in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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La chiusura e l'apertura del cuore di Corrado Pensa


 

1. Quando diciamo: "Mi ha aperto la mente", ci riferiamo a qualcosa di vantaggioso ma di limitato – limitato alla comprensione intellettuale. Quando invece parliamo di apertura del cuore parliamo di una cosa più radicale, più coinvolgente, più totale. E forse non è un caso che nel linguaggio spirituale di tante tradizioni il cuore sia il centro. Dice Ajahn Mahaboowa: "Il Dharma è una meraviglia che sboccia nel cuore". E in altre tradizioni Dio si incontra nel cuore.

Noi usiamo a tanti livelli questo linguaggio. Per esempio, diciamo: "All’improvviso, ho visto Tizio e mi si è aperto il cuore". Oppure: "A causa di quell’avvenimento mi si è aperto il cuore". Fa riflettere, perché l’implicazione sembra essere che il cuore tende più a essere chiuso che aperto. C’è dunque un grato trasalire quando usiamo questa espressione, un sollievo. Sollievo da che cosa? Da uno stato di chiusura, appunto.

Chiusura, costrizione, angustia, blocco, qualcosa ristagna, qualcosa non fluisce, qualcosa ci fa soffrire.

Nell’apertura, anche se siamo nella sofferenza, c’è invece qualcosa che ci ravviva, qualcosa che ci nutre. Al contrario, nella chiusura, anche se siamo in una situazione di non particolare sofferenza, c’è qualcosa che ci spegne, c’è qualcosa che ci toglie vita. Non c’è qualcosa che dà più vita, che dà vita alla vita, come nell’apertura del cuore.

La chiusura più forte naturalmente è la chiusura che non sappiamo di avere. Possiamo essere chiusi, possiamo essere in uno stato di chiusura del cuore, di blocco, di spegnimento, di paralisi e non sapere che siamo in questa situazione, o scambiarla per unsituazione e risponderci o rispondere sinceramente a qualcuno che ci chiede come stiamo: "Bene" e pensare che siamo in uno stato non particolarmente scintillante, ma tutto sommato sereno, tutto sommato equilibrato, con forse una punta di equanimità: a tal punto possiamo fraintendere questo nostro blocco.

La chiusura che non sa di essere tale è difficile da lavorare. E infatti uno dei primi e più importanti doni della pratica è proprio quello di renderci più consapevoli di questi stati di chiusura e, naturalmente, anche degli stati di apertura. Perché il sapere di essere chiusi è il primo passo per poter lavorare sulla chiusura. Per esempio, per incontrare la riluttanza, la riluttanza a praticare.

La riluttanza a fare cose che ci fanno bene e l’attaccamento, invece, a questa camera chiusa, l’attaccamento a rimanere in questa camera chiusa. Forse è un attaccamento antico, un attaccamento che fa sì che ci sentiamo più noi stessi se rimaniamo chiusi nella stanza. Se è tale, esso richiederà un lavoro particolare, un lavoro sempre più appassionato.

La paura di perdere, se ci apriamo. La paura di perdere l’intelligenza, se smettiamo di condannare. Un forte giudizio o un grappolo di giudizi è spesso a fondamento di uno stato di chiusura. Una forte condanna per inadeguatezza nei nostri propri confronti è spesso il fondamento di uno stato di chiusura. Come pure sensi di colpa, paura, rabbia: portano a chiuderci, portano a stati di sofferenza.

La chiusura della depressione, la chiusura della tristezza, la chiusura del risentimento, la chiusura dell’invidia. Si può parlare di essere afferrati dall’invidia, dall’inadeguatezza, dalla colpa e, al tempo stesso, essere aperti? È una contraddizione di termini.

2. Ma vogliamo questa chiusura? Di nuovo – la grande contraddizione – una parte di noi è attaccatissima agli specifici stati di chiusura tipici della nostra personalità condizionata, e un’altra parte, quella che ci fa praticare e aspirare alla liberazione, quella parte non vuole essere chiusa.

