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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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INTRODUZIONE ALLO YOGA

di Marcello Busato



Le parole, gli oggetti e le idee sono sovrastrutture che creano confusione;
attraverso la pratica della meditazione si conquista la conoscenza di tutti gli esseri.
Yoga Sutra, II, 17

Lo Yoga nasce come rimedio al dolore. “Tutto è sofferenza per il saggio” dice Patanjali (II, 15 Yoga Sutra). Ma Patanjali non fu né il primo né l’ultimo a constatare la sofferenza universale. Buddha stesso farà della scoperta del dolore la prima delle quattro nobili verità.

E’ forse a causa di questa profonda contiguità col dolore che lo Yoga è stato letto di volta in volta in chiave filosofica, religiosa, medica e, in modo particolare, psicologica.
Vediamo ora le analogie e corrispondenze dello Yoga con queste discipline.

Filosofia
Della filosofia che, è bene ricordarlo nasce dal “dolore e dalla meraviglia”, lo Yoga conserva l’immensa speculazione sui principi ultimi e il costante impegno nella ricerca della verità. Nello Yoga, come nella filosofia, il più grande “peccato” è l’ignoranza (Avidya). Però, differentemente dalla filosofia, lo Yoga prevede che lo sperimentatore traduca nella vita vissuta le intuizioni del pensiero. Lo Yogi è, in un certo senso un filosofo militante. Non si accontenta di comprendere la verità, vuole tradurla in ogni atto della sua esistenza e le verità che il pensiero ha colto intuitivamente non sono tali finché non vengono sperimentate.

Religione
Della religione – e tutte le religioni nessuna esclusa intendono dar conto  all’uomo del dolore del mondo –  lo Yoga condivide il cerimoniale, il silenzio, la cura dell’anima e, in un certo qual modo, il senso del divino. Ma proprio a cominciare da questo punto si snodano le differenze più significative.
Il Dio dello Yoga è infatti un Dio personale. Non va cercato nelle chiese, semmai nel cuore della terra,  non nella dogmatica, semmai nel profondo respiro mare, non nella mediazione dei sacerdoti, semmai nell’alito del vento; basta fermarsi un attimo, rilassarsi, disporre la mente alla meditazione e può capitare di incontrare la Totalità che si manifesta in noi come unità e quiete.
Il Dio dello Yoga non assume alcuna espressione antropomorfa, i vari Shiva, Vishù, Buddha, sono mezzi e non fini. Non è un principio esterno all’uomo, al contrario abita da sempre la sua interiorità. Il problema è prendere coscienza che “Tu sei Dio” , come affermano perentoriamente le Upanishad. Da questa prospettiva lo Yoga più che una religione è una mistica cioè un’espressione di intima relazione dell’uomo con l’Universo. Con una splendida immagine lo Yogi figura il suo rapporto col divino come quello della “goccia d’acqua con l’Oceano”.

Medicina
Della medicina lo Yoga assume il metodo “scientifico” di indagine delle cause della malattia, della vecchiaia e della  morte nonché di ricerca di rimedi contro il dolore che la malattia, la vecchiaia e la morte provocano. Noi occidentali, in accordo con la nostra natura pratica, diamo in effetti una grande enfasi proprio all’aspetto “terapeutico” dello Yoga.  Lo Yoga d’altra parte rifugge dalle pure astrazioni e si presta bene a quest’uso.
Il fatto è che la pratica dello Yoga non può prescindere dalla sua teoria. Se anche riesco a mantenere il mio corpo sano, flessibile, giovane ma non ho sviluppato allo stesso modo la mia interiorità, a che cosa mi serve? Insomma lo Yoga è invariabilmente un sistema psicosomatico. Se tu dici corpo lo Yoga risponde anima, se tu dici anima lo Yoga risponde corpo. Lo Yoga rifugge ogni forma di unilateralità.

