in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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(Yun Men)

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Identità dannate se tramonta l'era del segreto
(intervista di Loretta Preta a Jean Baudrillard)


Da un lato le teorie riduzioniste e fisicaliste, dall'altro le teorie postmoderne e femministe mettono fortemente in questione il concetto di identità. Lei nei suoi scritti sembra invece deplorare il fatto che questa perdita dell'identità sia sostituita da una sfrenata ricerca di visibilità. Afferma inoltre che la realtà è basata su una incertezza radicale che rende impossibile qualsiasi scambio, ma a questo punto - dice - abbiamo trovato una «soluzione finale»: il virtuale in tutte le sue forme, la messa in opera di un artefatto tecnologico perfetto, tale che il mondo si possa scambiare con il suo doppio artificiale. Ancora una volta, però, si tratterebbe di un sistema votato al fallimento... Insomma a quale tipo di identità ci troviamo di fronte?
Dal mio punto di vista, l'identità non è un valore forte. C'è una logica dell'identità e della differenza che si rifà in una certa misura all'«identico». Si è detto: ognuno deve differenziarsi, deve avere una propria specificità; e tuttavia questa differenza ridiventa identitaria, vale a dire che ciascuno si identifica con se stesso. E' chiaro come in questo tipo di identificazione sia compreso un pericolo assoluto, perché il gioco in qualche modo si chiude: l'individuo diventa qualcosa di indivisibile, il clone di se stesso. È un tipo di processo che definirei antropico: si parte da una sorta di diversità, da una contrapposizione di sé a se stessi, da una divisione interna: ma a un dato momento accade che ci si conquista il diritto alla propria individualità. Non è più questione di libertà in atto, bensì dell'idea che ciascuno ha diritto al proprio territorio, al proprio patrimonio, alla propria eredità, al proprio nome. L'alterità è in qualche modo ostracizzata, rifiutata: a questo punto, ciascuno si è creato la propria nicchia, il proprio territorio. Si tratta di un problema filosofico antico, riproposto in epoca moderna e riportato alla luce dalla tecnica. Il soggetto che un tempo era d'ordine ideale, trascendente, è divenuto d'ordine tecnologico: ciascuno oggi si `consola' con gli strumenti elettronici, con i mezzi di comunicazione, con i mezzi d'informazione, creando un universo autarchico. Si passa dall'identità come essenza, all'identità come differenza e poi all'identità come riconoscimento; ma si tratta di una autodefinizione e quindi, in qualche modo, di un'auto-chiusura. Di tutto questo si ha sentore nelle tecnologie del virtuale, che in effetti aprono immense possibilità fino ad esaltare il cambiamento stesso di identità. E tuttavia, non si può parlare di un divenire in senso forte, come riguardasse l'idea di destino. Parlerei, piuttosto, di identità combinatoria e osserverei anche che, al centro di molteplici flussi, in qualche modo si è persa la coscienza di sé. Inoltre, si potrebbe dire che questa costruzione identitaria è operazionale: gioca con le tecniche, può trasformarsi a piacimento, e tuttavia resta effimera, orizzontale. Non ha più quella verticalità che era propria, ad esempio, dell'essere o del non essere, della storia, insomma di una trascendenza qualsivoglia.
L'identità oggi è diventata semplicemente una sorta di estensione, di estroversione, implica soprattutto l'essere visibili: niente più segreti. In definitiva, anche la comunicazione simbolica è fatta della condivisione di ciò che non viene detto o non può essere detto. Oggi, invece, tutto deve essere comunicabile e, all'interno di questa situazione ciascuno si ritaglia una piccola parte.