Ma occorre un lavoro paziente, un lavoro lungo per conoscere la chiusura, per entrare dentro la chiusura, per sentirne il dolore, per entrare in comunicazione con l’aspirazione ad andare oltre la chiusura. I risultati piccoli, graduali, spesso danno più garanzie di risultati improvvisi e clamorosi. Può darsi che un’apertura straordinaria che ci ha rimescolato in senso positivo, che ci ha riempiti di sereno, di un sollievo come mai l’avevamo sentito, sia poi seguita, nei giorni successivi o nei mesi successivi, da chiusura, da qualcosa che non ci aspettavamo. Il valore più grande di una apertura forte è che essa ci darà comunque motivazione, soprattutto se non ci inganniamo prendendola come definitiva. Motivazione per continuare poi il lavoretto di pazienza, il lungo, sempre più affezionato, sempre più appassionato lavoro di apertura.

Pensiamo a piccole aperture del cuore: possiamo immaginare una scala via via più alta, fino a un’apertura del cuore così totale, così radicale e così irreversibile che non è altro che la liberazione. E cos’è che chiude il cuore? Inevitabilmente l’attaccamento, l’avversione, la confusione, con tutte le loro varianti. E dunque la liberazione si configura come totale e irreversibile apertura del cuore, perché la liberazione è il superamento definitivo di attaccamento, avversione e confusione.

Ricordiamo l’insegnamento cardine delle quattro verità sulla sofferenza: la chiusura è sofferenza, questa sofferenza è causata dalle nostre rabbie e dalle nostre paure ed esiste la possibilità di superare questa sofferenza e le sue cause, applicandosi a un percorso interiore. E certamente in tale percorso un posto particolare ha la meditazione, la consapevolezza e dunque la capacità di cominciare ad avere una relazione diversa con la chiusura.

Essere in relazione con la chiusura è molto diverso da una cieca e totale identificazione con la chiusura. Diciamo che se siamo completamente sprovveduti dal punto di vista del lavoro interiore, noi cadiamo nella chiusura ogni volta che la chiusura decide di farsi avanti, cioè l’identificazione è completa, noi cadiamo nella botola senza colpo ferire. Ma se siamo praticanti cominciamo a vedere la chiusura, a risvegliarci alla chiusura, a sentire la separatività e la sofferenza che porta la chiusura.

3. Continuando a praticare, continuando ad ascoltare gli insegnamenti, cosa succede a un certo punto? Che vediamo che c’è un’altra possibilità, quella di guardare in maniera compassionevole alla nostra chiusura. Il risveglio della compassione per le nostre chiusure: questo è un grande passo avanti.

Se sapere di essere chiusi, di avere delle chiusure, è il primo passo fondamentale per poterci lavorare; se sentire, percepire con chiarezza la sofferenza della cecità che si accompagna alla chiusura è il secondo passo, un terzo passo vitalissimo è quello di cominciare a rapportarci alle nostre chiusure con un atteggiamento compassionevole.

Può darsi che sia un attimo, che questo attimo di compassione, di amicizia, sia subito ricoperto dalla sostanza stessa di quella chiusura che non tollera la compassione. Ma quell’attimo di compassione è il seme di un’intenzione salutare.

Un atteggiamento compassionevole che tende a diventare più frequente è il contrario di chiusura. Se continuiamo ad alimentarlo, la chiusura comincerà a sciogliersi.

Ma dobbiamo essere non solo pazienti, non solo perseveranti, non solo tranquillamente fedeli alla pratica, dobbiamo non aver paura. C’è una famosa mudra, posizione delle mani del Buddha, che è la posizione della non paura, non paura di fare questo lavoro, perché può suscitare paura.

Perché si sente che si incrinano i fondamenti della identità egoica, di quella che noi riteniamo fondamentale e che mettiamo al centro della nostra vita. Avere il coraggio, il coraggio di prendersi in mano, il coraggio di custodirsi, il coraggio di prendersi cura. C’è spesso autocompatimento nella chiusura, sotto l’autocompatimento magari c’è una rabbia sorda verso di noi, verso gli altri e tanta paura.

È un volere che tutto resti così, pur essendo così pesante, così amaro.

A volte le persone lasciano perdere un cammino interiore, proprio perché sentono che c’è qualche cosa che vuole entrare in queste chiusure, in questa inclinazione a chiudersi. Ma senza le nostre tipiche chiusure temiamo di diventare qualcosa di indistinto.

