti a farmi domande sul cristianesimo e hanno tanto amato le storie di fra Lorenzo (nei Fioretti francescani) e alcune delle pie leggende medievali che mi hanno pregato di ripeterle ogni giorno. Tutti considerano Gesù come il figlio di Dio e lo chiamano Lord Jesus alla maniera dei missionari. Ciò non impedisce assolutamente di considerare Buddha, Krishna e altri, uguali a Cristo. Non possono accettare limiti o zone geografiche al manifestarsi della divinità. Il loro spirito panteista è evidente sino nelle più semplici affermazioni metafisiche. E i risultati sono toccanti. Un vecchio sadhu, maestro insuperabile nel parlare sanscrito, mi ha abbracciato al nostro primo incontro e si è messo a piangere dicendomi: "Siamo tutti Uno!" Si sono liberati dell'insopportabile curiosità degli europei, e nessuno finora mi ha chiesto se fossi protestante, anglicano, cattolico o ortodosso. Un giorno ho messo alla prova uno swami domandandogli se era necessario iniziarsi all'induismo per conoscere Dio. Questa domanda l'ha fortemente sorpreso e mi ha risposto che nessuna conversione era necessaria, che se io amavo l'induismo potevo accettarne gli ideali: ecco tutto. Nondimeno ha aggiunto che se il mio amore dell'induismo era sincero, questo proverebbe solo una cosa: che ero stato un indiano in una mia precedente esistenza.

Dicono "noi tutti siamo Uno" e, ciò che è importante, non cessano di mettere in pratica questa affermazione. Si aiutano l'un l'altro, si privano della loro personalità davanti agli amici e praticano la seva (servizio). Un certo swami alla soglia della vecchiaia è celebre per il suo comportamento. Non lavora mai per sé, benché sgobbi come un bracciante di notte e di giorno. Pulisce le kutiya dei suoi vicini, lava la biancheria per i malati, fa il te per tutti, accende le lampade, è il messaggero di ciascuno, ed è di una modestia e di una umiltà francescana. Alcuni giorni dopo il mio arrivo all'ashram, è venuto a piantare un cespo di fiori sotto la mia finestra, perché ogni mattino, al mio risveglio, mi rallegrassi gli occhi.

Un giorno ho accompagnato a Brahmapuri, ad alcune miglia nella giungla, a monte del Gange, una miss venuta a visitare Swarga-Ashram. Vi si trovano numerose grotte e una era il riparo di un sadhu del Malabar, di cui non si sapeva che cosa ammirare di più: la scienza o la santità. Ci siamo seduti sulla sabbia fredda della grotta e, benché fossimo venuti a imparare da lui, è lui che si è messo a fare domande a noi. Ci ha mostrato le Confessioni di Agostino chiedendo a questa miss se avesse letto l'Imitazione di Cristo. Alla sua risposta negativa, le ha consigliato con dolcezza : "La legga, perché è uno dei più grandi libri che siano mai stati scritti su questa terra". Allora sono arrossito ancora una volta per la vanità e i peccati degli europei venuti a convertire l'Asia.

 


A colloquio con Shrimati Devi

In India ogni donna è una Devi, una dea. Quando ci si rivolge a una donna sposata o a una ragazza, quali che ne siano il rango o l'età, non si pronuncia mai il nome della famiglia -si aggiunge Devi dopo il suo nome. Così, Indira Sen diviene Indira Devi; Kamala Chatterji, Kamala Devi.

Questo particolare è significativo. L'India non ravvisa nella donna né la vergine né l'amante. L'India vede unicamente la dea, il sacrificio creatore, la madre. Accanto alla maternità ogni altra virtù femminile impallidisce. Ogni donna e adorata perché è o diventerà madre. Ecco perché, quando si conosce troppo bene una donna per poterla ancora chiamare Devi, la si chiama madre. Anche se si tratta soltanto di una giovane contadina o di una studentessa adolescente.

Sulla donna asiatica, e particolarmente su quella indiana, si sono dette e scritte una quantità di sciocchezze. Pittoresche e verosimili, sono state credute per il solo fatto che lusingavano la nostra immaginazione e i nostri pregiudizi di occidentali civilizzati. Ascoltate ora ciò che mi ha detto un'indiana. Trascrivo i frammenti di quanto ho udito un po' di tempo fa, una sera di febbraio, su una terrazza di Bhoswanipur.

