Giangiorgio Pasqualotto, Dalla prospettiva della filosofia comparata all’orizzonte della filosofia interculturale

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Dalla prospettiva della filosofia comparata all’orizzonte della filosofia interculturale (Giangiorgio Pasqualotto)


 

SE ESISTE UNA FILOSOFIA DEL FUTURO, DEVE NASCERE FUORI DELL’EUROPA O IN CONSEGUENZA DEGLI INCONTRI E DELLE RIPERCUSSIONI AVVENUTE TRA L’EUROPA E LA NON-EUROPA

M. FOUCAULT, DITS ET ÉCRITS, II 

Due sono i fenomeni macroscopici che oggi ci impongono, tra l’altro, la necessità di pensare e di agire in termini interculturali: in primo luogo, l’emergere e il diffondersi in Occidente, con forza ed evidenza sempre maggiori, dell’enorme importanza – non solo politica ed economica, ma anche culturale – di Cina, India e Africa; in secondo luogo, i processi in atto dei flussi migratori che hanno connotazioni eccezionali, sia perché, dal punto di vista quantitativo, tali flussi sono sempre più massicci, sia perché, dal punto di vista qualitativo, essi non possono più venire considerati espressioni di un processo congiunturale, ma devono essere assunti, almeno per i prossimi decenni, come un enorme ed inedito dato strutturale.

Fatte queste constatazioni, è da precisare che una visione interculturale non può darsi nella forma di una prospettiva multiculturale che si limiti a registrare l’esistenza di una molteplicità di culture, senza prevedere alcuna possibilità di incontri e di scambi, di incroci e di contaminazioni sia tra idee che tra esperienze; d’altra parte, essa non può darsi nemmeno nella forma di una prospettiva universalistica che pretenda di trovare ed usare un punto di vista super partes con il quale procedere ad una sintesi del ‘meglio’ offerto dalle varie culture, o, addirittura, stabilire una gerarchia tra le culture. Nel primo caso le singole culture imploderebbero, colpite a morte da qualche forma di solipsismo, ovvero si scannerebbero in un’infinita catena di vendette; nel secondo, opposto, caso si scioglierebbero alla luce accecante o svanirebbero nella tenebra più profonda di qualche ‘cultura egemone’ prodotta da un Potere Assoluto. Queste eventualità si sono già prodotte più volte nella storia dell’umanità: quando le singole culture sono morte di asfissia o di anarchia, o, all’opposto, quando sono state spazzate via da qualche autorità ‘imperiale’, laica o ecclesiastica che sia[1].

Ciò significa, in generale, che una visione interculturale non può darsi nella forma dellaprospettiva perché questa, per quanto ampia, è necessariamente sempre limitata e chiusa, perché incentrata su un unico punto di fuga. Pertanto, essa deve proporsi nella forma dell’orizzonte aperto, ossia come una linea immaginaria infinita che circoscrive uno spazio in cui possano venire accolte senza discriminazioni sia le forme sia le prospettiveculturali particolari. Tuttavia una visione interculturale non può nemmeno limitarsi a questa rappresentazione ‘dilatata’ nella figura dell’orizzonte, dal momento che tale figura non garantirebbe di per sé l’esenzione da quel difetto di presunta oggettività e, sostanzialmente, di indifferenza che è proprio della prospettiva multiculturale. Se, da un punto di vista formale, una visione interculturale deve utilizzare la figura dell’orizzonte, dal punto di vista dei contenuti, deve lavorare per produrre le condizioni di un dialogointerculturale dove ciascuno degli interlocutori sia capace di mettersi in giocoradicalmente, ossia rinunciando alla pretesa di verità delle proprie opinioni, e si renda in tal modo disposto ad essere trasformato dalla pratica dialogica. Con ‘dialogo’ intendiamo ovviamente non un semplice e superficiale confronto di opinioni, ma un incontro ‘radicale’, dove proprio le opinioni – e l’intera gamma di preconcetti, di presunzioni e di presupposti di cui esse si alimentano – vengono implacabilmente messe in discussione e, spesso, demolite[2].

Queste precisazioni risultano assolutamente necessarie, per evitare di pensare e di usare la visione interculturale e l’immagine dell’orizzonte come ennesimi espedienti di un universalismo eurocentrico con cui la cultura occidentale (ma sarebbe meglio dire: unacultura occidentale) tenta di rappresentare e spiegare le altre culture del mondo: la ‘visione’ interculturale deve in realtà proporsi come ‘pratica’ interculturale, come un insieme aperto di interazioni tra idee ed esperienze nate e maturate in ambiti culturali diversi. Di conseguenza, la figura dell’orizzonte con cui essa si rappresenta non deve affatto presentarsi come una nuova versione di Panopticon, ma va intesa come linea che amplia i propri limiti in proporzione alla quantità e alla qualità degli spazi e degli eventi che vengono di volta in volta prodotti dagli incontri, dagli incroci, dagli intrecci e dagli scambi tra culture diverse. 

Per consolidare – se non per fondare – una visione interculturale all’altezza dei tempi, possono essere utili la formulazione e l’esercizio di una filosofia come comparazione che contribuisca a superare i limiti evidenziati dalla “filosofia comparata”. E’ infatti da ricordare e da precisare, a questo proposito, che la filosofia comparata come disciplina specifica delle scienze filosofiche ha avuto esiti per lo più problematici, tali da esigere un passo ulteriore in direzione di una filosofia come comparazione[3]. D’altra parte, è anche da ricordare e da precisare che la nostra proposta di introdurre la formula e la pratica di una “filosofia come comparazione” ha una storia assai recente, ed attende ancora di venir sottoposta ad un esame critico.

Legittimo, dunque, chiedersi in via preliminare quali siano i motivi per proporre oggi di allargare ulteriormente lo sguardo spingendo la filosofia come comparazione nella direzione di una filosofia interculturale.

Le ragioni di una tale proposta vanno rintracciate innanzitutto all’interno stesso della filosofia come comparazione, al centro della quale sta l’idea che la filosofia in quanto taleè, sempre e necessariamente, comparazione. Questo vale sia dal punto di vista ‘logico’ che da quello ‘storico’: per quanto riguarda il primo, a partire dalla considerazione che ogni giudizio (e, quindi, ogni proposizione) – anche nelle sue dimensioni minime (“x è“) – , implica una comparazione (tra “x ed “è); per quanto riguarda il secondo, a partire dalla considerazione che ogni pensatore ha dovuto e deve ancor oggi, in qualche misura, sempre confrontarsi con il pensiero di qualche suo predecessore, e , all’interno dello svolgimento del proprio pensiero, con fasi successive di tale svolgimento.

E’ evidente che questa ipotesi di filosofia come intrinsecamente comparativa, ossia come esercizio del pensiero mediante comparazione, mette in discussione le pretese di autonomia non solo di una filosofia comparata ma anche quelle della filosofia stessa. Infatti, in quanto “esercizio del pensiero mediante comparazione”, la filosofia non si stacca e non si differenzia dal cuore propulsivo che alimenta le falde più profonde delle scienze, delle arti, e delle religioni[4]: ovunque l’essere umano pensa i problemi decisivi posti dal mondo esterno e da quello interno – oltre che dal rapporto tra questi due –  fa filosofia, nonostante i diversi linguaggi che usa ed inventa per esprimere le soluzioni che cerca di trovare a tali problemi[5].

Intesa in questi termini, la filosofia non può sopportare di vedere collocati e ordinati i risultati dei propri sforzi né lungo l’’asse’ del tempo, né in base a quello di valore: non si può infatti propriamente parlare di progressi (o di regressi) della filosofia, né istituiregerarchie assolute tra forme diverse di filosofia[6]. Questo perché, in generale, gli stessi concetti di ‘progresso’ (o di ‘regresso’) e di ‘valore’ non indicano dati o fatti certi, ma temi suscettibili di discussione, ossia problemi aperti: innanzitutto il problema incluso nella pretesa che essi hanno di valere come ordinatori di tutte le forme di pensiero, anche di quelle che non condividono l’idea dell’importanza di un ordinamento temporale o assiologico. Tali concetti, a causa di questa loro illegittima pretesa universalistica e totalitaria, sembrano affetti da un’allucinazione megalomane: dimenticando infatti di avere un’origine ed una storia particolari, si arrogano il diritto di valere universalmente e di porsi come criteri per classificare tutte le altre forme di pensiero, comprese quelle che hanno avuto un’origine e una storia affatto diverse. Le conseguenze di questa patologia sono di varia natura, ma tutte a decorso infausto: basti considerare quella per cui l’applicazione del criterio di ‘progresso’ (o di ‘regresso’) alla storia del pensiero condurrebbe all’assurdità di sostenere che i moderni hanno pensato meglio (o peggio) degli antichi.

A questo proposito è tuttavia sempre possibile l’insorgere dell’obiezione che sostenga la necessità di comprendere il pensiero di un filosofo o di una Scuola filosofica in base alle condizioni sociali, economiche e politiche del loro tempo. A tale obiezione si può rispondere – almeno in ‘prima battuta’ – con due contro-obiezioni: innanzitutto, ricordando che, se, da un lato, lo studio dei ‘condizionamenti’ può aiutare a comprendere i pensieri di un filosofo o di una Scuola filosofica, dall’altro, non può affatto pretendere di spiegare laspecificità, ossia l’importanza e l’originalità di tali pensieri: prova ne sia che pensatori e Scuole filosofiche appartenenti a periodi storici identici e determinati da condizioni sociali ed economiche assai simili hanno prodotto riflessioni assai diverse, talvolta addirittura opposte[7]. In secondo luogo, si dovrebbe far notare che, assumendo ed applicando fino in fondo il criterio dei ‘condizionamenti’, non sarebbe lecita non solo alcuna comparazione tra pensieri d’Oriente e d’Occidente, ma nemmeno tra pensieri interni ad uno dei questi ambiti e, addirittura, nemmeno tra pensieri appartenenti ad un medesimo periodo all’interno dello stesso ambito[8].

L’impossibilità di redigere una graduatoria storica del pensiero umano si connette direttamente all’impossibilità di redigerne anche una gerarchica. Quale dovrebbe essere infatti il criterio di una simile classificazione? La complessità?[9] La coerenza?[10] La completezza?[11] O un Fine Ultimo, come, ad esempio, quello della Libertà dello Spirito?[12] Ammesso che anche si potesse scegliere in modo certo e definitivo uno di questi criteri, ci sarebbero da fare due osservazioni: innanzitutto, che il criterio scelto avrebbe origine, comunque e necessariamente, dall’interno di una specifica prospettiva culturale, e, quindi, non sarebbe autorizzato a valutare in modo inequivocabile e definitivo altreprospettive culturali; in secondo luogo, che la scelta del criterio da adottare implicherebbe a sua volta il ricorso ad un criterio, e così via, in un processo all’infinito che invaliderebbe ogni presunzione di classificazione gerarchica certa e universale.

A questo punto sembra imporsi un bisogno di filosofia interculturale che sappia partire da queste salutari mancanze di certezze per delineare un nuovo orizzonte dove ogni pensiero trovi le maggiori possibilità di riconoscimento dei propri connotati e significati, senza le costrizioni richieste da qualche pretesa universalistica e, perciò, totalitaria. Risulta quindi preferibile parlare di ‘orizzonte’ interculturale, piuttosto che di ‘prospettiva’ interculturale, perché il concetto geometrico di prospettiva implica il ricorso ad un ‘punto di fuga’ fisso e certo, ossia ad un criterio, ad un valore preminente e indiscutibile rispetto al quale ordinare e sistemare tutti gli altri[13].

E’ peraltro necessario distinguere questo orizzonte prodotto dalla filosofia interculturale da altri ‘orizzonti’ che in realtà si rivelano essere solo forme di prospettiva mascherate da orizzonte illimitato..

La prospettiva più ristretta risulta, a questo riguardo, quella costruita dalla disciplina ‘storia della filosofia’, la quale solo in casi rari, e per lo più recenti, si è degnata di volgere lo sguardo verso forme di pensiero fiorite in ambiti extraeuropei[14]: nonostante l’Occidente abbia prodotto ottimi specialisti in ‘filosofia indiana’ e in ‘filosofia cinese’, non ha mai ritenuto opportuno inserire questi grandi ambiti di pensiero in una storia della filosofia generale; oppure, quando lo ha fatto, li ha inseriti come esempi di fasi ‘preparatorie’ all’avvento del grande pensiero europeo, in particolare tedesco[15]

Un notevole sforzo di apertura si è avuto con quella particolare forma di filosofiamulticulturale [16] che si è autodefinita ‘filosofia comparata’ (o ‘comparativa’): qui la prospettiva si è notevolmente allargata prendendo in considerazione molte forme di pensiero provenienti da aree geografiche diverse dall’Europa e dagli USA[17]. Il suo pregioconsiste nell’aver rinunciato ad ogni supponenza etnocentrica e di procedere senza pregiudizi ad una registrazione ‘enciclopedica’ delle diverse forme di pensiero, per poi avanzare ipotesi di possibili concordanze tra di esse; questo suo pregio coincide in realtà con il suo difetto, perché implica, da un lato, la nobile quanto assurda pretesa di trovare e di utilizzare un punto di osservazione assolutamente neutrale, puro, astratto; dall’altro, essa implica l’altrettanto assurda conseguenza di considerare queste diverse forme di sapere in modo affatto indifferenziato, come se fossero dei semplici oggetti, dei materiali inerti.[18]

Un altro insieme di prospettive chiuse che si presentano però con l’aria di orizzonti aperti è quello definibile universalismo transculturale: il denominatore comune che le tiene assieme è dato dalla nobile intenzione di elaborare dei progetti che vadano oltre alla mera registrazione sia della molteplicità delle forme di pensiero sia delle loro concordanze, per rintracciare, attraverso le diverse culture, dei ‘fili rossi’ che possano formare una trama unica, valida universalmente[19].

