La consapevolezza paziente (Corrado Pensa)

  in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

  home page   cerca nel sito   iscrizione newsletter   email   aggiungi ai preferiti   stampa questa pagina    
 

 

  SU DI ME
 Vita       
 Pubblicazioni

 Corsi, seminari, conferenze

 Prossimi eventi
 
  DISCIPLINE
 Filosofia antica       
 Mistica
 Sufismo
 Taoismo
 Vedanta              
 Buddhismo              
 Zen
 Filosofia Comparata
 Musica / Mistica
 Filosofia Critica
 Meditazione
 Alchimia
 Psiché
 Tantrismo
 Varia
 
  AUTORI
 Mircea Eliade       
 Raimon Panikkar
 S.Weil e C.Campo
 René Guénon, ecc.
 Elémire Zolla     
 G.I.Gurdjieff  
 Jiddu Krishnamurti
 Rudolf Steiner
 P. C. Bori       
 Silvano Agosti
 Alcuni maestri

 

La consapevolezza paziente (Corrado Pensa)

 

1. Nel Vangelo di Luca si legge: “Nella pazienza, possiederai il tuo cuore” 1. La parola greca per pazienza ha anche il significato di costanza, perseveranza. È una parola forte. Cuore traduce psyche che ha anche il significato di vita, mente, anima. Dunque, nella pazienza, diverrai uno col tuo cuore. Ricordo quanto mi colpì questa frase quando la lessi per la prima volta. Da questo passo la parola “pazienza”, piuttosto grigia nel nostro linguaggio abituale, emergeva luminosa e intensa. Anni dopo mi capitò di leggere alcune importanti riflessioni su questo tema di un autore cristiano molto noto, Henry Nouwen, e di alcuni altri autori, in un libro intitolato Compassione 2.
Dice Nouwen:

Se non siamo pazienti, non possiamo diventare compassionevoli. Non possiamo essere compassionevoli, se non siamo capaci di soffrire, se non sappiamo soffrire con gli altri, che è il significato della compassione.

In linguaggio dharmico potremmo dire che, se non siamo aperti alla nostra sofferenza, se non siamo pronti a un’esperienza diretta della nostra sofferenza, non c’è molta speranza che possiamo provare empatia per la sofferenza degli altri.
E Nouwen continua sottolineando alcuni punti fondamentali:

La pazienza è la capacità di vedere, sentire, toccare, assaporare e odorare il più pienamente possibile gli eventi interiori ed esteriori della nostra vita. È entrare nella nostra vita con occhi, orecchie e mani aperte in modo da conoscere veramente quello che accade. La pazienza è una disciplina assai difficile proprio perché è un movimento opposto al nostro impulso irriflessivo a fuggire o a combattere. – E conclude: – La pazienza ci chiede di andare al di là della scelta tra fuggire e lottare. È la terza via ed è la più difficile. Richiede disciplina perché va contro la tendenza dei nostri impulsi 3.
 
Nelle scritture, la pratica del Dharma è definita patiloma, che significa “controcorrente”. La pazienza comporta lo stare con, il vivere interamente, l’ascoltare attentamente ciò che si presenta qui e ora. A me sembra che l’affinità tra la descrizione di cos’è la vera pazienza e la definizione di presenza mentale, o sati, nel Dharma, sia molto forte, tanto che potremmo unire i linguaggi e parlare di consapevolezza paziente, così come si parla di consapevolezza non giudicante, di consapevolezza equanime, di consapevolezza affettuosa.

