in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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Multimondo. Globalizzazione e conflitto di Antonio Chiocchi


 

1) Alcuni anni fa, J. Gray, a proposito della costruzione di un'unica civiltà mondiale che comportasse il superamento delle tradizioni e delle culture del passato, ha parlato di universalismo di impronta illuministica ricomprendente in sé illuministi francesi, repubblicani americani quali T. Jefferson e T. Paine, pensatori liberali come J. Stuart Mill e persino K. Marx (1). Secondo questa impostazione, le politiche e le strategie degli Usa e degli organismi sovranazionali come il Wto, il Fondo monetario internazionale e simili risponderebbero a questo impulso universalistico di origine illuministica.

Certamente, la tesi di Gray è discutibile in più punti; a partire dalle considerazioni sul presunto legame di appartenenza organica all'illuminismo di un pensatore come Marx che, per quanto qua e là condizionato dai retaggi della "filosofia dei lumi", appare sostanzialmente esterno all'universo categoriale razionalistico che è tipico dell'illuminismo. Ma, a prescindere da questo ordine di valutazioni, il discorso di Gray mette a segno alcuni importanti punti. Vediamone i più salienti.

L'universalismo illuministico contemporaneo:

a) ha un profilo chiaramente utopistico; nel senso dell'irrealizzabilità (2);

b) è destinato a produrre instabilità a scala mondiale, nelle relazioni internazionali e nelle transazioni commerciali e finanziarie;

c) produce miseria sociale allargata nelle periferie terzomondiali e nelle aree marginali delle stesse roccaforti dello sviluppo;

d) incrementa i processi della stratificazione e della ineguaglianza sociale;

e) indebolisce le politiche di regolazione e allenta tutti i vincoli del legame sociale;

f) alimenta e sovraeccita un conflitto crescente, di natura culturale e sociale prima ancora che politica, tra i Nord e i Sud del mondo;

g) eleva gli strumenti penali e di reclusione carceraria a mezzi privilegiati delle politiche di controllo sociale;

h) ingenera boom economici che non hanno carattere redistribuitivo, ma rispondono a criteri di allocazione oligarchica: i ricchi diventano sempre meno numerosi e sempre più ricchi; i poveri, al contrario, sempre più numerosi e sempre più poveri;

i) innalza allo zenit la devastazione dell'ambiente e dell'intero ecosistema del vivente umano e non umano.

In ciò Gray legge una hybris sconfinata ed un altrettanto sconfinato imperialismo culturale (3). Il fatto è che, a misura in cui proliferano mercati deregolamentati, si affermano diverse varietà di capitalismi e di regimi politici, non di rado, apertamente autoritari che con il modello di democrazia pluralista non hanno più nulla a che spartire. L'hybris illuministica viene, con ciò, smentita alla radice; ma, proprio per questo, si ostina a mantenere fermi i propri assunti ed il proprio modus operandi, scatenandosi sempre di più in termini di affermazione di potere.

Possiamo, più pertinentemente, definire l'illuminismo contemporaneo investigato criticamente da Gray come ideologia della globalizzazione; cosa tutt'affatto diversa dalla globalizzazione quale sistema differenziato e complesso di processi culturali, sociali, economici e politici che squarciano trasversalmente universi globali e locali. E qui, come è sin troppo evidente, recuperiamo la nozione marxiana di ideologia come falsa coscienza; basterebbe già questo a segnare uno spartiacque decisivo e definitivo tra l'illuminismo e Marx, i cui limiti ci sembrano disegnare un'altra parabola (4).

Trasversalità, reciprocità e complementarità paiono gli attributi salienti dei processi di globalizzazione in atto. A questi se ne deve aggiungere un altro non meno rilevante: l'accelerazione di tutti i processi di trasmissione e ricambio dei saperi, delle conoscenze, delle informazioni e comunicazioni e degli stessi poteri. Il principio di accelerazione che è proprio della storia (5) viene esaltato, fino a sublimarsi nella decisione e comunicazione in tempo reale. Lo speculare e complementare principio di decelerazione della politica (6) si coniuga come politicismo governante: quanto meno il 'politico' e la politica padroneggiano le accelerazioni della globalizzazione, tanto più si impongono come decisori di processi sistemici di cui non hanno piena cognizione e su cui non possono affermare piena sovranità.

'Politico' e politica si agganciano alla globalizzazione, per non essere tagliati fuori dalle accelerazioni della storia e, così, surrogano la loro crisi di legittimità e non tematizzano il carattere obsoleto dei modelli e moduli entro cui sono rinserrati. Ciò li pone in una relazione assai ambigua con i poteri economici e finanziari emergenti e dominanti: da un lato, ne sono condizionati; dall'altro, intendono condizionarli nel breve-lungo periodo, cercando di preservare le loro prerogative di potere, ponendosi come centro di governo dei processi di globalizzazione.

