D: So che non ti piace il termine "transpersonale",
  parola che è molto usata per definire un particolare tipo di approccio alla
  psicologia.
  
R: Credo che sia una parola evocativa. In
  realtà l'ho utilizzata nel mio primo libro: "The one quest" prima
  che entrasse in uso. Poco dopo aver scritto il capitolo in cui compariva la
  parola "transpersonale", usciva la rivista di Psicologia
  transpersonale e poi scoprii che anche Jung aveva usato questo termine. Forse
  la prima persona ad usarla fu Rudhyar, un astrologo francese.
  
D: La ritieni una parola evocativa. Puoi dire
  di più?
  
R: Nonostante sia una buona parola per
  designare quello che si trova oltre la personalità, oltre il corpo e le
  emozioni, oltre l'intelletto, mi sembra che sia stata usata come eufemismo per
  evitare di usare il termine "spirituale" e, in questo senso, diventa
  una parola propagandistica, un poco astuta, utilizzata per sembrare più
  scientifici ed essere accettati nel mondo della psicologia, nel quale la
  parola "spirituale" è associata al religioso e quindi potrebbe
  risultare antiscientifica.
  
D: Quindi nutri dei dubbi sulla scientificità
  del movimento transpersonale?
  
R: Di fatto non mi sembra che sia più
  scientifico dei movimenti religiosi. Si potrebbe giustificare l'eufemismo e
  questa strategia, se il movimento transpersonale fosse più scientifico di
  quello che è. Io personalmente, sebbene sia stato definito uno dei pionieri
  della psicologia transpersonale, non l'ho usata nel mio lavoro se non
  raramente e non mi sento vicino alle persone che si definiscono
  "psicologi transpersonali". Non ho una grande ammirazione per questo
  "circolo".
  
D: Quali sono le tue idee circa la possibilità
  di integrazione tra psicoterapia e psicologia transpersonale?
  
R: Invece di parlare di integrazione tra
  psicoterapia e psicologia transpersonale, come se la psicologia transpersonale
  fosse qualcosa di definito, preferisco rispondere alla domanda: come integrare
  la psicoterapia con la spiritualità.
  
D: Mi sembra molto interessante, mi
  piacerebbe che ne parlassi di più.
  
R: Otto anni fa, in occasione di un congresso
  della Società di Psicologia Umanistica europea in Svizzera, ho avuto un
  incontro con Keyserling che forse è il più interessante dei rappresentanti
  della psicologia transpersonale in Europa. Egli parlò per primo e io gli
  facevo da traduttore dal francese, cosicché feci molta attenzione a quel che
  diceva.
  
Disegnò una piramide alla lavagna mostrando
  l'evoluzione di tutte le psicologie, dal comportamentismo, attraverso la
  psicoanalisi, alla maggiore sofisticazione della psicologia umanistica, poi le
  diverse fasi della psicologia esistenziale culminando con la psicologia
  transpersonale, come vertice della piramide.
  
Dopo di lui ho parlato io e ho detto che,
  sebbene cronologicamente questo sia stato lo sviluppo delle tendenze nella
  psicologia, mi sembrava che la psicologia transpersonale fosse una scatola
  vuota. Se vogliamo trovare in essa un vero contenuto, meglio cercarlo nelle
  psicologie transpersonali prescientifiche: nella psicologia del Buddhismo,
  nella psicologia implicita nel Sufismo e addirittura nella comprensione
  psicologica dei Rabbini, in generale in tutte quelle tradizioni spirituali che
  hanno trattato gli aspetti psicologici in maniera "saggia".
  
Più si evolve la psicologia meno troviamo
  quella che può chiamarsi "psicologia transpersonale" che oggi è
  spesso, in definitiva, un modo di nascondersi e poter dire: " la
  psicologia transpersonale lo dice ".
  