Anche in questo caso i motivi che rendono pregevoli questi tentativi – consistenti nel superare il livello delle semplici registrazioni e delle comparazioni ‘oggettive’ – nascondono in sé anche i motivi della loro debolezza: in particolare mostrano la propria debolezza – non etica, ma logica e metodologica – nel voler proporre modelli di una nuova filosofia mondiale selezionando il ‘meglio’ offerto dalle diverse forme di pensiero prodotte dagli umani in luoghi e in tempi diversi. Lo scopo di questo ‘esperanto filosofico’ è certamente nobile in quanto ricerca tracce per costruire un’unità di pensieri che sappia contrastare, in qualche misura, realtà culturali e sociali attraversate e dilaniate da conflitti più o meno devastanti. Tuttavia, anche in questo caso, appare evidente che la decisone relativa alla scelta dei criteri per stabilire ‘il meglio’, benché venga presa da un Soggetto (individuale o collettivo) necessariamente condizionato da un contesto storico e culturale, viene fatta valere come se tale Soggetto fosse super partes, non implicato in alcuna prospettiva particolare: il ‘denominatore comune’ che tale Soggetto individua alla base di diverse forme di pensiero viene spacciato per oggettivo e universale, quando, invece, non è che una proiezione dei suoi desideri inespressi o delle sue – anche migliori – intenzioni, affatto particolari. Alla base delle diverse proposte di modelli transculturali agisce un’unica, forte propensione all’universalismo, nelle sue due principali varianti[20]: quella – definibile come ‘monista’ – che, con arroganza più o meno malcelata, tende ad imporre una prospettiva particolare come se fosse la prospettiva universale[21]; e quella – definibile come ‘pluralista’ che, con maggior senso della misura propone una prospettiva particolare nella consapevolezza di porla accanto ad altre prospettive particolari all’interno di un’unica prospettiva generale o di un orizzonte universale. 

Tra le proposte riconducibili a prospettive fondate su un universalismo plurale, si possono annoverare: 1) quella della Phylosophia perennis[22]; 2) quella della Religio perennis di Schuon, radicata nella convinzione di un’”unità trascendente delle religioni”[23]; 3) quella del pensiero tradizionalista [24]; 4) quella di una filosofia mondiale [25]; 5) quella – più recente e più attenta ai problemi di un universalismo pluralista di carattere religioso – formulata da P. C. Bori [26]. E’ da notare che nelle prime tre proposte (PhylosophiaPerennis, Religio Perennis e Tradizionalismo) il pluralismo è di fatto subordinato e sacrificato ad un universalismo dogmatico, tutto teso a ribadire il presupposto di una Verità o di un Ortodossia unica; mentre nelle altre due si trova, seppur in modi diversi, un‘autentica ricerca di salvare l’autonomia delle singole ‘vie’ alla verità, anche se in realtà queste ‘vie’ non vengono fatte interagire né tra loro, né con il soggetto che le prende in considerazione[27].

Le diverse proposte riconducibili ad un universalismo transculturale[28] si rivelano, certo, più ampie e profonde di quelle inseribili nella prospettiva di filosofia multiculturale, ma mostrano anch’esse i limiti intrinseci al fatto stesso di essere ‘prospettive’, ossia costruzioni astratte, incentrate su un ‘punto di fuga’ da fissare a priori o da trovare a posteriori.

Questa loro propensione ‘geometrica’ non si esprime solo nel fatto di mantenersi legati alla rappresentazione prospettica, ma anche nel fatto di accontentarsi di individuare soltanto analogie formali o strutturali tra le diverse tradizioni di pensiero, senza azzardarsi ad affrontare un dialogo radicale (si chiami esso ‘socratico’ o ‘dialogico’) tra i diversi contenuti– sia etici che esistenziali – che accompagnano e sostengono tali analogie.

L’orizzonte di una filosofia interculturale dovrebbe invece tendere a porsi come linea immaginaria di uno spazio illimitato pronto ad ospitare quelle specifiche praticheinterculturali che sono gli esercizi in atto di filosofia in quanto comparazione. Per evitare le conseguenze contraddittorie a cui conducono sia le prospettive multiculturali, sia le utopie universaliste, è necessario precisare la natura e la funzione della specifica forma di rapporto che si viene ad attivare nell’orizzonte della filosofia interculturale. La modalità di tale rapporto può essere definita “a tre variabili interdipendenti”: due sono costituite da pensieri o ambiti di pensieri tra loro diversi, e la terza è costituita da un soggetto (individuale o culturale) che li pone a confronto. L’essenziale di questa modalità di rapporto è che nessuna delle tre variabili sussiste autonomamente, prima, dopo o a parte rispetto alle altre due: in particolare, è importante evidenziare che il soggetto risulta sempre e necessariamente implicato nella pratica della comparazione, al punto che tale pratica lo forma e lo trasforma: il suo sguardo è ‘impuro’ fin dall’inizio, perché fin dall’inizio viene condizionato e prodotto da una serie – virtualmente infinita – di osservazioni comparative. Di conseguenza ogni sua pretesa di elaborare una visione universalistica delle forme di pensiero, un panopticon enciclopedico dei saperi umani, si rivela essere una pretesa illusoria e velleitaria, se non, addirittura, la giustificazione di una prassi totalitaria[29].

A questo punto risulta evidente che la filosofia interculturale incrocia necessariamente le ricerche sul metodo a cui si sono dedicati i livelli più avveduti dell’ antropologia, soprattutto quelli che hanno posto al centro delle loro riflessioni i problemi cruciali dell’identità e dello ‘sguardo’ dell’osservatore che non deve né sovrapporsi né annullarsi rispetto agli oggetti della sua indagine[30]. La filosofia interculturale deve pertanto partire da quel ‘punto di non-ritorno’ secondo il quale il pensiero di ogni filosofo (al pari di quello espresso da una singola cultura) non esiste come dato di fatto fisso ed isolato, ma solo come processo di formazione (e deformazione) che implica sempre e necessariamente il confronto con (almeno) un pensiero ed (almeno) una cultura diversi.

In tal modo, il permanente ed inevitabile coinvolgimento del soggetto comparante nella relazione comparativa evita tra l’altro ogni deriva relativistica, perché è vero che ogni sguardo, in quanto soggettivo, è relativo, ma è ancor più vero che, non appena si rende conto di esistere solo in quanto costituito da relazioni, esso diventa consapevole di essere, necessariamente, sempre al di là della sua pura soggettività[31].

Un esempio luminoso di un pensiero che, in quanto si sa costituito come relazione e come processo, esprime ai massimi livelli le potenzialità di una filosofia come comparazione – e, più in particolare, quelle di una filosofia interculturale – è rappresentato dall’insieme delle riflessioni prodotte nella prima metà del secolo scorso da Nishida Kitarō, il più eminente pensatore giapponese contemporaneo[32]. Nishida, pur non proponendosi esplicitamente un progetto di filosofia interculturale, lo attua nei fatti lavorando tutta la vita ad un’impresa titanica: chiarire ed approfondire alcuni concetti fondamentali come ‘coscienza’,‘esperienza’, ‘storia’, ‘dialettica’, ‘identità’, ‘contraddizione’, ecc., alla luce della propria formazione religiosa e filosofica buddhista (in particolare del Buddhismo Zen della Scuola Rinzai), ma attraversando contemporaneamente – leggendoli nelle lingue originali[33]– alcuni testi decisivi prodotti da grandi pensatori occidentali (Platone, Aristotele, Plotino, Eckhart, Spinoza, Fichte, Hegel, James, Husserl, Bergson); e questo lo fa non per soddisfare una semplice curiosità culturale né con la finalità di divulgare in Patria pensieri esotici, ma con l’intento di mettere alla prova, di ‘saggiare’il potenziale di verità di quei concetti esponendoli al ’fuoco incrociato’ di pensieri decisamente diversi per motivi logistici, storici, culturali e, prima di tutto, linguistici[34]. L’impresa di Nishida si configura pertanto come una forma di dialogo socratico dove le diverse posizioni filosofiche non vengono assunte come punti fissi di prospettive chiuse, ma come spazi aperti che producono occasioni di incontri e confronti trasformativi (benché ciò avvenga, ovviamente, solo a livello speculativo). Nishida infatti non si interessa di presentare ai lettori giapponesi le”linee essenziali” di questo o quel pensatore occidentale – o, peggio, della filosofia occidentale in generale – per poi operare un confronto asettico con questo o quel pensatore orientale, ma immerge direttamente le proprie riflessioni nella corrente e nei vortici prodotti dall’incontro tra pensieri ed ambiti di pensiero tra loro molto diversi, ma tutti altamente significativi per l’approfondimento del problema che di volta in volta colpisce la sua attenzione ed attraversa le sue riflessioni. 

In altri termini, Nishida sembra realizzare in modo eccellente proprio un’operazione di filosofia come comparazione e di filosofia interculturale, entrambe incentrate nella relazione dinamica “a tre variabili interdipendenti”: la riflessione di Nishida, infatti, non tenta di porsi in modo assolutamente originale, come se potesse costituire da sola un centro o un unico polo d’attrazione, ma si attiva, si forma e si trasforma interagendo, da un lato, con alcune espressioni più profonde della propria tradizione, e, dall’altro, con alcune delle più significative espressioni della tradizione filosofica occidentale. Questo nella consapevolezza che nessuno dei tre ‘termini’della relazione (se stesso come soggetto che interroga, e i due diversi ambiti assunti come punti di riferimento speculativo) esiste e funziona da solo, indipendentemente dagli altri due.

Tra i casi particolarmente interessanti di una recente pratica di filosofia interculturale fondata sulla comparazione, emerge quello di François Jullien che ha messo alla prova molti concetti della tradizione filosofica occidentale (azione, saggezza, verità, immagine, ecc.) esponendoli al confronto con alcune forme del pensiero cinese classico, particolarmente dotato di alterità radicali, a cominciare da quella linguistica[35]. I risultati di tali esperimenti comparativi appaiono straordinari non solo perché producono una serie notevolissima di interessanti confronti di natura logica, etica, politica ed estetica, ma soprattutto perché vengono effettuati nella consapevolezza che tali confronti costringono chi li effettua ad un profondo riesame e ripensamento dei concetti, delle idee e dei valori di cui si è nutrito e su cui si è costruita la propria tradizione culturale e filosofica. In tal senso gli esperimenti di filosofia come comparazione condotti da Jullien si offrono quali ottimi esempi di filosofia interculturale, proprio perché, utilizzando una modalità riconducibile a quella definita “a tre variabili interdipendenti”, evita, oltre che ogni riduzione etnocentrica, sia le derive di una filosofia multiculturale, sia quelle di una filosofia universalista. Il pensiero cinese, infatti, non viene qui né respinto come ‘primitivo’(riduzione eurocentrica), né esaltato come vero (riduzione esotica), ma non viene nemmeno appiattito in catalogazioni enciclopediche o in tabulati di concordanze (derive multiculturali) o utilizzato per elaborare una filosofia mondiale (deriva universalista): esso viene affrontato in modo radicalmente filosofico, ossia come se fosse l’interlocutore di un dialogo socratico[36], dove la verità non è detenuta da nessuno degli interlocutori, ma si produce in un processo che parte mettendo in discussione la rigidità dei concetti acquisiti[37].

A proposito e a ridosso dell’audace ed affascinante esperimento di filosofia interculturale proposto da Jullien si potrebbe osservare che si tratta pur sempre di un esperimento condotto attraverso una serie di confronti che utilizzano esclusivamente testi scritti, e ci si potrebbe chiedere se sarebbe possibile una sperimentazione simile anche in un confronto ‘asimmetrico’, dove una cultura ‘letteraria’ interroga culture che non hanno prodotto testi filosofici scritti.

Sarebbe questa, oggi, una linea di sfida ancor più avanzata per una filosofia interculturale che voglia mettere a dura prova molti dei pregiudizi che hanno retto e guidato le varie forme del sapere occidentale. In particolare, sono i problemi posti da un ‘pensiero africano’[38] a far emergere oggi – in modo quasi ‘scandaloso’ – i limiti di una storiografia basata sui concetti di ‘progresso’ e di ‘gerarchia’, ma anche quelli presenti nelle diverse forme di filosofia multiculturale e universalista: con i problemi suscitati dal confronto con il pensiero africano si sposta ancora più in là l’orizzonte vastissimo dove parole e segni di verità possano indurre, più che sentimenti di accoglienza paternalistica o interessi etnografici, occasioni per interrogativi cruciali e trasformazioni vitali. Una di queste occasioni potrebbe esser costituita dal concetto di relazione assunto nella sua radicalità problematica: se altrove abbiamo verificato questa radicalità mettendo a confronto alcuni luoghi alti del pensiero occidentale e orientale[39], ora ci si potrebbe spingere ancora più in là e chiedersi, per esempio, se e quanto la nozione ‘africana’ di ubuntu – che esprime lo straordinario concetto “io sono perché noi siamo”[40]  – potrebbe interagire con quella deducibile dall’idea buddista di anatta o, addirittura, con quella hegeliana di “relazione intrinseca”.

Il genere di confronti a cui la filosofia interculturaleconduce, anche quando sembra porsi al livello puramente speculativo, mostra in realtà una serie di connessioni fondamentali con concetti ed interessi di carattere etico e politico: ciò appare con particolare evidenza nel caso in cui si prendano in considerazione concetti generali come quelli di ‘diritto’ e di ‘dovere’, o quelli particolari inclusi nella formula “diritti umani”[41]

Qui, nello specifico, si produce il problema di capire e chiarire a quale concetto di ‘uomo’ rinvia l’attributo ‘umani’: se – come sembrerebbe riferendosi alle varie ‘Dichiarazioni’ – al concetto di individuo o ad un concetto  di essere umano come risultante di condizioni sovra-individuali, a partire da quelle della comunità di appartenenza, come accade se si tiene conto delle consuetudini che regolano ancor oggi la vita, gli usi e i costumi di miliardi di individui in Asia e in Africa[42]. Capire e chiarire questo significa ampliare lo spazio non solo della conoscenza, ma anche delle trasformazioni reali che tale conoscenza potrebbe comportare: se, infatti si comprende che non tutte le civiltà e le culture danno per acquisito e fondamentale il concetto di individuo, diventa contraddittorio formulare sul piano logico – oltre che pericoloso trasporre sul piano pratico – una teoria dei diritti universali fondata esclusivamente su un concetto particolare di individuo[43].

Emerge qui, allora, la sotterranea ma potente forza che regge e muove la filosofia interculturale: questa forma di filosofia, infatti, non ha come scopo un confronto meramente speculativo tra concetti, idee, valori, metodi, principi e sistemi di pensiero appartenenti a culture diverse – come se si trattasse di allargare una bella ‘panoramica’ su paesaggi di pensiero inediti ed esotici – ma è mossa dall’interesse pratico di consentire al maggior numero di esseri umani di vivere col minor numero di conflitti..