Sotto la spinta di queste mosse e contromosse, è in via di completa ridefinizione la mappa delle relazioni tra istituzioni e poteri economico-finanziari, da una parte, e istituzioni e poteri politici, dall'altra, secondo le movenze alternate e intrecciate degli accordi e dei conflitti. Il gioco delle alleanze e dei contrasti è assai complesso e variabile: non vede semplicisticamente lo schieramento economico-finanziario contrapposto in quanto tale a quello politico e viceversa; convergenze e contrapposizioni, al contrario, tagliano trasversalmente i due schieramenti. E ciò tanto a scala globale che al livello locale.  

La globalizzazione agisce nel cuore della contraddizione tra accelerazione della storia e decelerazione della politica. E la contraddizione è accentuata dal fatto che ora, per la prima volta nella storia, a fungere quale fattore di globalizzazione culturale non sono gli Stati, le teocrazie e/o le religioni, ma le imprese globali (7). Nuovi stili di vita e nuovi inputs culturali trovano il loro punto di applicazione originario più nella diffusione dei prodotti immateriali delle nuove tecnologie della comunicazione che nell'azione intenzionale delle agenzie della socializzazione e acculturazione. Ora, proprio questa evidenza induce a ritenere che la globalizzazione culturale veicolata dalle imprese globali non avvenga sotto l'insegna delle culture delle differenze; al contrario, assume le sembianze di una codificazione di massa di una nuova forma di universalismo: l'ideologia della globalizzazione (appunto). Ciò accentua il conflitto tra culture globali e culture locali, rendendo, altresì, vieppiù stridenti le relazioni tra economico-finanziario e 'politico'.

Uno degli effetti perversi della globalizzazione è quello di rendere più piccolo il mondo; ma un mondo più piccolo è un mondo più pericoloso. Da qui il montare inesausto di progressioni conflittuali di tipo culturale, politico ed economico e che, soprattutto in un'era globale, sconfinano periodicamente in conflitti armati; come la storia degli anni '90 e l'alba del nuovo secolo ci hanno ampiamente dimostrato. È, così, potuto nascere un sistema globale di sovranità, autoinvestitosi della titolarità di garante indiscusso dell'ordine e della sicurezza internazionale, scalzando le vecchie istituzioni sovranazionali (come l'Onu) preposte al compito. Questa nuova forma di sovranità internazionale ha il suo centro gravitazionale nel potere degli Usa, delle imprese globali, dei decisori sovranazionali in materia economico-finanziaria (Fmi, Wto ecc.) e del dispositivo politico-militare della Nato. Ad un livello gerarchico inferiore si collocano gli altri paesi avanzati, le loro elites e le loro istituzioni nazionali e comunitarie, a partire dalla Ue; ad una soglia ancora più bassa sono schierate le oligarchie terzomondiali. L'insieme di questi conglomerati politici, economici, sociali e militari costituisce la macrostruttura sistemica e mobile di quella che abbiamo definito ideologia della globalizzazione. Produrre, comunicare e diffondere a scala planetaria l'ideologia del dominio nelle forme storiche e culturali della globalizzazione è una delle funzioni cardine di tale macrostruttura.

 

2) Da questa rappresentazione della realtà discendono non pochi problemi di carattere formale e sostanziale, attinenti tanto al momento specifico della elaborazione teorica che a quello della ricerca empirica, su un versante che definire pluridisciplinare è dire ancora poco. Qui cercheremo di approcciarci ai problemi di definizione e di ricerca (teorica ed empirica) che ci sembrano più rilevanti.

Iniziamo con una negazione: la globalizzazione non corrisponde ad un mondo che si è irreversibilmente fatto unico (8). I processi di combinazione importati dalla globalizzazione non si risolvono nella evirazione delle differenze; piuttosto, ne accelerano la messa in comunicazione. Le immedesimano le une nelle altre e, in questo modo, amalgamano su scala allargata nuove combinazioni di differenze. Al tempo stesso, i processi della globalizzazione ricostruiscono le sfere politiche, culturali, esperenziali e simboliche della distanza; così come ridisegnano quelle della presenza. Presenza in remoto e permanere della distanza fin dentro la presenzialità: stanno qui i due fuochi ineliminabili della globalizzazione. Solo in superficie il mondo pare fattosi uno; già sotto i primi strati delle apparenze ideologiche ci avvediamo che quello della globalizzazione è un multimondo. È l'ordine politico-culturale dominante che tende a ridurre ad uno il multimondo della globalizzazione, elaborando una particolare versione ideologica del primato (culturale) delle classi superiori, in una singolare intercompenetrazione tra "struttura" e "sovrastruttura" che costituisce lo smantellamento dei residui ancora circolanti del materialismo storico-dialettico.