Psicologia
Con le scienze psicologiche lo Yoga condivide un’imponente quantità di metodi e prospettive. Della psicanalisi lo Yoga ricorda la sottile analisi del funzionamento della psiche e dei suoi stati e variazioni. Lo Yoga conosce l’Inconscio (che chiama vasana, latenze) e pretende di disporre di tecniche per dominarlo.  Sull’idea che “l’Io non è padrone a casa sua” come dice Freud, lo Yoga fonda la sua raffinata disamina degli stati mentali. Gli Yoga Sutra esprimono con grande profusione di dettagli le conoscenze degli Yogi in materia di sonno, sogno, percezione, memoria (Y.S. I, 5-11) e in ordine agli stati dolorosi della mente (Klesha) come  ansia, depressione e quant’altro. (Y.S. I, 30-31)
E’ necessario mettere in evidenza che, sebbene in entrambe le discipline vi sia un chiaro orientamento a “cercare dentro”, ciò che va a cercare lo sguardo psicologico non è la stessa cosa di quello che va a cercare lo sguardo yogico.

Occorre a questo punto segnalare che per certi versi lo Yoga è anti-psicologico.  Come giustamente osserva lo psicologo Adalberto Bonecchi nel saggio La cura tra Oriente e Occidente  “turbamenti, emozioni, lacrime, palpitazioni e tutta l'eredità tardoromantica di cui più o meno consapevolmente siamo imbevuti non vengono considerati nelle tradizioni orientali un bene prezioso da custodire e in cui riconoscersi, ma un inutile orpello, che ci impedisce di sperimentare la nostra vera natura, che è transindividuale... Conoscere se stessi, infatti, in questo caso significa proprio conoscere questa dimensione, libera dai lacci della propria storia, che non viene abolita, ma di cui si diviene testimoni per così dire oggettivi”. L’anima dell’uomo secondo lo Yoga non è il mio sé contrapposto al tuo, ma un Sé che ci trascende entrambi.”

Senza dubbio la psiche dell’uomo occidentale è diversa dal quella dell’uomo orientale. La nozione di Io è ben radicata noi e la sofferenza non è soltanto universale, è soprattutto personale.  Per questo chi pratica Yoga non dovrebbe trascurare l’importanza del lavoro psicologico.
Lo Yoga interviene là dove il processo terapeutico non può inoltrarsi, quando risolti e superati i propri conflitti personali (per quel tanto che è possibile), si sente il bisogno di dare un senso più ampio e profondo alla vita.

Una grande divaricazione si apre poi tra Yoga e psicanalisi in relazione al concetto di cura. La prima infatti cura eminentemente con il silenzio mentre, la seconda, come a tutti noto, è, per definizione, la cura della parola.

Vi sono inoltre chiare analogie tra Yoga e modello teorico della Psicosintesi.
La Psicosintesi come lo Yoga ritiene che l’Io personale non è l’ultima istanza ma lo include in un’istanza superiore, un Tutto, con il quale relazionarsi attraverso le sue tecniche psicofisiche.
Entrambe considerano l’uomo come un essere incompleto, percorso da una sensazione di vuoto, di mancanza e di nostalgia della perduta unità.
Da qui prende le mosse il desiderio di integrazione (sintesi), armonizzazione e unificazione delle diverse istanze della psiche.

Ma, fra tutte le teorie psicologiche, quella che presenta maggiore affinità con lo Yoga è la Psicosomatica. In senso generale la medicina psicosomatica oltrepassa il modello cartesiano di dualismo tra mente e corpo guardando all’uomo come a un tutt’uno in cui la malattia si manifesta a livello organico come sintomo e a livello psicologico come disagio. In senso stretto la medicina psicosomatica si occupa di quei disturbi organici che non avendo alla base un’origine anatomica sono ricondotti a un’origine psichica. La psicosomatica asserisce che “la distinzione tra anima e corpo è solo verbale e non sostanziale, che corpo e anima costituiscono un tutto unico, e che in questa totalità è nascosto un Es, una forza da cui veniamo vissuti, mentre crediamo di essere noi a vivere” Groddeck, Freud, 1970. L’integrazione corpo-mente e la connessione con la Totalità rappresentano anche lo scopo dello Yoga.