Se si volesse poi andare ancora più a fondo alla ricerca delle reali motivazioni che muovono il lavoro della filosofia interculturale, si potrebbero scoprire tracce non indifferenti di un enorme e sedimentato complesso di colpa della migliore coscienza critica occidentale, la quale si è resa finalmente consapevole di aver ereditato una storia infame alimentata da un’irresistibile volontà di potenza che ha prodotto, per almeno cinque secoli, in Asia, in Africa, in Oceania e nelle Americhe, eccidi e genocidi, oltre che fisici, anche culturali[44]. Le intenzioni profonde della filosofia interculturale possono rivelarsi allora come un’ espressione vitale di questa coscienza critica che, non potendo attendersi dalle vittime alcun perdono, cerca di trovare le forze per offrire ad esse almeno un parziale risarcimento culturale. 

Ovvia, oltre che legittima, a questo punto la domanda: siamo sicuri che un tale interesse pratico – che tende ad una vita migliore per tutti e intende risarcire in parte coloro che l’hanno avuta peggiore di tutti – sia realmente condiviso da tutte le forme di pensiero del mondo, o è un ennesimo sintomo di una delle tante ‘proiezioni’ universalistiche prodotte in Occidente? Questo “interesse pratico” non potrebbe essere un fantasma da far risalire al “Progetto per una pace perpetua” vagheggiato da Kant, o, ancora più indietro, all’idea dieudemonia coltivata da Aristotele ed oggi ripresa dalla Nussbaum[45]? L’esigenza di soddisfare questo interesse non potrebbe essere dunque tutta interna alla ‘nostra’ storia occidentale? Questi legittimi sospetti non vanno fugati cercando di fondare quell’interesse pratico mediante una nuova e più potente teoria elaborata da qualche forma di pensiero occidentale, magari andando in giro a trovare concordanze e conferme di questa esigenza negli angoli delle più diverse visioni del mondo. Tali sospetti vanno invece sciolti producendo e sviluppando praticamente condizioni di dialogo interculturale in grado di verificare se, come, quanto e perché esso è condiviso dalla maggior parte dei pensieri del mondo. Una pratica di filosofia interculturale in senso stretto dovrebbe ovviamente esser condotta ricorrendo agli strumenti concettuali e procedurali di cui dispone, ma la pratica di un dialogo interculturale in senso lato dovrebbe esser in grado di utilizzare tutte quelle occasioni che nascono esponendosi praticamente ad incontri che in modi diversi e a diversi livelli – da quelli linguistici[46], a quelli gastronomici, da quelli generati dai viaggi, a quelli indotti dalle arti e dai riti – producono salutari crisi di identità ed aprono nuove vie alla riflessione[47]. In ogni caso, ciò significa che le condizioni del dialogo interculturale non vanno individuate chiedendosi in astratto se e quanto tale dialogo è condiviso dai nostri interlocutori, perché ciò richiederebbe ancora una volta una “teoria universale dell’interesse pratico per il benessere comune”: un illustre esempio di questo tipo di soluzione è fornito da Habermas, il quale ritiene che l’idea di un benessere comune possa realizzarsi solo attraverso una condivisione del razionalismo normativo occidentale da parte delle altre tradizioni culturali[48]. Questa pretesa risulta illegittima per due motivi: perché considera dotata di valore universale un’idea sorta in un contesto particolare (il razionalismo normativo occidentale); e perché ignora che spesso le condizioni – materiali, oltre che culturali – degli interlocutori sono profondamente diverse. Il dialogo interculturale può avvenire solo se ciascuno degli interlocutori, compresi quelli nutriti di “razionalismo normativo occidentale”, sono disponibili a mettere in discussione le proprie certezze. Altrimenti si ripropone ogni volta una situazione di disequilibrio, nella quale uno degli interlocutori pretende di avere e di imporre delle regole migliori per la conduzione del dialogo. Questo disequilibrio non ha affatto un significato e delle conseguenze di natura solo formale: infatti, ogniqualvolta che si è proposta al mondo – anche se con le migliori intenzioni e con i più acuti artifici logici – una teoria con le pretese che essa abbia un valore universale e che, quindi, debba essere universalmente condivisa, le conseguenze sono state, inevitabilmente, catastrofiche, soprattutto per coloro che non ne riconoscevano il valore universale e, quindi, non erano disposti a condividerla.

Se, allora, si vogliono evitare simili conseguenze, è necessario che chi voglia intraprendere un effettivo e radicale dialogo interculturale rinunci una volta per sempre adettare le regole del dialogo.

In definitiva, si può concludere considerando che le riflessioni sugli sviluppi di una filosofia come comparazione conducono ad indicare le possibili tappe di un itinerario che ha, come punto di partenza, una fessura nel piccolo cerchio chiuso dell’indifferenza; e, come esito massimamente aperto e mai concluso, l’orizzonte di una filosofia radicata nella pratica del dialogo interculturale:

1)      indifferenza per ogni conoscenza che si ritiene non sia stata acquisita all’interno dei limiti della propria cultura d’origine;

2)      conoscenza superficiale o semplice curiosità per elementi sparsi provenienti da culture diverse dalla propria;

3)      comparazione pregiudiziale, effettuata mediante un confronto con forme di pensiero estranee alle proprie, ma a partire da un giudizio sempre sfavorevole a quest’ultime (es.: eurocentrismo a priori);

4)      comparazione problematica che intende sinceramente stabilire quale sia la prospettiva migliore, ma conclude decidendo o per confermare la propria (es.: eurocentrismo a posteriori, come nel caso della filosofia della storia di Hegel), o per sceglierne come vera una estranea (es.: esotismo a posteriori, come nel caso della scelta dell’Islam da parte di Guénon);

5)      comparazione multiculturale che evita i pregiudizi presenti in (3) e le scelte estreme presenti in (4), ma che pretende di ottenere una descrizione assolutamente oggettiva delle diverse prospettive (es: filosofie comparate di ascendenza positivista);

6)      comparazioni universaliste (moniste o pluraliste) che superano l’ingenuità – presente in (5) – di poter descrivere in modo oggettivo le diverse prospettive. Ma: quelle moniste cadono nella presunzione di poter fissare a priori un unico punto di fuga per diverse prospettive (es.: Tradizionalismo, Phylosophia perennis e Religio perennis); e quelle pluraliste coltivano la pretesa di produrre a posteriori una sintesi delle diverse prospettive o, almeno, di trovare per esse dei denominatori comuni (es.:”pluralismo delle vie” di P. C. Bori, e “filosofia mondiale“ di Izutsu);

7)      comparazione interculturale: sulla base del concetto di relazione intrinseca e mediante l’utilizzo del modello funzionale “a tre variabili interdipendenti”, è consapevole che ogni comparazione produce una trasformazione sia nei termini comparati sia nel soggetto che compara; e conclude, pertanto, che non vi può essere né alcuna prospettiva privilegiata, né una sintesi di molteplici prospettive, ma solo un orizzonte sempre aperto – e, quindi, per definizione, mobile ed infinito – che consente il prodursi di una serie illimitata di confronti trasformativi.

[1] Per evitare queste due opposte eventualità, entrambe catastrofiche, è necessario che la filosofia europea sappia ricostruire quelle tradizioni che – da Eraclito a Plotino, da Cusano a Bruno, da Spinoza a Nietzsche – hanno saputo pensare insieme l’Uno e i Molti senza sacrificare il primo ai secondi, o viceversa. Sull’ estrema attualità di questa necessità cfr. Cacciari M., Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi 1994, e Arcipelago, Milano, Adelphi 1997.

2 Il riferimento primo a questo tipo di dialogo radicale è – per quanto riguarda la tradizione occidentale – alla forma di dialogo praticata da Socrate, e – per quanto riguarda la tradizione orientale – alla pratica del koan nel Buddhismo Zen. Su questa possibilità comparativa ci siamo soffermati in Pasqualotto G., Dialogo socratico e dialogo zen, in “Paramita”, 36, 1990, pp. 22-24.

3 Abbiamo tentato di giustificare questo passaggio in Pasqualotto G., Filosofia come comparazione, Introduzione a Aa. Vv. (a cura di G. Pasqualotto), Simplègadi. Percorsi del pensiero tra Occidente e Oriente, Padova, Esedra 2002, pp. 7-41; ID., East & West. Identità e dialogo interculturale, Venezia, Marsilio 2003. Tra i migliori lavori sulla filosofia comparata sono da ricordare Clarke J.J., Oriental Enlightment. The Encounter between Asian and Western Thought, Routledge, New York 1997; Deutsch E.- Bontekoe R. (eds),A Companion to World Philosophy, Oxford-New York, Blackwell 1999; Scharfstein B.A., A comparative History of World Philosophy from Upanishad to Kant, New York,  S.U.N.I. Press 1998; Ninian Smart, World crosscultural Exploration of Human Beliefs, Routledge, New York 2000. (E’ curioso ma anche sconcertante dover notare che persino nei migliori lavori sulla filosofia comparata scritti in lingua inglese siano quasi del tutto assenti i contributi scritti in altre lingue!).

4 Quando si parla di “falde più profonde” si intendono quei livelli in cui le scienze non si riducono a procedure, ma si interrogano criticamente sui concetti che le reggono; le artinon si riducono a pratiche mimetiche, ma si chiedono le ragioni del loro fare; e le religioninon si riducono ad organizzazioni mondane del sacro, ma inducono esperienze di Ciò che non ha Nome.

5 L’esempio più evidente e forte di questa ‘unità’ problematica della filosofia è rappresentato – all’interno della tradizione filosofica occidentale – dal pensiero di Platoneche coglie la forza e il valore dei concetti che stanno alla base non solo della logica (cfr.Parmenide, Teeteto e Sofista), ma anche dell’estetica (cfr. Simposio e Ippia Maggiore), dell’etica (cfr. Lachete e Ippia Minore), della politica (cfr. Repubblica II-X, Gorgia, Politico eLeggi), della religione (cfr. Eutifrone) e delle scienze (cfr. Menone e Timeo).

6 Queste due impossibilità costituiscono le due maggiori differenze che connotano, da un lato, i risultati delle scienze, e, dall’altro, i prodotti delle pratiche filosofiche.

7 Si prendano ad esempio il caso di Platone e dei Sofisti, oppure quello di Hegel e di Schopenhauer.

8 Se il condizionamento storico e materiale del pensiero fosse radicale, non si potrebbero confrontare non solo Kant ed Aristotele, ma nemmeno Fichte ed Hegel, data l’estrema diversità di vicende e di condizioni delle loro vite.

9 Ma, per esempio, il pensiero espresso nelle cosmogonie e nelle cosmologie dei popoli ‘primitivi’ risulterebbe forse meno complesso di quello espresso nelle opere di Platone o di Hegel ?

10 Ma, per esempio, il pensiero dei logici indiani sarebbe forse da definire meno coerente di quello di Aristotele o di Wittgenstein?

11 Ma, per esempio, il pensiero che regge le prescrizioni contenute nel Codice di Manu o nel Talmud potrebbe esser considerato forse meno completo di quello presente nelleSummae di Tommaso d’Aquino?

12 Ma, per esempio, la libertà dello spirito che impregna i testi del taoismo filosofico (daojia) sarebbe forse da valutare inferiore a quella evocata nei testi hegeliani?

13F.M. Wimmer, uno dei più autorevoli esponenti della filosofia interculturale, per rompere le rigidità delle prospettive unitarie e totalitarie, ha proposto un modello ‘polilogico’. (Cfr. WIMMER F. M., Interkulurellen Philosophie. Theorie und Geschichte, Wien, Passagen 1990; Id., Globalität und Philosophie. Studien zur Interkulturalität, Wien, Turia+ Kant 2003). Oltre a quelli di Wimmer, altri importanti studi di filosofia interculturale sono quelli di: Kimmerle H., Die Dimension des Interkulturellen, Amsterdam, Rodopi 1994; Fornet-Betancourt R., Filosofia intercultural, Mexico, Universidad Pontificia de Mexico 1994; ID.,Philosophische Voraussetzungen der interkulturellen Philosophie in Fornet-Betancourt R. (hrg.), Dokumentation des II Internationalen Kongresses fűr interkulturelle philosophie, Frankfűrt/M., Iko 1998, pp. 148-166; D. Vallescar Palanca, Cultura, Multiculturalismo y interculturalidad, Madrid, PS Editorial 2000; Mall R. A., Interculturalità, tr., Genova, Ecig 2002; Van Binsbergen W., Intercultural Encounters, Berlin-Muenster, Lit 2003; Id., Le culture non esistono, in Miltenburg A., (a cura di), Incontri di sguardi, Padova, Unipress 2001, pp. 5-51. In Europa sono tre le principali istituzioni che si dedicano alla filosofia interculturale: la „Gesellschaft für Interkulturelle Philosophie“, di Colonia, fondata nel 1991, che cura la rivista “Studien zur interkulturellen Philosophie”; la “Wien Gesellschaft für interkulturelle Philosophie”, fondata nel 1994, che cura la rivista e il sito web “Polylog”; e il Dipartimento di studi latino-americani presso il Missionwissenschaftliches Institut di Aachen, fondato nel 1995, che cura la rivista “Denktraditionen im Dialog: Studien zur Befreiung und Interkuturalität”. 

14La storiografia filosofica italiana – che a livello scolastico vanta la migliore qualità del mondo – anche in alcuni suoi recentissimi ed ottimi prodotti (per es.: Sini, C.- Mocchi, M.,Leggere i filosofi, Milano, Principato 2003, e Occhipinti F., Logos, Torino, Einaudi 2005) non concede una parola – nemmeno negativa – per informare il lettore che il pensiero umano ha lasciato tracce preziose ed indelebili anche oltre i confini dell’Europa. Tra i pochissimi manuali scolastici che si sono degnati di dire qualcosa sul pensiero cinese e su quello indiano è da segnalare Ameruso, R.- Tangherlini, S.-Vigli, M., I percorsi del pensiero, Roma Lucarini 1987, Vol. I, pp. 12-42.

