| 
         La filosofia ed il 
        pensiero degli antichi Greci è forse il più intellettualmente stimolante 
        e limpido che il mondo abbia mai conosciuto. La filosofia indiana delle 
        origini era intuitiva, capace di stimolare la visione profonda delle 
        cose e nulla è mai stato concepito di più esaltante e profondo, 
        rivelatore delle grandi profondità e delle grandi altezze, più potente 
        nel dischiudere visioni infinite, della Parola divina e ispirata, il 
        mantra dei Veda e dei Vedanta. Ma quando quella filosofia divenne 
        intellettuale, precisa, fondata sulla ragione umana, divenne al tempo 
        stesso rigidamente logica, innamorata della fissità e dei sistemi, 
        desiderosa di costruire una sorta di geometria del pensiero. Al 
        contrario, l'antica mente greca era dotata di una precisione fluida, di 
        una logica indagatrice ma flessibile; l'acutezza e l'attenzione 
        intellettuale erano le sue caratteristiche fondamentali, proprio in 
        virtù delle quali determinò il carattere e l'ambito del pensiero 
        europeo. Non c'è pensatore greco più stimolante del filosofo Eraclito, 
        che nel suo stile aforistico aggiunge allo stimolo intellettuale moderno 
        qualcosa dell'antica visione ed espressione psichica ed intuitiva dei 
        mistici del passato. C'è in lui la tendenza al razionalismo ma non 
        ancora la fluida chiarezza della mente razionale che fu la creazione dei 
        Sofisti. 
        Il Professor R.D. Ranade ha pubblicato recentemente un breve trattato 
        sulla filosofia di Eraclito che per la sua impaginazione sembra parte di 
        un'opera più vasta, ma non si sa di quale opera si tratti. Ci piacerebbe 
        che fosse parte di un insieme di saggi o di una storia della filosofia 
        scritti da questo eminente studioso. Ad ogni modo l'opera è un dono 
        inestimabile perché il professor Ranade possiede ad un livello 
        superlativo la rara capacità di esporre in modo semplice ma completo e 
        di rendere affascinanti argomenti come la filologia e la filosofia 
        spesso ostici, aridi, difficili e sgradevoli per il lettore ordinario. 
        Aggiunge alla chiarezza, alla lucidità e al fascino dell'espressione uno 
        stile di presentazione altrettanto chiaro e limpido, in quel modo 
        perfetto così insito nelle lingue e nelle menti greca e francese ma così 
        raro nella lingua inglese. Nello spazio di diciassette pagine presenta 
        il pensiero dell'antico, enigmatico, Efesino con una chiarezza e 
        un'adeguatezza che ci lasciano incantati, illuminati e soddisfatti. 
        Su un paio di punti particolarmente delicati tendo a non concordare con 
        le sue conclusioni. Egli rifiuta categoricamente l'opinione di 
        Pfleiderer che considera Eraclito un mistico, opinione sicuramente 
        esagerata ed errata per il modo in cui viene esposta, ma che ritengo 
        nascondere un certo grado di verità. Le ingiurie che Eraclito scaglia 
        contro i misteri del suo tempo non sono molto rilevanti. Infatti 
        Eraclito rifiuta gli aspetti di magia oscura, di estasi fisica e di 
        eccitazione dei sensi che i Misteri avevano incorporato almeno in alcuni 
        loro sviluppi finali, nell'ambito del processo di degenerazione che nel 
        secolo successivo avrebbe ridotto gli Eleusini a bersaglio degli scherzi 
        di Alcibiade e compagni. Il suo cruccio è che i riti segreti che il 
        popolo considerava con riverenza superstiziosa ed ignorante "mistificano 
        con empietà quello che gli uomini considerano mistero". Egli si ribella 
        all'approccio oscuro ai segreti della Natura tipico dell'estasi 
        dionisiaca, ma esiste anche un misticismo apollineo luminoso oltre 
        all'oscuro e a volte pericoloso misticismo dionisiaco, un Dakshina 
        (sentiero della mano destra) oltre ad un Vama Marga (sentiero della mano 
        sinistra) nel tantra mistico. Pur non prendendo parte, né essendo un 
        sostenitore di riti o cerimonie, Eraclito ci sorprende rivelandosi se 
        non altro un erede intellettuale dei Mistici e del misticismo, sebbene 
        possa essere considerato un figlio ribelle. Ha qualcosa dello stile 
        mistico, qualcosa dell'intuizione Apollinea dei segreti dell'esistenza. 
        Certamente, come afferma Ranade, il mero esprimersi per aforismi non è 
        misticismo; aforismi ed epigrammi sono spesso, se non sempre, uno sforzo 
        condensato e pregnante dell'intelletto. Ma lo stile di Eraclito, come 
        descritto da Ranade stesso, non è solo aforistico ed epigrammatico ma 
        anche ermetico e tale ermetismo non è soltanto l'oscurità voluta da un 
        filosofo che condensa in modo eccessivo i propri pensieri o che vuole 
        caricarli di troppi significati, ma è enigmatico alla maniera dei 
        mistici, che cercavano di esprimere l'enigma dell'esistenza nel 
        linguaggio stesso dell'enigma. Che cos'è ad esempio quel "Fuoco 
        inestinguibile" nel quale Eraclito trova la sostanza primaria ed 
        imperitura dell'universo e che identifica successivamente con Zeus e 
        l'eternità? O cosa intende con "il fulmine che governa ogni cosa"? 
        Interpretare il fuoco come mera forza materiale dotata di calore e 
        fiamma o come metafora dell'essere che è in continuo divenire, è, a mio 
        parere, snaturare il significato delle parole di Eraclito. Il fuoco 
        include entrambe le idee e tutto ciò che le collega e questo ci riporta 
        immediatamente al linguaggio ed al pensiero Vedico; ci torna in mente il 
        Fuoco Vedico, cantato come il costruttore dei mondi, l'Immortale 
        nascosto negli uomini e nelle cose, il confine degli Dei, Agni che 
        "diviene" tutto attorno agli immortali , che diventa e contiene tutti 
        gli Dei. Ci ricordiamo della folgore Vedica, il Fuoco elettrico, il Sole 
        che è la vera Luce, l'Occhio, l'arma meravigliosa dei divini esploratori 
        Mitra e Varuna. Si tratta dello stesso stile ermetico, dello stesso 
        stile di pensiero conciso e ricco di significati; anche se non 
        identiche, le concezioni sono notevolmente affini. 
        Il linguaggio mistico ha sempre lo svantaggio di diventare oscuro, privo 
        di significato o fuorviante per coloro che non ne possiedono il segreto 
        e di rappresentare un enigma per i posteri.  
        Ranade afferma che è impossibile comprendere quello che Eraclito 
        intendeva dicendo: "Gli dei sono mortali, gli uomini immortali". Ma è 
        veramente impossibile se evitiamo di isolare questo filosofo dal 
        pensiero originario dei mistici? Anche il rishi Vedico invoca l'Aurora 
        dicendo: "O dea e umana!". Gli dei nei Veda sono sempre chiamati 
        "uomini" e nella tradizione viene usata la medesima parola per indicare 
        uomini e immortali. L'immanenza del principio immortale nell'uomo e la 
        discesa degli dei nel regno della mortalità sono le idee fondamentali 
        della visione mistica. Allo stesso modo Eraclito riconosce 
        l'inestricabile unità dell'eterno e del transitorio, di ciò che è per 
        sempre ma sembra esistere solo nella lotta e nel cambiamento che sono un 
        continuo morire. Gli dei si manifestano come cose che continuamente si 
        trasformano e muoiono e l'uomo è fondamentalmente un essere eterno. 
        Eraclito non si perde in antitesi sterili; il suo metodo consiste 
        nell'affermazione di antinomie e nell'abbozzare la loro riconciliazione 
        attraverso l'opposizione. Così quando afferma che il nome dell'arco (biòs) 
        è vita (bìos) ma che la sua opera è morte non sta facendo uno sterile 
        gioco di parole; sta invece parlando di quel principio di guerra, padre 
        e re di tutto, che fa dell'esistenza cosmica in apparenza un processo di 
        vita ma in realtà un processo di morte. Le Upanishad avevano colto la 
        stessa verità affermando che la vita è il dominio del Re della Morte, 
        descrivendola come il contrario dell'immortalità ed affermando che tutte 
        le forme di vita e di esistenza sulla terra furono create dalla Morte 
        per il proprio sostentamento. Se non teniamo conto del carattere 
        simbolico del linguaggio di Eraclito rischiamo di renderlo sterile 
        interpretandolo in modo troppo letterale. Eraclito fa l'elogio 
        dell'anima "asciutta", come la più saggia e migliore, ma, afferma che le 
        anime provano piacere e soddisfazione nel diventare "umide". Questa 
        inclinazione dell'anima verso il piacere naturale, in una sorta di 
        ebbrezza che infiacchisce, deve essere contrastata perché Dioniso, dio 
        del vino, e Ade, Signore della Morte e degli oscuri mondi inferiori, 
        solo la medesima divinità. Il Professor Ranade ritiene questo elogio 
        dell'anima asciutta un elogio alla luce della ragione, trovando in esso 
        la prova che Eraclito fosse un razionalista e non un mistico, ma 
        stranamente prende le affermazioni opposte riguardo all'anima umida e a 
        Dioniso, in senso letterale e materiale, come una disapprovazione morale 
        del vino. Di certo non può essere così. Eraclito non può intendere con 
        "anima asciutta" la ragione di un uomo sobrio e con "anima umida" la 
        mancanza di ragione o la ragione offuscata di un ubriaco e quando 
        afferma che Dioniso e Ade sono 1a stessa cosa non è certo solo per dirci 
        che il vino è deleterio per la salute! Evidentemente anche qui, come 
        sempre, usa un linguaggio figurato e simbolico perché vuole trasmettere 
        un significato profondo, per i1 quale il linguaggio comune gli pare 
        troppo povero e superficiale. 
        Eraclito usa l'antica lingua dei Misteri, benché in modo personale e 
        adattandolo ai propri fini, quando parla di Ade e di Dioniso, del Fuoco 
        inestinguibile e delle Furie, o dei soccorritori della Giustizia che 
        dovrebbero catturare il Sole se oltrepassasse i propri confini. 
        Perderemmo il senso vero delle affermazioni di Eraclito se in questi 
        nomi vedessimo soltanto i significati più limitati e superficiali della 
        religione popolare mitica. Quando Eraclito parla dell''anima asciutta o 
        umida sta pensando all'anima e non all'intelletto, a psiche, non a nous. 
        Psiche corrisponde pressappoco a chetas o citta della psicologia 
        indiana, e nous a buddhi; l'anima asciutta del pensatore greco 
        corrisponde alla "coscienza del cuore" purificata, shudda citta degli 
        psicologi indiani, che per esperienza la definirono il fondamento di un 
        intelletto purificato, visudddha buddhi. L'anima umida è quella che si 
        lascia turbare dal vino impuro del piacere dei sensi, dall'eccitazione 
        emotiva e da un'ispirazione ed un impulso oscuri che scaturiscono dal 
        mondo inferiore. Dioniso è il dio di questa estasi di ebbrezza, il dio 
        dei misteri bacchici, "dei viandanti della notte, dei maghi, dei 
        baccanali, dei mistici", ed è per questo che Eraclito afferma che 
        Dioniso e Ade sono la stessa cosa. Al contrario il devoto estatico del 
        sentiero indù della Bhakti rimprovera colui che segue esclusivamente 1a 
        via del discernimento del pensiero per la sua conoscenza "arida", usando 
        l'espressione di Eraclito con significato peggiorativo anziché 
        celebrativo. 