La psicosomatica ha sviluppato con Reich e seguaci il concetto di corazza bioenergetica, specie di armatura muscolare e caratteriale, preposta al controllo delle emozioni, che opera un blocco doloroso della scarica vitale.
Secondo la teoria Bioenergetica, sviluppata dall’americano Lowen, non è possibile sciogliere gli irrigidimenti muscolari senza risolvere il conflitto analogo di natura psichica, e neppure è possibile elaborare la sofferenza finché non verrà risolto il corrispondente corporeo. Da qui la necessità di proporre esperienze terapeutiche  che coinvolgano simultaneamente il corpo e l’apparato percettivo. Esperienze basate sul respiro, sul movimento e sul contatto che hanno lo scopo di ristabilire il flusso energetico e richiamare alla consapevolezza, al fine di elaborare e rimuovere, i vissuti che ostacolano l’espressione libera e spontanea del nostro potenziale energetico.

Ma torniamo ora alla filosofia dello Yoga.
Schematizzando possiamo affermare, seguendo uno schema proposto da Mircea Eliade, che le idee-forza che della spiritualità indiana sono quattro: Karman, la Maya, il Nirvana e lo Yoga.
Il Karman è la legge della causalità universale, che rende l’uomo solidale al cosmo e lo condanna alla trasmigrazione.
La Maya è l’illusione cosmica che cela la realtà assoluta all’uomo finché è accecato dalla non-conoscenza (avidya) e scambia per eterno ciò che invece è perituro.
Il Nirvana è la condizione dell’essere puro, assoluto, Brahman, l’incondizionato, il trascendente, l’immortale.
Lo Yoga, ovvero le tecniche per raggiungere l’Essere, è il mezzo per conquistare la liberazione (moksha) dalle catene karmiche.

Si diceva in principio che il punto di partenza dello Yoga era la constatazione della sofferenza.  Il concetto del dolore (Duhkha) universale e del suo superamento per mezzo dello Yoga è il Leitmotiv di tutto il pensiero orientale.

Ed è proprio il superamento del dolore, più che una generica tendenza al trascendente, che muove tutta la riflessione orientale sulla vita. Esso è connaturato alla natura umana, vuoi perché germina con la vita stessa, vuoi perché, come dicono i buddhisti è la nostra mente che lo crea, vuoi perché ci viene procurato dagli altri esseri umani.

La ricerca del piacere poi, non è l’antidoto al dolore, anzi lo ravviva, perché genera in continuazione il desiderio di essere raggiunto. E il desiderio contiene sempre una componente dualistica, di separazione tra il soggetto che desidera e l’oggetto che viene desiderato.
Stando a questa diagnosi sulla omnipervadenza del dolore si rende necessario trovare il mezzo per sradicarlo. Tale mezzo è lo Yoga.

Vediamo adesso i tre diversi tipi di sofferenza secondo l'analisi della filosofia Yoga:

a) duhkha-duhkha, la comune sofferenza, che deriva dalla nascita, la malattia,
l'invecchiamento, la morte, la vicinanza con ciò che non si apprezza, la lontananza da ciò che si ama e il non riuscire a realizzare tutti i propri desideri;

b) viparinama-duhkha, la sofferenza come effetto del cambiamento, cioè la sofferenza che nasce dal sottile meccanismo per cui un fenomeno piacevole con il tempo tende a divenire spiacevole, come ad esempio possiamo constatare quando il piacere prolungato si trasforma in dolore o la persona a noi più cara diviene il nostro peggiore nemico.

c) samskara-duhkha, la sofferenza che pervade ogni fenomeno condizionato e che è connessa al nostro dipendere dai cinque aggregati psicofisici: la materia, la sensazione, la percezione, i fattori mentali e la coscienza. Esemplificando, alla maniera buddhista possiamo dire che, “paradiso e inferno sono nella nostra mente”.

Tuttavia questo universale dolore non sfocia mai in un pessimismo radicale di stampo nichilista bensì dà il via ad un sistema teorico pratico di affrancamento.
Il dolore è in un certo senso la molla che fa scattare nell’uomo un bisogno di crescita e riscatto. E’ assolutamente corretto intendere lo Yoga come una strategia esistenziale che ha come scopo primario quello di rendere la vita più tollerabile. La risposta al dolore, lo ripeto, è lo Yoga, di cui, peraltro, il Buddhismo è solo la più conosciuta e nobile variante.