15 La più nota e coerente inclusione di pensieri extraeuropei all’interno e ‘al servizio’ di un pensiero europeo, è quella elaborata da Hegel G. W. F., Lezioni sulla storia della filosofia, tr., Perugia-Venezia, La Nuova Italia 1930, Vol. I, pp. 133-166; ID., Lezioni sulla  filosofia della Storia, tr., Firenze, La Nuova Italia 1947, Vol. I, pp. 150-160 e 263-268; ID., Lezioni sulla filosofia della religione, tr., Bologna, Zanichelli 1973,Vol. I, pp. 430-501; Lezioni sulla filosofia dello spirito (1827-1828), tr., Milano, Guerini 2000, p. 130 e sgg.; ID., Filosofia della storia universale (1822-1823), tr., Torino, Einaudi 2001, pp. 113-263; Estetica, tr., Torino, Einaudi 1963,p. 87 e sgg.; e pp. 410-414; 624; 1225-27. Sull’atteggiamento di Hegel nei confronti delle civiltà extra-europee cfr. Hulin, M., Hegel et l’Orient, Paris Vrin 1979; Halbfass, W., India and Europa, New York, S. U. N. Y. Press 1988, Marchignoli, S.,‘Hegel e l’Oriente’ come tema storiografico, in “Studi orientali e linguistici”, VII, 2000, pp. 483-492; Id., Canonizing an Indian Text? A.W. Schlegel, W. von Humboldt, Hegel and the Bhavagavadgita, in McGetchin – D.T.-Park P.K.J. – Sardesal Damodar, Sanskrit and ‘Orientalism’, Delhi, Manohar 2004, pp. 245-270; Id., ‘Hegel e l’Oriente’ come tema storiografico, in “Studi orientali e linguistici”, VII, 2000, pp. 483-492.

16 Per il dibattito sul concetto generale di multiculturalismo e sulle sue diverse versioni cfr.: Rex J., The concept of a Multi-cultural Society, in “Occasional Papers in Ethnic Relations”, Center for Research in Ethnic Relations, University of Warwick, 1985; cfr. Giddens A., Le conseguenze della modernità, tr., Il Mulino, Bologna, 1992; Taylor Ch.,Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, tr., Anabasi, Milano 1993; Crespi F.,Manuale di sociologia della cultura, Laterza, Bari 1996; Bovone L, – Rovati G. (a cura di),Vivere in società. Tendenze della teoria sociologica contemporanea, Liguori, Napoli 1996; Appadurai, A., Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press 1996; “Studi di sociologia”, Anno XXXV, luglio-dicembre, n. 3-4, Milano, 1997; Berti F. (a cura di), Identità e multiculturalismo, Siena, Università degli Studi di Siena 1998; Bolaffi g., Gindro s., Tentori T. (a cura di), Dizionario della parole dell’immigrazione, del razzismo e della xenofobia, Firenze, Liberal Libri 1998; Touraine A.,Libertà, uguaglianza, diversità, tr., Milano, Il Saggiatore 1998; Marazzi A., Lo sguardo antropologico. Processi educativi e multiculturalismo, Roma, Carocci 1998; Colombo E.,Rappresentazioni dell’Altro. Lo straniero nella riflessione sociale occidentale, Milano, Guerini 1999; Geertz C., Mondo globale, mondi locali, tr., Bologna, Il Mulino 1999; Kymlicka W., La cittadinanza multiculturale, tr., Bologna, Il Mulino 1999; Mucci G., Cultura globale, mondi locali, Bologna, Il Mulino 1999; Cesareo V., Società multietniche e multiculturalismi, Milano, Vita e Pensiero 2000; Sartori G., Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli 2000; Martiniello M., Le società multietniche, Bologna, Il Mulino, 2000; Schimmenti V., Identità e differenze etniche. Strategie d’integrazione, Franco Angeli, Milano 2001; Leghissa, G., Orientarsi nelle retoriche del multiculturalismo in“aut aut”, n. 312, novembre-dicembre 2002, pp. 19-45; Habermas J., La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni, democrazia, e culture nell’epoca del pluralismo, in “La Civiltà Cattolica”, 4 gennaio 2003; Genealogie multiculturali. Storia e critica in “Contemporanea”, a cura di S. Mezzadra, VI, 1; Cotesta V.,Lo straniero,Milano, Adelphi 2003; Senigaglia, C., La comunità a più voci. Identità, pluralismo democratico e interculturalità nel comunitarismo contemporaneo, Milano, Angeli 2005.

17 Sui pregi e i limiti della filosofia comparata ci siamo soffermati in Pasqualotto, G, East & West, cit., Cap. II.

18[1] Non a caso quello che viene considerato l’iniziatore della filosofia comparata, Masson Oursel, si rifà esplicitamente ad un modello positivista, dove si cerca di ottenere la massima neutralità dello sguardo e la massima oggettività dei giudizi (cfr. Masson Oursel, P., La philosophie comparée, Paris, Alcan 1923).

19 Per quanto riguarda l’approccio transculturale in antropologia sono fondamentali Harvey, D. The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change. Cambridge, (Ma.), Blackwell 1990; Pratt, M. L.. Imperial Eyes: Travel Writing and transculturation. London, Routledge 1992; Pred A. – Watts M., Reworking Modernity: Capitalism and  Symbolic Discontent, New Brunswick, N.J. Rutgers University Press 1992; Hannerz, U., Transnational Connections, London, Routledge 1996; Glick Schiller N., – Basch L., – Szanton Blanc C.,. From immigrant to Transmigrant: Theorizing Transnational Migration, in Transnational Migration, (ed. by L. Pries), Baden-Baden, Nomos 1997; Taylor Ch., Multiculturalismo, tr., Milano, Feltrinelli 1998; Welsch W.,Transculturality: The Puzzling Form of Cultures Today, in Spaces of Culture: City, Nation, World, (ed. by  Featherstone M.- Lash S.), London, Sage 1999, pp. 194-213; Ong A.,Flexible Citizenship: The Cultural Logics of  Transnationality, Durham, Duke University Press 1999; Watson C.W., Multiculturalism, Buckingham, Philadelphia Open Press University 2000; Schulze-Engler F., Transnationale Kultur als Herausforderung  für die Literaturwissenschaft, in „Zeitschrift für Anglistik und Amerikanistik. A Quarterly of Language, Literature and Culture”, 50.1, 2002, pp. 65-79; Giddens, A. Runaway World: How Globalisation is Reshaping Our Lives, London, Profile Books 2002. Interessanti ai fini del nostro discorso risultano le osservazioni di Welsch: benché appiattiscano l’idea di interculturalità su quella di multiculturalità – ritenendole entrambe responsabili diaccentuare le differenze – , tuttavia propongono l’ipotesi di un “transculturalismo dialogico” che risulta assai affine a quella della filosofia interculturale, in quanto “volontà di agire a partire dalle intersezioni tra culture piuttosto che dalle differenze”. Ancora più interessanti alcune recenti considerazioni di Taylor che evidenziano il fatto che vi è una inevitabiletrasformazione reciproca tra soggetto conoscente e ‘oggetto’ conosciuto – sia questo un individuo o un concetto proprio di una cultura diversa – , concordando involontariamente con la nostra idea di una filosofia interculturale imperniata sulla relazione a tre variabili interdipendenti (Cfr. Taylor Ch., Remembering Gadamer, in “Iwm Newletter”, 76, 2, Spring 2002, pp. 10-13).

20 Walzer M., Two Kinds of Universalism, in “The Tanner Lectures on Human Values”, XI, 1990, pp. 509-556 (tr. parziale I due universalismi in ”Micromega” 1, 1991, pp. 127-145). Giustamente Latouche ha ricordato che l’ universalismo è creazione dell’Occidente e che il multiculturalismo rischia sempre di trasfigurarsi in “cosmetico della mondializzazione”. D’altra parte la proposta di Latouche di “decolonizzare l’immaginario” lasciando le culture extra-europee alla libertà del loro destino rischia di rendere impossibile ogni forma di dialogo interculturale. (Cfr. Latouche S., L’occidentalizzazione del mondo, tr., Torino, Bollati Boringhieri 1998; Id., Il pianeta uniforme, tr., Torino, Paravia 1997; Id., La fine del sogno occidentale, tr., Milano, Eleuthera 2002; Id., Giustizia senza limiti, tr., Torino, Bollati Boringhieri 2003).

21 Gli esempi più coerenti di questo universalismo monista sono forniti dalle grandi religioni monoteiste, ma anche da alcune derive del razionalismo laico. Una critica radicale ad ogni forma di universalismo monista è presente in Walzer M., Geografia della morale, tr., Bari, Dedalo 1999.

22 Cfr. Huxley A., La filosofia perenne, tr., Milano, Adelphi 1995.

23Cfr. Schuon F., Forma e sostanza delle religioni, tr., Roma, Mediterranee 1984; Id.,Stazioni della saggezza, tr., Roma, Mediterranee 1981; Id., Unità trascendente delle religioni, tr., Roma, Mediterranee 1997. 

24 Cfr., in particolare, Guénon R., Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, tr., Adelphi, Milano 1993. Sul significato del tradizionalismo di Guénon cfr. Cognetti G., L’arca perduta.Tradizionee critica del moderno in René Guénon, Firenze, Pontecorboli 1996; ma soprattutto Sedgwick, M., Against the Modern World: Traditionalism and the Secret Intellectual History of the Twentieth Century, Oxford, Oxford University Press 2004.

25 Cfr., in particolare, Izutsu T., Unicità dell’esistenza e creazione perpetua nella mistica islamica, tr.,Genova, Marietti 1991; Id., Sufism and Taoism, A Comparative Study of Key Philosophical Concepts, Berkeley, University of California Press 1984.

26 Cfr. Bori P.C., Natura umana e con-passione nel primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, in “Democrazia e diritto” 4 , 1993, pp. 101-115; Id., Le “Sacre Scritture” o “Bibbie dell’umanità” in Walden’ di H. D. Thoreau, in “Il piccolo Hans”, 83/84, 1994, pp. 257-272; Id., La luce che illumina ogni uomo” (Gv 1,9) in George Fox e Robert Barclay, in “Annali di storia dell’esegesi”, 11/1, 1994, pp. 119-144; Id., “Ogni religione è l’unica vera”.L’universalismo religioso di Simone Weil, in “Filosofia e teologia”, 8, 1994, pp. 393-403; Id.,Per un consenso etico tra culture, Genova, Marietti 1995; Id., La pluralità delle vie, Milano, Feltrinelli 2000; Id. e Marchignoli S., Per un percorso etico tra culture,Roma, Carocci 2003; Id., Monoteismo ed ermeneutica: quattro tesi, in Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, Macerata, Quodlibet 1998, pp. 69-78.

27 Uno dei meriti di P.C. Bori è comunque quello di aver tentato di individuare nel passato, sia remoto che recente, alcune testimonianze significative di questo universalismo pluralista, tra le quali vanno ricordate: 1. Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, in quanto pensarono una docta religio e una pia philosophia che accordassero pari dignità a diverse vie religiose; 2. esempi di cristianesimo radicale e mistico, di Riforma “spirituale” e di “cristianesimo senza chiesa” che, tra il XVII e il XVIII sec., elaborarono le idee di “Dio in ogni uomo”, di “luce interiore”, di “culto in spirito e verità”; 3. movimenti esoterici come la massoneria che, a partire dalla metà del XVII secolo, si dicono portatori di un’unica grande tradizione universale comune alle diverse culture (ma accessibile solo agli iniziati!); 4. il liberalismo teologico di F. Schleiermacher e A. von Humboldt; 5. il trascendentalismo americano [cfr., in particolare, Emerson, R. W., Divinity School Address (1838), tr., inTeologia e natura, Genova, Marietti, 1991, Postfazione di P.C. Bori]; 6. il cristianesimo radicale di Tolstoj fondato sull’idea di razumenie come comprensione universale; 7. la prospettiva di S. Weil condensata in questo pensiero: “Ogni religione è l’unica vera, vale a dire che nel momento in cui la si pensa è necessario applicarle così tanta attenzione, come se non vi fosse nient’altro; allo stesso modo ogni paesaggio, ogni quadro, ogni poesia, ecc. è l’unico bello. La sintesi delle religioni implica una qualità di attenzione inferiore” (weil, S., Quaderni III, tr., Milano, Adelphi, 1995, p. 153); 8. la proposta di Albert Schweitzer di coniugare il monismo mistico africano – che predilige contemplare la realtà come necessaria, senza divaricazione tra essere e dover essere – , con il dualismo etico di matrice occidentale che parte invece dalla divaricazione tra essere e dover essere e si prefigge il compito di superarla. (Su questo tema cfr. Marchignoli, S., ‘Mistica’ indiana ed ‘etica’ europea? A partire da Schweitzer, in “Paradigmi”, XXI, 61, 2003, pp. 55-2); 9. la ricerca di un fondamento comune, etico e giuridico, che sta alla base delle Dichiarazioni dei diritti umani. (Cfr. in questo contesto anche la ricerca di una “etica mondiale” promossa da H. Küng ); 10. la ricerca di Toshihiko Izutsu per trovare una base filosofica comune tra sufismo, taoismo e buddhismo zen. 11.l’ invito di Henry Corbin, a produrre un “dialogo meta-storico”.

28 E’ da ribadire che nelle prime tre proposte di universalismo pluralista qui ricordate gli elementi che consentono l’attributo ‘pluralista’ sono di fatto subordinati al presupposto dogmatico di un’unica verità metafisica già data, per cui, a rigore, non si potrebbe parlare per esse di filosofia, essendo la filosofia – come ci ha insegnato Platone – sempre ricercadella verità, e mai possesso definitivo della verità.

29 A questo riguardo si rivelano ancor oggi indispensabili i risultati delle ricerche effettuate da Foucault sulle ricadute sociali e politiche dei principali modi di rappresentare la realtà da parte del pensiero moderno. Cfr., in particolare, M. Foucault, Sorvegliare e punire, tr., Torino, Einaudi 1995. (Benché persino Foucault mantenga alcuni pregiudizi nei confronti dell’Oriente, in particolare della Cina: cfr. Foucault M, Le parole e le cose, tr., Milano, Rizzoli 1998, pp. 8-9).