2. Ciò che va compreso è che queste qualità, la pazienza, l’equanimità, la sollecitudine, l’attitudine non giudicante sono intrinseche alla consapevolezza. In altri termini, se queste qualità non sono presenti, la consapevolezza non è vera e autentica consapevolezza. Non esiste una consapevolezza giudicante: non è consapevolezza. Dunque la vera pazienza è una di quelle qualità intrinseche che caratterizzano il gioiello di cui ci ha fatto dono il Buddha.
Come possiamo definire la consapevolezza, la presenza mentale, sati? Sati è la capacità di entrare in intimità con le cose, ma secondo un atteggiamento di non attaccamento e di non identificazione. Quindi con sollecitudine ed equanimità. Dal punto di vista dell’io è una contraddizione, è assolutamente incomprensibile, ma questa è per definizione la struttura stessa della consapevolezza.
Va da sé che sviluppare vera consapevolezza richiede un addestramento di immensa pazienza e un graduale affinamento della capacità di comprendere, di vedere in profondità. Facciamo un esempio. Supponiamo di essere tristi, che la tristezza sia il nostro stato emotivo predominante. Cosa facciamo di solito? La nostra reazione è condizionata, in ultima analisi, dall’ignoranza. Così, spesso, anche se non necessariamente, ci perdiamo nella tristezza e ci identifichiamo con essa. Con alcune variazioni sul tema: possiamo cadere nell’auto-commiserazione o nell’irritazione, a causa della tristezza. Finiamo così per accrescere la forza e il potere della tristezza. Ed è la nostra reazione abituale. Potremmo chiamare tristezza impura queste forme di tristezza, perché c’è un appesantimento dovuto a strati di reazioni, paure, avversioni. Ora, dando per scontato che il condizionamento basilare è l’ignoranza, se guardiamo in modo più ravvicinato, cos’è più accessibile alla nostra comprensione immediata? Prima di tutto notiamo il grandioso potere dell’abitudine. L’abitudine a reagire in un certo modo crea profondi solchi dai quali diventa poi difficile uscire. Perciò è importante sviluppare una sorta di controabitudine, la pratica, e cioè una forza adeguata, proporzionata, per neutralizzare le abitudini negative che causano la nostra fondamentale sofferenza nella vita.
In aggiunta all’abitudine, se osserviamo da vicino, notiamo qualcosa di più sottile, ma forse di ancora più importante. Si tratta della tendenza a investire un’enorme quantità di energia nel desiderio di liberarsi dello stato mentale spiacevole, per esempio la tristezza. Tale tendenza è presente spesso. Certe volte ne siamo liberi, ma la nostra tendenza è allora di indulgere nella tristezza: non solo non ce ne vogliamo liberare, ma ne vogliamo addirittura di più. Non voglio dire che rientrino nell’avversione alla tristezza piccole scelte di saggezza come parlare con un amico o immergersi nella natura, mi riferisco piuttosto a qualcosa di compulsivo, di ossessivo: pensare, giudicare, reagire per trovare come liberarsi di questa emozione spiacevole. Si può definire questa tendenza una totale non accettazione della tristezza o, appunto, avversione alla tristezza.

3. Ricordiamoci dell’insegnamento del Buddha sulle due frecce 4. Un uomo viene colpito da una freccia a una gamba. In breve l’insegnamento dice che, chi ha coltivato la pratica, prova solo la sofferenza dovuta al dolore fisico, una sofferenza pura. La persona ordinaria, invece, soffre a causa di una seconda freccia, che è l’intensa reazione mentale al dolore fisico.
Nella nostra vita ci sono infiniti esempi che illustrano questo insegnamento della doppia freccia. La prima freccia è la tristezza, la seconda è l’avversione alla tristezza. Nel sutta del Buddha viene spiegato molto chiaramente che il problema sta nella seconda freccia. Questa rafforza le tendenze latenti all’avversione e alimenta anche le tendenze latenti all’attaccamento, attaccamento alla gratificazione vista come unico antidoto alla frustrazione. La seconda freccia è il desiderio intenso di liberarci da uno stato mentale spiacevole.  Il problema non è la tristezza, ma il desiderio di liberarcene, perché questo desiderio è un’energia che ci separa dallo sperimentare in modo diretto la verità della tristezza. Essendo tormentati dal desiderio di liberarci da ciò che è spiacevole, anziché aprirci alla tristezza ci chiudiamo. Proprio questa chiusura è la seconda freccia. Restiamo così intrappolati nel nostro concetto di tristezza e nella nostra reazione a questo concetto, ma non facciamo un’esperienza viva della tristezza. Solo se decidiamo di fare questa esperienza reale il nostro rapporto con la tristezza cambierà, come cambierà la qualità stessa della tristezza.
Il desiderio di liberarci da emozioni spiacevoli è energia, non un semplice pensiero, ma qualcosa di denso e vischioso. Ecco perché il Buddha ha tanto sottolineato la forza del desiderio nutrito dall’ignoranza come causa prima della sofferenza nella nostra vita. Ed è di questo che si tratta nell’esempio della tristezza. E più gli esempi sono quotidiani più sono significativi, altrimenti tendiamo a idealizzare dukkha, a pensare alla sofferenza solo in termini di episodi drammatici, mentre dukkha, magari in piccole forme, è raro che non visiti le nostre giornate, e iniziando a praticare lo comprendiamo.
La via dell’impazienza è questo modo condizionato di reagire alle cosiddette emozioni negative, è energia distanziante che ci mantiene nell’immaginazione, nel pensiero della tristezza, anziché nella sua realtà, nella sua verità.