        Ignorare l'influenza del pensiero mistico e dei suoi metodi di 
        espressione sul pensiero dei Greci, da Pitagora a Platone, 
        significherebbe alterare l'evoluzione storica della mente umana che 
        inizialmente operò nello stile e nella disciplina simbolica, intuitiva 
        ed esoterica dei Mistici, dei veggenti Vedici e Vedantini, degli 
        iniziati orfici e dei sacerdoti egiziani. Da quel velo la mente umana 
        emerse sul sentiero di una filosofia metafisica ancora collegata ai 
        mistici per l'origine delle sue idee fondamentali, per lo stile 
        aforistico ed ermetico - e per lo sforzo di impossessarsi direttamente 
        della verità attraverso una visione intellettuale piuttosto che tramite 
        un ragionamento scrupoloso -, ma intellettuale in quanto a metodo e 
        fine. E' il periodo dei primi Darshanas in India e dei primi 
        intellettuali in Grecia. In seguito dilagò il razionalismo filosofico, 
        con Buddha e i filosofi buddhisti e logici in India, con i Sofisti, 
        Socrate e tutta la loro splendida progenie in Grecia; il metodo 
        intellettuale non iniziò con loro, ma con loro raggiunse la piena 
        autonomia e maturità. Eraclito appartiene al periodo di transizione e 
        non a quello dell'apogeo della ragione e ne è il rappresentante più 
        tipico; perciò il suo stile ermetico, il suo pensiero conciso e denso di 
        significato e le difficoltà che incontriamo nel chiarire e 
        razionalizzare totalmente ciò che egli intende. L'ignorare i mistici, i 
        nostri padri originari, purrve pitarah, è il grave difetto del modo in 
        cui la mente moderna vuole spiegare dell'evoluzione del pensiero. 
         
        II 
        Qual è esattamente 
        l'idea dominante del pensiero di Eraclito? Da dove è partito e quali 
        sono linee guida della sua filosofia? Infatti se è vero che il suo 
        pensiero non si sviluppa secondo il metodo severo e sistematico tipico 
        dei filosofi successivi, se non giunge a noi in vaste ondate di 
        ragionamenti sottili e ricche immagini come quello di Platone, ma 
        piuttosto tramite aforismi spezzati, scagliati come frecce verso la 
        verità, comunque non si presenta certo con riflessioni filosofiche 
        isolate. Gli aforismi sono correlati ed interdipendenti; derivano tutti 
        dalla sua concezione fondamentale dell'esistenza e vi ritornano 
        costantemente per trovare il proprio significato. 
        Nella filosofia greca, come in quella indiana, il primo problema da 
        analizzare è quello dell'Uno e del Molteplice. Ovunque vediamo una 
        molteplicità di cose e di esseri: è reale o soltanto fenomenica, 
        pratica, maya vyavahara? Ha l'uomo - è questo il problema che ci tocca 
        più da vicino - un'esistenza reale ed immortale che gli è propria, o è 
        solo il risultato fenomenico ed effimero dell'evoluzione, del gioco di 
        qualche principio originario unico, Materia, Mente, Spirito, che è la 
        sola vera realtà dell'esistenza? L'unità esiste veramente e, se esiste, 
        è un'unità di molteplicità che si sommano o è l'unità del principio 
        primordiale,? E' un effetto o una causa? Un'unità di totalità, un'unità 
        di natura, o un'unità di essenza, secondo la visione del Pluralismo, del 
        Sankhya e del Vedanta? O ancora, se il Molteplice e l'Uno sono entrambi 
        reali, quali sono i rapporti tra questi principi eterni dell'essere? Si 
        riconciliano forse in un Assoluto che li trascende?  
        Questi non sono sterili problemi di logica, né contrapposizioni tra 
        nebulose astrazioni metafisiche come vorrebbe farci credere, con 
        disprezzo, l'uomo 'pratico', schiavo delle proprie sensazioni, poiché 
        dalla risposta a queste domande dipende la nostra concezione di Dio, 
        dell'esistenza, del mondo, della vita e del destino umano. 
        Eraclito, come riportato da Ranade, a differenza di Anassimandro, - che 
        come i nostri Mayavadini negava al Molteplice la vera realtà e di 
        Empedocle per il quale tutto era alternativamente uno e molteplice, - 
        riteneva reali e coesistenti sia l'unità che la molteplicità. 
        L'esistenza è dunque eternamente una ed eternamente molteplice, come 
        hanno concluso anche Ramanuja e Madhwa, sia pure in uno spirito molto 
        diverso e partendo da punti di differenti.. La visione di Eraclito è 
        nata dalla sua potente intuizione concreta delle cose, dal suo grande 
        senso delle realtà universali, poiché nella nostra esperienza del cosmo 
        troviamo sempre questa inseparabile coesistenza eterna dalla quale non 
        possiamo sfuggire. Il nostro sguardo sul Molteplice ci rivela dovunque 
        un'eterna unità, qualunque sia l'oggetto che scegliamo come suo 
        principio e tuttavia tale unità non può operare se non attraverso la 
        molteplicità dei suoi poteri e delle sue forme, né la vediamo mai 
        separata o priva della propria molteplicità. Una sola materia ma molti 
        atomi, molti plasma e corpi; un'Energia, ma molte forze; una Mente, o 
        almeno una Sostanza mentale, ma molti esseri mentali; uno Spirito, ma 
        molte anime. Forse periodicamente questa molteplicità ritorna, si 
        dissolve, viene riassorbita dall'Uno dal quale ha avuto origine, ma 
        l'esistenza stessa di queste fasi di evoluzione ed involuzione ci 
        costringe a postulare la possibilità e persino la necessità di una nuova 
        evoluzione: la molteplicità non è dunque mai realmente distrutta. Col 
        suo yoga il seguace della visione Advaita ritorna all'Uno; si sente fuso 
        nella totalità e crede di essersi liberato del Molteplice, di averne 
        dimostrato l'irrealtà ma si tratta della realizzazione di un singolo 
        individuo, di uno dei Molteplici, ed il Molteplice continua ad esistere 
        a dispetto di essa. Tale realizzazione prova soltanto che esiste un 
        piano di coscienza nel quale l'anima può realizzare l'unità dello 
        Spirito e non più percepirla soltanto con 1'intelletto; non dimostra 
        nient'altro. Su questa verità dell'eterna unità e dell'eterna 
        molteplicità Eraclito pone le basi del proprio pensiero e getta la 
        propria ancora; dalla totale accettazione di questa idea, non analizzata 
        in modo razionale ma accettata in tutte le sue conseguenze, deriva tutta 
        la sua filosofia. 
        Resta comunque un problema da risolvere prima di poter proseguire.  
        Dato che l'Uno eterno esiste, chi è o che cosa è? È Forza, Mente, 
        Materia, Anima? Oppure, poiché la materia ha molti principi, esiste un 
        principio particolare della materia che ha dato origine a tutto i1 resto 
        o che con il proprio potere attivo si è trasformato in tutto ciò che 
        vediamo? Gli antichi pensatori greci concepivano la Sostanza cosmica 
        formata da quattro elementi, omettendo, o non avendo ancora scoperto, il 
        quinto, l'Etere, che lla filosofia indiana considera il principio primo 
        e originario. Cercando la natura della Sostanza originaria, i filosofi 
        greci si fissarono ora sull'uno e ora sull'altro dei quattro elementi 
        identificandolo con la Natura primordiale, chi sull'Aria, chi 
        sull'Acqua, mentre Eraclito rappresenta simbolicamente l'origine e la 
        realtà di tutte le cose con un Fuoco inestinguibile. 
        "Né un uomo né un dio", afferma, ha creato l'universo, "ma da sempre 
        esiste e sempre esisterà il Fuoco eterno." 
        Nei Veda e nel linguaggio antico dei mistici in generale, i nomi degli 
        elementi, o principi originari della Sostanza hanno un significato 
        chiaramente simbolico. È così che nel Rig-Veda il simbolo dell'acqua 
        viene costantemente usato. In esso si dice che all'inizio esisteva 
        l'Oceano incosciente da cui l'Uno fu generato dalla grandezza della Sua 
        energia, ma è evidente dal linguaggio dell'inno che non si tratta di un 
        oceano fisico bensì del caos senza forma dell'essere incosciente in cui 
        il Divino, la Divinità, giace nascosta in un'oscurità avvolta in 
        un'oscurità ancora più grande. Allo stesso modo i sette principi attivi 
        dell'esistenza sono chiamati fiumi o acque; troviamo i sette fiumi, la 
        grande acqua, i quattro fiumi superiori, in un contesto che ne mostra 
        chiaramente il significato simbolico. Questa stessa immagine appare nel 
        mito Puranico di Vishnu, che dorme sul serpente infinito nell'oceano di 
        latte. Tuttavia, anche in un'epoca così antica come quella del Rig-Veda, 
        l'etere è il massimo simbolo dell'Infinito, l'apeiron dei Greci; l'acqua 
        simboleggia quello stesso infinito sotto l'aspetto di sostanza 
        originaria; il fuoco è il potere creativo, l'energia attiva 
        dell'Infinito; l'aria, il principio vitale, fa discendere il fuoco dai 
        cieli eterei fin sulla terra. Questi non sono solo simboli; è chiaro che 
        i mistici vedici vedevano una connessione profonda e un parallelismo 
        effettivo fra le attività fisiche e quelle psichiche, per esempio fra 
        l'azione della Luce e il fenomeno dell'illuminazione mentale. Per loro 
        il fuoco era allo stesso tempo l'energia divina luminosa, la Volontà 
        Veggente del Divino universale, attiva e creatrice di tutte le cose, e 
        il principio fisico creatore di tutte le forme dell'universo, che arde 
        segretamente in ogni vita. 
        Non sappiamo con certezza fino a che punto i primi filosofi greci 
        abbiano conservato queste concezioni complesse nelle loro 
        generalizzazioni del principio originario, ma Eraclito, nella sua 
        concezione del Fuoco inestinguibile, sottintende certamente qualcosa di 
        più di una sostanza o di un'energia fisica. Il fuoco è per lui la 
        manifestazione fisica di una grande forza che ardendo crea, modella e 
        distrugge, generando un cambiamento incessante. L'idea dell'Uno che 
        diventa eternamente Molteplice e del Molteplice che diventa eternamente 
        Uno, l'Uno che non è sostanza o essenza stabile ma forza attiva, una 
        sostanziale Volontà di Divenire, è la base della filosofia di Eraclito. 
        Nietzsche, che a ragione Ranade ritiene erede di Eraclito, il più 
        chiaro, concreto e fecondo dei pensatori moderni - allo stesso modo di 
        Eraclito fra gli antichi Greci - fonda il proprio pensiero filosofico 
        sulla concezione dell'esistenza come un'immensa Volontà di Divenire e 
        del mondo come un gioco di Forze; per lui il Potere divino è il Verbo 
        creatore, inizio di tutte le cose e meta di tutto ciò che vive. Ma 
        Nietzsche afferma soltanto il Divenire escludendo l'Essere dalla sua 
        visione e quindi la sua filosofia è poco soddisfacente, insufficiente, 
        non equilibrata: una filosofia che fa pensare ma non risolve nulla.  