In realtà è un'intenzione molto buona
  quella di avvalorare ciò che nel campo psicologico non rientra nell'orbita
  scientifica, per avvalorare un interesse per il paranormale, la creatività,
  la psicologia della religione e così via. L'intenzione esiste, però non
  esiste un corpo unitario di conoscenze, anche se molte persone lavorano per
  contribuire alla sintesi attingendo un po' da una parte e un po'' dall'altra.
  Per esempio, in Svizzera, c'è uno psicologo ceco, il cui nome non ricordo in
  questo momento, che conosce molto bene il Buddhismo Hinayana e che ha scritto
  sull'integrazione tra la concezione della psicologia dell'Abhidarma e lo
  Psicodramma. Egli conosce lo psicodramma profondamente e quindi scrive di una
  psicologia antica stabilendo le connessioni con quella moderna. Allo stesso
  modo altri stanno facendo piccole integrazioni. Stando così le cose, mi
  sembra un poco artificiale parlare della "psicologia transpersonale"
  come se fosse un corpo integrato di conoscenze.
  
D: Quindi si può dire che sono integrazioni
  che vanno ad arricchire il corpo della psicologia occidentale classica
  aprendola a nuovi e più ampi orizzonti.
  
R: La psicologia transpersonale afferma che
  esiste il transpersonale, in altre parole che esiste lo spirituale, che esiste
  un ambito di esperienze che vanno ben oltre le esperienze interpersonali o le
  esperienze di relazione con gli oggetti del mondo fisico. Esiste il mondo che
  a volte è detto "della coscienza", perché si usa molto chiamarla
  "psicologia della coscienza", e al di fuori di questo il fattore
  spirituale è anch'esso terapeutico. Non solo è terapeutico comprendere la
  psicodinamica, non solo è terapeutico lo sforzo di cambiare il comportamento,
  ma anche l'esperienza di coscienza espansa, la coscienza del divino e, per
  ultimo, "la coscienza della coscienza" è un fattore importante
  nella psicoterapia. Io aggiungerei che non solo questo ma anche la prospettiva
  del cammino interiore è terapeutica. E' terapeutico, per una persona che si
  trova in una fase di cambiamento, comprendere questo processo come qualcosa
  che va più in là della cura dei sintomi, o più in là dell'adattamento
  sociale, dunque, capire un po' la natura della trasformazione, del fine
  ultimo. In termini molto generali, conoscere qualcosa che tradizionalmente è
  stato chiamato "gli Insegnamenti": insegnamenti rispetto al destino
  umano, alla natura del cammino interiore.
  
D: A volte, quando si parla in questi
  termini, le persone più "scientifiche" pensano che si vada nel
  misticismo, nell'astratto, in quello che solo la religione può raggiungere,
  invece so che nel tuo lavoro c'è grande concretezza e attenzione ai risultati
  verificabili. Quale potrebbe essere l'elemento terapeutico trasformatore, in
  senso transpersonale, per come tu lo intendi?
  
R: Io credo che un fattore che si può
  chiamare transpersonale è il fattore della coscienza in se stessa. In realtà
  la coscienza non appartiene al mondo del corpo, non appartiene al campo
  volitivo, non appartiene al campo affettivo né al campo cognitivo, secondo il
  significato corrente.
  
L'attenzione a sé, quando diventa pratica
  quotidiana, è un fattore transpersonale.
  
Direi di più: il livello di attenzione di
  una persona è un'energia che si irradia e l'esperienza gruppale è un fattore
  molto importante di questo passaggio di attenzione attraverso la quale anche
  le parole producono un effetto amplificato, come se fosse puntato un faro
  luminoso su ciò che si osserva.
  
Nella Gestalt, in modo particolare,
  l'attenzione è molto più che un mezzo per scoprire qualcosa, l'attenzione è
  un fattore di sanità in se stesso. Si può dire che la Gestalt ha la pretesa
  di restaurare la capacità di attenzione, la capacità di stare nel qui ed
  ora, che non è stare qui ed ora per capire qualcosa del passato, ma piuttosto
  di capire "a volte" qualcosa del passato per poter stare qui ed ora.
  E' fine a se stessa, è come un diritto, qualcosa che appartiene alla salute e
  che merita di essere restituito all'uomo. Anche l'amore lo considererei un
  fattore transpersonale, però la maggior parte delle volte quello che
  chiamiamo amore è un amore in fondo seduttivo, un amore-piacere che significa
  ricerca di gratificazione dei nostri impulsi istintivi o passionali. Il vero
  amore è uno stato senza oggetto, il vero amore ama tutto quello che gli è
  posto davanti. E' come un'allegria senza fine, senza finalità. E' anche parte
  della salute, di modo che se c'è amore, uno ama se stesso e chi gli sta
  davanti. Tanto è più grande l'amore quanto meno è condizionato. Con questo
  non voglio dire che l'amore debba essere incondizionato, senza limiti, ma che
  la natura del vero amore è come una luce che irradia in tutte le direzioni.
  Non si ama "per la tale cosa", perché ci gratifica, perché ci
  approvano, perché ci danno amore o perché una persona ha determinate
  caratteristiche, determinati meriti, ma piuttosto si ama il "tu",
  l'altro, si ama l'essere che c'è dietro ognuno. Questa qualità d'amore, che
  è parte integrante di tutte le tradizioni religiose, è un fattore
  transpersonale.
  