Ma poiché le "idee dominanti" non si risolvono, in forza di un automatismo politico-culturale, nelle "idee delle classi dominanti", l'ideologia della globalizzazione non fornisce una perspicua rappresentazione del mondo; al contrario, falsa il mondo della rappresentazione e la rappresentazione del mondo. Rientrano in questo teatro delle apparenze le teorie del postmoderno, del postindustriale e del postfordismo. La critica del carattere di falsità dell'ideologia della globalizzazione, proprio nella sua tensione a mettere in scena altre e più perspicue rappresentazioni del mondo, costituisce la premossa che avvicina all'agitato multimondo che la superficie della globalizzazione tende ad occultare.

Multimondo è la pluridimensione reale, per quanto confinata in una linea d'ombra, della globalizzazione; anzi, più multimondo costituisce la realtà prima e ultima della globalizzazione e più l'ideologia del capitale globalizzazto tende ad occultarlo, poiché in esso trovano spazio e tempo le voci, i linguaggi, i corpi, le anime ed i soggetti delle differenze. Si tratta di portarli alla luce e accompagnare i loro processi di auto-organizzazione e ricombinazione continua contro l'ideologia della globalizzazione e le sue metastrutture simboliche e materiali. Non ci sarebbe altrimenti scampo dalla tirannia delle forme simboliche, politiche, giuridiche, economiche e finanziarie degli apparati globali che dettano legge nel nuovo ordine mondiale. In un mondo fattosi uno, nessuna linea di fuga è data.

Ferme rimanendo le chiavi di lettura universalistiche della globalizzazione, la prospettiva futurante si risolverebbe in ipotesi così fatte:

a) gettare via (e/o abbandonare) questo mondo, contro cui non resterebbe che esercitare la categoria del rifiuto integrale, visto che il "dominio totale" del capitale avrebbe inglobato lo stesso evento rivoluzionario e le medesime forme dell'antagonismo sociale (9);

b) praticare l'esercizio dell'esodo, visto che non si aprirebbe altra via di evasione dalla onnipervasività del dominio delle forme capitalistiche (10);

c) agire la biopolitica della moltitudine vivente contro il biopotere dell'impero, configurazione compiuta del capitale globalizzato (11);

d) far irrompere l'antagonismo da un oltremondo, unica dimensione altera al presente totalizzato e totalitario del mondo globale (12).

Le prime tre ipotesi, pur divise su questioni scottanti, conservano una eredità comune con il marxismo, nelle sue versioni più libertarie e critiche. La quarta, invece, nel suo posizionarsi in un assoluto altero, assieme al mondo della globalizzazione, contesta le grandi narrazioni teoriche di sinistra, tanto del marxismo socialdemocratico che di quello rivoluzionario. Ci occuperemo inizialmente delle prime due; poi, separatamente, ci soffermeremo sulle "teoriche dell'impero" e, quindi, su quelle dell'oltremondo.

Le ipotesi dell'abbandono e dell'esodo, pur diverse tra di loro in non inessenziali strati, convergono verso due punti assiali:

a) uno di carattere teorico: la concezione monolitica della globalizzazione;

b) l'altro di carattere politico: l'esternalizzazione della soggettività critica, dislocata tutta fuori la globalizzazione.

Diventa conseguentemente problematico: (i) allacciarsi alla vitalità delle differenze; (ii) posizionare una critica risolutiva dell'ordine della globalizzazione; (iii) lavorare alla costruzione di ordini relazionali. sociali, culturali e politici liberi e alteri. La relazione tra trascendenza e immanenza salta del tutto e completamente in ombra è gettato il rapporto tra storia e tempo. Cosicché tra l'ingiustizia dominante della storia e la giustizia affiorante del tempo è invariabilmente la prima a trionfare.