Yoga ha un duplice significato. Il primo è “unione”. Ciò che si vuole unire è l’uomo al Tutto. Il secondo è “soggiogare”, “legare insieme” (Yuj). Ciò che si vuole mettere sotto giogo sono i sensi, la mente, il corpo al fine di ottenere il risveglio dell'energia sottile
[1] che conduce all’esperienza dell’unità con il tutto.

L’enunciazione dello scopo dello Yoga può risultare a noi occidentali quantomai bizzarra. In effetti l’Occidente conosce il concetto dell’unione con il Tutto esclusivamente attraverso la testimonianza dei suoi mistici. Lo Yoga segna infatti l’apoteosi del misticismo. Ma se il sentimento mistico ci rimane estraneo non può non interessarci un’altra via affine. La via dell’amore. Parlando di amore mettiamo in luce uno dei tratti più tipici della cultura occidentale.  Lo Yoga è la via dell’amore vissuto come sentimento di pace e unità con il Tutto.  E, in un mondo in cui gli uomini sono sempre più estraniati da se stessi e tra loro stessi nonché da Madre Natura che ci genera e ospita, lo sviluppo tali sentimenti non potrà che portarci giovamento.

Per quanto concerne l’altro aspetto, quello legato al controllo, al “giogo”, ci sono altre cose interessanti da dire. Il desiderio di poter disporre di tutte le nostre facoltà fisiche e mentali è pressoché presente a livello universale. A questo desiderio sta sottesa nient’altro che la volontà di potenza che è, come giustamente dimostrato dai filosofi tedeschi dell’Ottocento, uno dei tratti salienti della nostra storia.

La ricerca del dominio del mondo è un grande delirio che ha prodotto infiniti danni alla Terra e all’umanità.  Ma nello stesso tempo l’ha condotta ai livelli attuali di sviluppo. Sul piano individualke è evidente che un certo grado di controllo sulle nostre funzioni psicofisiche è necessario. Questo noi lo chiamiamo consapevolezza. Essere presenti a se stessi qui e ora. Il modo corretto di intendere questo concetto è autocontrollo senza però scadere nella rigidità e nel razionalismo.

Abbiamo finora tentato di delineare una via dello Yoga.
Il punto di partenza era la scoperta del dolore, nel nostro linguaggio, visualizzato come angoscia, noia, mancanza di autostima, depressione o perdita del senso della vita, ma inteso anche come malattia psicosomatica, insonnia, mancanza di vitalità, tensione nervosa o problemi neurovegetativi in generale.  Il punto di arrivo corrisponde a un nuovo stato in cui le sofferenze sono lenite e i contrasti  ricomposti. Ma lo Yoga non è una gnosi, non basta conoscere il dolore e gli elementi che lo provocano, per superarlo; ci vuole anche una tecnica.

Accanto ad uno sguardo filosofico e psicologico per rimediare il dolore, lo Yoga prospetta infatti elaborate tecniche psicofisiche. Nella codifica classica, quella esposta nei 195 aforismi degli Yoga Sutra, abbiamo otto passi fondamentali. Due preliminari, di tipo morale, non specificatamente yogici, tre fisici e tre mentali.

Yama
I primo passo è lo Yama. Yama significa raffrenamento, restrizione di tipo morale, ciò che si deve evitare (Y.S. II,13). Yama comprende cinque precetti negativi. Ahimsa, significa “non uccidere” che dobbiamo intendere in senso lato come volontà di recare “il minor danno possibile” a qualsiasi essere vivente.  In quest’ottica si inquadra la dieta vegetariana consigliata a chi pratica Yoga.
Il secondo elemento è Satya, non mentire.  Satya significa tendere sempre alla verità, con gli altri e con se stessi e far coincidere il pensiero all’azione. Alla maniera di San Giovanni, ma anche d’intesa con la nostra psicanalisi, lo Yoga è convinto che “la verità ci renderà liberi”.
Il terzo elemento è Asteya,  non rubare. Il furto danneggia il prossimo ed inoltre è condannato legalmente.
Il quarto elemento e Brahmacarya, l’astinenza sessuale. Brahmacarya va compreso. Lo Yoga non ospita alcuna morale sessuofobica.  Ha solo visto che il desiderio sessuale rappresenta una spinta verso la conquista di un “oggetto” esterno. In questo modo si crea uno strappo  che ostacola la presa della realtà interiore. Inoltre il "ritiro" libidico è funzionale allo sviluppo dell'energia kundalinica.
Il quinto elemento è Aparigraha, assenza di avarizia. L’attaccamento alle cose e la mancanza di generosità ci rende dipendenti, quasi schiavi dalle cose stesse. Ancora una volta lo Yoga si oppone agni forma di vincolo della coscienza agli oggetti esterni.