D: Mi sembra che nel tuo lavoro insegni a
  sperimentare e a contattare le esperienze alle quali fai riferimento
  attraverso tecniche specifiche e questo mi sembra il passaggio più difficile.
  
R: Si, io sono stato molto pratico nel mio
  avvicinamento a questi argomenti e mi sono dedicato, per esempio, a tradurre
  certi principi della meditazione sul piano interpersonale, sviluppando tutto
  un capitolo sulla meditazione relazionale o estensioni interpersonali della
  meditazione.
  
D: Questo vuol dire anche riportare il
  livello cosiddetto transpersonale ad una concretezza immediata, a qualcosa cioè
  che si può sperimentare subito, nella vita quotidiana.
  
R: Si dice nelle tradizioni antiche che la
  meditazione idealmente dovrebbe espandersi in tutte le situazioni della vita.
  In realtà è molto difficile, c'è bisogno dell'allontanamento dal mondo per
  ritornare al mondo con un contatto più profondo con sé o con un maggior
  sviluppo della propria capacità di attenzione. Però non è necessario
  aspettare dieci anni affinché si compia lo sviluppo, come nel Buddhismo Zen
  in cui la persona ha bisogno di sperimentare molti "satori"
  progressivi prima di poter fare la pratica quotidiana spontanea.
  
Fin dall'inizio del mio lavoro ad Esalen,
  negli anni '60, mi sono occupato di accelerare il processo di meditazione
  nella pratica da soli ma anche "faccia a faccia" con un altro. E' un
  po' come nello spirito di tutte le riunioni religiose nelle quali viene
  validata la sacralità della comunità, come nel Vangelo quando Cristo dice:
  "Se due si riuniranno nel mio nome io sarò presente". Io credo che
  ciò sia valido anche se due persone meditano insieme. Stando uniti nasce un
  potere speciale e nonostante ci sia una certa difficoltà ad entrare in
  contatto con sé stesso stando di fronte ad un altro, ad entrare in contatto
  con la propria esperienza di fronte alla potenziale distrazione di un
  testimone, è anche vero che c'è un elemento di contagio e le due cose si
  compensano.
  
Mi sembra che per certe persone sia più
  facile la meditazione solitaria e per altre invece sia più facile la
  meditazione condivisa, forse questo ha una relazione con l'introversione e
  l'estroversione.
  
D: Come collochi il tuo lavoro, ormai
  ventennale, con l'Enneagramma e la Psicologia degli Enneatipi nella concezione
  che stai presentando di incontro tra spirituale e psicoterapia?
  
R: Tutto quello che è relativo
  all'applicazione dell'Enneagramma è una psicologia prescientifica che però
  facilmente si può tradurre in una terminologia scientifica, perché il fatto
  che sia cronologicamente antica non vuol dire necessariamente che sia meno
  scientifica della psicologia freudiana. Quello che ho fatto io rispetto a
  questa particolare psicologia transpersonale è stato di svilupparla e
  renderla più esplicita di quello che era quando l'ho ricevuta attraverso una
  trasmissione orale, perché non esisteva niente di scritto in quel tempo, e
  l'ultima tappa di questo sviluppo è la formulazione nella quale mi sono
  impegnato, di una teoria transpersonale della nevrosi. Una teoria che mette
  l'accento non sulle vicissitudini dell'istinto, come nella tradizione
  freudiana, ma su un fattore molto centrale: la perdita dell'essere.
  L'esperienza del vuoto o l'esperienza dell'alienazione di se stesso,
  l'esperienza che R. D. Laing ha chiamato "insicurezza ontica" e che
  io preferisco chiamare "carenza ontica". La mia visione è che tutto
  il mondo passionale o tutto il mondo della libido, non di eros bensì della
  libido, perché mi piace fare una distinzione tra queste parole, il mondo dei
  desideri quindi, è un mondo che si alimenta del vuoto. E' come se tutta la
  passionalità fosse stimolata dal desiderio di riempire il vuoto che resta a
  causa della perdita del senso dell'essere, voglio dire per la perdita
  dell'esperienza diretta dell'essere. Sebbene possiamo dire astrattamente
  "sono", filosoficamente non abbiamo l'esperienza dell'"Io
  sono", che si può dire sia ciò che appare come "il più
  divino" nell'essere umano. Solo la parte divina nell'essere umano può
  dire "sono quello che sono".
  