30Cfr. Cirese A. M., Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo 1971; Geertz C., Interpretazione di culture, tr., Bologna, Il Mulino 1987; Affergan F., Esotismo e alterità, tr., Milano, Mursia 1990; Lévi-Strauss C., Razza e Storia, in Antropologia culturale due, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 366-408; Bettini M. (a cura di), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Bari, Laterza 1992; Douglas M., Purezza e pericolo, Bologna, Il Mulino 1993; Fabietti U. – Remotti F. (a cura di), Dizionario di Antropologia, Bologna, Zanichelli 1996; BAYART, J. F. L’illusion identitaire, Paris, Fayard 1996; Baroncelli F., Il razzismo è una gaffe, Roma, Donzelli 1996;  Levi-Strauss C.,  L’identità, tr., Palermo, Sellerio 1996; Cirese A. M., Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma, Meltemi 1997; Fabietti U., L’identità etnica, Roma, Carocci 1998; Mazzara B. M., Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino 1997; Angioni G., Ethnic Groups, in “Europea”, IV, 2, 1998,pp.1-7; Callari Galli,M. Identità plurale, in M. Callari Galli – M. Ceruti – T. Pievani, Pensare la diversità, Roma, Meltemi 1998, Parte III, Cap. 3; J. Clifford, I frutti puri impazziscono, tr., Torino, Bollati Boringhieri 1999; Fabietti, U. Antropologia culturale, Bari, Laterza 1999; Kilani, M. L’invenzione dell’altro, tr., Bari, Dedalo 1997; Habermas, J., L’inclusione dell’altro, tr., Milano, Feltrinelli 1998; Horton Mendus J.– S. (eds.), Tolerations, Identity and Difference, London, McMillan 1999; Remotti, F. Contro l’identità, Bari, Laterza 1996. Taguieff P.-A., Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, tr., Milano, Cortina 1999; Geertz C., Gli usi della diversità, in L’antropologia culturale oggi, a cura di R. Borofsky, Roma, Meltemi, 2000;

Amselle, J. L. Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, tr., Torino, Bollati Boringhieri 2001; Galzigna M. (a cura di), I volti dell’identità, Venezia, Marsilio 2001; L. Nader, La coscienza comparativa, in Borofsky R. (a cura di), L’antropologia culturale oggi, tr., Roma, Meltemi, 2004, pp. 116-127.

31 E’ da notare che il relativismo conduce all’indifferenza, ma questa – al contrario di quanto esso pretenderebbe – non è garanzia di imparzialità, non è mai innocente, perché alla fine risulta sempre al servizio o in funzione di qualche Principio che si arroga il diritto di giudicare la realtà in modo relativistico per poterla usare come meglio crede.  Sui limiti del relativismo cfr. Jervis G., Contro il relativismo, Bari, Laterza 2005; in particolare p. 123: “Il relativismo non implica l’integrazione ma la separazione”. Jervis, tuttavia, sembra ancora considerare l’Occidente come l’ unico luogo dove, a partire dall’Illuminismo, si è pensato il Meglio per tutta l’umanità. Noi crediamo invece, in accordo, tra gli altri, con Amartya Sen (cfr. Sen A., Laicismo indiano, tr., Milano, Feltrinelli 1998) che anche altrove si siano prodotti altissimi esempi di pensiero ‘illuminista’ (cfr. Pasqualotto G., Illuminismo e illuminazione, Roma, Donzelli 1997).

32 Sull’originalità di Nishida ci siamo soffermati in Nishida:Buddhismo e dialettica, Postfazione a Nishida K., L’io e il tu, a cura di R. Andolfato, Padova, Unipress 1996, pp. 153-207. L’importanza di Nishida all’interno di un orizzonte interculturale è stata ben colta da Panikkar  R., A contemplative Life, Introduzione a  Yusa Michiko, Zen & Philosophy.An intellectual Biography of Nishida Kitarō, Honolulu, University of Hawai’i Press 2002, pp. VI-XII.

33 Sottolineiamo questo fatto perché, in base alle nostre conoscenze, ci risulta che nessun pensatore occidentale ha mai fatto uno sforzo simile nella direzione opposta.

34 Per gli scritti di Nishida cfr. Nishida Kitarō Zenshu, a cura di Abe Yoshishige, Tokyo, Iwanami shoten, 1988-89. Sul pensiero e sulla figura di Nishida si vedano Ohashi R., Die Philosophie der Kyoto Schule, Munchen, Alber 1990; (di Ohashi è fondamentale, ai fini del nostro discorso, anche il lavoro Japan im interkulturellen Dialog, Munchen 1999); Abe, M.,The Logic of Absolute  Nothingness, as expounded by Nishida Kitarō, in “Eastern Buddhist”, XXVIII, 2, 1995, pp. 167-174; Ueda S., Nishida’s Thought, tr. ingl. di J. Van Bragt, in “The Eastern Buddhist”, XXVII, 1, 1995, pp. 29-47; Tadashi, O., Nishida Kitarō inEncyclopedia of Phenomenology, Dordrecht/Boston/London 1997; Maraldo, J. C., Nishida, in Routledge Encyiclopedia of Philosophy, London, Routledge 1998; Mafli, P., Nishida Kitaro’s Denkweg, Munich, Judicium 1996, Carter, E. R., The Nothingness beyond God, St. Paul, Paragon House 1997; Elberfeld, R., Kitarō Nishida. Moderne japanische Philosophie und die Frage nach Interkulturalität, Amsterdam, Rodopi 1999; Stevens, B.,Topologie du néant: une approche de l’école de Kyoto, Paris, Peeters 2000; Tremblay, J.,Nishida Kitarō: le jeu de l’individuel et de l’universel, Paris, Cnrs Ed. 2000; Berque, A. (a cura di), Logique du Lieu et dépassement de la modernité, Vol. I, Paris, Ousia 2000; Tosolini, T., Introduzione, a Nishida KitarŌ, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, tr., Palermo, L’Epos 2005.

35 Cfr. F. Jullien, Processo o creazione, tr. it., Parma, Pratiche 1991; Id., La propension des choses, Paris, Seuil 1992; Id., Fonder la Morale, Paris, Grasset 1995; Id., Pensare un altrove: la Cina, in “Iride”, 24, 1998, pp. 239-249; Id, Trattato dell’efficacia, tr., Torino, Einaudi 1998; Id., Elogio dell’insapore, tr., Milano, Cortina 1999; Id., Il saggio è senza idee, tr., Torino, Einaudi 2002; Id., Il tempo, tr., Roma, Sossella 2002; Id., Figure dell’immanenza, tr., Bari, Laterza 2004; Id., Stategie del senso in Cina e in Grecia, tr., Roma, Meltemi 2004; Id., Il nudo impossibile, tr., Roma, Sossella 2004; Id., La grande immagine non ha forma, tr., Vicenza, A. Colla 2004.

36 Quello che noi definiamo dialogo ‘socratico’ equivale a quello che Panikkar chiama “dialogo dialogico”. Cfr. Panikkar, R. L’esperienza filosofica dell’India, tr., Assisi, Cittadella 2000, p. 188 e sgg.; Id., Intrareligious Dialogue, New York, Paulist Press 1984; Id., What is comparative Philosophy Comparing, in G. J. Larson-E. Deutsch, Interpreting Across Boundaries: New Essais in Comparative Philosophy, Princeton, Princeton University Press 1988;

 Id., Interculture, in “News of Harvard University Center for the Study of World Religions”, n. 53, 1995, pp. 1-5; Id., La notion des droits  de l’homme est-elle un concept occidental?, in “Diogène”, 120, 1982; Id., Pace e interculturalità, tr., Assisi, La cittadella 2002.

38 Per un’introduzione alle problematiche emergenti dal concetto stesso di ‘filosofia africana’ cfr. A companion to African Philosophy, (ed. K. Wiredu), Oxford, Blackwell 2004. Un’ottima panoramica sulle nuove prospettive offerte da un confronto con pensieri prodotti nel continente africano è presente in L. Procesi, “Filosofia africana”: un problema di storiografia filosofica, e in ID., Filosofia africana e diaspora nera, in corso di stampa per l’ “Enciclopedia filosofica”. Sull’importanza di riferirsi all’Africa come terra di pensieri e non solo di safari, cfr. soprattutto Kimmerle. H., Die Dimension des Interkulturellen. Philosophie in Afrika. Afrikanische Philosophie, Amsterdam, Rodopi 1994; ID.,Afrikanische Philosophie in Kontext der Weltphilosophie, Traugott, Bautz 2005; ma anche Van Binsbergen W.M.J., Globalisation and virtuality: analytical problems by the contemporary transformation of African societies in Globalisation and Identity: Dialectics of flows and closures, (eds. Meyer, B.-Geschiere, P.), Oxford, Blackwell 1998, pp. 273-303; e Wimmer, F.M., Vier Fragen zur Philosophy in Africa Asien und Lateinamerika, Wien, Passagen 1988.

39 Pasqualotto, G., La comparazione fra Oriente e Occidente, in “Filosofia politica”, 1/2004, pp. 65-77.

Particolarmente importante ai fini di una filosofia interculturale che pone al centro il concetto di relazione appare la riflessione di Waldenfels sul concetto di ‘estraneo’: Waldenfels, B. Der Stachel des Fremden, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1990; Id., Cultura propria e cultura estranea, in “Paradigmi”, n. 30, 1992, pp. 647-658; Id., Topographie des Fremden. Studien zur Phaenomenologie des Fremden I, Frankfurt am Main, Suhrkamp1997; Id., Grenzen der Normalisierung. Studien zur Phaenomenologie des Fremden II, ivi 1998; Id., Sinnesschwellen. Studien zur Phaenomenologie des Fremden III, ivi 1999; Id., Vielstimmgkeit der Rede. Studien zur Phaenomenologie des Fremden IV, ivi 1999.

40 Mbiti, J. Oltre la magia. Religioni e culture nel mondo africano, tr., Torino, SEI 1992, p. 114.

41 Non è mai da dimenticare che la nozione “diritti universali dell’uomo” è una formula elaborata in Occidente: cfr. Rouner L. S. (ed.), Human Rights and the World Religions, Notre Dame (In.), University of Notre Dame Press 1988; Cohen R., Human Rights and cultural relativism: The need for a new approach, in “American Anthropologist”, 91, 1989, pp. 1014-1017; Moltmann J., Diritti, diritti dell’umanità e diritti della natura, “Concilium”, 2, 1990, pp.145-161;  An-Na’im, A. A. (ed.), Human Rights in Cross-Cultural Perspective, Philadelpphia, University of Pennsylvania Press 1992; Bloom I. – Martin J. P. – Proudfoot W. L., Religion Diversity and Human Rights, New York, Columbia University Press 1996; Archibugi D. – Beetham D., Diritti umani e democrazia cosmopolitica, Milano, Feltrinelli 1998; Baccelli L., Il particolarismo dei diritti, Roma, Carocci 1999; Buruma I., Margalit A.,Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, tr., Torino, Einaudi 2004. Per una discussione interculturale sui diritti umani adeguata ai tempi si dovrebbero far interagire almeno i già citati risultati eminenti della discussione antropologica con alcune acquisizioni di teoria e storia del diritto, in modo da spostare in avanti ed allargare i confini dell’antropologia giuridica. Per l’ avvio di tale discussione cfr. S. CASSESE, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Bari, Laterza 1988; DAVID, R., I grandi sistemi giuridici contemporanei, tr., Padova, Cedam 1994; Brown, D.E., Human Universals, Mc Graw-Hill, New York 1991; Ferrajoli, L., Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, e Vertova, F.P.Cittadinanza libera, identità collettive, diritti sociali, in Zolo, D. (a cura di), La cittadinanza: appartenenza, identità, diritti, Bari, Laterza 1994; Motta, R., L’addomesticamento degli etnodiritti: percorsi dell’antropologia giuridica teorica e applicata. Milano, Unicopli 1994; Cole J.B., Human rights and the rights of anthropologists. in “American Anthropologist”, 97, 1995, pp. 445-448; Giasanti A – Maggioni G. (a cura di), I diritti nascosti, Milano, Cortina 1995; Gambino, A., L’imperialismo dei diritti umani, Roma, Editori Riuniti 2001; Ferrarese M. R., Il diritto al presente, Bologna, Il Mulino 2002; Harrison G., I fondamenti antropologici dei diritti umani, Roma, Meltemi 2002; Gibney M. J. La debolezza del più forte. Globalizzazione e diritti umani, tr., Milano, Mondadori 2003; Marramao G., Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino, Bollati Boringhieri 2003.

42 Cfr., a questo riguardo, la “Dichiarazione di Bangkok” e la “Carta africana dei diritti umani e dei Popoli”, dove, accanto ai diritti individuali vengono posti quelli collettivi che riconoscono ad ogni gruppo umano la possibilità di conservare il proprio patrimonio sociale e culturale. Sui problemi posti e derivanti da queste ‘Dichiarazioni’ cfr. Sieghart, P., The Lawful Rights of Mankind, New York, Oxford University Press, 1986; Sen A., Laicismo indiano, tr., Milano Feltrinelli,1998; Bauer J. – Bell D. A., (eds.), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press 1999; Keown D., Human Rights and Buddhism, Goldsmiths, University of London 2000Bell D. A., East meets West.Human Rights and Democracy in East Asia, Princeton, Princeton University Press 2000; Bruun O. – Jacobsen M., Human Rights and Asian Values, Richmond, Curzon 2000; Monceri F., Altre globalizzazioni, Soveria Mannelli, Rubettino 2002; Ehr-Soon Tay A., I valori asiatici e il rule of law, in Costa P. – Zolo D., Lo stato di diritto, Milano, Feltrinelli 2002, pp. 683-705; l’intervento di  Zolo D., in Ignateff M., Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli 2003, pp. 135-157; Bell D. A. – Chaibong H.,

Confucianism for the Modern World, Cambridge, Cambridge University Press 2003; Sen A., La democrazia degli altri, tr., Milano, Mondadori 2004; Fornari E., Modernità fuori luogo, Torino, Aragno 2005.

43 Sulla problematica nozione di individuo in Cina cfr. Dell’aquila, E., Il diritto cinese, Padova, Cedam 1981; in Africa, Diop, C.A., Nations nègres et culture, Paris, Présence Africaine 1979; in India, Lingat R., Les sources du droit dans le sistème traditionnel de l’Inde, Paris, Mouton 1967.

In generale, cfr. Lukes, S., Individualism, Oxford, Blackwell 1973; Martine, B. J.,Individuals and Individuality , Albany, State University of New York Press 1984; Renaut A., L’ère de l’individu, Paris, Gallimard 1987; Frank, M., L’ultime raison du sujet, Arlès, Actes Sud 1988; Lipovetsky, G., L’ère du vide, Paris, Gallimard 1989; Dumont, L., Saggi sull’individualismo, tr., Milano, Adelphi 1993; Bloom W., Personal Identity. National Identity and International Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1990; Laurent A.,Storia dell’individualismo, tr., Bologna, Il Mulino 1994; Sen A., Reason before Identity,Oxford, Oxford University Press 1999.