Niyama
Parallelamente a queste restrizioni lo Yoga richiede una serie di discipline corporali e psichiche di tipo positivo. Niyama,  osservanze, le chiama. (Y.S: II,32)
La prima è Samtosha, serenità, contentezza. Coltivare la serenità dello spirito ed evitare, per quanto possibile, tutte le circostanze che la turbano è un precetto di cui tener conto sia nello Yoga che nella vita di tutti i giorni. Certo, lo sappiamo, è un obiettivo molto difficile da conseguire. Il mondo sembra organizzato per ostacolare questo progetto.  La serenità è sempre il frutto di una conquista.  Contentarsi di ciò che si ha è un altro aspetto di Samthosha. In effetti molte delle nostre infelicità sono la diretta conseguenza di un eccesso di pretesa.
La seconda è Tapas, l’ascesi. Non basta infatti maturare la necessità di guadagnare la completezza e l’armonia interiore, bisogna persegue lo scopo con forza e dedizione. Lo Yoga non è un fare è un essere. Richiede la variazione della visione prospettica, non una generica ed episodica ricerca di tranquillità immersi nel silenzio e nel profumo d’incenso della sala di meditazione. Tapas non è disciplina ma auto-disciplina.
La terza è Shauca, la purezza. Questa deve intendersi sia come qualità interiore che come cura esteriore. Pulizia quotidiana e un nutrimento sano e leggero è Shauca.
La quarta osservanza è Svadhyaya, in senso tradizionale lo studio dei testi sacri.
Lo Yoga è una disciplina integrale e pertanto non nega la necessità di coltivare la conoscenza intellettuale.
La quinta e ultima osservanza è Ishvara pranidhana, letteralmente l’offerta dei propri atti a Dio.  Questo precetto non deve intendersi in senso strettamente religioso.  Si tratta invece di rivolgere i nostri sforzi non al conseguimento di un maggiore potere personale ma verso una più profonda comprensione del mistero della vita.

Asana
Terza delle otto tappe secondo la codificazione di Patanjali, Asana significa "posizione stabile e comoda del corpo e della mente”. (Y.S. II, 46)
Qui occorre osservare che il terzo elemento dello Yoga ha finito in Occidente per coincidere con lo Yoga stesso.  Stando all’effettivo  potere terapeutico degli asana abbiamo finito per utilizzarli unicamente come un rimedio contro il mal di schiena o per combattere la tensione nervosa. In questo naturalmente non c’è niente di male. Tutto quello che può migliorare la nostra vita è chiaramente benvenuto. Si tratta però di allargare la prospettiva degli asana verso un orizzonte più sottile e profondo di integrazione corpo-mente. La posizione diventa perfetta quando la coscienza si fonde con l’infinito. (Y.S. II, 42)
La valenza degli Asana è essenzialmente psicosomatica.
Dal punto di vista fisico assolvono varie funzioni:
1) allungano i muscoli, sciolgono le articolazioni,
2) massaggiano gli organi interni,
3) stimolano il sistema ghiandolare,
4) drenano quello linfatico e potenziano quello cardiovascolare.
5) agiscono in profondità sul sistema psiche-soma,
6) liberano il corpo dalle tensioni muscolari croniche causate dai conflitti emotivi sviluppando il potenziale energetico e creativo,
7) conferiscono una maggiore consapevolezza di sé attraverso un allenamento graduale che trasforma e integra la personalità dell'individuo.
Un atteggiamento rilassato e il respiro consapevole guidano ogni movimento durante la formazione dell'Asana. A posizione assunta il respiro diventa calmo e regolare e accompagna l'Asana per tutta la sua durata.
Attraverso la presenza sul respiro si evitano le fluttuazioni della mente che in questo stato si dispone a cogliere nell'immobilità del corpo sensazioni ed emozioni del tutto inattese.