L'esperienza dell'essere è qualcosa che,
  paradossalmente, più la persona cerca, meno riesce a raggiungere e viceversa.
  L'esperienza dell'Io è un'esperienza molto fragile, quasi illusoria, è
  qualcosa che si vede con la coda dell'occhio e appena si guarda di fronte,
  scompare. Quanto più si cerca l'Io, tanto meno si trova. Dunque mi sembra che
  il lavoro sulla carenza in questo senso, non la carenza amorosa che studia la
  psicologia dinamica ma la carenza ontica, dia un'altra dimensione alla
  psicoterapia, una dimensione peraltro piena di speranza perché l'amore di
  vent'anni fa non si può ritrovare, però l'essere è sempre presente, solo
  che dobbiamo sviluppare la capacità di rimuovere il velo che ci separa da
  esso.
  
Una delle mie realizzazioni teoriche è stata
  la formulazione di una teoria della nevrosi e degli aspetti caratterologici
  che accompagnano gli stili nevrotici. Da questo punto di vista tutte le
  nevrosi sono una ricerca disperata dell'essere che "riposa" in una
  perdita dell'essere, e la perdita dell'essere si sostiene con la stessa
  ricerca dell'essere là dove non c'è.
  
Ho lavorato sistematicamente a partire dal
  carattere perché penso che la base della nevrosi sia caratterologica, non
  credo, come qualcuno ha proposto, che la nevrosi del carattere sia una
  complicazione della nevrosi, ma piuttosto che la nevrosi sintomatica sia una
  complicazione della nevrosi caratterologica di base.
  
D: Hai fatto cenno poco fa al deficit
  dell'essere definendolo come una carenza ontica, mi pare che in questo
  discorso rientri la tua ricerca nel Buddhismo e l'approfondimento dei suoi
  vari livelli.
  
R: E' vero, però mi piacerebbe dire al
  riguardo che esistono due "vocabolari" nel mondo delle tradizioni
  spirituali. L'attitudine del Buddhismo è trovare alla radice della vita un
  "vuoto fondamentale". Con questo si vuol dire qualcosa di
  trascendente, qualcosa che non si può definire concettualmente e che
  fuoriesce da tutte le categorie di pensiero. Questo modo di vedere esiste
  anche in altre tradizioni come ad esempio l'Induismo secondo il quale, al
  centro della persona, si trova un "self" un sé stesso. Una delle
  mie tesi, durante molti anni dalla pubblicazione di "The one quest",
  è stata che questa polemica religiosa, se la verità si trovi nel
  "self" o nel "non self", rifletta anche due stili di
  simboleggiare, il che non comporta una differenza fondamentale rispetto alle
  implicazioni pratiche. Tanto il meditare sul vuoto quanto il meditare sul self
  indirizzano la mente verso il centro di sé stessa o il meditare su Dio. La
  differenza non è così radicale come sembrerebbe. In tutti i casi è certo
  che nel Buddhismo si abitua la persona a svuotarsi di sé stessa, si abitua la
  persona a stare senza punti di riferimento, esiste una vera educazione a
  lasciar andare l'attaccamento a forme di comportamento o idee. Lo stesso si può
  dire del taoismo, il Tao è, nella sua essenza, vuoto e questa concezione di
  vuoto ispira il coltivare la fluidità.
  
D: Cosa puoi dire di più su questa idea di
  vuoto che spesso è difficile comprendere da chi non è dentro l'esperienza:
  in generale si teme che il vuoto sia un non esistere.
  