        Al contrario Eraclito non esclude l'Essere dai dati del problema 
        dell'Esistenza, senza peraltro creare contrapposizione o frattura tra 
        l'Essere e il Divenire. Data la sua concezione dell'Esistenza, 
        contemporaneamente una e molteplice, è costretto ad accettare come 
        simultaneamente veri, come veri l'uno nell'altro, questi due aspetti del 
        suo Fuoco inestinguibile: l'Essere è un eterno Divenire e il Divenire è 
        sostenuto da un Essere eterno. Tutto scorre perché tutto è mutamento del 
        divenire; non possiamo bagnarci due volte nella stessa acqua, perché si 
        tratta di un'altra acqua, un'acqua che scorre sempre diversa. Tuttavia, 
        col suo sguardo penetrante rivolto alla verità delle cose, non poteva 
        non scorgere dietro a tutto ciò un'altra verità. L'acqua nella quale ci 
        bagniamo è la stessa e contemporaneamente non lo è; la nostra esistenza 
        è eternità e transitorietà; siamo e contemporaneamente non siamo. 
        Eraclito non risolve la contraddizione, la afferma e cerca di spiegarla 
        a suo modo. 
        Egli vede questo processo come una continua trasformazione e 
        ri-trasformazione, uno scambio e un interscambio in un tutto costante, 
        governati da uno scontro di forze, una lotta creatrice e determinante: 
        "la guerra che è padre e re di tutte le cose". Tra il Fuoco come Essere 
        e il Fuoco nel Divenire l'esistenza compie un movimento discendente e 
        ascendente, pravrtti e nivrtti; chiamato "la via dell'eterno ritorno" 
        sulla quale tutto si muove. Queste le idee fondamentali del pensiero di 
        Eraclito. 
         
        III 
        Due frasi di Eraclito 
        ci danno il punto di partenza di tutto il suo pensiero. Nella prima 
        afferma che è saggio ammettere l'unità di tutte le cose, nella seconda: 
        "L'Uno procede dal tutto e tutto procede dall'Uno." Come dobbiamo 
        intendere queste affermazioni così ricche di significato? Dobbiamo 
        interpretarle una per mezzo dell'altra e concludere che secondo Eraclito 
        l'Uno esiste soltanto come risultante del molteplice come il molteplice 
        esiste come divenire dell'Uno?  
        Ranade sembra dare questa interpretazione, infatti egli afferma che 
        Eraclito nega l'Essere e riconosce soltanto il Divenire, come Nietzsche 
        ed i buddisti. Certamente questo significa attribuire troppa importanza 
        alla teoria del mutamento perpetuo, isolandola troppo dal contesto. Se 
        questa fosse veramente la visione di Eraclito sarebbe difficile 
        comprendere perché avrebbe cercato un principio originario ed eterno, 
        quel Fuoco inestinguibile che tutto crea col suo perpetuo mutamento, che 
        tutto governa con la forza fiammeggiante della "folgore", che riassorbe 
        in sé ogni cosa attraverso una conflagrazione ciclica; sarebbe 
        altrettanto difficile spiegare la sua teoria del movimento ascendente e 
        discendente e ammettere, come ritiene Ranade, che Eraclito abbia 
        condiviso la teoria di una conflagrazione cosmica ed anche difficile 
        immaginare quale potrebbe essere il risultato di tale catastrofe 
        cosmica. Ridurre tutto il divenire al Nulla? Certamente no. Il pensiero 
        di Eraclito è agli antipodi di un nichilismo speculativo. Ridurlo ad 
        un'altra specie di divenire? Evidentemente no, perché una conflagrazione 
        assoluta potrebbe ridurre le cose esistenti al loro principio eterno 
        d'essere, ad Agni, riportarle al Fuoco immortale. Qualcosa che è eterno, 
        che è eternità in se stesso, qualcosa che è per sempre uno - perché il 
        cosmo è eternamente uno e molteplice, e pur divenendo molteplice non 
        cessa d'essere uno - qualcosa che è Dio (Zeus), qualcosa che si può 
        rappresentare come Fuoco, quel Fuoco che pur essendo una forza sempre 
        attiva, è anche sostanza o almeno forza sostanziale e non soltanto 
        un'astratta Volontà di divenire, qualcosa da cui ogni divenire cosmico 
        ha origine ed in cui ritorna, che cos'è se non l'Essere eterno? 
        Eraclito era molto preso dalla sua idea dell'eterno divenire che per lui 
        era la sola spiegazione possibile del cosmo ma il suo universo ha ancora 
        una base eterna, un principio originario unico. Questo differenzia 
        radicalmente il suo pensiero da quello di Nietzsche e dei buddhisti. 
        Da lui i pensatori Greci successivi presero l'idea del perpetuo fluire 
        delle cose: "tutto scorre". Eraclito aveva sempre presente l'idea 
        dell'universo in continuo movimento e in perpetuo cambiamento ma dietro 
        a questo movimento e in tutto ciò che esiste vedeva un principio 
        costante di determinazione ed anche un misterioso principio di identità. 
        Ogni giorno, afferma, è un nuovo sole quello che sorge; certo, ma se il 
        sole è sempre nuovo, se non esiste che per mezzo del cambiamento ad ogni 
        istante, come accade a tutta la natura, è comunque sempre il Fuoco 
        inestinguibile che sorge ad ogni alba sotto forma di sole. Non possiamo 
        entrare due volte nello stesso fiume perché le acque che scorrono sono 
        sempre nuove, "noi entriamo nelle stesse acque e tuttavia non vi 
        entriamo, siamo e non siamo." Il significato è chiaro: in tutte le cose, 
        in tutte le esistenze c'è un'identità, sarvabhutani, ma anche un 
        continuo mutamento; c'è un Essere e c'è un continuo Divenire, per cui 
        abbiamo sia un'esistenza eterna e reale che un'esistenza temporanea e 
        apparente; non siamo soltanto una trasformazione continua, ma anche 
        un'esistenza costante e identica a se stessa. Zeus esiste, Fuoco attivo 
        immortale e Verbo eterno, 1'Uno per mezzo del quale tutte le cose sono 
        unificate, dal quale derivano tutte le leggi e tutti i risultati, l'Uno 
        che mantiene inalterati i confini del tutto. Il Giorno e la Notte sono 
        uno, la Vita e la Morte sono uno, la Giovinezza e la Vecchiaia sono uno, 
        il Bene e il Male sono uno perché tutto è Uno e ogni cosa è solo la sua 
        forma. 
        Eraclito non avrebbe mai accettato come origine delle cose un principio 
        del Sé puramente psicologico, ma in realtà non è molto lontano dalla 
        posizione Vedantina. I Buddhisti della scuola Nichilista usavano nel 
        modo a loro caratteristico le stesse immagini, il fiume e il fuoco. 
        Come Eraclito, vedevano che niente in questo mondo rimane identico 
        nemmeno per due secondi anche quando la continuità delle forme è 
        evidente. La fiamma infatti rimane immutata in apparenza, ma ad ogni 
        istante è un fuoco diverso, come il fiume continua il suo corso con 
        acque sempre nuove. Da tutto ciò traggono la conclusione che non esiste 
        alcuna essenza delle cose, che niente esiste per se stesso; il divenire 
        apparente è tutto ciò che possiamo chiamare esistenza; dietro ad esso 
        non c'è che il Nulla eterno, il Vuoto assoluto o forse un Non-Essere 
        originario. Eraclito invece pensava che se la forma della fiamma esiste 
        solo in virtù di un mutamento perpetuo, - o meglio per una 
        trasformazione costante della sostanza dello stoppino nella sostanza 
        della lingua di fuoco - , deve esistere un principio di esistenza comune 
        ad entrambi, capace di mutare da una forma all'altra. Anche se la 
        sostanza della fiamma cambia in continuazione, il principio del Fuoco è 
        sempre lo stesso e produce sempre gli stessi risultati di energia, 
        agisce sempre nello stesso modo. 
        L'Upanishad descrive il cosmo come un movimento e un divenire 
        universali: tutto ciò che è mobile nella mobilità jagatyam jagat - il 
        termine stesso che indica l'universo, jagat, contiene in sè una forte 
        idea di movimento - in modo tale che l'universo intero, il macrocosmo, è 
        un principio di movimento e di conseguenza di mutamento e instabilità, 
        mentre ogni cosa nell'universo è in se stessa un microcosmo di questo 
        stesso mutamento e di questa stessa instabilità. Le esistenze sono 
        "tutte divenire"; L'Atman esistente in sé, Svayambhu, è diventato tutti 
        i divenire, atma eva abhut sarvani bhutani. I1 rapporto fra Dio e il 
        Mondo è riassunto nella formula: "È Lui che si è manifestato in ogni 
        cosa, sa paryagat"; è Lui il Signore, il Veggente e il Pensatore che 
        divenendo ovunque - il Logos di Eraclito, il suo Zeus, l'Uno da cui 
        derivano tutte le cose - "ha stabilito tutte le cose secondo la loro 
        natura fin dall'eternità". Questa formula è analoga alla frase di 
        Eraclito: "Tutte le cose sono fissate e determinate". Sostituiamo all'Atman 
        Vedantino il suo Fuoco e non resta nulla nel testo dell'Upanishad che il 
        pensatore greco non avrebbe accettato come simbolo del proprio pensiero. 
        E le Upanishad non utilizzano forse proprio il simbolo del fuoco? "Come 
        un unico Fuoco è entrato nel mondo e si è modellato secondo le diverse 
        forme", così l'Essere unico è diventato tutti questi nomi e forme pur 
        rimanendo l'Unico. Eraclito afferma esattamente la stessa cosa: Dio è 
        tutti i contrari. "Egli assume diverse forme, proprio come il fuoco che 
        spruzzato di spezie prende il nome corrispondente al gusto di ciascuna." 
        Ognuno Gli dà il nome che preferisce, dice il veggente greco, ed "Egli 
        accetta tutti i nomi e tuttavia non ne accetta nessuno, neppure il nome 
        supremo di Zeus." Acconsente e contemporaneamente rifiuta di essere 
        chiamato Zeus. La stessa cosa affermava l'Indiano Dirghatamas nel suo 
        lungo inno dei Misteri divini nel Rig-Veda: "I saggi chiamano l'Uno che 
        esiste con molti nomi". Benché assuma innumerevoli forme, dice 1'Upanishad, 
        Egli non ha alcuna forma che la visione possa afferrare, Egli il cui 
        nome è un potente splendore.  
        Ancora una volta vediamo come i pensieri, le espressioni e le immagini 
        del saggio greco siano vicini al significato e allo stile dei saggi 
        Vedici e Vedantini. 
        Se vogliamo comprendere il pensiero di Eraclito dobbiamo mettere 
        ciascuna delle sue affermazioni al posto che le compete. "E' saggio 
        ammettere che tutte le cose sono uno" - non soltanto vengono dall'unità 
        e ed essa ritornano, ma sono Uno ora e sempre; tutto è, era e sarà 
        sempre il Fuoco inestinguibile. Secondo la nostra esperienza tutto 
        sembra molteplice, un eterno divenire di molteplici esistenze; dov'è in 
        tutto ciò il principio di identità eterna? È vero, dice Eraclito, così 
        appare, ma la saggezza guarda oltre e vede l'identità di tutte le cose; 
        la notte e il giorno, la vita e la morte, il bene e il male: tutto 
        questo non è che l'uno, l'eterno, l'identico; coloro che negli oggetti 
        vedono soltanto una differenza non comprendono la verità degli oggetti 
        che osservano. "Esiodo non conosceva il giorno e la notte perché sono 
        l'Uno", esti gar hen, asti hi ekam. Ora, l'eterno e l'identico che tutte 
        le cose sono è proprio quello che intendiamo con Essere, proprio ciò che 
        è negato da coloro che riconoscono soltanto la realtà del Divenire. 