Pranayama
E' la quarta tappa psicosomatica dello Yoga classico.
Consiste nel "controllo dell'energia cosmica (Prana) mediante le tecniche del respiro". (Y.S. II, 49)
La vitalità del corpo e la respirazione sono intimamente connessi. "La riduzione dell'attività respiratoria comporta un decremento della vitalità e viceversa riducendo la vitalità decresce l'immissione di ossigeno e la combustione metabolica si attenua. Un corpo attivo è spontaneo e respira in moto libero e pieno". (Alexander Lowen).
Può sembrare strano ma occorre imparare a educare il nostro respiro e liberarlo dall'influsso degli stati emotivi di tipo ansiogeno che sono i responsabili della parziale inibizione della funzione respiratoria.
Di per sé‚ gli Asana assolvono questo compito: ogni posizione interviene sul corpo richiamandolo a un più efficace rendimento respiratorio. Il Pranayama, agisce però più in profondità, e intensifica tutti gli effetti della respirazione ottenuta con le tecniche posturali.
Pranayama è il respiro lento, profondo, ritmato e concentrato che innalza la soglia dell'attenzione e dona la calma mentale al praticante grazie anche al meccanismo di retroazione (feedbeck) esistente tra il respiro e gli stati psicomentali.

PRATHYAHARA
La quinta tappa dello Yoga rappresenta un ponte tra la sfera somatica e quella psichica.
Prathyahara, astrazione o ritrazione psico-sensoriale  è secondo Patanjali  la facoltà di liberare l’attività sensoriale dalla presa degli oggetti esterni.  (Y.S. II, 54)
Questa tecnica è paragonabile al gesto della tartaruga che ritira le membra nella sua corazza. Con questo passo lo Yoga afferma categoricamente che lo scenario della sua attività è il mondo interiore.

Dharana
Significa indirizzare l’attenzione mentale su un unico punto. (Y.S: III, 1)
La concentrazione può essere fissata su un punto interno, l’ombelico, il terzo occhio, il cuore, ecc. oppure su un concetto, al esempio lo spirito. Dharana si avvicina all’idea di “ekagrata”, fissazione in un solo punto sottesa a tutto lo Yoga. Possiamo dire che tutto lo Yoga è una concentrazione. Concentrazione del corpo “congelato” in una posizione, concentrazione del respiro “vincolato” a un processo, concentrazione della mente “indirizzata” su un solo punto.

Dhyana
Viene tradotto con meditazione ed è la settima tappa psico-spirituale dello Yoga classico. Dhyana, secondo Patanjali, è la "corrente del pensiero unificato" rivolta su un unico oggetto interno o esterno. (Y.S: III, 2)
Le tecniche meditative sono molteplici ma tutte tendono allo stesso scopo: restringere il fuoco della coscienza sulla sfuggente realtà dell'anima e aprire al praticante la vista interiore del proprio Sé.
Nella meditazione gli stimoli sensoriali sono ridotti al minimo e l'attenzione mentale fissata su un tema statico perviene a una sorta di concentrazione su nulla chiamato anche silenzio mentale.
Lo stato mentale determinato dalla pratica meditativa inibisce la capacità di elaborazione verbale del cervello a favore di un aumento del flusso non-verbale e della consapevolezza di sé e su di sé.
A livello fisiologico il primo riscontro della meditazione è:
1) una riduzione della velocità metabolica,
2) un rallentamento del battito cardiaco e della respirazione,
3) una riduzione dell’attività elettrica del cervello,
4) una riduzione della resistenza della pelle che  indica una diminuzione del livello di ansietà.

A livello mentale la meditazione conduce verso livelli di pensiero estremamente raffinati. Raggiunto il silenzio mentale la coscienza si stacca dall’Io personale  ed entra in uno stato di pura consapevolezza.