R: Nel Buddhismo si parla in due sensi di
  vuoto. La vacuità, la mancanza di significato del Samsara, la insostanzialità
  del Samsara, che è un'idea che si sviluppa quanto più la persona è
  risvegliata spiritualmente. Come diceva il sufi Bayasid Bistami, anche se
  stiamo parlando di Buddhismo, "quanto più vivo, meno mi interessa il
  mondo, più mi interessa Dio".
  
Si può dire che quando una persona matura
  spiritualmente gli interessano sempre meno le cose del mondo, cominciano cioè
  a sembrare superflue, come i giocattoli che un bambino lascia da parte, i
  piaceri sensoriali, i piaceri della vanità, i piaceri legati al potere, di
  fronte ad una soddisfazione più profonda che non può dare nessuna cosa al
  mondo.
  
Questa può essere una nozione di vuoto: è
  come svuotare il mondo di significato. Un altro senso è che il supremo,
  l'assoluto, quello che cerchiamo ben oltre il mondo, ha una natura di vuoto.
  In questo senso è qualcosa di cui non si può dire niente. Tutto quello che
  possiamo dire di qualsiasi cosa si trova dentro una polarità: di tutto si può
  dire il contrario. Allora il vuoto ha un senso di ineffabilità che non è un
  niente ma che non ha caratteristiche denominabili, specifiche.
  
Io credo che questi due tipi di vuoto non
  siano diversi come sembrano perché, se ci si permette di stare
  nell'indefinito, nel vuoto che lascia il mondo e le sue soddisfazioni, si crea
  un'apertura verso ciò che non è sullo stesso livello del concettuale, o
  dell'emozionale, o del volitivo.
  
Ci si può chiedere cosa sia il
  transpersonale se non è corpo, non è emozione, non è intelletto. Si può
  dire che è niente, però non un niente negativo, bensì un niente in cui è
  radicato l'essere.
  
Parlando in forma approssimativa si può dire
  che la visione risvegliata della vita è una visione nella quale tutte le cose
  che quotidianamente si dice "esistano", sono come ombre, sono
  derivate, sono riflessi dell'essere, sono come la caverna di Platone, un mondo
  che ha qualcosa della natura del sonno rispetto all'essere assoluto; ma in
  questo senso si può dire che solo il non-essere, è. Solo quello che dal
  nostro punto di vista ordinario sembra non essere, è quello nel quale può
  trovarsi l'esperienza dell'essere. E' un poco come dire che solo consegnandosi
  alla morte si può trovare la vera vita, mentre più ci aggrappiamo alla vita
  più ci distruggiamo, più ci inibiamo nel flusso della vita.
  
D: Tu ti stai occupando di più tradizioni
  spirituali, non solo del Buddhismo ma anche del Cristianesimo, del Sufismo,
  dell'Induismo, dello Sciamanismo sudamericano. Hai trovato un punto di
  connessione, un punto comune a tutte queste tradizioni?
  
R: Ho avuto la fortuna di avere maestri di
  diverse tradizioni, ho avuto provvidenzialmente l'opportunità di conoscere
  grandi rappresentanti dallo Sciamanismo fino al Taoismo e nel mio primo libro,
  "L'unica ricerca" o "The one quest" mi sono proposto di
  rispondere a questa domanda però non dal punto di vista che potremmo chiamare
  teologico, o filosofico, o ideologico. Sebbene si possano trovare alcune cose
  in comune a questo livello, non se ne trovano tante come sul piano
  dell'esperienza. Io credo che il punto comune sia l'esperienza della
  trasformazione, che è conosciuta in tutte le culture. Nello Sciamanismo viene
  concepita come un'esperienza di morte e rinascita, così come presso gli
  antichi egiziani, come nel Cristianesimo. Nel Buddhismo si propone come
  un'esperienza di "annichilimento" che accompagna l'arrivo della
  saggezza, la conoscenza trascendentale.
  
Nell'Islam sono usati i termini astratti di
  "fanà" e "baqà", entrambi intesi come qualcosa che
  arriva dopo la scoperta del proprio nulla, la scoperta che attraverso di noi
  vive solo l'essere universale.
  
Io credo che la conoscenza del divino sia
  presente in tutte le tradizioni ed è secondario se la si chiama
  "divino" oppure no.
  