4. Dice Henry Nouwen:

Quale che sia la natura della nostra impazienza, noi vogliamo abbandonare lo stato fisico o mentale in cui ci troviamo e passare a un altro meno disagevole. Essenzialmente, l’impazienza è sperimentare il momento come vuoto, inutile, senza significato. È il desiderio di scappare il più in fretta possibile dal qui e ora 5.

Come sarebbe invece una risposta sveglia, consapevole e paziente alla tristezza o ad altri stati mentali? Prima di tutto si tratta di investire moltissima energia nella consapevolezza stessa, una consapevolezza immediata di cosa sta accadendo. Se lo facciamo, cominciamo a risvegliarci, iniziamo ad avere una percezione diretta, che è cosa ovviamente molto diversa dalla reattività o dalla rimozione. È un punto di svolta e la chiave è un interesse sempre più forte a rivolgersi alla consapevolezza, un interesse diventato quasi un istinto a scegliere la consapevolezza.
Prendiamo per esempio la fame. La nostra mente e il nostro corpo sanno che senza cibo si muore, dunque vogliamo il cibo, è un istinto. Quando la pratica si sviluppa, comincia ad accadere qualcosa di simile. Ci rendiamo conto che più la consapevolezza è disponibile, più la scegliamo, meglio viviamo. È semplice, ma finché non capiamo che più c’è consapevolezza meglio viviamo, questo interesse non si sviluppa e al massimo ci innamoriamo di un concetto. Ci piace parlare della consapevolezza, speculare sulla consapevolezza, leggere tutto il leggibile su di essa. Punto. Ma per fortuna esiste la pratica.
Come individui e come cultura abbiamo assegnato il primato al pensiero, alla parola e all’azione. Chi pratica, tuttavia, comincia a muoversi in un campo diverso, cioè nel campo della contemplazione. La contemplazione è essere consapevoli, è osservare in modo non giudicante, in modo sollecito, equanime.
Torniamo al nostro esempio: sorge la tristezza e, questa volta, vogliamo incontrarla, vogliamo entrare in intimità, vogliamo una relazione con la tristezza, perché la vita è relazione. Dunque, vogliamo cambiare la nostra prospettiva, il nostro atteggiamento riguardo agli stati mentali, alle emozioni. Cominciamo a intuire che la mente è il nocciolo della nostra vita. “La mente conduce, – dice il Dhammapada – e il resto segue”. Ma se siamo posseduti dal desiderio di liberarci dalla tristezza, come possiamo incontrarla? Tutta l’energia va nel desiderio di respingere questa realtà, questo incontro, dunque non c’è energia disponibile per la consapevolezza. È come cercare di accendere una fiamma mentre c’è un forte vento. La consapevolezza viene continuamente spenta, i nostri sforzi sono vani. Possiamo essere molto motivati, molto determinati, vogliamo sinceramente essere consapevoli, ma restiamo sempre più frustrati, perché la consapevolezza continua a spegnersi, perché tutta l’energia va nella direzione opposta. Quindi, finché non ci rendiamo conto di tutta l’energia che va nel desiderio di cacciare la tristezza, non possiamo lavorare per lasciar cadere questa energia. Quando finalmente la vediamo, allora e allora soltanto possiamo cominciare a lasciarla andare e la consapevolezza ha la possibilità di accendersi e di restare accesa.