Le "teoriche dell'impero", per loro conto, pur muovendo da una concezione monolitica della globalizzazione, riconoscono l'intima internità della "soggettività critica" al capitale globale ed ai suoi apparati di dominio. Anzi, viene qui apertamente sostenuto che la formazione del capitale globale altro non è che la risposta all'insubordinazione della moltitudine vivente, a livello internazionale. La moltitudine vivente è posizionata contemporaneamente tutta dentro e tutta fuori il capitale globale. Qui viene dislocata la base oggettiva e, insieme, soggettiva dell'insurrezione planetaria contro l'impero. Il postulato marxiano del doppio carattere del lavoro vivo (forza-lavoro e classe operaia), su cui in gran parte è stato costituito l'edificio teorico dell'operaismo teorico degli anni '60, si sposa con l'assunto foucaultiano secondo cui la resistenza del popolo anticipa e condiziona le mosse, le strategie e le forme del potere sovrano costituito. La combinazione di questi assunti teorici non convergenti (anzi) produce un nuovo contesto teorico, entro il quale il potere sovrano costituito è ora definito come una forza reattiva (13).

Qui il mondo non viene gettato, nemmeno abbandonato e neanche "esodato". La costituzione della moltitudine in soggettività vivente globale si misura intorno ad una coordinata centrale: l'impedimento e la messa in crisi dei meccanismi di recupero biopolitici con cui il biopotere del capitale globale ha riassunto, interiorizzato e fagocitato i movimenti di insubordinazione e di rivolta sociale. Il bersaglio, quindi, non è la globalizzazione in sé; ma questa globalizzazione. L'obiettivo strategico perseguito, esplicitamente dichiarato, è una globalizzazione alternativa entro il seno della quale il "tutto fuori" e il "tutto dentro" della moltitudine si coniugano perfettamente. Il sogno marxiano di una "Internazionale proletaria" resuscita e, insieme, si anima di nuove e più potenti forme, si scalda al fuoco di nuove e più vibranti utopie concrete.

Nondimeno, anche in questa posizione rimane problematica la riconnessione con/e del/le differenze. Difatti, alla figura compatta della globalizzazione fa da specchio la figura altrettanto compatta della moltitudine vivente. Allo stesso modo con cui l'operaismo teorico degli anni '70 leggeva la "composizione di classe" nei termini universalistici e riunificati dell'operaio massa (prima) e dell'operaio sociale (dopo), così le "teoriche dell'impero" ipostatizzano la moltitudine nei termini universalistici dell'operaio immateriale. Ciò nonostante (e diversamente dalle altre due posizioni esaminate in precedenza), al rapporto tra immanenza e trascendenza e alla relazione discontinua tra storia e tempo vengono assegnati adeguati spazi. Il tempo trova un punto di presa nella storia, così come la trascendenza lo trova nell'immanenza. E, dunque, ritorna possibile pensare, raccontare e posizionare un'altra storia e un'altra immanenza, proprio alla confluenza di tempo e trascendenza. Tuttavia, questa confluenza rimane sorda e senza voce, poiché è messianicamente in attesa di un soggetto universale: la moltitudine, che non può venire quale soggetto globale portatore dell'alternativa. Le forme storiche (dell'unità) della moltitudine corrispondono, per essa, all'infeudamento sotto condizioni servili globali (14).

La moltitudine si trova presa in mezzo, sotto il tiro incrociato dell'immanenza e della trascendenza; avvolta dalle spirali contrastanti di storia e tempo. Non è ancora sulla linea della libertà e della liberazione e non potrà mai esserlo. Occorre scavare entro le sue viscere e scovare le sue identità frantumate e far ripartire da qui una nuova dialogica. Questo significa che i soggetti della globalizzazione alternativa sono ancora in incubazione: debbono ancora nascere o stanno timidamente per nascere. In ogni caso, non somiglieranno mai più ai soggetti sintesi ed alle figure totalità a cui pensiero e prassi della rivoluzione sociale ci avevano pigramente e riduttivamente abituato. Fino a che le cornici dell'analisi e della proposizione politica rimarranno inchiodate su soggetti sintesi, la globalizzazione alternativa (il tempo altro e nuovo della giustizia e della trascendenza dell'ordine dato) non potrà mai avvenire. Ancora una volta, la storia non avrebbe avvenire, smemorata come sarebbe del suo presente futurante e del suo futuro anteriore.

Un cenno, infine, alle posizioni di H. Bey.  La "prospettiva rivoluzionaria" qui dismette definitivamente i panni della transizione: nessun passaggio di rottura è ipotizzbile dal capitalismo globalizzato verso superiori forme di cooperazione sociale. Per Bey, il dominio planetario del capitale immateriale non è semplicemente un punto di passaggio della civiltà umano-sociale; al contrario, è la sua stazione terminale. Stazione che si tratta di smantellare; non già di ereditare. Il trionfo totale del capitale segna qui la completa reificazione della storia, ormai totalmente perduta e irredimibile. Occorrerebbe, perciò, situarsi in una posizione altra rispetto al mondo della globalizzazione trionfante: in un oltremondo. E da qui far irrompere un nuovo antagonismo.