Non si tratta di rifiutare e condannare la chiusura, né si tratta di avallare e giustificare la chiusura: questi modi, piuttosto frequenti, di trattare con la chiusura non ci fanno uscire fuori dal circuito della sofferenza, non ci fanno cambiare la relazione con la sofferenza della chiusura.

Quello che ci fa cambiare la relazione con la chiusura è la consapevolezza. La consapevolezza che non ha paura della durata della chiusura, che non ha paura del peso della chiusura, perché la consapevolezza è attenzione non giudicante e quindi la portiamo nella maniera più innocente possibile a questa stretta che sentiamo, a questo rifiuto verso noi stessi, verso quella persona, verso quella cosa. Non andiamo con un carico di opinioni a guardare questa chiusura, con un carico di etichette e di giudizi, perché anche questa è un’espressione di chiusura. Vegliamo il più possibile senza sapere niente: la consapevolezza.

E da questo non rifiutare, non avallare può nascere qualche cosa di bello: la compassione, appunto. Non c’è compassione senza comprensione, non c’è comprensione senza consapevolezza. Consapevolezza comprensione compassione è un tutt’uno. Consapevolezza comprensione compassione uguale apertura. Dal lavoro sulla chiusura, dal lavoro paziente, progressivamente più coraggioso sulla chiusura, nasce l’apertura più affidabile, perché siamo passati pazientemente, coraggiosamente, consapevolmente, compassionevolmente attraverso la strettoia, attraverso la chiusura.

4. La pratica è pratica di apertura del cuore. La pratica è studio il più possibile accurato della chiusura del cuore. Per accedere al cuore nuovo di cui si parla nella tradizione giudaico-cristiana, occorre diventare esperti del cuore duro, del cuore di pietra di cui si parla nella medesima tradizione.

A volte il termine essere chiusi, chiudersi è assolutamente appropriato, ma può diventare scontato, ci può tenere sulla superficie della cosa, farci pensare "come si chiude così si apre". Ma il termine nodo, nodo del cuore, forse è più preciso, perché il nodo, il nodo stretto richiede un certo lavoro per essere sciolto. La liberazione significa sciogliersi, sciogliersi da questa tendenza alla chiusura, sciogliersi dall’attaccamento alla chiusura. Certo ci sono cose che fanno male, ma – ci insegna il Dharma – esiste la possibilità di sentire il colpo, di sentire il male e di non annodarsi, di non chiudersi.

Dunque, cominciamo ad aspirare a essere aperti e a rimanere aperti. Quest’apertura suscita in noi apprezzamento, cioè ulteriore apertura, soprattutto se è una cosa relativamente nuova delle nostre vite. Rimaniamo aperti, non diciamo no, diciamo sì. Il sì aiuta, il no blocca. Anche se siamo chiusi per qualche sbaglio obiettivo che abbiamo fatto, questa chiusura, questo no, ci rende tutto più difficile. E il fatto di stare in spirito di apertura, invece di accettare, facilita anche in ultima analisi l’azione giusta.

Stare con le cose, continuare a stare, è una lezione cruciale della pratica ed è una disposizione che induce l’apertura del cuore, proprio perché sviluppa il balsamo della pazienza. Non voler stare con le cose, starci a fatica, starci per forza, starci e volersene andare o andarsene in continuazione sono tutti segni di chiusura. E parlo anche e soprattutto di stare in situazioni difficili.

Stare significa essere presenti, essere consapevoli. All’inizio ci sembra una via impervia, una via senza speranza, ci sembra che stiamo facendo in realtà un lavoro di rassegnazione, incomprensibile, ma ci deve essere la voce piccola o piccolissima dell’intuizione fiduciosa che ci dice di continuare e continuare: a stare nella pratica, a stare nel Dharma, a stare in quella situazione con la pratica, con il Dharma, con la consapevolezza che si accende e si spegne, con la nostra capacità di accettazione e di lasciar andare che a volte ci soccorrono, altre volte ci lasciano, ma noi continuiamo.