5. L’esperienza diretta non è facile da praticare. L’esperienza diretta può accadere solo momento per momento. Lo sappiamo e insieme non lo sappiamo. Non appena abbandoniamo il momento presente, ci ritroviamo nel mondo del pensare, così spesso carico di giudizi e reattività. Non ci resta che ritornare più e più volte, con generosa pazienza, alla realtà del presente. Si tratta, dunque, di sentire direttamente, momento per momento, nel corpo e nella mente ciò che definiamo come sentirci tristi. Sensazioni, pensieri, emozioni: aprirsi a quanto sta accadendo a ogni istante. All’inizio può essere doloroso, perché di solito siamo avvolti da una tale quantità di pensieri e reattività che finiamo per avere una sensibilità meno intensa. Se cominciamo a lasciar cadere tutti questi strati, diventiamo più sensibili, meno protetti e dunque il primo impatto può essere doloroso. Ma se restiamo fermi, se continuiamo a sostenere la pratica, la dolorosità finisce per trasformarsi. Le emozioni negative, una volta spogliate dagli strati di reattività, di pensiero, e giudizio, cambiano. Sono più pure. Diventano sempre meno minacciose, meno dolorose. Cambia la nostra relazione con le emozioni. Siamo guidati da un interesse che è quasi un istinto a stare con ciò che è presente e vogliamo imparare sempre di più a starci.
Certo, è facile scivolare indietro e regredire a modalità primitive, primordiali, in cui la reattività sembra essere l’unica scelta ragionevole e non ci interessa più l’esperienza diretta. In pochi secondi possiamo creare un’intera ideologia e crederci ciecamente. È quello che le scritture chiamano il potere di avijja, dell’ignoranza, che nel linguaggio dharmico non è l’assenza di qualcosa, ma piuttosto qualcosa di attivo. Ci vuole molta pazienza per affrontare tutta l’ignoranza che ci portiamo appresso. La contemplazione paziente, la contemplazione affettuosa della tristezza sono un invito in più a praticare la consapevolezza anziché praticare la reattività, il giudizio, la reazione verbale; un invito a coltivare il primato della contemplazione anziché quello del pensiero e dell’azione. Quando la consapevolezza affettuosa rivolta a ciò che è presente qui e ora comincia a essere un valore, una vera priorità nella nostra vita, finalmente ci accorgiamo di avere una sorgente affidabile per il retto pensiero, per la retta azione, per la retta parola. Ma la contemplazione viene per prima, intendendo per contemplazione non un vago termine spirituale, bensì osservare ciò che si presenta momento per momento.

6. Questo è controcorrente, è patiloma, perché come primo impulso noi reagiamo, non contempliamo: dunque è necessaria una rieducazione. La pratica è rieducazione, riallineamento, rivoluzione. Non è un termine eccessivo: è una rivoluzione interiore, deve esserlo. Senza troppo rumore. Dunque nella pazienza, nella consapevolezza paziente, possiamo diventare uniti col nostro cuore, possiamo rasserenare il cuore.
Un’insegnante americana di tradizione Zen, Cheri Huber, ha detto:

Esplorare con accuratezza cosa significhi essere stanchi può rivelarci quella parte della personalità che ha un’opinione sulla stanchezza. Cosa c’è nell’essere stanchi che non mi piace? Quali sono le mie convinzioni sotterranee sulla stanchezza? La paura di cadere a pezzi? Di morire? E quali implicazioni comportano queste convinzioni nella mia vita? Come mi limitano? Qualcuno mi ha parlato di aver svolto un lavoro che richiedeva solo due movimenti e di che esperienza gioiosa fosse stata. Aveva compreso che l’esperienza era stata gioiosa perché la sua attenzione era pienamente concentrata su quanto stava facendo. Cosa accadrebbe se concentrassimo la nostra attenzione sulla sensazione che definiamo “stanchezza”? Potremmo avere la stessa gioiosa esperienza, restando solo assolutamente presenti alle sensazioni del corpo: questo genera di per sé energia. In ogni caso, se non ci precipitassimo a etichettarle, queste sensazioni non sarebbero più percepite come stanchezza 6.
 