- Le nostre sorelle d'Europa e d'America sono abituate a compiangerci. Credono che le donne indiane siano asservite negli harem, prive di qualsiasi distrazione e libertà, desiderose di affrancarsi. È vero che esistono casi del genere, ma non appartengono alla società indù. In realtà le europee vedono nella nostra vita un'esistenza priva di romanticismo, di avventura e d'imprevisto. E ne concludono che siamo infelici. Ora, davvero ci sentiremmo infelici, afflitte, violentate, se dovessimo condurre la loro vita, nella libertà degli istinti e nella confusione sociale. In primo luogo, la libertà non ci interessa.

È un'illusione della quale ognuno si libererà prima o poi. La nostra vita è determinata dalla sorte, dal karman, e ogni evasione non fa che stringere ancora di più la catena del destino. D'altronde il romanticismo non ci sembra indispensabile alla felicità. Per noi la felicità non è un capriccio, un momento passeggero e irresponsabile, né una qualunque fatuità passionale o sentimentale. Questo genere di passioni lo chiamiamo moha, ma non e la felicità. Non so se può comprendere, ma, per un'indiana, la felicità non risiede mai nell'iniziativa, bensì nell'istituzione, il che significa consacrarsi totalmente a un ideale antico di migliaia di anni: l'ideale della famiglia e dell'educazione dei figli. La beatitudine e la liberazione finale esistono in quanto rinunciamo agli effimeri capricci passionali -nulla più che affanni- per cercare di raggiungere la perfezione delle nostre madri.

E poi non siamo sole: portiamo in noi l'esperienza millenaria della castità, della fierezza materna, della dignità e dell'eroismo. In ogni rituale religioso comunichiamo con l'immagine delle nostre antenate. Né ci separiamo mai dalle nostre madri...

Le nostre sorelle europee asseriscono che noi conduciamo una vita monotona e che siamo schiave. Ora lei è qui da abbastanza tempo per aver potuto costatare che non è assolutamente una questione di schiavitù. La sposa è la padrona della casa, salvo il caso in cui sia ancora viva la madre del marito. La sposa tiene la contabilità, decide gli acquisti e dirige tutto. Se non si vedono donne per strada, questo non significa affatto che non possono uscire, ma che non vogliono, perché la strada non le interessa, perché non hanno tempo da perdere. Avrà potuto ugualmente notare che la "casa", in India, è assai diversa da quelle che si trovano altrove. Anzitutto, essa conta tra i dieci e i trenta membri. Poi, la responsabilità del suo buon andamento spetta alla sposa. Il più grande piacere che lei possa fare a un'indiana è di chiederle di servirla: di prepararle da mangiare, di bollirle del latte, di pulirle la camera. Noi ignoriamo l'aristocrazia della pigrizia. Siamo felici quando possiamo lavare e fare pulizia in tutta la casa. Seva (servizio), ecco l'ideale dell'indiana. Ma, ripeto, è una cosa che amiamo, senza bisogno che ci venga imposta. Abbiamo tanti domestici che, se volessimo vivere pigramente, non per questo la casa sarebbe meno pulita.

Solo al cinema la vita delle europee ci entusiasma. Per questo le sale del quartiere sono piene di indiane. Se esse trovano cosi buffe le europee e perché queste si danno ad attività maschili. A casa ci divertiamo a imitare gli uomini, a scimmiottarne l'aria di superiorità. Ma, da quando c'è il cinema, ci divertiamo di più a guardare le attrici bianche.

Spesso i film ci fanno scoppiare a ridere, a volte anche davanti a un avvenimento tragico, e allora i nostri mariti ci rimproverano. È ammirevole essere una donna europea, ma come fanno a sopportare una comicità cosi prolungata? Noi moriremmo di noia. Esse vedono tanta di quella gente che non hanno il tempo di riflettere su di essa, né di imparare quale sia il caso di evitare e quale no. La loro vita è molto monotona. Un giorno sono andata con diverse famiglie indiane a un garden-party e abbiamo ascoltato del jazz. Ebbene, non avevo mai ascoltato niente di cosi noioso e rumoroso. E tuttavia pare che il jazz esalti le donne bianche. Strano.

... Non può ignorare quanto sia pittoresca la vita di una sposa indiana. Soprattutto quanto sia piena. Vediamo poco i nostri mariti, ma tutto quello che facciamo lo facciamo pensando a loro. Per questo ci sentite sempre cantare. Non stanchiamo mai il marito con la nostra presenza, lasciamo che sia lui a desiderarla e a cercarla. Vede, noi non ci sposiamo per amore, amiamo solo dopo esserci sposate. Amiamo nostro marito perché è lo sposo che ci era destinato. D'altronde ognuno sa che nella vita ci sono tre atti capitali nei quali non si può intervenire; la nascita, il matrimonio e la morte. Nasciamo, ci sposiamo, moriamo conformemente al karman. Per questa ragione, il nostro sposo è veramente nostro, da migliaia di anni, attraverso tante e tante trasmigrazioni. Questo è il fatto essenziale: altre esperienze sono superflue. Ciò spiega perché in India ci siano così pochi matrimoni infelici, e praticamente non esista divorzio.