Per Bey, nella smaterializzazione importata e comportata dalle nuove macchine di dominio globale, l'oltremondo è esattamente il mondo reale. Là dove la smaterializzazione universale domina il mondo, è il mondo reale che si erge come mondo altro. Da un lato, i simulacri del mondo spettrale e reificato del capitale globale; dall'altro, l'oltremondo: cioè, il mondo dei soggetti e degli oggetti dominati che, proprio per questo, conservano una piena realtà. Solo da questo mondo di realtà, sostiene Bey, può fare irruzione l'antagonismo; solo da qui parte la sfida vera ed autentica al mondo di puri spettri del capitale globalizzato.

E. allora, non si tratta più di riappropriarsi i rapporti di produzione e le forze produttive incorporate nel capitale globale: questo insieme di relazioni di socialità e di potere tratteggia unicamente il perimetro della società dei simulacri, del mondo falso e perduto delle apparenze e della mercificazione. Ormai, precisa Bey, i rapporti di produzione e le forze produttive immanenti al capitale globale altro non sono che veicolo del dominio del denaro e della riduzione ad equazione economica dell'intero creato. Questo mondo di finzioni e di deliranti alienazioni non può assolutamente essere conteso al capitale globale; anzi, occorre lasciarglielo in eredità come un pietra tombale. Al capitale globale, invece, va conteso il mondo reale, scagliandoglielo contro. Qui l'oltremondo del reale mira a cancellare il mondo spettrale del capitale globale, per sostituirlo interamente. Da qui il progetto beyano di federalismo delle differenze, di impronta proudhoniana e poco incline alle pregiudiziali politiche ed ideologiche sia del "vecchio" che del "nuovo" marxismo. Da qui il forte accento posto su tutte le forme di resistenza locale, esaltate a prescindere dai contenuti ideologici che si potrebbe loro attribuire, manipolando i codici di classificazione delle varie tradizioni culturali della sinistra europea.

Bey si spinge ancora più avanti. Egli individua uno scollamento nel rapporto tra denaro e Stato, proprio per il farsi del denaro nuova figura della sovranità mondiale. Quanto più il movimento del denaro si emancipa dalle barriere territoriali e si affranca dalle protezioni degli Stati-nazione, osserva Bey, tanto più lo Stato entra in conflitto con esso; tanto più lo Stato diviene un'istituzione che può essere utilmente impiegata per limitare il potere del denaro ed il dominio del capitale globale. Per Bey, il potere puro dello Stato sarebbe un positivo contrappeso al potere puro del denaro e, quindi, del capitale globale.

Fin qui Bey. Vediamo di sviluppare alcune schematiche osservazioni critiche. Al di là di tutti i "giudizi di merito", non si può non osservare che quella di Bey appare subito come una stimolante provocazione che costringe a formulare salutari interrogazioni intorno allo strumentario teorico delle tradizioni culturali dominanti delle sinistre (15). Ciò detto, non si possono non rilevare numerose semplificazioni ed ingenuità di fondo.

Innanzitutto, proprio per il carattere invasivo e intrusivo dei nuovi processi di globalizzazione, il mondo reale non si trova disposto in una condizione di incontaminatezza sorgiva; viceversa, è profondamente implicato, se non gettato, nelle maglie complesse delle nuove forme di potere del capitale globalizzato. Non è giammai un oltremondo; ma l'oggetto reale privilegiato delle brame di potenza dei nuovi poteri e, al tempo stesso, forma della resistenza e possibile base di costruzione polimorfa dell'alternativa. La contraddizione terribile non si staglia, quindi, tra due mondi speculari perfettamente compiuti e contrapposti l'uno all'altro. All'opposto, si tratta di cacciare via dal mondo reale gli apparati, i simboli, i simulacri e gli spettri della feticizzazione assoluta. Il corpo a corpo mortale procede, dunque, sia per linee interne che per linee esterne.

Il conflitto, nelle nuove condizioni dell'epoca, dismette i panni del fondamentalismo e del titanismo, perdendo quell'aura di sacralità e di aspettativa messianica che ancora connotava il progetto rivoluzionario nel XIX e nel XX secolo. E nemmeno può acquisire i tratti della "guerra santa" del mondo reale (cioè: l'oltremondo) contro il mondo della derealizzazione assoluta, tanto auspicati da Bey. I nuovi conflitti si deverticalizzano e orizzontalizzano: non c'è ambito e soggetto che non siano attraversati dalle sue forme e dalle sue pulsioni. E si tratta sempre di conflitti orientati tanto verso l'interno quanto verso l'esterno. Da qui la difficoltà immane della messa in dialogo e in comunicazione delle forme della vita e delle figure che ora diventano portatrici di conflitto. Non solo. Difficile e sempre più complessa diviene la stessa messa in conflitto con gli avversari di turno, visto che ci troviamo a coabitare con essi i medesimi spazi di vita ed orizzonti temporali. È tanto difficile la coalizione dei soggetti del conflitto quanto ardua la messa in conflitto con l'avversario che ora è anche dentro di noi, come è dentro ogni forma di vita.