La spinta ad intendere in modo problematico il concetto giuridico di individuo potrebbe condurre addirittura a porre in questione la sua legittimità anche in quanto concetto filosofico e psicologico: Cfr.; Misrahi R., La problèmatique du sujet aujourd’hui , Fougères, Encre Marine 1994; Nancy J.L., Etre singulier pluriel, Paris, Galilée 1996; Collins, S.,Selfless Persons, Cambridge, Cambridge University Press 1998; Di francesco, M., L’io e i suoi sé, Milano, Cortina 1998; Bodei R., Destini personali, Milano, Feltrinelli 2002, Cap. 10.

44Le ragioni profonde di questo eccezionale scatenamento di potere e sapere da parte dell’Occidente sono state individuate ed magistralmente analizzate da Max Weber,Sociologia della religione, tr., Milano, Comunità 1982, Vol. I (Protestantesimo e spirito del capitalismo); e sono state ulteriormente approfondite da Schluchter W., Lo sviluppo del razionalismo occidentale , tr., Bologna, Il Mulino 1987.

45 Cfr. Nussbaum M., Diventare persone, tr., Bologna, Il Mulino 2001

46 A questo riguardo è ovvio quanto fondamentale sia la pratica della traduzione, sulla cui importanza si vedano – oltre agli straordinari scritti di Benjamin W. (Il compito del traduttore in Id., Angelus Novus, tr., Torino, Einaudi 1981, pp. 39-52), di Steiner G. (Dopo Babele, tr., Milano, Garzanti 1994) e di Ricoeur P. (La traduzione. Una sfida etica, tr. Brescia, Morcelliana 2001) – gli studi specifici di Jakobson R., Aspetti linguistici della traduzione (1959) tr., in Id., Saggi di linguistica generale, tr., Milano, Feltrinelli 2002; Nida E. A. Towards a Science of Translating, Leiden, Brill 1964; Catford J. C., A linguistic Theory of Translation, Oxford, Oxford University Press 1965; Filipec J., Der Äquivalenzbegriff und das Problem der Übersetzbarkeit, in Neubert A. – Kade O. (hg.),Neue Beiträge zu Grundfragen der Übersetzungswissenschaft, Leipzig, Enzyclopädie 1973; Koller W., Einführung in die Übersetzungswissenschaft, Heidelberg, Quelle und Meyer 1983; Reiss K – Vermeer H., Äquivalenz und Adäquatheit, in Grundlegung einer allgemeinen Translationstheorie, Tübingen, Niemeyer 1984; Hann M., The Key to Technical Translation, Amsterdam-Philadelphia, Benjamins 1992; Egidi R., Traducibilità, significato e relativismo nell’epistemologia contemporanea, in “Colloquium Philosophicum”, 4, 1997/98, pp. 49-68.

47 Un ottimo esperimento di dialogo interculturale a “tre variabili interdipendenti” – pur senza alcuna pretesa filosofica – è quello realizzato nei confronti della cultura giapponese da Rosenstone R. A., Lo specchio e il santuario. Storie di americani nel Giappone Meiji, tr., Milano, Feltrinelli 2001.

48 Un illustre esempio di questo tipo di soluzione è fornito da Habermas il quale ritiene che l’idea di un benessere comune possa realizzarsi solo attraverso una condivisione del razionalismo normativo occidentale da parte delle altre tradizioni culturali. Cfr. Habermas J., Teoria dell’agire comunicativo, tr., Bologna, Il Mulino 1997.


[1] Per evitare queste due opposte eventualità, entrambe catastrofiche, è necessario che la filosofia europea sappia ricostruire quelle tradizioni che – da Eraclito a Plotino, da Cusano a Bruno, da Spinoza a Nietzsche – hanno saputo pensare insieme l’Uno e i Molti senza sacrificare il primo ai secondi, o viceversa. Sull’ estrema attualità di questa necessità cfr. Cacciari M., Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi 1994, e Arcipelago, Milano, Adelphi 1997.

[2] Il riferimento primo a questo tipo di dialogo radicale è – per quanto riguarda la tradizione occidentale – alla forma di dialogo praticata da Socrate, e – per quanto riguarda la tradizione orientale – alla pratica del koan nel Buddhismo Zen. Su questa possibilità comparativa ci siamo soffermati in Pasqualotto G., Dialogo socratico e dialogo zen, in “Paramita”, 36, 1990, pp. 22-24.

[3] Abbiamo tentato di giustificare questo passaggio in Pasqualotto G., Filosofia come comparazione, Introduzione a Aa. Vv. (a cura di G. Pasqualotto), Simplègadi. Percorsi del pensiero tra Occidente e Oriente, Padova, Esedra 2002, pp. 7-41; ID., East & West. Identità e dialogo interculturale, Venezia, Marsilio 2003. Tra i migliori lavori sulla filosofia comparata sono da ricordare Clarke J.J., Oriental Enlightment. The Encounter between Asian and Western Thought, Routledge, New York 1997; Deutsch E.- Bontekoe R. (eds),A Companion to World Philosophy, Oxford-New York, Blackwell 1999; Scharfstein B.A., A comparative History of World Philosophy from Upanishad to Kant, New York,  S.U.N.I. Press 1998; Ninian Smart, World crosscultural Exploration of Human Beliefs, Routledge, New York 2000. (E’ curioso ma anche sconcertante dover notare che persino nei migliori lavori sulla filosofia comparata scritti in lingua inglese siano quasi del tutto assenti i contributi scritti in altre lingue!).

[4] Quando si parla di “falde più profonde” si intendono quei livelli in cui le scienze non si riducono a procedure, ma si interrogano criticamente sui concetti che le reggono; le artinon si riducono a pratiche mimetiche, ma si chiedono le ragioni del loro fare; e le religioninon si riducono ad organizzazioni mondane del sacro, ma inducono esperienze di Ciò che non ha Nome.

[5] L’esempio più evidente e forte di questa ‘unità’ problematica della filosofia è rappresentato – all’interno della tradizione filosofica occidentale – dal pensiero di Platoneche coglie la forza e il valore dei concetti che stanno alla base non solo della logica (cfr.Parmenide, Teeteto e Sofista), ma anche dell’estetica (cfr. Simposio e Ippia Maggiore), dell’etica (cfr. Lachete e Ippia Minore), della politica (cfr. Repubblica II-X, Gorgia, Politico eLeggi), della religione (cfr. Eutifrone) e delle scienze (cfr. Menone e Timeo).

[6] Queste due impossibilità costituiscono le due maggiori differenze che connotano, da un lato, i risultati delle scienze, e, dall’altro, i prodotti delle pratiche filosofiche.

[7] Si prendano ad esempio il caso di Platone e dei Sofisti, oppure quello di Hegel e di Schopenhauer.

[8] Se il condizionamento storico e materiale del pensiero fosse radicale, non si potrebbero confrontare non solo Kant ed Aristotele, ma nemmeno Fichte ed Hegel, data l’estrema diversità di vicende e di condizioni delle loro vite.

[9] Ma, per esempio, il pensiero espresso nelle cosmogonie e nelle cosmologie dei popoli ‘primitivi’ risulterebbe forse meno complesso di quello espresso nelle opere di Platone o di Hegel ?

[10] Ma, per esempio, il pensiero dei logici indiani sarebbe forse da definire meno coerente di quello di Aristotele o di Wittgenstein?

[11] Ma, per esempio, il pensiero che regge le prescrizioni contenute nel Codice di Manu o nel Talmud potrebbe esser considerato forse meno completo di quello presente nelleSummae di Tommaso d’Aquino?

[12] Ma, per esempio, la libertà dello spirito che impregna i testi del taoismo filosofico (daojia) sarebbe forse da valutare inferiore a quella evocata nei testi hegeliani?

[13] F.M. Wimmer, uno dei più autorevoli esponenti della filosofia interculturale, per rompere le rigidità delle prospettive unitarie e totalitarie, ha proposto un modello ‘polilogico’. (Cfr. WIMMER F. M., Interkulurellen Philosophie. Theorie und Geschichte, Wien, Passagen 1990; Id., Globalität und Philosophie. Studien zur Interkulturalität, Wien, Turia+ Kant 2003). Oltre a quelli di Wimmer, altri importanti studi di filosofia interculturale sono quelli di: Kimmerle H., Die Dimension des Interkulturellen, Amsterdam, Rodopi 1994; Fornet-Betancourt R., Filosofia intercultural, Mexico, Universidad Pontificia de Mexico 1994; ID., Philosophische Voraussetzungen der interkulturellen Philosophie in Fornet-Betancourt R. (hrg.), Dokumentation des II Internationalen Kongresses fűr interkulturelle philosophie, Frankfűrt/M., Iko 1998, pp. 148-166; D. Vallescar Palanca, Cultura, Multiculturalismo y interculturalidad, Madrid, PS Editorial 2000; Mall R. A., Interculturalità, tr., Genova, Ecig 2002; Van Binsbergen W., Intercultural Encounters, Berlin-Muenster, Lit 2003; Id., Le culture non esistono, in Miltenburg A., (a cura di), Incontri di sguardi, Padova, Unipress 2001, pp. 5-51.

In Europa sono tre le principali istituzioni che si dedicano alla filosofia interculturale: la „Gesellschaft für Interkulturelle Philosophie“, di Colonia, fondata nel 1991, che cura la rivista “Studien zur interkulturellen Philosophie”; la “Wien Gesellschaft für interkulturelle Philosophie”, fondata nel 1994, che cura la rivista e il sito web “Polylog”; e il Dipartimento di studi latino-americani presso il Missionwissenschaftliches Institut di Aachen, fondato nel 1995, che cura la rivista “Denktraditionen im Dialog: Studien zur Befreiung und Interkuturalität”.

12La storiografia filosofica italiana – che a livello scolastico vanta la migliore qualità del mondo – anche in alcuni suoi recentissimi ed ottimi prodotti (per es.: Sini, C.- Mocchi, M.,Leggere i filosofi, Milano, Principato 2003, e Occhipinti F., Logos, Torino, Einaudi 2005) non concede una parola – nemmeno negativa – per informare il lettore che il pensiero umano ha lasciato tracce preziose ed indelebili anche oltre i confini dell’Europa. Tra i pochissimi manuali scolastici che si sono degnati di dire qualcosa sul pensiero cinese e su quello indiano è da segnalare Ameruso, R.- Tangherlini, S.-Vigli, M., I percorsi del pensiero, Roma Lucarini 1987, Vol. I, pp. 12-42.

[15] La più nota e coerente inclusione di pensieri extraeuropei all’interno e ‘al servizio’ di un pensiero europeo, è quella elaborata da Hegel G. W. F., Lezioni sulla storia della filosofia, tr., Perugia-Venezia, La Nuova Italia 1930, Vol. I, pp. 133-166; ID., Lezioni sulla  filosofia della Storia, tr., Firenze, La Nuova Italia 1947, Vol. I, pp. 150-160 e 263-268; ID., Lezioni sulla filosofia della religione, tr., Bologna, Zanichelli 1973,Vol. I, pp. 430-501; Lezioni sulla filosofia dello spirito (1827-1828), tr., Milano, Guerini 2000, p. 130 e sgg.; ID., Filosofia della storia universale (1822-1823), tr., Torino, Einaudi 2001, pp. 113-263; Estetica, tr., Torino, Einaudi 1963,p. 87 e sgg.; e pp. 410-414; 624; 1225-27.

Sull’atteggiamento di Hegel nei confronti delle civiltà extra-europee cfr. Hulin, M., Hegel et l’Orient, Paris Vrin 1979; Halbfass, W., India and Europa, New York, S. U. N. Y. Press 1988, Marchignoli, S., ‘Hegel e l’Oriente’ come tema storiografico, in “Studi orientali e linguistici”, VII, 2000, pp. 483-492; Id., Canonizing an Indian Text? A.W. Schlegel, W. von Humboldt, Hegel and the Bhavagavadgita, in McGetchin – D.T.-Park P.K.J. – Sardesal Damodar, Sanskrit and ‘Orientalism’, Delhi, Manohar 2004, pp. 245-270; Id., ‘Hegel e l’Oriente’ come tema storiografico, in “Studi orientali e linguistici”, VII, 2000, pp. 483-492.

[16] Per il dibattito sul concetto generale di multiculturalismo e sulle sue diverse versioni cfr.: Rex J., The concept of a Multi-cultural Society, in “Occasional Papers in Ethnic Relations”, Center for Research in Ethnic Relations, University of Warwick, 1985; cfr. Giddens A., Le conseguenze della modernità, tr., Il Mulino, Bologna, 1992; Taylor Ch.,Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, tr., Anabasi, Milano 1993; Crespi F.,Manuale di sociologia della cultura, Laterza, Bari 1996; Bovone L, – Rovati G. (a cura di),Vivere in società. Tendenze della teoria sociologica contemporanea, Liguori, Napoli 1996; Appadurai, A., Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press 1996; “Studi di sociologia”, Anno XXXV, luglio-dicembre, n. 3-4, Milano, 1997; Berti F. (a cura di), Identità e multiculturalismo, Siena, Università degli Studi di Siena 1998; Bolaffi g., Gindro s., Tentori T. (a cura di), Dizionario della parole dell’immigrazione, del razzismo e della xenofobia, Firenze, Liberal Libri 1998; Touraine A.,Libertà, uguaglianza, diversità, tr., Milano, Il Saggiatore 1998; Marazzi A., Lo sguardo antropologico. Processi educativi e multiculturalismo, Roma, Carocci 1998; Colombo E.,Rappresentazioni dell’Altro. Lo straniero nella riflessione sociale occidentale, Milano, Guerini 1999; Geertz C., Mondo globale, mondi locali, tr., Bologna, Il Mulino 1999; Kymlicka W., La cittadinanza multiculturale, tr., Bologna, Il Mulino 1999; Mucci G., Cultura globale, mondi locali, Bologna, Il Mulino 1999; Cesareo V., Società multietniche e multiculturalismi, Milano, Vita e Pensiero 2000; Sartori G., Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli 2000; Martiniello M., Le società multietniche, Bologna, Il Mulino, 2000; Schimmenti V., Identità e differenze etniche. Strategie d’integrazione, Franco Angeli, Milano 2001; Leghissa, G., Orientarsi nelle retoriche del multiculturalismo in“aut aut”, n. 312, novembre-dicembre 2002, pp. 19-45; Habermas J., La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni, democrazia, e culture nell’epoca del pluralismo, in “La Civiltà Cattolica”, 4 gennaio 2003; Genealogie multiculturali. Storia e critica in “Contemporanea”, a cura di S. Mezzadra, VI, 1; Cotesta V.,Lo straniero,Milano, Adelphi 2003; Senigaglia, C., La comunità a più voci. Identità, pluralismo democratico e interculturalità nel comunitarismo contemporaneo, Milano, Angeli 2005.