        I Buddhisti Nichilisti sostenevano che esistono soltanto innumerevoli 
        idee, vijnanani e forme impermanenti che non sono altro che combinazioni 
        di parti e di elementi: nessuna unità, nessuna identità da nessuna 
        parte; trascendere le idee e le forme significa giungere all'estinzione 
        di sé, al Vuoto, al Nulla. 
        Tuttavia bisogna porre da qualche parte un principio di unità, se non 
        alla base o nell'essere segreto delle cose, almeno nella loro azione. I 
        buddhisti dovettero postulare il loro principio universale di Karma che, 
        a pensarci bene, finisce per ricondursi ad un'energia universale che è 
        causa del mondo, un principio creatore e conservatore immutabile. 
        Nietzsche ha negato l'Essere, ma ha dovuto parlare di una 'Volontà-di-Esistenza' 
        universale che non è altro che il tapo brahma delle Upanishad: 
        "1'Energia-Volontà è Brahma". Il Sankhya posteriore ha negato l'unità 
        delle esistenze coscienti, affermando però l'unità della Natura, 
        Prakriti, che ancora una volta è il principio originario, la sostanza 
        delle cose e l'energia creatrice, la phusis dei greci. È dunque saggio 
        ammettere che tutte le cose sono uno; perché a questo giunge la visione, 
        questo l'anima e il cuore cercano, a questo che il pensiero arriva 
        girando in cerchio nell'atto stesso della negazione. 
        Eraclito vedeva ciò che dovrebbero vedere tutti coloro che guardano il 
        mondo con un po' d'attenzione, cioè che in tutto questo movimento, in 
        questo cambiamento, in questa differenziazione c'è qualcosa che si fonda 
        sulla stabilità, che torna all'identità, che assicura l'unità, che 
        trionfa nell'eternità. E' immutabile: era, è e sempre sarà. Noi siamo 
        'Quello' malgrado tutte le nostre differenze; partiamo dalla stessa 
        origine, procediamo dalle stesse leggi universali, viviamo, ci 
        differenziamo e lottiamo in seno ad un'unità eterna, cerchiamo sempre 
        ciò che lega tutti gli esseri e unifica tutte le cose. Ciascuno, dal 
        proprio punto di vista, sottolinea l'uno o l'altro aspetto del Tutto, ne 
        perde di vista o minimizza altri aspetti e gli attribuisce un nome 
        diverso, come Eraclito che gli diede il nome di Fuoco attratto 
        dall'aspetto della Forza creatrice e distruttiva. Ma quando Eraclito 
        generalizza si esprime in modo ampio: è l'Uno che è il Tutto; è il Tutto 
        che è Uno - Zeus, l'eternità, il Fuoco. Avrebbe potuto affermare con 1'Upanishad: 
        "Tutto questo è Brahman", sarvam khalu idam brahma, pur non potendo 
        proseguire dicendo: "Questo Sé, questo Me è il Brahman". Avrebbe 
        piuttosto dichiarato di Agni ciò che una formula Vedantina dice di Vayu: 
        "tvam pratyaksham bramasi", Tu sei il Brahman manifesto. 
        Possiamo tuttavia concepire l'Uno in diversi modi. I pensatori della 
        scuola Advaita affermarono l'Uno, l'Essere, ma rifiutarono tutte le cose 
        considerandole Maya, oppure riconobbero l'immanenza dell'Essere in 
        queste manifestazioni in divenire che tuttavia non sono il Sé, non sono 
        Quello.  
        La filosofia Vishnuita concepì l'esistenza come eternamente una 
        nell'Essere, Dio, che è eternamente molteplice per la Sua natura ed è 
        energia-coscienza nelle anime che diventa o che esistono nella Sua 
        natura. Anche tra i Greci Anassimandro negò la realtà molteplice del 
        Divenire. Empedocle affermò che il Tutto è eternamente uno e molteplice; 
        tutto è unità che diventa molteplice e che in seguito ritorna all'unità. 
        Ma Eraclito non risolve così l'enigma. "No, afferma, io rimango fermo 
        nella mia idea dell'eterna unità di tutte le cose; esse non cessano mai 
        di essere uno. Tutto è il mio Fuoco eternamente vivente che prende forme 
        e nomi diversi, che si trasforma in tutto ciò che esiste e tuttavia 
        rimane se stesso, non il risultato di un'illusione o di un mero fenomeno 
        del divenire, ma una realtà rigorosa e concreta". Tutte le cose sono 
        dunque l'Uno nella loro realtà, nella loro sostanza, nella loro legge e 
        nella loro ragione d'essere; l'Uno nelle sue forme, nei suoi valori, nei 
        suoi cambiamenti diventa realmente tutte le cose. Muta e tuttavia è 
        immutabile, poiché non aumenta né diminuisce, e neppure per un istante 
        perde la sua natura e la sua identità con il Fuoco inestinguibile. Molti 
        valori che si riferiscono ad un'unica sorgente, molte forze che tornano 
        alla stessa energia immutabile; molti divenire che rappresentano e si 
        riconducono all'Essere eterno. 
        Così Eraclito introduce la sua formula "L'Uno procede dal tutto e tutto 
        procede dall'Uno", con la quale rende ragione del dispiegarsi del cosmo, 
        come la formula "tutte le cose sono uno" spiega l'eterna verità del 
        cosmo. Nel procedere del cosmo, afferma, l'Uno diviene tutte le cose 
        istante per istante, da cui il flusso eterno delle cose, ma tutte le 
        cose ritornano eternamente al loro principio di unità, da cui l'unità 
        del cosmo, l'uniformità dietro il flusso del divenire, la stabilità, la 
        conservazione dell'energia attraverso tutti i cambiamenti. Egli completa 
        la spiegazione con la sua teoria dello scambio, nella quale tutto è un 
        continuo interscambio. Non c'è dunque fine a questo movimento 
        simultaneamente ascendente e discendente? Poiché il movimento 
        discendente ha trionfato finora fino a creare il cosmo, non trionferà 
        forse anche il movimento ascendente nel dissolvere il cosmo nel Fuoco 
        inestinguibile? Questa affermazione ci porta a chiederci se Eraclito 
        condividesse la teoria di una conflagrazione ciclica o pralaya. "Il 
        Fuoco verrà su tutte le cose, le giudicherà e le condannerà". Se 
        Eraclito condividesse questa visione avremmo un'altra sorprendente 
        coincidenza tra il pensiero di Eraclito e le nozioni così familiari agli 
        indiani, il pralaya ciclico, la conflagrazione del mondo all'apparire 
        dei dodici soli descritta nei Purana, la teoria Vedantina dei cicli 
        eterni di manifestazione e di ritiro dalla manifestazione. In effetti le 
        due linee di pensiero sono sostanzialmente identiche e devono 
        inevitabilmente condurre alle medesime conclusioni. 
         
        IV 
        Eraclito spiega il 
        cosmo come un'evoluzione e un'involuzione del suo principio eterno e 
        unico del Fuoco, sostanza e forza unica, simboleggiato dall'immagine 
        della strada che si snoda verso l'alto e verso il basso. "La strada 
        ascendente e discendente, afferma, è una sola ed unica strada". Dal 
        fuoco, principio irradiante e produttore di energia, procedono l'aria, 
        l'acqua e la terra - questo è lo svolgersi discendente dell'energia. 
        Nella tensione stessa di questo processo esiste una forza di potenziale 
        ritorno, che riconduce le cose alla propria sorgente seguendo l'ordine 
        inverso. Nell'equilibrio di queste due forze, l'una che sale e l'altra 
        che scende, risiede tutta l'azione cosmica; tutto è un equilibrio di 
        energie opposte. Il movimento della vita è paragonato da Eraclito al 
        movimento di ritorno dell'arco, è un'energia di trazione e di tensione 
        che trattiene un'energia di distensione, essendo ogni forza di azione 
        compensata da una corrispondente forza di reazione. L'armonia 
        dell'esistenza deriva dalla resistenza dell'una all'altra. 
        La stessa idea di un'evoluzione di stati successivi di energia emanati 
        da una medesima sostanza-forza primaria è presente nella teoria indiana 
        del Sankhya. A dire il vero in essa il modello proposto è più completo e 
        convincente. Inizia infatti con l'energia originaria, l'energia radice, 
        mula prakrti, che a partire dalla sostanza primaria, pradhana, evolve, 
        si trasforma per mezzo di uno sviluppo e di un cambiamento, nei cinque 
        principi successivi. L'etere, ignorato dai Greci, ma riscoperto dalla 
        Scienza moderna , e non il fuoco, è il principio primo; poi vengono 
        l'aria, il fuoco, - energia ignea, radiante ed elettrica -, l'acqua, la 
        terra; lo stato fluido e quello solido. Il Sankya, come Anassimene, fa 
        dell'aria il primo dei quattro principi ammessi dai Greci, benché non la 
        consideri la sostanza originaria, differendo perciò dall'ordine proposto 
        da Eraclito. Ad ogni modo attribuisce al principio del fuoco la funzione 
        di creare tutte le forme - l'Agni dei Veda, il grande costruttore dei 
        mondi - e almeno su questo concorda con il pensierosi Eraclito ; infatti 
        proprio per rappresentare il principio di energia che si cela dietro ad 
        ogni formazione e trasformazione Eraclito deve aver scelto il Fuoco come 
        proprio simbolo e come immagine materiale dell'Uno. Ricordiamo fino a 
        che punto la scienza moderna concorda con gli antichi per l'importanza 
        che attribuisce all'elettricità e alle forze radioattive - il fuoco e la 
        folgore di Eraclito, il triplice Agni dei Veda - nella formazione degli 
        atomi e nella trasformazione dell'energia. 
        Ma i Greci non giunsero alla distinzione finale che l'India attribuì a 
        Kapila, il supremo pensatore analitico: la discriminazione tra Prakriti 
        ed i suoi principi cosmici, i ventiquattro tattva che formano gli 
        aspetti soggettivi ed oggettivi della natura, e tra Purusha e Prakriti, 
        Anima-Coscienza ed Energia-Natura. E mentre nel Sankya l'etere, il fuoco 
        e gli altri elementi non sono che i principi dell'evoluzione oggettiva 
        di Prakriti, gli aspetti evolutivi della phusis originaria, gli antichi 
        Greci non furono in grado di trascendere questi aspetti della Natura ed 
        arrivare all'idea di un'energia pura, né poterono spiegare l'aspetto 
        soggettivo di Prakriti. Il Fuoco di Eraclito deve servire nello stesso 
        tempo come sostanza prima di tutta la Materia, di Dio e dell'Eternità. 
        La stessa focalizzazione sull'Energia-Natura ed il fallimento nella 
        ricerca delle sue relazioni con l'Anima sono presenti nel pensiero 
        scientifico moderno, insieme allo stesso sforzo di identificare un 
        qualche principio primario della Natura, ad esempio l'etere o 
        l'elettricità, con la Forza originaria. 