Il federalismo delle differenze, proposto da Bey, viene qui meno, proprio perché postula le differenze quali monadi chiuse dell'alterità perfetta. Ancor prima di "federare" le differenze, occorre interrogarle, discoprendone i caratteri di falsità e di inquinamento in esse allocati e diffusi dai nuovi poteri immateriali. Ecco perché la risposta locale non è, in quanto tale, sempre buona o sempre sbagliata. Essa va giudicata e verificata non in base a prescrizioni ideologiche (e su questo la critica di Bey coglie nel segno); ma sul piano degli spostamenti degli assi di vita, degli orizzonti di esperienza e dell'esercizio dei diritti. I soggetti del conflitto definiscono e misurano le loro capacità e funzioni di trasformazione del dato reale e della scena immateriale su questo banco di prova e non, invece, nella messa a punto di un repertorio di attribuzioni ideologico-politiche.

 

3) Proviamo a delineare un primo schema per una diversa chiave di lettura che, pur presentando evidenti "assonanze", si discosta in maniera "dissonante" dalle ipotesi innanzi passate in rassegna. Mutiamo lo scenario, già all'abbrivio. Ciò che l'ideologia della globalizzazione occulta, il pensiero critico deve, già in prima battuta, riportare in scena. E multimondo è il nascosto, il non detto, il rovescio dell'ideologia della globalizzazione e degli apparati globali di controllo. È da multimondo che il pensiero critico deve muovere, quindi.

La regolazione di multimondo: ecco la terribile sfida a cui le macrostrutture complesse del capitale globale intendono dare una risposta ultimativa. Non nel senso della sua riduzione appiattita all'unimondo della conformità sociale e del medesimo culturale; piuttosto, in quello della sua vampirizzazione allargata. Multimondo è la sorgente da cui la struttura metapoietica del capitale globale trae linfa: gli succhia l'energia vitale, tenta di domesticarlo e di fagocitarlo ininterrottamente. Nel mentre fa questo, lo rappresenta ideologicamente come una enorme e sterminata unità, a cui cerca di imporre regole totalizzanti e comandi imperativi.

 Quando parliamo di multimondo, non intendiamo riferirci esclusivamente ad una scala spazio/temporale, alla geografia delle reti transazionali della nuova cartografia dei poteri globali. In multimondo ricomprendiamo (anche):

a) la storia, il tempo, lo spazio, i simboli e le culture delle identità vorticosamente messe in contatto, distanziate e rimesse nelle condizioni di prossimità e di alterità dai processi di globalizzazione in atto;

b) le storie delle sofferenze dei dominati, a tutte le latitudini globali/locali del nuovo ordine mondiale;

c) la pressione degli affetti, dei sentimenti e delle passioni che il politicismo governante dei nuovi poteri globali sottopone a quotidiani massacri;

d) l'intensità del conflitto di genere e l'esplosiva forza energetica dell'irrapresentato femminile.

Immersione in multimondo non è soltanto sprofondamento nei gironi infernali della sofferenza umana; è anche gioiosa e conflittuale emersione dai/dei luoghi della cattività quali luoghi della salvezza. Un conflitto asperrimo si staglia già all'orizzonte del quotidiano; il multimondo delle libertà contro l'unimondo dei poteri globali. La contraddizione non è soltanto tra due dimensioni altere della vita socio-umana e/o tra due rappresentazioni antimoniche del 'politico' e del sociale. Linee di frattura squarciano lo stesso universo della globalizzazione dominante. Non possiamo ignorare che se come processo la globalizzazione emerge come una multidimensione, come potere essa tende, dall'inizio alla fine, verso l'unidimensionalità, nel suo incessante tentativo di allargare e consolidarne le giurisdizioni della propria sovranità. Lo stesso multimondo è squarciato da non poche e non lievi cesure: a partire dalla considerazione elementare che esso è attraversato da linguaggi e soggetti alteri, non riconducibili ad un progetto politico-semantico di ricomposizione unitaria.