Quello che accade durante la meditazione non è facilmente definibile in quanto dovremmo adottare un linguaggio verbale per descrivere ciò che abbiamo sperimentato a livello non-verbale (simbolica).
Dovremmo limitarci a dire che si tratta di una esperienza piacevole e di integrazione per il nostro Io e non aggiungere altro.

Samadhi
Viene tradotto correntemente con identificazione ed è la méta del processo yogico. Si realizza quando la mente si fonde con l’infinito. (Y.S: III, 3)
Tale stato non è sconosciuto alla nostra poesia.
Leopardi nell’Infinito intuisce una possibilità di inabissamento dell'anima:

Sempre caro mi fu quest'ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco / Il cor non si spaura. E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando: e mi sovvien l'eterno, / E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa / Immensità s'annega il pensier mio: / E il naufragar m'è dolce in questo mare.

Samadhi è l’enstasi yogica.  La psiche in Samadhi è unificata in se stessa e nel contempo è unita al mondo o, come dice Leopardi, annegata nell’infinità dell’essere. Samdahi è quiete e unità. Per renderci vicino e familiare il concetto di Samadhi potremmo tentare di paragonarla all’estasi d’amore.
Lo stato in cui la contentezza e la gioia di vivere è così grande da poter abbracciare il mondo intero. Se qualche fortunato ha vissuto questa esperienza forse può comprendere lo stato del Samadhi.

Ma si tratta solo di una lettura personale. A questo proposito i maestri mettono in guardia i praticanti sulle possibili interpretazioni degli stati più profondi della pratica Yoga. La loro preoccupazione più forte riguarda il pericolo di confusione tra la sfera psichica e la sfera spirituale. Non che questi due ambiti siano separati poiché l’uno trasfonde nell’altro ma, sebbene l’esperienza psicologia e quella spirituale  facciano parte di  un unico processo, non devono venire perr questo confuse.
Il rischio maggiore consiste nello scambiare gli stati psichici anche molto elevati con la spiritualità. Semplificando possiamo dire che a mano a mano che si procede nell’esperienza della meditazione tutti gli stati d’animo, anche i più sublimi e celestiali, tendono a dileguarsi per lasciar posto a un senso di pace e silenzio dove si sperimenta la pura coscienza di esistere qui e ora. Essere nell’essere. Questa potrebbe essere una buona definizione di Samadhi. E, lo Yoga si conosce per mezzo dello Yoga. Altro non si può dire.

Conclusioni
Viene da chiederci ora:  che giovamento possiamo trarre noi uomini del 21° secolo da un sistema pensato agli albori della storia? Che cosa abbiamo in comune con i Sadhu che abitavano del foreste dell'India ai tempi di Buddha?  Che cosa ha l'Oriente da insegnarci?

Per cominciare occorre dire che lo Yoga è una disciplina introspettiva che non ha un corrispondente in Occidente, fatti salvo forse gli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.

La nostra è una mentalità estrovertita, attiva, logica e razionale che non ha mai dato grande valore alla cura della vita interiore.  Semmai, la nostra cultura, ha ostacolato ogni tendenza all'introversione.

Freud stesso tenderà a interpretare questa tendenza come un atteggiamento autoerotico dello spirito che chiamerà Narcisismo. Per fortuna i suoi discepoli e le correnti più moderne della psicanalisi hanno cominciato a tenere in giusta considerazione le manifestazioni della psiche  introvertita.

Jung in particolare fonderà la sua teoria dei tipi psicologici proprio a partire dal riconoscimento di due tendenze fondamentali della psiche: l'estroversa e l'introversa. Non solo, egli delinea un percorso nel quale è previsto che nella prima parte della vita si verifichi un orientamento della libido verso l'esterno volto alla conquista di un posto nel mondo, del proprio partner e del ruolo sociale e che, nella seconda parte della vita, accada una specie di riconversione della spinta questa volta indirizzata alla conquista della realtà interiore. Jung chiamerà questo fenomeno Processo di individuazione. Individuarsi per Jung significa diventare ciò che si è. Lo Yoga non fa altro che assecondare il processo di individuazione.

Noi occidentali viviamo in un mondo complesso ormai completamente descritto dallo scenario tecnico. «Ciò che è veramente inquietante - scrive Heidegger - non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo».