... Ogni indiana sogna d'imitare una delle eroine del Mahabharata o del Rarvayana. Ognuna ambisce a divenire una dea. Con tali vertici davanti a noi, cosa ce ne faremmo della capricciosa libertà delle nostre sorelle europee? La getteremmo al vento come fiori di loto sul fiume, senza per questo abbandonare l'altare eretto a riva. Perché, vede, non esiste felicità passeggera, non c'è beatitudine che nell'eternità. Il resto è cinema e jazz...

 


Discussione con un nazionalista indiano

Il 22 aprile 1930, mi è accaduto un fatto che racconto qui non perché sia unico o più crudele di altri nella storia della rivolta civile indiana, ma semplicemente perché è successo proprio a me. Attraverso giornali e libri, o per sentito dire, avevo saputo, come chiunque altro, le decine dei fatti più gravi e atroci. Ma veniamo a quello di cui sono stato testimone. Mi trovavo nell'ottima libreria sanscrita al numero 4 di College Square, nei pressi dell'università, di fronte a un parco rallegrato da un lago e da alcune palme, come ce ne sono almeno due dozzine a Calcutta. Ero felice perché il ventilatore mi isolava dal caldo esterno, perché sfogliavo libri preziosi, ed ero orgoglioso come qualsiasi bianco che studi la filosofia indiana, con la speranza di divenire un giorno saggio.

Non avevo fatto molto caso alla folla ammassata nel parco e nelle strade. Una riunione politica. Si sarebbero fatti gli stessi discorsi e nuovi cortei di studenti e studentesse avrebbero invitato al boicottaggio delle merci britanniche. Si era nel pieno della campagna di disubbidienza civile. Niente di nuovo per me. Avevo già assistito a molti arresti e, siccome ero un bianco, avevo spesso incrociato sguardi carichi d'odio. Molto bene, mi ero detto, avviandomi in fretta verso la libreria. Alla fine di aprile -da non dimenticare- il caldo è soffocante, spossante. In strada non si riesce neppure a pensate. Solo sotto le pale di un ventilatore che smuove l'aria è possibile. Fuori, un deserto esasperato dal rumore e dai clacson, un deserto dove non si scorge presenza umana, benché si sia urtati di continuo da persone vive e vegete. Una volta messo il casco di sughero e aver chiuso la porta dietro di sé, uno sa solo il numero del tramway che deve prendere e la fermata dove scendere. Da Bhoswanipur, dove abitavo, a College Square, si deve attraversare metà città- circa un'ora di tramway fra coincidenze e attese. Era già molto se mi ricordavo chi fossi: in simili condizioni la mente è incapace di uno sforzo che vada più in la del semplice ricordo. Ma dopo un certo tempo anche il ricordo si affievolisce; non resta che la molle fiacchezza del corpo, le delizie del riposo, e l'animale ben nutrito, col suo casco coloniale e gli occhiali scuri, che avanza per inerzia in una pesantezza soffocante.

Mi attardavo nella libreria, sempre più incantato dalla mia intelligenza e dal mio sapere. Improvvisamente gli slogan si spensero nel parco, e al loro posto si levarono grida inumane, e uno scalpitio di cavalli che discendevano la strada in un finimondo di lamenti e urla. Un parapiglia: la folla cacciata dal parco, una carica a colpi di lathi (i lunghi e sinistri manganelli della polizia indiana), altre grida, altro parapiglia. Il tutto veloce come un incubo. Avevo appena avuto il tempo di rimettere i libri sullo scaffale e precipitarmi verso la porta. Di là potevo vedere la polizia a cavallo (la gloriosa mounted police) respingere i manifestanti nelle strade adiacenti. Cordoni di studentesse bengalesi smembrati, manganelli che colpivano a casaccio dove e come capitava, teste spaccate e membra spezzate dappertutto. Ma è solo nell'India britannica che si vedono bambini calpestati dai cavalli, schiacciati dagli zoccoli, straziati a colpi di manganello.

I primi feriti erano stati trasportati nella libreria: solo bambini. Certuni non avevano neppure l'età per leggere. Erano stati condotti alla manifestazione con bandierine di carta colorata semplicemente per gridare "Vande Mataram!". Forse condotti lì con la speranza che la polizia a cavallo non avrebbe osato gettarsi contro di loro.