        Ad ogni modo la teoria della creazione del mondo ad opera di una 
        trasformazione evolutiva della sostanza o energia originaria, parinama, 
        è comune ai sistemi Greci e Indiani, indipendentemente dalle loro 
        divergenze sulla natura della phusis originaria. Ciò che caratterizza 
        Eraclito fra i primi saggi greci è la sua concezione del cammino 
        ascendente e discendente, che è un unico e medesimo cammino nella 
        discesa e nel ritorno verso l'alto. Questa visione corrisponde all'idea 
        indiana di nivritti e di pravritti, duplice movimento dell'anima e della 
        natura: pravritti verso l'espansione, nivritti il movimento di ritorno 
        verso l'interno. I pensatori indiani si interessarono a questo doppio 
        principio poiché riguarda l'azione dell'anima individuale che entra nel 
        divenire della natura e che da esso si ritrae, ma al tempo stesso 
        concepivano un analogo movimento periodico di espansione e contrazione 
        della Natura stessa, che porta ad un ciclo continuo di creazione e 
        dissoluzione: sostenevano cioè la teoria di un pralaya ciclico. La 
        teoria di Eraclito sembra richiedere una conclusione analoga. In caso 
        contrario dovremmo supporre che la tendenza discendente, una volta in 
        azione, abbia sempre il sopravvento sulla tendenza ascendente, oppure 
        che il cosmo proceda eternamente dalla sostanza originaria, con una 
        costante tensione al ritorno in essa ma senza tornarvi mai veramente. Il 
        Molteplice sarebbe dunque eterno non soltanto nel suo potenziale di 
        manifestazione, ma nell'atto stesso della manifestazione. 
        È possibile che questo fosse il pensiero di Eraclito, ma non è la 
        conclusione logica della sua teoria. Infatti sarebbe in evidente 
        contraddizione con ciò che suggerisce la sua metafora della strada, che 
        implica un punto di partenza e uno di ritorno. Inoltre, anche gli Stoici 
        sostengono chiaramente che Eraclito credeva alla teoria della 
        conflagrazione, cosa che non avrebbero potuto affermare se non fosse 
        stata generalmente considerata parte del suo insegnamento. Gli argomenti 
        moderni addotti da Ranade contro questa concezione si appoggiano su dei 
        fraintendimenti. Eraclito non afferma semplicemente che l'Uno è sempre 
        il Molteplice, che il Molteplice è sempre l'Uno, ma usando le sue stesse 
        parole: "dal tutto procede l'Uno e dall'Uno procede il tutto". È la 
        stessa idea che Platone esprime in termini diversi nella formula: "La 
        realtà è nello stesso tempo molteplice e una e pur nella sua divisione è 
        sempre riunificata". Questo rappresenta una costante corrente e 
        contro-corrente di cambiamento, la strada che sale e scende. Possiamo 
        quindi supporre che come l'Uno attraverso una trasformazione che tende 
        verso il basso diviene il Tutto nel processo discendente, - pur 
        rimanendo eternamente l'unico Fuoco sempre vivente - , così il Tutto 
        attraverso lo sviluppo ascendente possa ritornare all'Uno e continuare 
        essenzialmente ad esistere dato che può nuovamente tornare a 
        manifestarsi in vari esseri ripetendo il movimento discendente. Dunque 
        ogni difficoltà scompare se ricordiamo che ciò che è sottinteso è un 
        processo di evoluzione ed involuzione - così anche la parola indiana 
        srsti significa liberazione o proiezione di ciò che era trattenuto o 
        latente - e che la conflagrazione distrugge le forme esistenti, ma non 
        il principio della molteplicità. Non sussiste dunque più alcuna 
        incoerenza nella teoria di Eraclito di una conflagrazione periodica, è 
        piuttosto, trattandosi dell'espressione più elevata del cambiamento, il 
        risultato logico del suo sistema di pensiero. 
  
        V 
        Se è la legge di 
        Trasformazione che determina l'evoluzione e 1'involuzione dell'unica 
        strada ascendente e discendente, la stessa legge regna anche lungo tutto 
        il sentiero, ad ogni passo e ad ogni tornante, sugli innumerevoli eventi 
        che accadono sul ciglio della strada. Dappertutto regna la legge dello 
        scambio e dell'interscambio, amoibe. L'unità e la molteplicità sono 
        legate ad ogni istante da questo rapporto attivo. L'Uno si scambia 
        costantemente col molteplice: date dell'oro e ricevete in cambio dei 
        beni, ma tali beni non rappresentano altro che valore dell'oro. Il 
        molteplice si scambia costantemente con l'Uno; questi beni, diciamo, 
        esistono o scompaiono o sono distrutti, ma al loro posto c'è l'oro, la 
        sostanza-energia originaria che ne rappresenta il valore. Guardando il 
        sole pensate che sia sempre lo stesso astro che sorge ogni giorno, 
        poiché è il costante dono di sé del Fuoco agli elementi che compongono 
        il sole che ne preserva la forma, l'energia, il movimento e tutte 
        caratteristiche. La scienza ci dimostra che questo vale per tutte le 
        cose; il corpo umano, ad esempio, è sempre lo stesso ma mantiene la sua 
        identità apparente solo grazie ad una continua trasformazione. C'è una 
        distruzione continua e tuttavia non c'è alcuna distruzione. L'energia si 
        distribuisce, ma non si dissolve mai; la legge è la trasformazione e la 
        conservazione dell'energia nel cambiamento, non la distruzione. Anche se 
        questo mondo di molteplicità alla fine sarà distrutto dal Fuoco, 
        tuttavia non c'è fine, e il mondo non è distrutto ma mutato nel Fuoco. 
        Inoltre c'è uno scambio fra tutti questi divenire che sono soltanto 
        valori attivi dell'Essere, beni dal valore fissato in rapporto all'oro 
        universale. Il Fuoco prende la propria sostanza da una forma e la dona 
        ad un'altra, muta un valore apparente in un altro valore apparente, ma 
        la sostanza-energia rimane la stessa e il nuovo valore equivale a quello 
        vecchio, come quando il combustibile si trasforma in fumo, braci e 
        cenere. La scienza moderna, dotata di una maggiore conoscenza di ciò che 
        accade nella trasformazione, conferma la tesi di Eraclito. Si tratta 
        della legge della conservazione dell'energia. 
        In pratica questo è il segreto attivo della vita: ogni vita fisica, 
        mentale, o semplicemente dinamica, si sostiene attraverso uno scambio ed 
        un interscambio continui. Tuttavia la spiegazione di Eraclito non è 
        ancora del tutto soddisfacente. La dimensione, il valore dell'energia 
        scambiata rimane costante quando la forma cambia, ma perché i beni 
        cosmici che rappresentano l'oro universale dovrebbero essere anch'essi 
        così fissi e in un certo senso immutabili? Qual è la spiegazione? Come 
        si generano questa eternità di principi e di elementi, di insiemi di 
        combinazioni, e la persistenza ed il ricorrere delle stesse forme che 
        possiamo continuamente osservare nel cosmo? Perché in questo costante 
        flusso cosmico, le cose dovrebbero restare sempre uguali? Perché il 
        sole, pur essendo sempre nuovo, sarebbe praticamente sempre lo stesso 
        sole? Perché il ruscello dovrebbe essere sempre lo stesso, proprio come 
        Eraclito ammette, pur essendo le acque che scorrono sempre diverse? In 
        questo ambito Platone ha concepito il suo piano eterno delle idee fisse, 
        col quale sembra aver voluto significare la realtà-idea originante e lo 
        schema originario ideale di tutte le cose. Una filosofia idealista come 
        quella indiana potrebbe dire che questa forza, la Shakti, chiamata Fuoco 
        in occidente, è una coscienza che con la sua energia sostiene il piano 
        originario delle idee e le forme corrispondenti delle cose. Ma Eraclito 
        ci dà un'altra spiegazione, non del tutto soddisfacente ma profonda e 
        colma di verità feconde. La spiegazione si trova nelle sue sorprendenti 
        affermazioni sulla guerra, la giustizia, la tensione e le Furie che 
        perseguitano coloro che osano oltrepassare i limiti. Eraclito è il primo 
        filosofo che ha concepito l'intero universo in termini di Potere. 
        Qual è la natura dello scambio? È lotta, eris, è guerra polemos! Quali 
        sono la regola e il risultato della guerra? La giustizia. E come agisce 
        la giustizia? Con una giusta tensione e una compensazione di forze che 
        producono l'armonia delle cose e la loro stabilità. "La guerra è il 
        padre di tutto ed il sovrano di tutte le cose"; "il divenire di tutte le 
        cose dipende dalla lotta"; "sapere che la lotta è giustizia": queste le 
        sue massime magistrali sull'argomento. Dapprima non riusciamo a capire 
        perché lo scambio dovrebbe essere lotta, sembrerebbe piuttosto una forma 
        di commercio. La lotta esiste, ma perché non dovrebbe esistere anche 
        l'interscambio pacifico e consenziente? Eraclito non ne vuole sapere; 
        nessuna pace! Concorderebbe così col Tedesco moderno nel ritenere il 
        commercio un dipartimento della Guerra. È vero che esiste una forma di 
        commercio, oro in cambio di beni e beni in cambio dell'oro, ma il 
        commercio stesso e tutto il suo ambito sono governati da una costrizione 
        potente e, dirò di più, violenta, del Fuoco universale. È questo che 
        Eraclito intende affermando che le Furie inseguono il sole. "Per timore 
        di Lui", dice 1'Upanishad, il vento soffia ... e la morte vaga." Tra 
        tutti gli esseri c'è una continua prova di forza: da questa guerra 
        nascono e da essa sono preservati. Vediamo che Eraclito ha ragione: ha 
        afferrato l'aspetto iniziale della Natura cosmica. In essa tutto è 
        scontro di forze, e con questo urto, attraverso questa lotta, 
        afferrandosi, combattendosi, non soltanto le cose vengono ad esistere ma 
        rimangono in vita. Karma? Legge? Leggi diverse si affrontano e competono 
        tra loro e con la loro tensione mantengono l'equilibrio del mondo. 
        Karma? È la giustizia dispotica di un Potere coercitivo eterno; sono le 
        Furie che ci perseguitano se osiamo oltrepassare i nostri limiti. 
        La guerra, contesta Eraclito, non è semplice ingiustizia, violenza 
        caotica: è giustizia, benché si tratti di una giustizia violenta, 
        l'unica giustizia possibile. Vediamo nuovamente che dal suo punto di 
        vista ha ragione. È dall'energia impiegata e dal suo valore che derivano 
        i risultati, e quando due forze si affrontano il dispendio di energia è 
        una prova di forza. Non dovrebbe forse il forte essere ricompensato in 
        accordo alla sua forza e il debole secondo la sua debolezza? Questa è, 
        almeno nel mondo, la legge primaria, benché soggetta all'aiuto che il 
        debole riceve dal forte, aiuto che non deve necessariamente essere 
        un'ingiustizia o una violazione di confini, a dispetto dell'opinione di 
        Nietzsche e di Eraclito. Non c'è forse a volte un'immensa forza nascosta 
        dietro la debolezza, la forza stessa della pressione esercitata sugli 
        oppressi che genera la sua terribile reazione, il movimento di ritorno 
        dell'arco, Zeus, il Fuoco eterno che sorveglia i propri confini? 
        Non soltanto c'è guerra fra un essere e un altro, fra una forza e 
        l'altra, ma all'interno di ognuno esiste un' eterna opposizione, una 
        tensione degli opposti, ed è proprio questa tensione che crea 
        l'equilibrio necessario all'armonia. L'armonia dunque esiste perché il 
        cosmo stesso, nel suo compimento è un'armonia, ma al tempo stesso 
        l'armonia esiste perché nel suo procedere il cosmo è guerra, tensione, 
        opposizione, equilibrio di eterni contrari. Non esiste vera pace, a meno 
        che per pace non s'intenda una tensione stabile, un equilibrio di potere 
        fra forze ostili, una specie di mutua neutralizzazione degli eccessi. La 
        pace non può creare, non può far vivere nulla e la preghiera di Omero 
        che la guerra possa cessare di esistere tra gli dei e tra gli uomini è 
        una mostruosa assurdità, perché se fosse esaudita significherebbe la 
        fine del mondo. Può esistere una fine periodica, non attraverso la pace 
        o la riconciliazione, ma attraverso una conflagrazione, un attacco del 
        Fuoco, to pur epelthon, un giudizio folgorante e una condanna. La Forza 
        ha creato il mondo, la Forza è il mondo, la forza con la sua violenza 
        sostiene il mondo, la Forza metterà fine al mondo e lo ricreerà in 
        eterno. 