Lao Tze per esempio dice che il Tao è la
  "nonna di Dio". Invece di essere chiamato Dio, Il Tao è come un
  principio più arcaico che non si personalizza. Si può dire che Dio è un
  antropomorfismo, il che è perfettamente permesso, anche se, per una mente
  filosofica, può essere meno soddisfacente. Addirittura nel Cristianesimo ci
  sono stati teologi come Dionisio Aeropagita, che insistono sul "Deus
  Absconditus" e sull'oscurità del divino, sullo sconosciuto dal punto di
  vista intellettuale, che si trova più in là dell'idea di Dio.
  
Ad ogni modo, che il divino lo si chiami Tao,
  lo si chiami Dio o lo si consideri come la natura della mente, è qualcosa di
  presente nella vita dei ricercatori di tutte le culture e se s'incontrassero
  non ci sarebbe il limite delle parole per riconoscersi mutuamente.
  
Quelli che si sono risvegliati, nelle diverse
  vie, scoprono che la coscienza è una e s'incontrano in una risonanza che non
  ha bisogno di appoggiarsi sulla comparazione di teorie.
  
Anche a livello pratico e tecnico c'è una
  grande somiglianza tra le vie, per esempio cose concrete come l'uso della
  respirazione per entrare in contatto con una coscienza più sottile, si
  trovano tanto nella tradizione Buddhista giapponese quanto nella tradizione
  Sufi o nelle terapie corporali moderne. Includerei anche le vie di crescita
  occidentali, sebbene non abbiano l'antichità né l'autorità così provata
  attraverso i secoli delle vie orientali, si possono però vedere dei punti di
  contatto, punti di somiglianza molto grandi.
  
In "The one quest" c'è un
  chiarimento della natura del processo, io dico che uno degli aspetti è il
  risvegliarsi. Tutte le vie hanno a che vedere con il passaggio
  dall'incoscienza alla coscienza, si tratti della psicologia freudiana, della
  via del risvegliarsi del Buddhismo o della via del risveglio del Sufismo. Si
  tratta dello sviluppo della coscienza stessa.
  
Tutte le vie riconoscono anche il bisogno di
  un cambio di identità, dal piccolo Io al grande Io, dall'Io fittizio, dalla
  piccola mente con cui ci identifichiamo quotidianamente, a quella che si
  potrebbe chiamare in alternativa la "grande mente" o il self o come
  lo si voglia chiamare. E' un passaggio molto conosciuto, si tratti di Yoga o
  di Psicoterapia o di Taoismo.
  
D: In quest'ottica si potrebbe considerare la
  psicoterapia come un livello di una ricerca più ampia che sfocia nello
  spirituale?
  
R: Io penso che la psicoterapia è uno Yoga
  delle relazioni, uno Yoga relazionale, così come esiste il Karma-Yoga nelle
  vie indù tradizionali, uno Yoga dell'azione concreta, cioè dell'azione
  corretta.
  
La psicoterapia è come uno Yoga per la
  revisione delle relazioni umane, non attraverso il dovere o il modello di
  azioni derivanti da norme stabilite, ma piuttosto attraverso la revisione
  delle motivazioni. Si tratta però di una correzione, di un affinamento delle
  relazioni umane che hanno molto in comune con le vie dell'azione, è una via
  d'azione attraverso l'insight psicologico, attraverso il guardare dentro la
  sottigliezza del mondo interiore. E' un modo specificamente moderno, sebbene
  sia esistito tradizionalmente nel contesto delle relazioni maestro-discepolo.
  La relazione di un Rabbino con un allievo, la relazione di un Guru tibetano
  con un allievo, sono estremamente sofisticate dal punto di vista psicologico,
  non hanno meno senso e meno ricchezza di quello che ha il contatto
  terapeutico, perché si tratta spesso di persone addirittura veggenti e molto
  creative nel loro modo di influire o di far vedere qualcosa. Ma la specialità
  del lavoro relazionale, la specialità di aiutare in maniera più
  scientificamente delineata, è un contributo nettamente occidentale. Credo che
  sia un apporto importante alle vie tradizionali, un apporto che prende in
  considerazione l'aspetto espressivo, non solo comunicativo, attraverso le
  parole ma anche mimico, come lo psicodramma per esempio. E' un mezzo per
  conoscere meglio il mondo delle emozioni ma se si limitasse a questo potrebbe
  essere insufficiente, nel contesto però di una concezione più ampia è molto
  valido.
  