Qualcuno privo di conoscenza. Uno accecato, l'occhio uscito dall'orbita che pendeva simile a un uovo rotto pieno di sangue; sul collo una striscia di sangue mescolato a polvere. Un altro gridava silenziosamente: un grido che gli si leggeva sulle labbra, un grido lì lì per prorompere ma che subito si riassorbiva in un rantolo di svenimento. La maggior parte erano feriti alla testa per le manganellate, e piangevano sordamente, come piangono i bambini orientali quando non sanno perché hanno male. Altri...

La libreria era tutta una ferita, tutto un pianto. Si portava dell'acqua. Un ospedale in miniatura, come deve essere la casa di ogni indiano a detta di un propugnatore dello swaraj. Guardavo, forse umiliato dal colore delle mie mani, furioso e impotente, senza sapere se dovevo andarmene, prestare soccorso o maledire gli inglesi. Uno studente in dhoti di khaddar mi si avvicinò con fare provocatorio:

- E inglese?

- No, grazie a Dio!

- La diverte tutto questo?

Non avevo voglia di discutere. Ma lo sconosciuto aveva ripreso, come se fosse una questione vitale per lui insultare la razza bianca nella persona del primo incontrato:

- Sa, non servirà a nulla ciò che hanno fatto. Possono fare di peggio. Ma noi siamo centinaia di milioni. Non hanno abbastanza prigioni per la millesima parte di noi. Tutta l'amministrazione britannica salterà in aria se imprigionano mezzo milione di volontari... E le nostre madri, le nostre spose? Sa cosa hanno fatto ad Amritsar nel 1919? Le hanno violentate con i loro manganelli! Si, può leggere il rapporto del Congresso. D'altronde dovrebbe saperlo senza aver bisogno di leggerlo. Vada nei villaggi, chieda come procede la polizia. Con tutto ciò, che cosa hanno ottenuto finora? Si battono contro dei bambini. Quello che fanno è assurdo, ma sono in preda al panico, ecco tutto: agiscono con la paura di chi sa di giocare l'ultima carta... Poveri cristiani! Anche lei è cristiano sicuramente. Come scusa questi crimini?

- Nessuno li scusa - gli risposi, vedendo che il giovane insisteva nella domanda. - Sono cristiani della domenica, come ce ne sono in tutta Europa. Parlano del cristianesimo, ed è tutto. Non condanni una religione in base agli atti dei suoi pretesi fedeli.

- Ciò che dice è assurdo, sahib (nella bocca di uno studente questa parola suona sarcastica). Perché se la vostra religione non vi ha reso migliori in duemila anni, buttatela via e trovatevene una migliore. Ma voi mandate delle missioni qui in India. Perché non cominciate da casa vostra?

- Non capisco perché mi tratta come un inglese - replicai, imbarazzato nel vedere della gente raccogliersi attorno a noi.

- Perché è europeo. Se non ha vergogna di ciò che fanno i suoi fratelli in India, questo significa che è lo stesso per lei, e allora è di corte vedute, o ha paura, e allora è un vigliacco. Probabilmente anche a lei non interessa altro che l'Europa. Siete un popolo glorioso, civile, infallibile, voi! Siete bianchi, voi! Permetteteci di disprezzarvi fino all'odio. Avete bene di che vantarvi coi vostri libri e la vostra filosofia alla quale nessuno crede, noi vi siamo superiori. Vi siamo superiori perché sappiamo tutto dell'Europa, mentre voi non sapete niente dell'India. E lei, perché e venuto in India?

- Io? Per studiare la lingua e la filosofia indiana.

- E quello che ha visto non la fa vergognare?

- Io non prendo partito - risposi imbarazzato -, non faccio politica. Non ne ho il tempo, starò in India solo qualche anno. Cosa vuole? Lei è un privilegiato: è nato in India. Ha il tempo di occuparsi di politica. Ma io dovrò tornare nel mio paese.

- Ma la politica, in India, non è politica. La nostra lotta per l'indipendenza (swaraj) e la necessaria conclusione di tutta la nostra metafisica. Forse conosce i principali fondamenti della metafisica e mistica indiana: nessuno può trovare la propria salvezza tramite gli altri, nessuno può trovare la via, la verità, la libertà, attraverso gli altri. La nostra lotta si accorda con gli stessi principi della nostra coscienza filosofica: cosi come l'anima non può aspettarsi la liberazione (mukti) altro che dal suo proprio sforzo, allo stesso modo l'India non può liberarsi che attraverso il suo proprio sforzo. Non accettiamo aiuto dall'esterno. Nessuno può portarci aiuto. Nessuno può intervenire nel destino altrui. Non solo non ne ha il diritto, ma non ne ha la possibilità. Deve sapere che tale è la nostra filosofia. Allora, come credono gli inglesi di poter intervenire nei destini dell'India senza commettere un'infamia le cui conseguenze saranno per loro, un giorno, fatali?