         
        VI 
        Eraclito è il primo e 
        più coerente insegnante della legge della relatività, il risultato 
        logico delle sue concezioni filosofiche fondamentali. Poiché tutto è uno 
        nel suo essere e molteplice nel suo divenire, ne consegue che ogni cosa 
        deve essere una nella propria essenza. La notte e il giorno, la vita e 
        la morte, il bene e il male possono essere soltanto aspetti diversi 
        della stessa realtà assoluta. La vita e la morte sono di fatto una sola 
        cosa e possiamo affermare, a seconda del nostro punto di vista, che ogni 
        morte non è che il procedere ed il trasformarsi della vita o che tutta 
        la vita è soltanto un'attività della morte. In realtà entrambe non sono 
        che un'unica energia che si manifesta attivamente in forma duale. Da un 
        certo punto di vista noi non esistiamo perché la nostra esistenza è solo 
        una continua trasformazione di energia; da un altro punto di vista 
        esistiamo perché in noi l'essere è sempre lo stesso e sostiene la nostra 
        identità segreta. Di conseguenza possiamo dire che una cosa è buona o 
        cattiva, giusta o ingiusta, bella o brutta soltanto da un punto di vista 
        puramente relativo perché adottiamo una posizione particolare o stiamo 
        pensando ad un fine pratico o ad un relazione valida solo 
        temporaneamente. A tale proposito Eraclito fa l'esempio del "mare, la 
        più pura e la più impura delle acque", elemento perfetto per i pesci, 
        nocivo e imbevibile per l'uomo. E non è così per tutte le cose? Esse in 
        realtà sono sempre le stesse ed assumono le loro qualità e proprietà in 
        virtù della nostra posizione nell'universo del divenire, della natura 
        della nostra visione e della struttura della nostra mente. Tutte le cose 
        completano il cerchio e ritornano all'unità eterna: all'inizio e alla 
        fine, infatti, sono identiche. È soltanto nell'arco del divenire che 
        variano e differiscono le une dalle altre, senza alcuna relazione 
        assoluta. La notte e il giorno sono identici; sono soltanto la natura 
        della nostra visione, la nostra posizione sulla terra e le relazioni tra 
        terra e sole a creare la differenza. Ciò che è giorno per noi, è notte 
        per altri. 
        Per questa sua insistenza sulla relatività del bene e del male si 
        ritiene che Eraclito abbia enunciato una specie di superamento della 
        morale, ma dobbiamo comprendere cos'è realmente questa super-morale. 
        Eraclito non nega l'esistenza di un assoluto, ma per lui l'assoluto si 
        trova nell'Uno, nel Divino, non negli dei, bensì nell'unica Divinità 
        suprema, il Fuoco. Si è obiettato che abbia attribuito relatività a Dio 
        perché afferma che il principio primo vuole ed al tempo stesso non vuole 
        essere chiamato Zeus. Ma qui ci si può ingannare totalmente. Il nome 
        Zeus esprime soltanto l'idea relativa e umana del Divino; di conseguenza 
        Dio, pur accettando il nome, non è vincolato e neppure limitato da esso. 
        Tutte i nostri concetti su di Lui sono parziali e relativi, "Ciascuno 
        gli dà il nome che preferisce". Questa non è nient'altro che la verità 
        proclamata dai Veda: "Uno solo esiste, che i saggi chiamano con molti 
        nomi". Brahman vuole e al tempo stesso non vuole essere chiamato Vishnu 
        poiché è anche Brahma e Maheshvara, e tutti gli dei, il mondo e tutti i 
        principi e tutto ciò che esiste, e tuttavia non è nessuna di queste 
        cose, neti neti. Come gli uomini L'avvicinano, così Egli li accetta.  
        Ma l'Uno per Eraclito, come per i Vedanta è assoluto. Ciò risulta 
        chiaramente da tutte le sue affermazioni: giorno e notte, bene e male 
        sono una cosa sola, perché sono l'Uno nella propria essenza e nell'Uno 
        scompaiono le distinzioni operate dalla mente. C'è un Verbo, una Ragione 
        in tutte le cose, un Logos, e questa Ragione è una; soltanto gli uomini, 
        con la relatività della loro mente, la trasformano nel loro pensiero 
        personale, nel loro modo particolare di considerare le cose e vivono 
        secondo questa relatività variabile. Ne consegue che esiste un modo 
        assoluto, divino, di guardare alle cose. "Per Dio tutte le cose sono 
        buone e giuste, ma gli uomini ne considerano alcune giuste ed altre 
        ingiuste". C'è dunque un bene assoluto, una bellezza assoluta, una 
        giustizia assoluta di cui tutte le cose sono l'espressione relativa.  
        Esiste nel mondo un ordine divino; ogni cosa realizza la propria natura 
        secondo il proprio posto nell'ordine; e in virtù del suo posto e della 
        sua simmetria nell'unica Ragione delle cose, è buona, giusta e bella, 
        proprio perché adempie questa Ragione secondo i dettami eterni. Per fare 
        un esempio, la guerra mondiale può essere considerata da alcuni un male, 
        un'abominevole carneficina, da altri un bene per le nuove possibilità 
        che offre al genere umano. Essa è buona e simultaneamente cattiva; ma 
        questa è solo la visione relativa. Nella sua totalità, nel suo 
        compimento, in tutte le sue circostanze, - ed in ognuna di esse viste 
        come parte di un piano divino, di una giustizia divina, di una forza 
        divina che si realizza nella vasta ragione delle cose -, è, dal punto di 
        vista assoluto, buona e giusta - per Dio, non per l'uomo. 
        Dobbiamo dedurre da tutto ciò che il punto di vista relativo non ha 
        alcuna validità? Neppure per un istante. Al contrario è l'espressione 
        della legge divina in accordo ad ogni visione mentale, secondo le 
        necessità della sua natura e della sua posizione evolutiva. 
        Eraclito lo dice chiaramente: "Tutte le leggi umane sono alimentate da 
        un'unica legge, quella divina". Questa frase dovrebbe essere sufficiente 
        a difendere Eraclito da ogni accusa di antinomia. È vero, nessuna legge 
        umana è l'espressione assoluta della giustizia divina, ma da essa trae 
        il proprio valore e la propria sanzione; è valida per il proprio 
        oggetto, nel posto che le compete, in un tempo appropriato alla sua 
        necessità relativa. Anche se le nozioni umane di bene e di giustizia 
        variano attraverso le trasformazioni del divenire, comunque il bene e la 
        giustizia umani persistono nella corrente degli eventi, conservando una 
        dimensione invariabile. Eraclito ammette dei valori relativi, ma in 
        quanto filosofo li deve superare. Tutto è ad un tempo uno e molteplice, 
        assoluto e relativo, e tutti i rapporti del molteplice sono fenomeni 
        relativi, che sono alimentati, ritornano, e sono preservati da quello 
        che di assoluto esiste in loro. 
  
        VII 
        Le idee di Eraclito 
        sulle quali ho insistito finora sono generali, filosofiche, metafisiche; 
        tendono a quelle verità primarie dell'esistenza, devanam prathama 
        vratani , che la filosofia cerca sempre per prime poiché sono la chiave 
        di tutte le altre verità. Ma qual è il loro effetto pratico sulla vita e 
        sull'aspirazione degli uomini? Dato che, in fin dei conti, il vero 
        valore che la filosofia ha per l'uomo è quello di far luce sulla natura 
        del suo essere, sui principi della sua psicologia, sulle sue relazioni 
        con il mondo e con Dio, sulle tendenze determinate e sulle vaste 
        possibilità del suo destino. La debolezza della maggior parte delle 
        filosofie europee, escluse quelle dell'Antichità, è il vivere troppo 
        sulle nuvole e ricercare la verità metafisica pura esclusivamente per se 
        stessa; per questo sono state piuttosto sterili, prive di impatto 
        diretto sulla vita.  
        Nietzsche si distingue tra i filosofi europei recenti per aver 
        restituito alla filosofia parte del suo antico dinamismo e della sua 
        forza pratica, anche se, sotto la pressione di questa tendenza, può aver 
        trascurato l'aspetto dialettico e metafisico del pensiero filosofico. 
        Senza dubbio, quando cerchiamo la verità, dobbiamo iniziare cercandola 
        per se stessa e non partire con un fine pratico prestabilito o con 
        preconcetti che possano distorcere la nostra visione disinteressata 
        delle cose, ma quando abbiamo trovato la verità, il suo impatto sulla 
        vita assume un'importanza capitale e rappresenta la vera giustificazione 
        dell'energia spesa nella ricerca. La filosofia indiana ha sempre 
        compreso la sua duplice funzione; ha cercato la verità non solo per 
        piacere intellettuale o come dharma naturale della ragione, ma per 
        comprendere come l'uomo può vivere per mezzo della verità, o lottare per 
        raggiungerla. Da questo deriva 1a sua influenza immediata sulla 
        religione, sulle idee sociali, sulla vita quotidiana del popolo e il suo 
        immenso potere dinamico sulla mente e sulle azioni dell'umanità indiana. 
        Anche i filosofi greci, Pitagora, Socrate, Platone, gli stoici, gli 
        epicurei, avevano lo stesso scopo pratico e la stessa forza dinamica, ma 
        avevano impatto soltanto su una minoranza colta, poiché la filosofia 
        Greca, avendo perso l'antica connessione con i Mistici, si separò dalla 
        religione popolare. Ma come generalmente solo la Filosofia può 
        illuminare la religione e salvarla dalla grossolanità, dall'ignoranza e 
        dalla superstizione, allo stesso modo soltanto la Religione può, salvo 
        eccezioni, dare ardore spirituale e potere effettivo alla Filosofia, 
        salvandola dal divenire priva di sostanza, astratta e sterile. Se le due 
        sorelle divine si separano è una disgrazia per entrambe. 
        Ma se cerchiamo nelle parole di Eraclito l'applicazione alla vita umana 
        delle sue grandi idee fondamentali, rimaniamo delusi. Non ci guida mai 
        direttamente e, tutto sommato, lascia che traiamo dall'immensa ricchezza 
        delle sue idee solo ciò che siamo in grado di trarre. La sua concezione, 
        possiamo dire, aristocratica della vita, può essere considerata il 
        risultato morale della sua concezione filosofica del Potere come natura 
        del principio originario. Afferma che la moltitudine è cattiva, i pochi 
        sono buoni e un solo individuo, se è il migliore, vale quanto migliaia 
        di individui. Potere di conoscenza, potere di carattere - il carattere, 
        afferma, è la forza divina dell'uomo, - potere ed eccellenza sono 
        generalmente i fattori che prevalgono nella vita umana e hanno un valore 
        supremo; queste qualità, al loro grado puro, elevato, sono rare fra gli 
        uomini, sono la difficile realizzazione dei pochi. 
        Da queste indicazioni, fin qui decisamente vere, potremmo dedurre una 
        filosofia sociale e politica. 