La piccola voce dell’intuizione, la piccola luce della fiducia ci guidano, anche se non sono sempre così chiare. E c’è qualcosa che a un certo punto è come se cominciasse a screpolarsi, a squagliarsi, a dischiudersi. È diverso dall’improvviso sfolgorare di una gioia che ci apre il cuore perché abbiamo incontrato questo, perché è successo quest’altro.

È qualche cosa di molto più lento e graduale, ma che quando comincia a succedere è meno effimero, è un’impronta più profonda. Perché noi di fatto in questo stare comunque, in questo stare stare stare comunque, non abbiamo fatto altro che nutrire fedelmente, devotamente, un’intenzione.

L’intenzione di non lasciare la pratica, l’intenzione di non lasciare noi stessi, come così spesso facciamo, l’intenzione di non rimanere freddi nei nostri confronti, ma, al contrario, di stare, cioè di starci vicini. E questa intenzione coltivata, nutrita, a un certo punto comincia a dare i suoi frutti.

Forse in un momento imprevisto, forse appunto quando noi non ce l’aspettiamo, forse quando proprio non ce l’aspettiamo più, ma abbiamo continuato a stare, siamo rimasti seduti davanti alla porta chiusa, tranquillamente, consapevolmente e la porta si è aperta. Quella porta che, come dice Simone Weil, sembra aprirsi solo dall’interno.

5. L’apertura del cuore è dentro di noi, la chiusura del cuore è dentro di noi, il lavoro è dentro, gli effetti sono dentro, le intenzioni si coltivano dentro.

Sicché col tempo nasce un senso di sereno disincanto nei confronti dell’attaccamento al cuore chiuso, di fronte alla coltivazione dell’intenzione di rimanere chiusi, fatta in mille modi, con mille giustificazioni, consce o inconsce, ma così nutrita nel tempo. In virtù della pratica, vedendo più e più volte questa casa fredda, questa casa abituale fredda che ci vogliamo tenere a tutti i costi, ci nasce dentro una salutare stanchezza riguardo al coltivare cose che vanno contro di noi e contro i nostri simili.

Anche perché forse abbiamo cominciato a percepire che gli altri sono veramente nostri simili e questo non va molto d’accordo con la chiusura del cuore, chiusura che vede soprattutto sofferenza, separazione, contrasto, minaccia. Quando questa musica comincia a cambiare, quando cominciamo a sentire l’interconnessione, allora la strana mania, la strana fissazione di chiuderci comincia a non piacerci più, non la capiamo più, non ci crediamo più e non ci sembra vero di trovare occasioni, anche piccole, per aprirci. E non abbiamo paura di cercarle, non abbiamo paura di soffermarci su di esse.

Se siamo chiusi, le piccole cose non le vediamo, le consideriamo dall’alto, ma non sarà così se abbiamo capito qualcosa di fondamentale. Piccolo, grande, tutto è vita, tutto può richiamarci alla possibilità di aprirci: sia una cosa piacevole, sia una cosa spiacevole possono essere vettori di apertura del cuore. La cosa piacevole suscitandoci un lieto, quasi fanciullesco apprezzamento. E la cosa spiacevole accendendo in noi sollecitudine e compassione. Entrambe possono essere vettori dell’apertura del cuore. Ci sono situazioni che sembrerebbero non essere né piacevoli né spiacevoli: stati di noia, stati di aridità.
Ma abbiamo la pratica per aprirci dentro l’aridità. Stare nell’aridità senza impazienza che se ne vada, senza contare i minuti, riposarci nell’aridità, riposarci nella noia, distenderci ben svegli nel letto della noia, questo è un grande dono che la pratica ci può fare. Allora tutto è combustibile per l’apertura del cuore.

Questa è la grande lezione della pratica, la grande lezione del Dharma: l’enorme speranza e fiducia che nasce dall’accorgercene, cosicché non ci sentiamo più sempre in bilico, alla mercé della fortuna, alla mercé del caso, alla mercé di quello che ci capita. Ci può capitare tutto, secondo la legge dell’impermanenza, ma noi possiamo rispondere a tutto in modo giusto e tale risposta non è la reattività, bensì, appunto, la capacità di apertura.

 

 

Da: http://xoomer.virgilio.it/karuna/cp-chiusura%20apertura%20cuore.htm

 

 

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