Per contro, assistiamo a una recrudescenza dei fondamentalismi e alla difesa di identità rigide...
Sì, ma qui stiamo parlando dell'identità come sistema di auto-difesa rispetto a questa sorta di relativizzazione del soggetto. Ora non ci sono più punti di riferimento. Non si sa più chi si è, non c'è più neanche un'immagine di sé. Tutto fluttua, tutto è instabile e quindi siamo di fronte a un ripiegamento, forse a una regressione. In un certo senso, è facile capire la necessità di difendersi dalla globalizzazione. Quando tutti i punti di riferimento e i confini vanno persi, ci si «riterritorializza» su valori religiosi, etnici, linguistici o altro. E al tempo stesso si tende a dire che tutto questo è reazionario. Il razzismo è ormai di seconda generazione, o forse di terzo tipo: rinasce in funzione di questa perdita di confini, di questa perdita di difese. Con la mondializzazione tende a scomparire ciò che apparteneva a valori universali: per esempio, il fatto che ogni popolo sia dotato di una propria cultura. La cultura occidentale ha affermato il diritto alla multi-culturalità, e di fatto la cultura della differenza è ancora un Leitmotiv dell'Occidente. Ma che cosa fanno di tutto questo le altre culture per metà scomparse? Anch'esse cercano disperatamente di affermare le proprie differenze, finendo per rientrare in questa sorta di mosaico culturale che, in fin dei conti, è quello dell'Occidente. È così che questa cultura disperata, della differenza e dell'identità, si perde infine in un sistema in cui viene in realtà sacrificata. Lo schema è quello di tipo pubblicitario, dove viene proposto un modello, per esempio di corpo femminile; eppure lo slogan dice: siate diversi, assomigliate tutti allo stesso modello!
Pensiamo alla realtà virtuale. L'identità implica un principio di riconoscimento di sé, e anche un principio di piacere: principio di realtà dell'individuo e dell'altro, del soggetto e dell'altro. In qualche modo un principio dialettico. Nella realtà virtuale, invece, sembra sia scomparsa la dialettica dell'alterità, dell'individuo, e non c'è più nemmeno quella che mette in relazione l'individuo con la società. C'è una specie di proiezione di ciascuno di noi in uno stesso panorama infinito di possibilità, il tutto ridotto a numero. Così siamo diventati un po'... oligocefali.


Lo psicoanalista Francesco Corrao parlava di un mutamento dei miti di riferimento: dal mito di Edipo, basato sulla colpa e sul triangolo, al mito di Dioniso, dio del gruppo orgiastico, che rappresenterebbe i livelli mentali precoci basati sul divoramento, sullo smembramento e sulla frammentazione. Il che renderebbe conto della violenza attuale e della incapacità di affrontare le passioni senza farle esplodere in maniera incontrollabile.
Anche se si può affermare che quelle edipiche sono delle strutture vere e proprie, in qualche modo stabili, è anche vero che ora si avverte un loro superamento, al di là della psicoanalisi e oltre il principio stesso di una interiorità e forse di un inconscio. Nell'universo virtuale l'inconscio non esiste più, è - per esempio - completamente relativizzato dal rapporto con realtà numeriche. Voglio dire che la strategia di un sistema come quello vigente consiste nell'annullare sia ogni dimensione trascendente che ogni forma di interiorità: essa, è chiaro, rappresenta la minaccia assoluta, è ciò attraverso cui si sfugge alla morte, alla legge, alla norma. In fondo, si tratta del terrore della trasparenza, come nella patologia schizofrenica: lo schizofrenico è completamente trasparente, non può fermare niente di quanto lo colpisce, è attraversato da ogni parte. Ma allora, se non c'è più interiorità, non c'è più neanche distanza dalle cose. Lo sguardo, il giudizio, la seduzione, tutto ciò va perso in questa sorta di avvicinamento assoluto. Si parla di interattività, ma di fatto c'è una promiscuità delle cose che fa sì che non ci sia più neanche alienazione, dal momento che non c'è altro che l'identico e che esiste la possibilità di realizzarsi totalmente, immediatamente senza passare per l'altro. E ciò fa sì che anche tutte le forme d'arte, come il teatro, ad esempio, che supponevano una scena, una distanza, uno sguardo, siano molto minacciate a vantaggio del collage video, dello schermo: di fronte ad esso si è al tempo stesso spettatori e protagonisti, interattivi. Si gioca con lo schermo a proprio totale piacimento, e a un tratto ci si accorge che anche quel «pathos della distanza», di cui diceva Nietzsche, risulta annullato. Il che rappresenta davvero un impoverimento notevole.