        Ma il democratico può rispondere che se esistono virtù, conoscenza e 
        forza concentrate in un individuo isolato, o nei pochi, anche nella 
        moltitudine esistono una virtù, una conoscenza e una forza diffuse, che 
        agendo collettivamente possono bilanciare o superare i rari casi di 
        eccellenza. 
        Se, come afferma anche l'antico pensiero indiano, il re, il saggio, il 
        migliore è Vishnu stesso ad un livello che l'uomo comune, prakrto janah, 
        non può sperare di raggiungere, lo stesso vale per "i cinque", il 
        gruppo, i popoli. 
        Il Divino è samasti e vasti, si manifesta nella collettività e 
        nell'individuo e la giustizia sulla quale Eraclito insiste tanto esige 
        che entrambi abbiano il loro effetto e il loro valore; dipendono infatti 
        l'uno dall'altro e attingono l'uno dall'altro per la raggiungere 
        l'eccellenza. 
        Altri pensieri di Eraclito sono degni di interesse, come quello in cui 
        afferma l'elemento divino nelle leggi umane - pensiero profondo e ricco 
        di implicazioni. Le sue opinioni sulla religione popolare sono 
        interessanti, ma rimangono in superficie ed anche muovendosi in 
        superficie non conducono lontano. Respinge e disprezza violentemente il 
        degrado delle antiche formule mistiche che caratterizza la sua epoca e 
        si rivolge invece ai veri misteri, quelli della Natura e del nostro 
        essere - quella Natura che, afferma, ama rimanere nascosta, è piena di 
        misteri e sempre occulta. È un segno del fatto che le conoscenze dei 
        primi mistici erano andate perdute ed il significato spirituale aveva 
        abbandonato i simboli, com'era accaduto al tempo dell'India Vedica; ma 
        in Grecia non si è prodotto nessun nuovo movimento potente in grado di 
        sostituirle, - come invece è accaduto in India - , con nuovi simboli, 
        nuove affermazioni filosofiche delle verità occulte, con nuove 
        discipline, nuove scuole di yoga. Ci sono stati dei tentativi isolati 
        come quello di Pitagora, ma la Grecia nel suo insieme, seguendo la 
        direzione indicata da Eraclito, sviluppò il culto della ragione e lasciò 
        che le reminescenze dell'antica religione occulta diventassero 
        superstizione e rito convenzionale. 
        Doppiamente interessante è la sua condanna del sacrificio animale, che 
        considera un vano tentativo di purificarsi lavandosi col sangue, come 
        pulire col fango piedi coperti di fango. Troviamo qui la stessa tendenza 
        alla rivolta, contro una pratica religiosa antica e universale, che in 
        India distrusse il sistema sacrificale della religione vedica, sebbene 
        la grande compassione del Buddha fosse assente dalla mente di Eraclito: 
        la pietà non sarebbe mai diventata una motivazione potente presso le 
        antiche razze mediterranee. Ma i termini stessi usati da Eraclito ci 
        mostrano che l'antico sistema sacrificale in Grecia come in India, non 
        era semplicemente una pratica barbarica destinata a propiziare divinità 
        selvagge, come ha concluso erroneamente la ricerca moderna; aveva invece 
        un significato psicologico: purificazione dell'anima e propiziazione di 
        potenze superiori capaci di venire in aiuto e di conseguenza, molto 
        probabilmente, si trattava di una pratica mistica e simbolica. Sappiamo 
        infatti che la purificazione era una delle idee dominanti degli antichi 
        Misteri. Nell'India della Gita, nello sviluppo del Giudaismo ad opera 
        dei profeti e di Gesù, mentre gli antichi simboli fisici e soprattutto 
        il sacrificio del sangue furono sconsigliati, l'idea psicologica del 
        sacrificio fu conservata, rinforzata e provvista di simboli più sottili 
        come l'Eucaristia cristiana e le offerte dei devoti nei templi shivaiti 
        e vishnuiti. La Grecia, con la sua tendenza razionalista e il suo 
        insufficiente senso religioso, non ha potuto salvare la sua religione; 
        si è orientata invece verso una netta divisione tra filosofia e scienza 
        da un lato e religione dall'altro, caratteristica peculiare della mente 
        europea. Anche in questo Eraclito fu un precursore indicando la 
        direzione naturale del pensiero occidentale. 
        Altrettanto sorprendente è la sua condanna dell'idolatria, una delle 
        prime nella storia dell'umanità: "Colui che prega un'immagine parla ad 
        un muro di pietra". La violenza intollerante di questo razionalismo, di 
        questo positivismo ribelle, fa nuovamente di Eraclito un precursore di 
        un vasto movimento della mente umana. Non è certamente una protesta 
        religiosa come quella di Maometto contro il politeismo naturalista, 
        pagano e idolatra degli Arabi, o quella dei Protestanti contro il culto 
        estetico ed emotivo rivolto ai santi nella Chiesa cattolica, contro 
        l'idolatria per la Madre di Cristo, l'utilizzo delle immagini e il suo 
        complicato rituale; il movente di Eraclito è razionale, filosofico, 
        psicologico. Certo Eraclito non era un razionalista puro; credeva negli 
        Dei, ma solo come presenze psicologiche, poteri cosmici, ed era troppo 
        infastidito dalla grossolanità dell'immagine fisica, dalla sua influenza 
        sui sensi, dall'offuscarsi della rilevanza psicologica delle divinità, 
        per comprendere che la preghiera non è rivolta alla pietra, ma alla 
        persona divina rappresentata in quella pietra. E' da notare che nella 
        sua concezione degli dei si avvicina agli antichi profeti Vedici, pur 
        non essendo per temperamento un mistico religioso. La religione Vedica 
        sembra aver escluso le immagini; furono poi i movimenti di protesta del 
        Jainismo e del Buddhismo ad introdurre o almeno a rendere popolare e a 
        diffondere il culto delle immagini in India. Anche in questo campo 
        Eraclito prepara la via per la distruzione dell'antica religione, per il 
        regno della filosofia e della ragione pura, per il vuoto che verrà 
        colmato dal Cristianesimo, poiché l'uomo non può vivere di sola ragione.
         
        Quando era ormai troppo tardi si tentò nuovamente spiritualizzare la 
        religione antica, con il notevole tentativo di Giuliano e di Libanio di 
        far rinascere un paganesimo rigenerato contro il Cristianesimo 
        trionfante, ma il tentativo fu troppo etereo, esclusivamente filosofico 
        e privo del potere dinamico dello spirito religioso. L'Europa aveva 
        ucciso senza alcuna possibilità di rinascita il suo antico credo e 
        doveva quindi volgersi all'Asia per trovare la propria religione. 
        Così, per la vita normale dell'uomo, Eraclito non ha altro da darci che 
        il suo accenno ad un principio aristocratico nella società e nella 
        politica - e possiamo notare che tale tendenza aristocratica è stata 
        molto forte fra quasi tutti i filosofi successivi. Nell'ambito religioso 
        la sua influenza tese a distruggere l'antico credo senza sostituirlo con 
        qualcosa di più profondo e benché non sia stato un razionalista puro, 
        preparò la strada al razionalismo filosofico. Tuttavia, anche senza 
        religione, la filosofia può darci qualche sprazzo di luce sul destino 
        spirituale dell'uomo, qualche speranza d'Infinito, qualche ideale di 
        perfezione verso cui rivolgere i nostri sforzi. Platone, che aveva 
        subito l'influsso di Eraclito, tentò di fare questo per noi; il suo 
        pensiero cercò Dio, tentò di raggiungere l'ideale, sperò in una società 
        umana perfetta. Sappiamo che i neoplatonici elaborarono le loro idee 
        sotto l'influsso del pensiero orientale e che a loro volta influenzarono 
        il Cristianesimo. Gli stoici, i discendenti intellettuali più diretti di 
        Eraclito, formularono idee notevoli e feconde sulle possibilità umane ed 
        una potente disciplina psicologica - come diremmo in India uno yoga - 
        per mezzo del quale speravano di realizzare il loro ideale.  
        Ma cosa può darci Eraclito? In modo diretto, niente. Dobbiamo ricavare 
        da soli ciò che ci è possibile dai suoi principi primi e dalle sue frasi 
        ermetiche. 
        Eraclito era considerato nell'Antichità un filosofo pessimista e ci sono 
        un paio di sue frasi dalle quali, volendo, possiamo dedurre l'antico 
        infruttuoso vangelo della vanità delle cose. Il tempo, afferma Eraclito, 
        gioca a dadi come un bambino che si diverte a contare e costruisce 
        castelli sulla spiaggia solo per poterli distruggere. Se questa è 
        l'ultima parola, tutti gli sforzi umani, tutte le aspirazioni umane sono 
        vani. Da quale principio filosofico dipende questa affermazione 
        sconfortante? Tutto si riconduce alla risposta a questa domanda, poiché 
        la frase in se stessa non è che l'affermazione di un fatto evidente in 
        sé, cioè la mutevolezza delle cose e la transitorietà delle forme. Ma se 
        i principi che si manifestano nelle forme sono eterni, o se esiste uno 
        Spirito nelle cose che trae vantaggio dalle trasformazioni e dalle 
        evoluzioni del Tempo e se questo Spirito dimora nell'essere umano come 
        potere immortale e infinito della sua anima, non giungiamo certo ad 
        affermare la vanità del mondo e dell'esistenza umana. Se invece il 
        principio originario ed eterno del Fuoco è una sostanza e una forza 
        puramente fisica, allora veramente, dato che tutto il grande gioco della 
        coscienza in noi e tutto il suo sforzo devono perdersi in questo fuoco e 
        dissolversi in esso, non può esistere nessun valore spirituale 
        permanente nel nostro essere, e tanto meno nella nostra opera. Ma 
        abbiamo visto che il Fuoco di Eraclito non può essere un principio 
        puramente fisico o incosciente.  
        Eraclito intende dunque dire che la nostra esistenza è solo un Divenire 
        in costante mutamento, un gioco o Lila che non ha altro scopo se non 
        quello di essere giocato, e altro fine che condannare la vanità di ogni 
        attività cosmica tornando all'unità indistinta del principio, o 
        sostanza, originario? Perché, anche se questo Principio, l'Unità alla 
        quale il Molteplice fa ritorno, non è unicamente fisico, o non è del 
        tutto fisico ma piuttosto spirituale, possiamo ancora affermare, come i 
        Mayavadini, la vanità del mondo e dell'esistenza umana, dato che il 
        mondo non è eterno e l'esistenza umana non ha altro scopo che il proprio 
        annullamento, una volta ottenuta la certezza della vanità e 
        dell'irrealtà di tutti i suoi interessi e scopi temporali. La condanna 
        del mondo per mezzo dell'unico Fuoco assoluto è forse la condanna della 
        vanità di tutti i valori temporali e relativi del Molteplice? 
        È questo uno dei modi in cui possiamo interpretare il pensiero di 
        Eraclito. La sua idea che tutte le cose nascono dalla guerra ed esistono 
        per la lotta, se fosse isolata, potrebbe portarci a quella conclusione, 
        anche se lo stesso Eraclito non vi arriva in modo così deciso. Poiché se 
        tutto è una continua lotta di forze, se il suo aspetto migliore è solo 
        una giustizia violenta e l'armonia più elevata è soltanto una tensione 
        di contrari privata della speranza di una riconciliazione divina, se il 
        fine è la condanna e la distruzione ad opera del Fuoco eterno, allora 
        tutte le nostre speranze ideali, tutte le nostre aspirazioni sono fuori 
        luogo e non hanno alcun fondamento nella verità delle cose.  