D: Cosa pensi del contributo cognitivo che
  porta la psicologia?
  
R: Credo che c'è un gran futuro nella
  terapia cognitiva applicata al carattere, si sta arrivando ad un punto molto
  centrale che si incontra con il lavoro che si fa nella psicologia dell'Enneagramma.
  
D: Cosa pensi del discorso di Wilber a
  proposito dei livelli di conoscenza transpersonale?
  
R: L'Associazione di Psicologia
  Transpersonale ha fatto di Wilber il suo eroe, a volte si dice che sia il
  William James dei tempi moderni e mi sembra che sia un uomo di molto talento
  che però è stato sopravvalutato nel dargli un ruolo così importante. Ha
  richiamato molto l'attenzione in parte perché è una persona erudita che
  comprende Gebser e ha letto Piaget, Margaret Mahler e altri pensatori sul tema
  dello sviluppo umano. Però egli ha suscitato molta impressione nei
  transpersonalisti americani perché questi sono poco eruditi ed è eccezionale
  avere un transpersonalista che legga libri e che comprenda le cose più
  scientifiche. Wilber ha preso le fasi dello sviluppo di psicologi classici e
  ha aggiunto fasi tradizionali dello sviluppo spirituale, come in una scala.
  Questo è più o meno ovvio farlo, però mi sembra che ci sia una limitazione
  nella forma in cui ha presentato le cose, oltre alla quantità di errori che
  sono gli errori di una persona che ha conosciuto le tradizioni attraverso
  studio accademico e reale interesse, ma poco come esperienza vissuta. L'errore
  fondamentale mi sembra che sia la presentazione dello sviluppo come una
  scalinata diretta verso uno stato supremo invece di riconoscere il processo
  ciclico di ascesa e caduta, la cosiddetta notte oscura dell'anima.
  
D: Vuoi parlarne più dettagliatamente?
  
R: Ho appena finito un libro il cui primo
  capitolo si chiama "Il viaggio dell'eroe come teologia mistica" e la
  proposta è che il modello mitico, la struttura degli argomenti di molti miti
  e fiabe, è l'eco di un'esperienza interiore riconosciuta in tutti i tempi.
  Però in questo libro richiamo l'attenzione sulla visione più conosciuta, la
  schematizzazione del viaggio dell'eroe che viene presentata da Joseph Campbel
  in tre fasi: un andare, avere un'avventura in un mondo lontano e un ritornare.
  
Mi sembra che se facciamo un'analisi più
  sottile delle fiabe e dei miti troviamo che nella storia dell'eroe ci sono due
  tipi di vittoria: una prima vittoria che è transitoria e seguita da un
  tradimento, da una perdita, da un viaggio all'inferno, da qualcosa di
  terribile e dopo, alla fine, una vittoria definitiva, c'è quindi un'ascesa,
  una caduta e poi di nuovo un'ascesa.
  
Questo corrisponde esattamente alla teologia
  mistica cristiana dove si parla della via purgativa, il viaggio dello sforzo
  che culmina con la via illuminata, il periodo in cui una persona si sente
  piena di grazia, vicina a Dio, con accesso ad esperienze spirituali, che però
  ha la caratteristica di essere un'esperienza che non dura, dura cioè per un
  periodo limitato di tempo ed è seguita da quello che San Giovanni della Croce
  chiamò "la notte oscura dell'anima ", un periodo di maturazione, di
  morte interiore e, contemporaneamente, di gestazione di una nuova vita.
  
Ciò che sembrava essere la nascita di un
  essere spirituale si trasforma nello sviluppo di un'agonia interiore e
  l'esempio più conosciuto di tutto questo, al di là di tutti i miti, è la
  storia di Cristo, che oggigiorno si ricomincia a capire come una storia del
  Cristo interiore, dopo molto tempo di dominio letterale. Nell'età media si
  sapeva molto bene qual era il senso del Calvario, al di là del letterale, e
  la prova di questo era un detto: "Pochi arrivano a Betlemme e ancor meno
  sono quelli che conoscono il Calvario", in pratica la nascita del Cristo
  interiore, per rara che sia, è più comune dell'esperienza della morte del
  Cristo interiore, vale a dire la perdita della spiritualità che è la porta
  per accedere allo stato di completezza.
  