[17] Sui pregi e i limiti della filosofia comparata ci siamo soffermati in Pasqualotto, G, East & West, cit., Cap. II.

[18] Non a caso quello che viene considerato l’iniziatore della filosofia comparata, Masson Oursel, si rifà esplicitamente ad un modello positivista, dove si cerca di ottenere la massima neutralità dello sguardo e la massima oggettività dei giudizi (cfr. Masson Oursel, P., La philosophie comparée, Paris, Alcan 1923).

[19] Per quanto riguarda l’approccio transculturale in antropologia sono fondamentali Harvey, D. The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change. Cambridge, (Ma.), Blackwell 1990; Pratt, M. L.. Imperial Eyes: Travel Writing and transculturation. London, Routledge 1992; Pred A. – Watts M., Reworking Modernity: Capitalism and  Symbolic Discontent, New Brunswick, N.J. Rutgers University Press 1992; Hannerz, U., Transnational Connections, London, Routledge 1996; Glick Schiller N., – Basch L., – Szanton Blanc C.,. From immigrant to Transmigrant: Theorizing Transnational Migration, in Transnational Migration, (ed. by L. Pries), Baden-Baden, Nomos 1997; Taylor Ch., Multiculturalismo, tr., Milano, Feltrinelli 1998; Welsch W.,Transculturality: The Puzzling Form of Cultures Today, in Spaces of Culture: City, Nation, World, (ed. by  Featherstone M.- Lash S.), London, Sage 1999, pp. 194-213; Ong A.,Flexible Citizenship: The Cultural Logics of  Transnationality, Durham, Duke University Press 1999; Watson C.W., Multiculturalism, Buckingham, Philadelphia Open Press University 2000; Schulze-Engler F., Transnationale Kultur als Herausforderung  für die Literaturwissenschaft, in „Zeitschrift für Anglistik und Amerikanistik. A Quarterly of Language, Literature and Culture”, 50.1, 2002, pp. 65-79; Giddens, A. Runaway World: How Globalisation is Reshaping Our Lives, London, Profile Books 2002.

Interessanti ai fini del nostro discorso risultano le osservazioni di Welsch: benché appiattiscano l’idea di interculturalità su quella di multiculturalità – ritenendole entrambe responsabili di accentuare le differenze – , tuttavia propongono l’ipotesi di un “transculturalismo dialogico” che risulta assai affine a quella della filosofia interculturale, in quanto “volontà di agire a partire dalle intersezioni tra culture piuttosto che dalle differenze”. Ancora più interessanti alcune recenti considerazioni di Taylor che evidenziano il fatto che vi è una inevitabile trasformazione reciproca tra soggetto conoscente e ‘oggetto’ conosciuto – sia questo un individuo o un concetto proprio di una cultura diversa – , concordando involontariamente con la nostra idea di una filosofia interculturale imperniata sulla relazione a tre variabili interdipendenti (Cfr. Taylor Ch.,Remembering Gadamer, in “Iwm Newletter”, 76, 2, Spring 2002, pp. 10-13).

[20] Walzer M., Two Kinds of Universalism, in “The Tanner Lectures on Human Values”, XI, 1990, pp. 509-556 (tr. parziale I due universalismi in ”Micromega” 1, 1991, pp. 127-145). Giustamente Latouche ha ricordato che l’ universalismo è creazione dell’Occidente e che il multiculturalismo rischia sempre di trasfigurarsi in “cosmetico della mondializzazione”. D’altra parte la proposta di Latouche di “decolonizzare l’immaginario” lasciando le culture extra-europee alla libertà del loro destino rischia di rendere impossibile ogni forma di dialogo interculturale. (Cfr. Latouche S., L’occidentalizzazione del mondo, tr., Torino, Bollati Boringhieri 1998; Id., Il pianeta uniforme, tr., Torino, Paravia 1997; Id., La fine del sogno occidentale, tr., Milano, Eleuthera 2002; Id., Giustizia senza limiti, tr., Torino, Bollati Boringhieri 2003).

[21] Gli esempi più coerenti di questo universalismo monista sono forniti dalle grandi religioni monoteiste, ma anche da alcune derive del razionalismo laico. Una critica radicale ad ogni forma di universalismo monista è presente in Walzer M., Geografia della morale, tr., Bari, Dedalo 1999.

[22] Cfr. Huxley A., La filosofia perenne, tr., Milano, Adelphi 1995.

19Cfr. Schuon F., Forma e sostanza delle religioni, tr., Roma, Mediterranee 1984; Id.,Stazioni della saggezza, tr., Roma, Mediterranee 1981; Id., Unità trascendente delle religioni, tr., Roma, Mediterranee 1997. 

[24] Cfr., in particolare, Guénon R., Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo, tr., Adelphi, Milano 1993. Sul significato del tradizionalismo di Guénon cfr. Cognetti G., L’arca perduta. Tradizionee critica del moderno in René Guénon, Firenze, Pontecorboli 1996; ma soprattutto Sedgwick, M., Against the Modern World: Traditionalism and the Secret Intellectual History of the Twentieth Century, Oxford, Oxford University Press 2004.

[25] Cfr., in particolare, Izutsu T., Unicità dell’esistenza e creazione perpetua nella mistica islamica, tr.,Genova, Marietti 1991; Id., Sufism and Taoism, A Comparative Study of Key Philosophical Concepts, Berkeley, University of California Press 1984.

[26] Cfr. Bori P.C., Natura umana e con-passione nel primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, in “Democrazia e diritto” 4 , 1993, pp. 101-115; Id., Le “Sacre Scritture” o “Bibbie dell’umanità” in Walden’ di H. D. Thoreau, in “Il piccolo Hans”, 83/84, 1994, pp. 257-272; Id., La luce che illumina ogni uomo” (Gv 1,9) in George Fox e Robert Barclay, in “Annali di storia dell’esegesi”, 11/1, 1994, pp. 119-144; Id., “Ogni religione è l’unica vera”.L’universalismo religioso di Simone Weil, in “Filosofia e teologia”, 8, 1994, pp. 393-403; Id.,Per un consenso etico tra culture, Genova, Marietti 1995; Id., La pluralità delle vie, Milano, Feltrinelli 2000; Id. e Marchignoli S., Per un percorso etico tra culture,Roma, Carocci 2003; Id., Monoteismo ed ermeneutica: quattro tesi, in Anima e paura. Studi in onore di Michele Ranchetti, Macerata, Quodlibet 1998, pp. 69-78.

[27] Uno dei meriti di P.C. Bori è comunque quello di aver tentato di individuare nel passato, sia remoto che recente, alcune testimonianze significative di questo universalismo pluralista, tra le quali vanno ricordate: 1. Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, in quanto pensarono una docta religio e una pia philosophia che accordassero pari dignità a diverse vie religiose; 2. esempi di cristianesimo radicale e mistico, di Riforma “spirituale” e di “cristianesimo senza chiesa” che, tra il XVII e il XVIII sec., elaborarono le idee di “Dio in ogni uomo”, di “luce interiore”, di “culto in spirito e verità”; 3. movimenti esoterici come la massoneria che, a partire dalla metà del XVII secolo, si dicono portatori di un’unica grande tradizione universale comune alle diverse culture (ma accessibile solo agli iniziati!); 4. il liberalismo teologico di F. Schleiermacher e A. von Humboldt; 5. il trascendentalismo americano [cfr., in particolare, Emerson, R. W., Divinity School Address (1838), tr., in Teologia e natura, Genova, Marietti, 1991, Postfazione di P.C. Bori];6. il cristianesimo radicale di Tolstoj fondato sull’idea di razumenie come comprensione universale; 7. la prospettiva di S. Weil condensata in questo pensiero: “Ogni religione è l’unica vera, vale a dire che nel momento in cui la si pensa è necessario applicarle così tanta attenzione, come se non vi fosse nient’altro; allo stesso modo ogni paesaggio, ogni quadro, ogni poesia, ecc. è l’unico bello. La sintesi delle religioni implica una qualità di attenzione inferiore” (weil, S., Quaderni III, tr., Milano, Adelphi, 1995, p. 153); 8. la proposta di Albert Schweitzer di coniugare il monismo mistico africano – che predilige contemplare la realtà come necessaria, senza divaricazione tra essere e dover essere – , con il dualismo etico di matrice occidentale che parte invece dalla divaricazione tra essere e dover essere e si prefigge il compito di superarla. (Su questo tema cfr. Marchignoli, S.,‘Mistica’ indiana ed ‘etica’ europea? A partire da Schweitzer, in “Paradigmi”, XXI, 61, 2003, pp. 55-2); 9. la ricerca di un fondamento comune, etico e giuridico, che sta alla base delle Dichiarazioni dei diritti umani. (Cfr. in questo contesto anche la ricerca di una “etica mondiale” promossa da H. Küng ); 10. la ricerca di Toshihiko Izutsu per trovare una base filosofica comune tra sufismo, taoismo e buddhismo zen. 11.l’ invito di Henry Corbin, a produrre un “dialogo meta-storico”.

[28] E’ da ribadire che nelle prime tre proposte di universalismo pluralista qui ricordate gli elementi che consentono l’attributo ‘pluralista’ sono di fatto subordinati al presupposto dogmatico di un’unica verità metafisica già data, per cui, a rigore, non si potrebbe parlare per esse di filosofia, essendo la filosofia – come ci ha insegnato Platone – sempre ricercadella verità, e mai possesso definitivo della verità.

[29] A questo riguardo si rivelano ancor oggi indispensabili i risultati delle ricerche effettuate da Foucault sulle ricadute sociali e politiche dei principali modi di rappresentare la realtà da parte del pensiero moderno. Cfr., in particolare, M. Foucault, Sorvegliare e punire, tr., Torino, Einaudi 1995. (Benché persino Foucault mantenga alcuni pregiudizi nei confronti dell’Oriente, in particolare della Cina: cfr. Foucault M, Le parole e le cose, tr., Milano, Rizzoli 1998, pp. 8-9).

[30]Cfr. Cirese A. M., Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo 1971; Geertz C., Interpretazione di culture, tr., Bologna, Il Mulino 1987; Affergan F., Esotismo e alterità, tr., Milano, Mursia 1990; Lévi-Strauss C., Razza e Storia, in Antropologia culturale due, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 366-408; Bettini M. (a cura di), Lo straniero ovvero l’identità culturale a confronto, Bari, Laterza 1992; Douglas M., Purezza e pericolo, Bologna, Il Mulino 1993; Fabietti U. – Remotti F. (a cura di), Dizionario di Antropologia, Bologna, Zanichelli 1996; BAYART, J. F. L’illusion identitaire, Paris, Fayard 1996; Baroncelli F., Il razzismo è una gaffe, Roma, Donzelli 1996;  Levi-Strauss C.,  L’identità, tr., Palermo, Sellerio 1996; Cirese A. M., Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma, Meltemi 1997; Fabietti U., L’identità etnica, Roma, Carocci 1998; Mazzara B. M., Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino 1997; Angioni G., Ethnic Groups, in “Europea”, IV, 2, 1998,pp.1-7; Callari Galli,M. Identità plurale, in M. Callari Galli – M. Ceruti – T. Pievani, Pensare la diversità, Roma, Meltemi 1998, Parte III, Cap. 3; J. Clifford, I frutti puri impazziscono, tr., Torino, Bollati Boringhieri 1999; Fabietti, U. Antropologia culturale, Bari, Laterza 1999; Kilani, M. L’invenzione dell’altro, tr., Bari, Dedalo 1997; Habermas, J., L’inclusione dell’altro, tr., Milano, Feltrinelli 1998; Horton Mendus J.– S. (eds.), Tolerations, Identity and Difference, London, McMillan 1999; Remotti, F. Contro l’identità, Bari, Laterza 1996. Taguieff P.-A., Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, tr., Milano, Cortina 1999; Geertz C., Gli usi della diversità, in L’antropologia culturale oggi, a cura di R. Borofsky, Roma, Meltemi, 2000; Amselle, J. L. Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, tr., Torino, Bollati Boringhieri 2001; Galzigna M. (a cura di), I volti dell’identità, Venezia, Marsilio 2001; L. Nader, La coscienza comparativa, in Borofsky R. (a cura di),L’antropologia culturale oggi, tr., Roma, Meltemi, 2004, pp. 116-127.

[31] E’ da notare che il relativismo conduce all’indifferenza, ma questa – al contrario di quanto esso pretenderebbe – non è garanzia di imparzialità, non è mai innocente, perché alla fine risulta sempre al servizio o in funzione di qualche Principio che si arroga il diritto di giudicare la realtà in modo relativistico per poterla usare come meglio crede.

Sui limiti del relativismo cfr. Jervis G., Contro il relativismo, Bari, Laterza 2005; in particolare p. 123: “Il relativismo non implica l’integrazione ma la separazione”. Jervis, tuttavia, sembra ancora considerare l’Occidente come l’ unico luogo dove, a partire dall’Illuminismo, si è pensato il Meglio per tutta l’umanità. Noi crediamo invece, in accordo, tra gli altri, con Amartya Sen (cfr. Sen A., Laicismo indiano, tr., Milano, Feltrinelli 1998) che anche altrove si siano prodotti altissimi esempi di pensiero ‘illuminista’ (cfr. Pasqualotto G.,Illuminismo e illuminazione, Roma, Donzelli 1997).

[32] Sull’originalità di Nishida ci siamo soffermati in Nishida:Buddhismo e dialettica, Postfazione a Nishida K., L’io e il tu, a cura di R. Andolfato, Padova, Unipress 1996, pp. 153-207. L’importanza di Nishida all’interno di un orizzonte interculturale è stata ben colta da Panikkar  R., A contemplative Life, Introduzione a  Yusa Michiko, Zen & Philosophy.An intellectual Biography of Nishida Kitarō, Honolulu, University of Hawai’i Press 2002, pp. VI-XII.

[33] Sottolineiamo questo fatto perché, in base alle nostre conoscenze, ci risulta che nessun pensatore occidentale ha mai fatto uno sforzo simile nella direzione opposta.