Sembra che le biotecnologie permettano un'azione diretta sul corpo senza presupporre più alcun collegamento con le fantasie sottostanti. Tramite i miti conoscevamo già degli ibridi, delle combinazioni non esistenti in natura, come ad esempio i centauri, le chimere e così via. Erano fantasie già contenute nella mente, ma ora possono essere realizzate. È come se tutto potesse diventare attuale, ogni azione possibile. Questo sì che comporta un cambiamento radicale...
In effetti, tutto quel che era sogno, utopia, fantasma, tutto ciò che aveva un'esistenza in qualche modo ideale, è diventato tecnologicamente realizzabile, dando luogo a una forma di realtà integrale: non c'è più modo di sognare una cosa dal momento che quella cosa viene realizzata immediatamente. Questo, del resto, comporta problemi psicologici non indifferenti: è difficile sognare una persona se è lì presente. Sta forse qui il fine ultimo di una relazione amorosa: poter sognare una persona avendola vicina. L'assenza e il vuoto, così come tutte le figure mitiche, stimolavano forme d'immaginazione, ma sembra non ce ne sia pià bisogno dal momento che tutto è incarnato, realizzato.


Anche la psicoanalisi ci insegna che il pensiero, la capacità di simbolizzazione, nascono dall'assenza.
Sì, occorre una sorta di alternanza del gioco, di contrapposizione fra presenza e assenza. In fin dei conti, l'identificazione totale avviene forse un po' nel sonno, ma compiutamente solo nella morte. Pensiamo alla clonazione, vale a dire l'identificazione illimitata di sé: non ci mette di fronte a quella che Freud chiamava pulsione di morte? Alla possibilità di essere moltiplicati ma indifferenziati, di non avere più niente a che fare con la propria assenza, di essere completamente identificati...


E di non aver più niente a che fare con la propria origine...
Proprio così, viene annullato l'evento della nascita, così come quello della morte, e ci troviamo di fronte a una sorta di continuum, di flusso ininterrotto dove ciascuno si trova semplicemente alla confluenza di un certo numero di percorsi, di schermi. Questa, in fondo, è la prospettiva generale: un po' catastrofica secondo me.


Eppure potremmo provare a vederla in un altro modo: non potrebbe darsi che ci troviamo di fronte a nuove geometrie mentali, nuove forme di vita, nuove identità appunto, di cui non è dato ancora conoscere i modi di organizzazione, ma che potrebbero evolversi in qualche forma se solo arrivassero a usufruire di un minimo di integrazione di questi livelli e di queste modalità?
L'integrazione mi sembra diventata un imperativo morale. In ultima analisi, direi che l'unica prospettiva positiva è quella del gioco. Ma in senso forte, dunque non come sfida intrinseca alla dimensione duale. Il cambiamento continuo può rispondere a un principio di piacere, è vero, ma minimale: si cambia look, si cambia aspetto, e perché no? si cambia sesso. Non che vada negato il godimento immediato che se ne può trarre: tuttavia restiamo all'interno di una dimensione ludica, estranea ai grandi giochi. Inoltre, mi sento molto perplesso circa le varianti di integrazione che consentirebbero forme di appropriazione di sé. Forse, invece, ci sono già livelli di integrazione sociale che permettono di ritrovare modalità reali di comunicazione. O, quantomeno, forme di comunità realizzate attraverso dispositivi tecnici. Ricordano i modi di stare insieme delle tribù, spazi tribali dove ciascuno si ritaglia una forma di linguaggio, un idioletto. Ma non bisogna essere troppo settari... ci troviamo di fronte a cambiamenti simbolici ospitati negli alveoli di un sistema che è addirittura la negazione del simbolico. In fondo, se ci si spinge ai confini estremi della tecnica, forse si ritrova la costellazione del segreto. Bisogna andare fino in fondo, senza cercare di difendersi. In definitiva, un barlume di speranza c'è ancora.

 

Da: http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/020522g.htm

 

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