        Ma c'è un altro aspetto del pensiero di Eraclito. Egli afferma davvero 
        che tutte le cose vengono ad essere "per mezzo della lotta", a causa 
        dello scontro delle forze che e sono governate dalla giustizia 
        determinante della guerra. Afferma anche che tutto è completamente 
        determinato, soggetto al fato. Ma cos'è allora che "determina"? La 
        giustizia di uno scontro di forze non è fato; le forze in conflitto 
        "determinano" veramente ma soltanto di momento in momento, secondo un 
        equilibrio in costante mutamento, sempre modificabile dal sorgere di 
        nuove forze. Se esiste nelle cose una predeterminazione, un destino 
        inevitabile, allora dietro al conflitto deve esserci qualche potere che 
        li determina, che ne fissa i limiti. Cos'è questo potere? Eraclito ce lo 
        spiega; tutte le cose nascono dalla lotta, ma nascono anche dalla 
        Ragione, kat' erin, ma anche da kata ton logon. Cos'è questo Logos? Non 
        è una ragione incosciente nelle cose poichè il suo Fuoco non è una 
        semplice forza incosciente, è Zeus, è l'Eternità. Il Fuoco, Zeus, è 
        Forza, ma è anche Intelligenza. Diciamo dunque che è una Forza 
        intelligente, origine e sovrana delle cose. E nemmeno questo Logos può 
        essere identico per natura alla ragione umana, perché questa è giudizio 
        e intelligenza individuale e pertanto relativa e parziale, capace di 
        afferrare soltanto la verità relativa, non la verità vera delle cose, 
        mentre il Logos è uno e universale, ragione assoluta che di conseguenza 
        ordina e dirige tutte le attività del molteplice.  
        Filone non era dunque nel giusto quando deduceva dall'idea di una forza 
        intelligente, che origina e governa il mondo, Zeus e Fuoco, la sua 
        interpretazione del Logos come "il divino dinamico, l'energia e la 
        manifestazione di Dio"? Eraclito non si sarebbe forse espresso in questi 
        termini, forse non ha compreso l'ampiezza del suo stesso pensiero, ma il 
        significato dato da Filone è proprio quello che si trova approfondendo e 
        riunendo le diverse massime di Eraclito e traendone le debite 
        conseguenze. 
        Siamo molto vicini alla concezione Indiana di Brahman, la causa, 
        l'origine e la sostanza di tutte le cose, l'Esistenza assoluta la cui 
        natura è Coscienza (Chit), che si manifesta come Forza (Tapas, Shakti) e 
        si muove nel mondo del suo stesso essere come Veggente e Pensatore, 
        kavir manisi, come Conoscenza-Volontà in tutto, vijnanamaya purusa, che 
        è il Signore e il Divino, is, isvara, deva, che ha ordinato tutte le 
        cose secondo la loro natura fin dall'eternità - i "limiti" che, secondo 
        Eraclito, il Sole deve rispettare, la sua affermazione che "le cose sono 
        assolutamente determinate". Questa Conoscenza-Volontà è il Logos. Gli 
        Stoici ne parlano come di un Logos-seme, spermatikos, riprodotto negli 
        esseri coscienti come numerosi Logos-semi; e questo rimanda subito al 
        prajna purusa dei Vedanta, l'Intelligenza suprema che è il Signore e che 
        dimora nello stato di sonno e tiene ogni cosa in un seme di densa 
        coscienza che agisce attraverso le percezioni del Purusha sottile, 
        l'Essere mentale.  
        Vijnana è in verità una coscienza che non vede le cose, come è tipico 
        della ragione umana, a pezzetti e frammenti, legate da relazioni di 
        separazione e aggregazione, ma nella ragione originaria della loro 
        esistenza, nella legge del loro esistere, nella loro verità primaria e 
        totale; perciò è il Logos-seme, la forza cosciente originante e 
        determinante che opera come Intelligenza e Volontà supreme. Il veggente 
        Vedico la chiamava Coscienza-di-Verità e credeva che anche gli uomini 
        potessero diventare coscienti della Verità e penetrare nella Ragione e 
        nella Volontà divine, e per mezzo della Verità diventare immortali, 
        anthropoi athanatoi. 
        Il pensiero di Eraclito ammette forse una speranza simile a quella che 
        nutrivano i profeti vedici, speranza che cantavano nei loro inni con 
        così totale fiducia? O giustifica forse una qualche aspirazione verso 
        uno stato di superumanità divina come quello che i suoi discepoli, gli 
        stoici, si sforzarono con tanto ardore di raggiungere, o come quello di 
        cui Nietzsche, il moderno Eraclito, ha fornito un quadro troppo 
        grossolano e violento? La sua affermazione che l'uomo si infiamma come 
        fuoco e scompare come la luce nella notte, è banale e piuttosto 
        scoraggiante. Ma dopo tutto questa affermazione può essere vera solo per 
        l'uomo apparente. E' possibile per l'uomo che evolve oltrepassare i suoi 
        limiti attuali? E' in grado di elevare la sua ragione mentale, relativa 
        ed individuale ad una partecipazione diretta, ad una comunione con la 
        natura divina e assoluta? Può innalzare i valori della sua forza umana 
        fino ai valori superiori della forza divina e da essi trarre 
        ispirazione? Può diventare consapevole come gli dei di un bene assoluto 
        e di una bellezza assoluta? Può innalzare il suo essere mortale fino 
        alla natura dell'immortalità?  
        Contro la sua immagine malinconica della transitorietà dell'uomo, c'è la 
        sua famosa frase ermetica: "Gli dei sono mortali, gli uomini immortali", 
        frase che, interpretata in modo letterale, potrebbe significare che gli 
        dei sono poteri che periscono e vengono sostituiti da altri poteri, 
        mentre solo l'anima dell'uomo è immortale, ma che deve almeno 
        significare che nell'uomo esiste uno Spirito Immortale dietro 
        all'apparenza effimera. C'è anche la sua affermazione: "Non puoi trovare 
        i limiti dell'anima", e la sua massima più profonda: "Il regno è del 
        bambino".  
        Se l'uomo è nel suo vero essere uno spirito infinito ed immortale, non 
        c'è alcuna ragione per la quale non possa destarsi alla propria 
        immortalità, non possa elevarsi alla coscienza dell'universale, uno e 
        assoluto, e vivere in una più alta realizzazione di sé. "Ho cercato me 
        stesso", afferma Eraclito e cos'ha trovato? 
        C'è tuttavia una grande lacuna, un grave difetto nella sua conoscenza 
        delle cose e dell'io umano. Possiamo vedere in quanti modi la visione 
        profonda e lo sguardo divinatore di Eraclito abbiano anticipato le 
        teorie più ampie e profonde della Scienza e della Filosofia e come anche 
        i suoi pensieri più superficiali indichino le forti tendenze successive 
        della mente occidentale; vediamo inoltre come certe sue idee abbiano 
        influenzato filosofi profondi e creativi come Platone, gli Stoici, i 
        Neoplatonici. Persino nei difetti della suo pensiero è un precursore del 
        pensiero Europeo successivo, almeno in quanto non si è lasciato 
        seriamente influenzare dalle religioni o dal misticismo dell'Asia. Ho 
        tentato di mostrare quanto spesso il suo pensiero coincida e sia quasi 
        identico al pensiero Vedico o Vedantino. Ma la sua conoscenza della 
        verità delle cose termina con la visione della ragione universale e 
        della forza universale; sembra aver riassunto il principio delle cose in 
        questi due termini primari: l'aspetto della coscienza e quello del 
        potere, un'intelligenza suprema e una suprema energia.  
        L'occhio del pensiero indiano vide un terzo aspetto del Sè e del Brahman; 
        oltre alla coscienza universale che agisce nella conoscenza divina, 
        oltre alla forza universale che agisce nella volontà divina, ha visto 
        anche la felicità universale che agisce nella gioia e nell'amore divini. 
        Il pensiero europeo, seguendo la linea di Eraclito, si è focalizzato 
        sulla ragione e sulla forza e ne ha fatto i principi che il nostro 
        essere deve tendere a realizzare nella loro perfezione. La forza è il 
        primo aspetto del mondo: guerra, scontro di energie; il secondo aspetto, 
        la ragione, emerge dietro il velo della forza che prima la nascondeva e 
        si rivela come una certa giustizia, una certa armonia, una certa 
        intelligenza e ragione determinante nelle cose; il terzo aspetto è il 
        segreto più profondo: felicità, bellezza, amore universali che, unendosi 
        ai primi due aspetti, possono realizzare qualcosa di più elevato della 
        giustizia, di migliore dell'armonia, di più vero della ragione: unità e 
        beatitudine, l'estasi della nostra esistenza realizzata. Di questo 
        potere segreto, il pensiero occidentale ha visto soltanto i due aspetti 
        inferiori, il piacere e la bellezza estetica, perdendo di vista la 
        bellezza e la felicità spirituali. Per questo motivo che l'Europa non ha 
        mai potuto elaborare da sola una religione potente, ma ha sempre dovuto 
        volgersi verso l'Asia.  
        La scienza prende possesso dei modi di funzionamento e delle dimensioni 
        e della Forza; la filosofia razionale persegue la ragione fin nelle sue 
        estreme sottigliezze ma la filosofia e la religione ispirate possono 
        impadronirsi del segreto supremo, uttamam rahasyam. 
        Eraclito avrebbe potuto rendersene conto se avesse spinto la sua visione 
        un po' in là. La Forza, da sola, può produrre soltanto un equilibrio di 
        forze: la lotta che è giustizia; in questa lotta avviene uno scambio 
        incessante, e quando la necessità dello scambio viene compresa nasce la 
        possibilità di sostituire la guerra con la ragione quale principio 
        determinante dello scambio. Questo è il secondo sforzo dell'uomo, sforzo 
        di cui Eraclito non ha visto chiaramente la possibilità.  
        Possiamo elevarci al di sopra del concetto di scambio e giungere alla 
        nozione più elevata di reciprocità; una dipendenza reciproca fatta del 
        dono di sé è il segreto celato della vita; da quel segreto può crescere 
        il potere d'Amore che sostituisce la lotta e oltrepassa il freddo 
        equilibrio della ragione. Questa è la porta dell'estasi divina. Eraclito 
        non ha potuto vederla e tuttavia la sua frase sul regno del bambino 
        tocca quasi il cuore del segreto. Perché questo regno è evidentemente 
        spirituale, è la corona, il dominio a cui giunge l'uomo perfetto e 
        l'uomo perfetto è un bambino divino! E' l'anima che si risveglia al 
        gioco divino, che lo accetta senza paura né riserve, che si arrende al 
        Divino in una purezza spirituale, che permette alla forza inquieta e 
        turbata dell'uomo di essere liberata dalle preoccupazioni e dal dolore 
        per diventare il gioco gioioso della Volontà divina, che consente alla 
        ragione relativa e traballante di essere sostituita dalla conoscenza 
        divina che, per la Grecia, per l'uomo razionale, è stoltezza, che 
        permette infine alla faticosa ricerca del piacere della mente incatenata 
        di abbandonarsi alla spontaneità dell'Ananda divino, "perché tale è il 
        regno dei cieli". Il Paramhansa, l'uomo liberato, è nella propria anima 
        balavat, simile ad un bambino. 
          
        Da:
        
        http://www.holos.biz/eraclitoaurobindobiblio.htm 
          
                                                                                                                                          
TORNA SU    
          
          
           |