La posta in gioco non è semplicemente la vita della specie; ma dell'intero vivente umano e non-umano. La posta in gioco è già il futuro qui nel presente ed il presente già nel futuro. E, allora, non basta ancora definire: (i) una nuova "teoria politica" del mutamento dell'ordine politico-sociale; (ii) una nuova "teoria della sovranità"; (iii) una nuova "teoria della cittadinanza cosmopolitica". Si esige, in premessa, una violazione radicale dello statuto epistemologico delle scienze sociali ed umane, così come si è andato disegnando, precisando e progressivamente riaggiustando dalla modernità alla contemporaneità (16). Occorre scardinare le codificazioni della separatezza che hanno costituito e costruito la decisione del 'politico' come termine opposizionale dell'etica della vita. Il carattere artificiale del 'politico' moderno e contemporaneo fa di questa antinomia uno dei suoi miti di fondazione prediletti. Non può sorprendere affatto (anzi) che, su queste basi, l'estetica della politica si sia fatta spettacolo esangue e la morale si sia convertita nel rito del lusso sfrenato delle classi superiori e nella sofferenza dissipativa delle classi inferiori.

Le codificazioni della separatezza hanno avuto il torto di abituarci all'insensatezza di scacciare la vita e le sue forme da tutti i sistemi e i sottosistemi edificati ricorrendo all'artificialità socio-umana. Sono nate da qui le grandi opposizioni moderne tra politica ed etica, tra scienza e natura, tra cultura e civiltà. La contemporaneità, a tutto il XX secolo, non è riuscita ad affrancarsi da questa eredità. Anzi, ha ulteriormente scavato nel suo solco. La messa in esilio della vita: ecco l'impulso originario del 'politico' moderno e della rivoluzione scientifica della modernità. Sulla vita esiliata 'politico' contemporaneo e scienza contemporanea hanno costruito le proprie immense fortune e le loro grandi devastazioni. Fino al punto di ricavare ricchezze e poteri proprio smungendo la vita in esilio. E così hanno deturpato le forme della vita esattamente come hanno depredato l'ambiente e l'intero sistema solare. La colonizzazione di tutti gli ambiti vitali, fino alle cognizioni mentali ed alle pulsioni affettive e sentimentali, in tanto è stata cosa possibile, in quanto lungo tracciati equivalenti a progressioni di secoli la vita era stata messa in esilio.

Nella vita in esilio non possiamo più avere case vere. Cercarle è oltremodo rischioso e faticoso. Eppure, è proprio dall'esilio che dobbiamo partire. In esso non v'è soltanto cattività; ma anche alterità. Dalla casa dell'esilio, in quanto dimora della specie oggi, dobbiamo muovere, per esiliare il mondo delle apparenze ideologiche e l'immaterialità dei poteri complessi che ci stringono il cappio al collo. Esiliarlo non significa sconfiggerlo definitivamente o tenerlo sotto controllo; piuttosto, acquisisce il senso dell'apertura di un conflitto che ha un inizio e che non conosce un termine ultimo. Non v'è e non può esservi vittoria salvifica; bensì la salvezza in cammino.

Salvarsi dal mondo delle oppressioni significa lottare in permanenza contro le oppressioni. Salvarsi dal mondo degli spettri e dei simulacri significa lottare in permanenza contro spettri e simulacri. Salvarsi da questo mondo che ci esilia significa partire e ripartire dal centro di questo mondo: l'esilio. Non ci sarà mai alcun mondo che non esilierà; non ci sarà mai alcun mondo in cui non vi sarà conflitto. I mondi dell'esilio sono sempre mondi del conflitto. In esilio si può morire; dall'esilio può ripartire la marcia di ritorno della/alla vita.

L'esilio nel proprio mondo, in quanto luogo di coercizione estrema, è la dimora terribile del dolore assoluto; ma, in quanto punto di partenza del viaggio di ritorno per la riconquista della vita del proprio sé e del proprio mondo, reca con sé la gioia del diverso e la possibilità del cambiamento. L'esilio è il buco nero del conflitto e, al tempo stesso, felice ed inesauribile punto di innesco del conflitto.

Siccome in questo mondo siamo tutti in esilio, le forme ed i soggetti del conflitto sono infiniti. L'infinità culturale e sociale della conflittualità fa sì che i soggetti del conflitto parlino innumerevoli linguaggi. Forme e soggetti del conflitto cozzano tra di loro, stentano a comunicare ed a comunicarsi. Non resta che mettersi al loro ascolto ed imparare ad accogliere i loro infiniti linguaggi nel codice genetico della propria identità.