- La Gran Bretagna non si pone tali problemi.

- Ha torto. È per questo che ritiene la sua dominazione un atto divino.

- Vi ha però dato un'amministrazione migliore.

- Ma, sahib, questo non ha niente a che vedere con l'India. Non chiediamo un'amministrazione eccellente. Chiediamo un'amministrazione che sia nostra. So che sarà peggiore, più incerta, piena di lacune e di abusi. Ma sarà la nostra. L'amministrazione britannica ci castra, ci fabbrica coscienze di schiavi, ci rende vigliacchi. Dopo cento anni di dominazione inglese, malgrado i loro treni, le loro industrie, le loro città moderne, il popolo indiano si trova sulla soglia della decadenza. Vivere bene non significa niente per un popolo ridotto in schiavitù. Quelli che la pensano diversamente sono già degli schiavi.

- Ma l'India -dissi io- non ha una coscienza nazionale.

- Da noi la coscienza nazionale non è sentita come da voi, in Europa. Per gli indiani, l'India non è un paese o una nazione. Qui ci sono tante razze, religioni, caste. Gli europei si perdono come in un caos, e si chiedono: cos'è l'India? Ebbene, sahib, per noi l'India è nostra Madre. Il nostro grido rivoluzionario non è che l'inizio dell'inno nazionale; sono le parole "Vande Mataram!" ("Omaggio alla Madre!") . Chieda a qualsiasi povero, in qualunque angolo dell'India, con quale nome chiama l'India, egli vi risponderà "Madre". La nostra lotta non è astratta, non è dovuta a principi astratti, né si limita alle rivendicazioni. La nostra lotta è una crociata per liberare nostra Madre. Ecco perché non è politica, ma mistica. Arriviamo alla libertà, come dice il Mahatma, attraverso la purificazione, la rinuncia individuale, la non-violenza e l'agonia.

La nostra politica è un apprendistato ascetico. I nostri uomini politici cominciano la loro carriera rinunciando totalmente alle cariche, alla fortuna, alla gloria, ai beni terreni. I nostri capi sono più poveri di noi. Non abbiamo bisogno di geni politici né di tattica politica. Il Mahatma non è un genio, è un santo. Non ha strategie, ha la sincerità. Anche i nostri più accaniti nemici l'hanno riconosciuto. È il solo uomo che sia riuscito a fondare la lotta politica sulla sincerità.

- E se tuttavia non riuscisse? Tentereste altri metodi, ad esempio i metodi europei?

- Anche noi abbiamo la nostra estrema sinistra, i nostri centri di terrorismo. Ricorreremo al terrore solo quando il Mahatma abdicherà. Da qui ad allora siamo legati alla parola che abbiamo dato a Ghandi: la non-violenza.

- Ma il terrorismo è un metodo che voi copiate dall'Europa.

- Niente affatto. Esso occupa a perfezione il suo posto nella nostra filosofia e nella nostra politica. Lo si trova già nell'Arthashastra, questo trattato politico scritto tre secoli prima dell'era cristiana. La non-violenza si situa sul piano della contemplazione (sattva), il terrore su quello dell'esplosione di energia (rajas). Ma entrambi appartengono alla coscienza indiana.

- E se non otterrete niente neppure col terrore?

- Allora toccherà a loro (e indico i fanciulli feriti) tentare altro o riprovare con la non-violenza. Vede, la nostra lotta non si misura in anni, ma in generazioni. L'India sa attendere, perché l'India non dimentica. Questi fanciulli non scorderanno la seconda campagna di disobbedienza civile. Anche se schiacceranno noi oggi, loro non li potranno schiacciare tra vent'anni...

Un silenzio penoso. Tirai fuori le sigarette e gliele offrii.

- Grazie, sahib, mio fratello è morto in prigione per aver boicottato le sigarette inglesi...

Sorrise vedendo che rinunciavo ad accenderla.

- Se quello che le ho detto la fa riflettere, cerchi di non fumare più sigarette inglesi... Arrivederci, sahib...

Mi salutò e se ne andò nel silenzio della libreria gremita. Quel 22 aprile non scrissi niente nel mio taccuino.

 

 

Da: http://www.estovest.net/testi/eliadeindia.html

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