La filosofia ha dimostrato che non può esistere alcuna realtà eterna, è per questo motivo che tutto diventa dominabile dalla tecnica; certo, anche ogni forma storica della filosofia è una forma di tecnica - il primo grande rimedio contro il nulla (quel nulla che è stato evocato per la prima volta dalla filosofia stessa); ma è quella forma che ha reso possibile la tecnica del nostro tempo, cioè il nuovo rimedio con cui l'uomo tenta oggi di salvarsi dal nulla.

Ma un mondo conquistato dalla tecnica è un mondo perduto per la libertà.  Heidegger in un piccolo saggio intitolato L'abbandono (Genova, il Melangolo, 1995)  riconosce nell'unilateralità della ragione (cui è sottesa la volontà di potenza incarnata nell'apparato tecnico) la malattia dell'Occidente e auspica il passaggio dal "pensiero che calcola" al "pensiero che medita", oppure, e lo dice con un bel gioco di parole, dal pensiero che pensa (Denke) al pensiero che ringrazia (Danke).

Jung sostiene che, a livello esistenziale, solo ciò che ha significato redime. Al contrario "la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità; la tecnica funziona … e per l'individuo non c'è altro modo dì essere al mondo se non come funzionario della tecnica".  (v. Umberto Galimberti, Psiche e techné nell'età della tecnica, Milano,  Feltrinelli, 1999)

Abitiamo un modo instabile e, a volte, violento nel quale le tradizionali certezze sono perdute per sempre.
Senza voler demonizzare il mondo attuale ritengo sia importante riconoscere una verità evidente a tutti: riceviamo continue e spesso infondate sollecitazioni dall'esterno.  Sollecitazioni a lavorare di più, guadagnare di più, consumare di più, correre di più, sapere di più, fare sempre di più nel tentativo di soddisfare le richieste sociali.  Ma il caro prezzo che dobbiamo pagare è essere sempre meno aderenti ai nostri bisogni reali.

Chi in qualche modo si sottrae a questa tortura della modernità soffre una diversità che lo isola e l'avvilisce. Da qui il desiderio di una cambiamento radicale nella consapevolezza che, di là  e oltre le mirabilia e i giochetti della tecnologia, come dice un Haiku Zen,  "poche cose bastano per essere felici".  In questa logica si inquadra il nostro bisogno di costruire nel tempo e nello spazio dello Yoga una "stanza tutta per sé" dove poter colloquiare con noi stessi; dove poter "fare anima".

Lo Yoga pone senza discussione le necessità del corpo e della mente in primo piano. Si tratta di riattivare nel corpo la capacità di godere. Si tratta di sviluppare nella mente la capacità di sognare e immaginare. Si tratta di coltivare nella nostra "stanza interiore" il proprio significato individuale ed di immergersi in una dimensione rigenerante di unità e di quiete.

Sia chiaro: non è realisticamente possibile "salvare" noi stessi se tutto il mondo intorno è degradato.  L’intendimento è quello di cominciare a  prendersi cura del mondo partendo dalla sua cellula base: l'individuo.

Lo Yoga cerca la bellezza in qualsiasi forma si manifesti. Concentra i nostri sforzi verso un'unica meta: l'esperienza profonda di noi stessi partendo dalla convinzione che questa sia la più grande esperienza che possa essere data da vivere ad un essere umano.

Qualcuno giustamente, a questo punto, osserverà che raggiungere, anche solo in parte, questo scopo, non è cosa facile. In effetti non è cosa facile: è lo scopo di tutta una vita!
 

[1] Le problematiche legate al risveglio di Kundalini meriterebbero un capitolo a parte. Per un primo approfondimento si vedano:
Gopi Krishna, Kundalini, l'energia evolutiva dell'uomo. Commento psicologico di J. Hillman. Roma, Astrolabio, 1971.
Gopi Krishna, Il segreto dello yoga kundalini. Roma, Astrolabio, 1986
Lee Sannella, L'esperienza della Kundalini. Apogeo, 1999

Conferenza tenuta il 15 marzo 1999 presso il Centro Culturale NUOVA ERA - Venezia

 

 

Da: http://digilander.libero.it/marci57/yoga/intro.htm

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