Le identità dei soggetti del conflitto sono in continuo farsi al loro interno; altrettanto incessantemente sono esposte alle irruzioni e contaminazioni esterne delle altre identità conflittuali con cui entrano in contatto e/o collisione. Un moto perpetuo le afferra dal di dentro e dal di fuori. Ciò complica la loro messa in relazione comunicativa; ma eleva ed allarga il potenziale culturale del conflitto, conferendogli, inoltre, una più cogente presa sociale.

Possiamo dire: nella globalizzazione, il conflitto è lo stato di eccezione innestato dall'esilio e che i soggetti del conflitto sono le figure ritrovate di questo stato di eccezione. E ancora: il conflitto è stato di eccezione permanente, data l'inamovibilità della condizione di esilio da questo e da tutti i mondi possibili. E infine: il conflitto è variabile sia interna che esterna di tutti i sistemi autorganizzati e di tutte le forme di vita.

Attraverso il conflitto, l'indicibile è strappato dall'ombra della cattività e l'irrappresentato parla i suoi mille linguaggi. La presenza diviene intimità alla distanza, senza che l'una fagociti o elimini l'altra. Il conflitto strappa qui frammenti di realtà all'indicibile e all'irrapresentato, rendendoli presenza ed esperienza. Ed esperienza tanto del prossimo che del remoto. L'ipoteca del dominio e dell'afasia viene meno. Grazie al potere d'urto del conflitto ci troviamo piantati in un'attualità aperta dal passato e che, nel presente, apre il futuro. La meraviglia di trovare i giorni diversi nel gelo e nell'orrore dei giorni uguali, di cui tanto ci ha parlato Ingeborg Bachmann, nasce da qui: essa è, insieme, figura incarnata e metafora del conflitto.

Il gioco dei contrasti e delle tensioni, delle scoperte e delle conquiste anima le dialettiche del conflitto, grazie alle quali tutti siamo collocati sui punti/luogo della tangenza, verso cui tutti confluiamo e da cui tutti noi non cessiamo prontamente di biforcarci. Le relazioni conflittuali all'interno delle singole identità e tra soggetti diversi, frantumati e ricomposti per essere di nuovo frammentati, avvengono in una tangenzialità vitale e creativa, lungo la quale essi non si limitano a sfiorarsi, ma si contaminano. Ciò che ci schiaccia è un mondo di orrori; ciò che ci attrae è una presenza ardente di alterità. Siamo gettati, con tutta la nostra vulnerabilità, sul ponte che si distende tra il disfacimento del mondo, finito preda di implacabili poteri formali, e un mondo da disfare. Qui non resta che trovare il bandolo del "fare" possibile: la via d'uscita, il ritorno dall'esilio.

Su questo ponte rimaniamo sprofondati nella contingenza dell'attimo; ma esperiamo, contestualmente, l'apertura alla durata. E, perciò, facciamo una integrale e intima esperienza del tempo e dello spazio. L'apertura della contingenza alla durata non ci fa interrompere il tempo storico, per mutarne il decorso storico in maniera autoritaria. La compresenza dei luoghi dell'esilio con i luoghi del conflitto non ci fa precipitare nell'abisso dei totalitarismi comunque mascherati. Ogni luogo non vale esclusivamente per se stesso; così come ogni tempo non ha valore unicamente per sé. Non si tratta, come ancora nel materialismo messianico di Benjamin e nella geografia temporale degli affetti di Proust, di ricomporre l'infranto per averne memoria storica. Piuttosto, l'infranto va ricondotto alle forme della vita, a cui deve essere restituito. E non è la ricomposizione la modalità adatta a condurre in porto questa riconduzione e questa restituzione. Anzi, la ricomposizione, in quanto figura della totalità, deturpa il libero sviluppo dell'infranto, segregandolo in forme coatte e coattive. Ecco perché quella del poter essere non può mai acquisire il contrassegno della scienza. O ancora meglio: possibile e poter essere sono assai di più e di diverso dalla scienza; voler ricondurli ai suoi codici vuole dire abbassarli di rango, sterilirne la semantica e deprimerne la grammatica.

Il conflitto, soprattutto nell'era della globalizzazione, apre la breccia del tempo e si posiziona in tutti i luoghi dello spazio, della vita e dell'identità. L'eterno presente, l'eterno futuro e l'eterno passato sono le categorie e le situazioni che prende di mira e squassa, dissezionandole e mostrandone l'indigenza. Solo così può sperare di chiedere il conto alla storia ed ai poteri dominanti, dalla parte dei dominati.

(marzo 2001)

 

Da: http://www.cooperweb.it/focusonline/focus8-2001.html

 

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