[34] Per gli scritti di Nishida cfr. Nishida Kitarō Zenshu, a cura di Abe Yoshishige, Tokyo, Iwanami shoten, 1988-89. Sul pensiero e sulla figura di Nishida si vedano Ohashi R., Die Philosophie der Kyoto Schule, Munchen, Alber 1990; (di Ohashi è fondamentale, ai fini del nostro discorso, anche il lavoro Japan im interkulturellen Dialog, Munchen 1999); Abe, M.,The Logic of Absolute  Nothingness, as expounded by Nishida Kitarō, in “Eastern Buddhist”, XXVIII, 2, 1995, pp. 167-174; Ueda S., Nishida’s Thought, tr. ingl. di J. Van Bragt, in “The Eastern Buddhist”, XXVII, 1, 1995, pp. 29-47; Tadashi, O., Nishida Kitarō inEncyclopedia of Phenomenology, Dordrecht/Boston/London 1997; Maraldo, J. C., Nishida, in Routledge Encyiclopedia of Philosophy, London, Routledge 1998; Mafli, P., Nishida Kitaro’s Denkweg, Munich, Judicium 1996, Carter, E. R., The Nothingness beyond God, St. Paul, Paragon House 1997; Elberfeld, R., Kitarō Nishida. Moderne japanische Philosophie und die Frage nach Interkulturalität, Amsterdam, Rodopi 1999; Stevens, B.,Topologie du néant: une approche de l’école de Kyoto, Paris, Peeters 2000; Tremblay, J.,Nishida Kitarō: le jeu de l’individuel et de l’universel, Paris, Cnrs Ed. 2000; Berque, A. (a cura di), Logique du Lieu et dépassement de la modernité, Vol. I, Paris, Ousia 2000; Tosolini, T., Introduzione, a Nishida KitarŌ, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, tr., Palermo, L’Epos 2005.

[35] Cfr. F. Jullien, Processo o creazione, tr. it., Parma, Pratiche 1991; Id., La propension des choses, Paris, Seuil 1992; Id., Fonder la Morale, Paris, Grasset 1995; Id., Pensare un altrove: la Cina, in “Iride”, 24, 1998, pp. 239-249; Id, Trattato dell’efficacia, tr., Torino, Einaudi 1998; Id., Elogio dell’insapore, tr., Milano, Cortina 1999; Id., Il saggio è senza idee, tr., Torino, Einaudi 2002; Id., Il tempo, tr., Roma, Sossella 2002; Id., Figure dell’immanenza, tr., Bari, Laterza 2004; Id., Stategie del senso in Cina e in Grecia, tr., Roma, Meltemi 2004; Id., Il nudo impossibile, tr., Roma, Sossella 2004; Id., La grande immagine non ha forma, tr., Vicenza, A. Colla 2004.

[36] Quello che noi definiamo dialogo ‘socratico’ equivale a quello che Panikkar chiama “dialogo dialogico”. Cfr. Panikkar, R. L’esperienza filosofica dell’India, tr., Assisi, Cittadella 2000, p. 188 e sgg.; Id., Intrareligious Dialogue, New York, Paulist Press 1984; Id., What is comparative Philosophy Comparing, in G. J. Larson-E. Deutsch, Interpreting Across Boundaries: New Essais in Comparative Philosophy, Princeton, Princeton University Press 1988;

 Id., Interculture, in “News of Harvard University Center for the Study of World Religions”, n. 53, 1995, pp. 1-5; Id., La notion des droits  de l’homme est-elle un concept occidental?, in “Diogène”, 120, 1982; Id., Pace e interculturalità, tr., Assisi, La cittadella 2002.

[38] Per un’introduzione alle problematiche emergenti dal concetto stesso di ‘filosofia africana’ cfr. A companion to African Philosophy, (ed. K. Wiredu), Oxford, Blackwell 2004. Un’ottima panoramica sulle nuove prospettive offerte da un confronto con pensieri prodotti nel continente africano è presente in L. Procesi, “Filosofia africana”: un problema di storiografia filosofica, e in ID., Filosofia africana e diaspora nera, in corso di stampa per l’ “Enciclopedia filosofica”. Sull’importanza di riferirsi all’Africa come terra di pensieri e non solo di safari, cfr. soprattutto Kimmerle. H., Die Dimension des Interkulturellen. Philosophie in Afrika. Afrikanische Philosophie, Amsterdam, Rodopi 1994; ID.,Afrikanische Philosophie in Kontext der Weltphilosophie, Traugott, Bautz 2005; ma anche Van Binsbergen W.M.J., Globalisation and virtuality: analytical problems by the contemporary transformation of African societies in Globalisation and Identity: Dialectics of flows and closures, (eds. Meyer, B.-Geschiere, P.), Oxford, Blackwell 1998, pp. 273-303; e Wimmer, F.M., Vier Fragen zur Philosophy in Africa Asien und Lateinamerika, Wien, Passagen 1988.

[39] Pasqualotto, G., La comparazione fra Oriente e Occidente, in “Filosofia politica”, 1/2004, pp. 65-77.

Particolarmente importante ai fini di una filosofia interculturale che pone al centro il concetto di relazione appare la riflessione di Waldenfels sul concetto di ‘estraneo’: Waldenfels, B. Der Stachel des Fremden, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1990; Id., Cultura propria e cultura estranea, in “Paradigmi”, n. 30, 1992, pp. 647-658; Id., Topographie des Fremden. Studien zur Phaenomenologie des Fremden I, Frankfurt am Main, Suhrkamp1997; Id., Grenzen der Normalisierung. Studien zur Phaenomenologie des Fremden II, ivi 1998; Id., Sinnesschwellen. Studien zur Phaenomenologie des Fremden III, ivi 1999; Id., Vielstimmgkeit der Rede. Studien zur Phaenomenologie des Fremden IV, ivi 1999.

[40] Mbiti, J. Oltre la magia. Religioni e culture nel mondo africano, tr., Torino, SEI 1992, p. 114.

[41] Non è mai da dimenticare che la nozione “diritti universali dell’uomo” è una formula elaborata in Occidente: cfr. Rouner L. S. (ed.), Human Rights and the World Religions, Notre Dame (In.), University of Notre Dame Press 1988; Cohen R., Human Rights and cultural relativism: The need for a new approach, in “American Anthropologist”, 91, 1989, pp. 1014-1017; Moltmann J., Diritti, diritti dell’umanità e diritti della natura, “Concilium”, 2, 1990, pp.145-161;  An-Na’im, A. A. (ed.), Human Rights in Cross-Cultural Perspective, Philadelpphia, University of Pennsylvania Press 1992; Bloom I. – Martin J. P. – Proudfoot W. L., Religion Diversity and Human Rights, New York, Columbia University Press 1996; Archibugi D. – Beetham D., Diritti umani e democrazia cosmopolitica, Milano, Feltrinelli 1998; Baccelli L., Il particolarismo dei diritti, Roma, Carocci 1999; Buruma I., Margalit A.,Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici, tr., Torino, Einaudi 2004.

Per una discussione interculturale sui diritti umani adeguata ai tempi si dovrebbero far interagire almeno i già citati risultati eminenti della discussione antropologica con alcune acquisizioni di teoria e storia del diritto, in modo da spostare in avanti ed allargare i confini dell’antropologia giuridica. Per l’ avvio di tale discussione cfr. S. CASSESE, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Bari, Laterza 1988; DAVID, R., I grandi sistemi giuridici contemporanei, tr., Padova, Cedam 1994; Brown, D.E., Human Universals, Mc Graw-Hill, New York 1991; Ferrajoli, L., Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, e Vertova, F.P.Cittadinanza libera, identità collettive, diritti sociali, in Zolo, D. (a cura di), La cittadinanza: appartenenza, identità, diritti, Bari, Laterza 1994; Motta, R., L’addomesticamento degli etnodiritti: percorsi dell’antropologia giuridica teorica e applicata. Milano, Unicopli 1994; Cole J.B., Human rights and the rights of anthropologists. in “American Anthropologist”, 97, 1995, pp. 445-448; Giasanti A – Maggioni G. (a cura di), I diritti nascosti, Milano, Cortina 1995; Gambino, A., L’imperialismo dei diritti umani, Roma, Editori Riuniti 2001; Ferrarese M. R., Il diritto al presente, Bologna, Il Mulino 2002; Harrison G., I fondamenti antropologici dei diritti umani, Roma, Meltemi 2002; Gibney M. J. La debolezza del più forte. Globalizzazione e diritti umani, tr., Milano, Mondadori 2003; Marramao G., Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino, Bollati Boringhieri 2003.

[42] Cfr., a questo riguardo, la “Dichiarazione di Bangkok” e la “Carta africana dei diritti umani e dei Popoli”, dove, accanto ai diritti individuali vengono posti quelli collettivi che riconoscono ad ogni gruppo umano la possibilità di conservare il proprio patrimonio sociale e culturale. Sui problemi posti e derivanti da queste ‘Dichiarazioni’ cfr. Sieghart, P., The Lawful Rights of Mankind, New York, Oxford University Press, 1986; Sen A., Laicismo indiano, tr., Milano Feltrinelli,1998; Bauer J. – Bell D. A., (eds.), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press 1999; Keown D., Human Rights and Buddhism, Goldsmiths, University of London 2000Bell D. A., East meets West.Human Rights and Democracy in East Asia, Princeton, Princeton University Press 2000; Bruun O. – Jacobsen M., Human Rights and Asian Values, Richmond, Curzon 2000; Monceri F., Altre globalizzazioni, Soveria Mannelli, Rubettino 2002; Ehr-Soon Tay A., I valori asiatici e il rule of law, in Costa P. – Zolo D., Lo stato di diritto, Milano, Feltrinelli 2002, pp. 683-705; l’intervento di  Zolo D., in Ignateff M., Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli 2003, pp. 135-157; Bell D. A. – Chaibong H., Confucianism for the Modern World, Cambridge, Cambridge University Press 2003; Sen A., La democrazia degli altri, tr., Milano, Mondadori 2004; Fornari E., Modernità fuori luogo, Torino, Aragno 2005.

[43] Sulla problematica nozione di individuo in Cina cfr. Dell’aquila, E., Il diritto cinese, Padova, Cedam 1981; in Africa, Diop, C.A., Nations nègres et culture, Paris, Présence Africaine 1979; in India, Lingat R., Les sources du droit dans le sistème traditionnel de l’Inde, Paris, Mouton 1967.

In generale, cfr. Lukes, S., Individualism, Oxford, Blackwell 1973; Martine, B. J.,Individuals and Individuality , Albany, State University of New York Press 1984; Renaut A., L’ère de l’individu, Paris, Gallimard 1987; Frank, M., L’ultime raison du sujet, Arlès, Actes Sud 1988; Lipovetsky, G., L’ère du vide, Paris, Gallimard 1989; Dumont, L., Saggi sull’individualismo, tr., Milano, Adelphi 1993; Bloom W., Personal Identity. National Identity and International Relations, Cambridge, Cambridge University Press 1990; Laurent A.,Storia dell’individualismo, tr., Bologna, Il Mulino 1994; Sen A., Reason before Identity,Oxford, Oxford University Press 1999.

La spinta ad intendere in modo problematico il concetto giuridico di individuo potrebbe condurre addirittura a porre in questione la sua legittimità anche in quanto concetto filosofico e psicologico: Cfr.; Misrahi R., La problèmatique du sujet aujourd’hui , Fougères, Encre Marine 1994; Nancy J.L., Etre singulier pluriel, Paris, Galilée 1996; Collins, S.,Selfless Persons, Cambridge, Cambridge University Press 1998; Di francesco, M., L’io e i suoi sé, Milano, Cortina 1998; Bodei R., Destini personali, Milano, Feltrinelli 2002, Cap. 10.

41Le ragioni profonde di questo eccezionale scatenamento di potere e sapere da parte dell’Occidente sono state individuate ed magistralmente analizzate da Max Weber,Sociologia della religione, tr., Milano, Comunità 1982, Vol. I (Protestantesimo e spirito del capitalismo); e sono state ulteriormente approfondite da Schluchter W., Lo sviluppo del razionalismo occidentale , tr., Bologna, Il Mulino 1987.

[45] Cfr. Nussbaum M., Diventare persone, tr., Bologna, Il Mulino 2001

[46] A questo riguardo è ovvio quanto fondamentale sia la pratica della traduzione, sulla cui importanza si vedano – oltre agli straordinari scritti di Benjamin W. (Il compito del traduttore in Id., Angelus Novus, tr., Torino, Einaudi 1981, pp. 39-52), di Steiner G. (Dopo Babele, tr., Milano, Garzanti 1994) e di Ricoeur P. (La traduzione. Una sfida etica, tr. Brescia, Morcelliana 2001) – gli studi specifici di Jakobson R., Aspetti linguistici della traduzione (1959) tr., in Id., Saggi di linguistica generale, tr., Milano, Feltrinelli 2002; Nida E. A. Towards a Science of Translating, Leiden, Brill 1964; Catford J. C., A linguistic Theory of Translation, Oxford, Oxford University Press 1965; Filipec J., Der Äquivalenzbegriff und das Problem der Übersetzbarkeit, in Neubert A. – Kade O. (hg.),Neue Beiträge zu Grundfragen der Übersetzungswissenschaft, Leipzig, Enzyclopädie 1973; Koller W., Einführung in die Übersetzungswissenschaft, Heidelberg, Quelle und Meyer 1983; Reiss K – Vermeer H., Äquivalenz und Adäquatheit, in Grundlegung einer allgemeinen Translationstheorie, Tübingen, Niemeyer 1984; Hann M., The Key to Technical Translation, Amsterdam-Philadelphia, Benjamins 1992; Egidi R., Traducibilità, significato e relativismo nell’epistemologia contemporanea, in “Colloquium Philosophicum”, 4, 1997/98, pp. 49-68.

[47] Un ottimo esperimento di dialogo interculturale a “tre variabili interdipendenti” – pur senza alcuna pretesa filosofica – è quello realizzato nei confronti della cultura giapponese da Rosenstone R. A., Lo specchio e il santuario. Storie di americani nel Giappone Meiji, tr., Milano, Feltrinelli 2001.

[48] Un illustre esempio di questo tipo di soluzione è fornito da Habermas il quale ritiene che l’idea di un benessere comune possa realizzarsi solo attraverso una condivisione del razionalismo normativo occidentale da parte delle altre tradizioni culturali. Cfr. Habermas J., Teoria dell’agire comunicativo, tr., Bologna, Il Mulino 1997.

 

Da: http://artestudioteatrosocialeubuntu.wordpress.com/2012/09/16/uno-scritto-di-giangiorgio-pasqualotto/

 

 

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