Quindi, se continuiamo a contemplare, scopriamo che il problema fondamentale è una sorta di nodo dentro il corpo e che quel nodo è una resistenza a quanto sta accadendo. Il problema non è la stanchezza, ma la resistenza alla stanchezza. Lo sappiamo? Sì e no.

7. Faccio un esempio personale. Nel corso dell’anno conduco corsi di meditazione il lunedì e il martedì sera, il che significa che almeno due volte a settimana vado a dormire tardi. Se mi capita di andare a letto tardi anche il mercoledì e il giovedì, è più che probabile che il venerdì mi trovi a essere completamente fuori centro. E mi sono accorto che nasce in me un modo sottile di minare la pratica, una voce che dice: “Se tu fossi più disciplinato, la pratica andrebbe meglio”. Ma in quel momento la mia pratica è stare con la stanchezza e con l’essere fuori centro! Il resto sono solo pensieri che cercano di evitare ciò che è presente. Quando invece riesco ad aprirmi alla stanchezza, allora mi risveglio a quello che è presente, anziché battagliare, resistere o lamentarmi. Vedo la contrazione della stanchezza nel corpo e nella mente, vedo l’attaccamento a ciò che potrebbe dare sollievo, e continuando a restare presente, accade talvolta qualcosa di bello ed è che sotto questo movimento mentale dell’affaticamento c’è pace. Ma se non mi fermo, non posso percepirlo, non posso sentire quella zona di pace. Dunque, la stanchezza è spiacevole, ma non è la stanchezza in sé a essere un problema. Il problema è la resistenza alla stanchezza, è l’autogiudizio a causa della stanchezza. Non è la stanchezza il problema, altrimenti non ci sarebbe alcuna possibilità di percepire la pace, di percepire la spaziosità. Non è lo stato mentale il problema, ma il modo in cui lo trattiamo. È la seconda freccia il problema, non la prima.
È anche interessante osservare cosa accade quando siamo pieni di energia e ci sentiamo bene. È facile che finiamo per incanalare l’energia in progetti, in pensieri, in qualche azione di immediata utilità, perché questi sono i valori da seguire per non sentire di “sprecare” il benessere. Il benessere è una cosa positiva, non ha di per sé niente di manchevole. Il problema sta nella nostra reazione eccitata ad esso, nel nostro non poter nemmeno concepire la possibilità di contemplarlo. Meglio “goderselo”. Perché contemplarlo? Ma la consapevolezza è consapevolezza di ciò che è presente e, se è presente il benessere, perché non esserne consapevoli? Scopriremmo, tra l'altro, che in virtù della consapevolezza, ce lo godiamo molto di più.
Abbiamo detto che il desiderio di disfarsi di uno stato negativo è problematico perché è un’energia che distoglie dallo sperimentare in modo diretto ciò che è presente, ma abbiamo anche aggiunto che è un impulso comprensibile. Perché? Perché volersi liberare di uno stato mentale negativo è anche un’espressione dell’universale aspirazione alla felicità. Ma tale espressione è distorta e, come possiamo verificare continuamente, non porta alla felicità. Ricordiamoci che uno degli scopi primari della nostra pratica è purificare questo tipo di desiderio, in modo che l’aspirazione alla felicità possa fiorire nel modo giusto, sempre più purificato dall’ignoranza. È importante non essere giudicanti nei confronti dei nostri attaccamenti, delle nostre avversioni dolorose e di quelle degli altri, perché sotto questi attaccamenti e avversioni c’è il nostro legittimo desiderio di felicità.


NOTE
1. Luca 21, 19.
2. H.J.M. Nouwen, D.P. McNeill, D.A. Morrison, Compassion, New York 1983, p. 92.
3. Ivi, p. 93.
4. Sallasutta, Il discorso della freccia, Samyutta Nikaya, 36. 6.
5. Nouwen, cit. , p. 96.

6. Ch. Huber, Sweet Zen, Present Perfect Books, 2000, pp. 33-34.

 

TORNA SU