in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Il mondo cambia I blue jeans no (Jean Baudrillard)


 

Sono il non abito universale, l'elemento trasversale tra lavoro e piacere, l'indistinzione unisex. Parola di filosofo

Nella mondializzazione degli scambi, alcuni prodotti-feticcio come i jeans, la Coca-Cola o il McDonald, sono divenuti determinazioni totemiche e sono penetrate nell'immaginario insieme al mercato reale.
Fanno parte di una lingua universale, pubblicitaria, intraducibile in qualsiasi altro idioma. Non vi è altra definizione di questi prodotti se non quella della loro marca. Tale singolarità, che impedisce di collocare certi prodotti nel sistema della lingua, corrisponde a una eguale impossibilità di iscrivere i jeans nel sistema di abiti e della moda - se non sotto il segno del grado zero. I jeans sono il grado zero dell'abito, o il non-abito universale, senza bisogno di abbinamenti né accessori. Semplici mezzi, (almeno nella loro ispirazione primaria, originaria). Analogamente si può dire che la Coca-Cola è il grado zero della bibita e il McDonald il grado zero del cibo. "Grado zero" non è affatto una definizione peggiorativa, al contrario è una caratteristica originale della modernità estrema. I jeans non sono un'uniforme. L'uniforme, quale che sia, militare, scolastica o civile (come gli abiti della Cina di Mao), è sempre istituzionale, riflesso di una società strutturata e gerarchica. I jeans sono il riflesso di una società indifferenziata, o in via di indifferenziazione (sia sociale, che professionale o sessuale). L'uniforme sigilla la coesione ideologica di una massa, di una nazione, di un'istituzione. E' un emblema, e come le bandiere o i discorsi, è il messaggio di una volontà collettiva. Niente del genere con i jeans, che non sono portatori di nessun messaggio ideologico. Anche se sono milioni di esemplari, non traducono alcun contratto di massa, alcuna appartenenza collettiva. Forse rimandano a una vaga complicità disinvolta e comunque non esprimono nessun tratto rappresentativo, né di competizione, né di prestigio, come è di regola nella moda. Si oppongono dunque sia al sistema di differenziazione della moda, sia all'uniforme, che ne è il rovescio. Sotto un'apparentemente semplicità, sono un fenomeno originale. Se i jeans sono stati, agli inizi, un abito da lavoro della classe operaia e dell'America del West, si sono velocemente imposti come elemento trasversale, che nasconde la frontiera tra il lavoro e il piacere, e omogeneizza ogni forma di attività. Se il senso comune opponeva ancora risolutamente il lavoro al piacere, l'onnipresenza dei jeans mostrava già, nella pratica, che ci si trovava di fronte alla stessa cosa.
Sociologia profonda, non ancora entrata nella testa dei sociologi. Certamente i jeans hanno cambiato la vita. Ma se hanno potuto registrare un tale folgorante successo, è perché la vita era già cambiata. Se i contadini portano i jeans è perché già non sono più veramente contadini. Se le donne portano i jeans è perché il loro corpo non è più lo stesso, è meno aderente alle costrizioni dell'essere donna, alla messa in scena della femminilità. Preferisce l'indistinzione unisex. E se i jeans, come oggetto erotico e sessuale sono stati intimamente legati alla liberazione sessuale degli anni Cinquanta-Ottanta, ciò è accaduto sulla base di una relativa indistinzione dei sessi e degli abiti (da un sesso all'altro, ci si scambiano i jeans e le T-shirts). Come sempre, il gioco non ha fine. I jeans, dopo aver livellato le caratteristiche sessuali, possono ridiventare un oggetto sensuale, sottolineando fino all'oscenità le forme del corpo. Dopo aver livellato le caratteristiche della moda, possono ridiventare un oggetto di moda, diversificandosi all'infinito secondo le fantasie industriali dei creatori o le fantasie personali di chi li indossa. Delle esuberanze del look, della sua singolarità e del suo continuo rinnegare la forma originale, non resta altro che il jeans, vale a dire, essenzialmente, la prerogativa di nessuno. Se non esistessero bisognerebbe inventarli. Nel senso che, non appartenendo a nessuna cultura in particolare, sembrano un attributo della specie, una sorta di abito-protesi - un po' come gli occhiali potrebbero diventare un giorno, in particolare nella sfera della realtà virtuale, una protesi definitiva della specie, là dove lo sguardo, la seduzione e la fragilità degli occhi saranno spariti. Cos'è che scompare dietro i jeans? La seduzione, la fragilità del corpo? Ci si può calare nei propri jeans come in una buccia o in un'armatura - quella del Cavaliere inesistente di Calvino - forma dietro la quale si difende un'identità leggera, fluttuante, al margine di ogni stato sociale, dietro cui occorre sparire, o non offrire altro che il proprio look. Si dice che tutto ciò che scompare nei costumi riappare nella moda. Si dice anche che molte delle cose che passano di moda sono passate nei costumi. I jeans appartengono a quest'ultima categoria.
Appesantiti dai miti del western, del rock, del pop, della country music e della generazione dei figli dei fiori, caricati della nostalgia e del "blues" delle generazioni perdute, custodiscono nonostante tutto il fascino discreto di un oggetto insignificante. Il blu ha senza dubbio contato molto nel successo mondiale dei jeans. Non come colore forte e simbolico, ma colore utopico. Certamente, i jeans sono passati per tutta la gamma dell'arcobaleno, ma si sa bene che tutte le altre tinte sono delle variazioni intempestive, e il blu, quel blu molto speciale, è in definitiva il solo che fa sognare. Quello del cielo, quello dell'eternità, ma leggero e privo di insistenza.
Avventura effimera, identità furtiva. Espressionista o metropolitano, adattabile a tutte le fantasmagorie: la sua tela di Nîmes, di una resistenza tale che si presta a tutti gli usi, ludici o professionali, la sua trama simbolica può sopportare giochi e sviamenti. E' invulnerabile nella sua semplicità.

 

Da: http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000728.htm

 

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