La "Vita Nova" di Dante rappresenta
  una nascita spirituale. E' chiaramente un'opera simbolica su una nuova vita;
  poi muore Beatrice e dalla morte dell'amore scaturisce una nuova vita che
  porta Dante fino ad incontrarla nell'al di là. Dunque " La Divina
  Commedia" non è il racconto del viaggio interiore per intero, bensì la
  seconda parte. "La Divina Commedia" inizia con "la notte scura
  della anima", con la discesa all'Inferno e il passaggio per il Purgatorio
  per ritrovare il Paradiso, che è già stato conosciuto transitoriamente e un
  po' meno profondamente all'inizio della sua vita.
  
D: Pensi che il ciclo dell'ascesa e caduta
  dell'anima si ripeta più volte nel corso di una vita umana?
  
R: Sostanzialmente mi sembra che per quanti
  cicli ci siano nella vita ordinaria e che per quanto possano esserci
  addirittura oscillazioni cicliche dopo la realizzazione suprema,
  essenzialmente sono cicli di un altro ordine.
  
La configurazione del viaggio non è molto
  complessa, non consiste di cicli indefiniti. C'è un solo monte Sinai nella
  vita di un uomo, un'iniziazione vera della via e, poi, la seconda nascita che
  nel Cristianesimo si preferisce chiamare Resurrezione, una nascita più
  radicale che è la finalità della via ed è, piuttosto che la morte dell'uomo
  vecchio, la morte dell'ego; non solo un nuovo inizio, bensì il fine che
  rappresentò l'Esodo con la morte di Mosè alle porte della Terra Promessa.
  
Arrivati a questa condizione ci possono
  essere cicli, però questi sono contemplati in uno stato di comunione
  universale. All'inizio del cammino l'uomo è soggetto alla grazia, c'è
  un'alternanza, c'è un elemento di azzardo, alla fine del cammino la persona
  ha guadagnato il suo diritto di entrare in cielo e per la sua stessa natura e
  nonostante ci sia un elemento di fluttuazione della vita, nessuno potrà
  disfare questa nascita. L'uomo non ritorna al ventre della madre un'altra
  volta. Ciò non significa che l'evoluzione non continui. Io credo che lo
  sviluppo spirituale possa continuare, però non mi sembra chiaro dai documenti
  che esistono e nemmeno è qualcosa di cui io possa parlare personalmente perché
  appena comincio a sentire l'odore della Terra Promessa.
  
Ci sono opere letterarie che suggeriscono
  cicli, per esempio nella Bibbia dopo la Terra Promessa, dopo che sono crollate
  le mura di Gerico, con il libro di Giosuè c'è di nuovo un periodo nero, ci
  sono guerre, c'è disunione e poi c'è un nuovo periodo di gloria con la
  unificazione del regno fatta dal re David e con la costruzione del tempio di
  Salomone che è di nuovo il pinnacolo finale della Storia Sacra di cui è
  stato specialista questo popolo, in particolare con la sua grande tradizione
  nell'usare il materiale delle leggende per esprimere esperienze interiori. Io
  credo però che si tratti piuttosto dello sviluppo come di un motivo musicale,
  di una configurazione interna, non perché nella vita umana si ripeta
  indefinitamente bensì perché, quale che sia il libro della Bibbia che uno
  legge, può vedere la storia intera ripetuta attraverso il materiale di
  un'altra storia. E' come un albero che si ripete nel ramo e il ramo che si
  ripete nella foglia. Questi grandi libri sono come tessere, come le cattedrali
  gotiche che possiedono una struttura globale e si possono ammirare anche
  microscopicamente e vedere strutture particolari. Mi sembra piuttosto che si
  tratti di un artificio letterario, di un ricorso letterario per riflettere il
  tutto in ognuna delle parti.
  
  
 
  
* Psichiatra,
  psicoterapeuta. Allievo di F. Perls, è stato uno dei primi componenti dell'Esalen
  Institute. Insegna all'Università di Berkeley
  
  ** Psicologo, psicoterapeuta. Direttore dell'IGAT: Istituto
  di Gestalt e Analisi Transazionale
   
   
  Da: 
  
  http://www.in-psicoterapia.com/naranjoi.htm
                                                                                                                                          
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