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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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L'incontro tra Cristianesimo e Induismo. Il dialogo "intrareligioso" e il movimento degli ashram (Sonia Calza)


 

1. Cristianesimo e India: 2000 anni di storia

L’Occidente cristiano pecca di ignoranza e di presunzione pensando di aver «portato» Cristo agli indiani attraverso l’attività missionaria avviata al seguito della colonizzazione del subcontinente da parte delle potenze europee. Ben pochi lo sanno, ma la storia dell’incontro tra il messaggio cristiano e l’India può vantare quasi duemila anni di sviluppo originale di comunità autoctone[1]. Queste attribuiscono la propria origine alla predicazione dell’apostolo Tommaso lungo le coste del Malabar già dalla metà del I sec. e hanno conservato per secoli influenze e contatti con il patriarcato di Antiochia, si sono confrontate e anche scontrate con il cristianesimo latino dal XVI sec. in poi.

Nel secolo appena trascorso hanno saputo accogliere – ancora prima di comprenderle – esperienze originalissime e illuminanti quanto controverse, come quelle dei primi ashram hindu-cristiani. Tuttora vivono un sorprendente fervore religioso unito a una creativa operosità che permette loro di conservare fedelmente le proprie radici, pur nella perfetta integrazione nel paese storicamente più multireligioso al mondo e in un contesto sociale ed economico che va mutando al ritmo incalzante della globalizzazione.

Ancor oggi in India sono immediatamente avvertibili le profonde differenze culturali e soprattutto di percezione della propria identità religiosa tra i cristiani cosiddetti «della prima ora», originariamente provenienti con ogni probabilità dalle caste superiori e concentrati soprattutto nell’India meridionale, e i «latini»[2], discendenti della successiva ondata di evangelizzazione abbinata ad attività caritative che sembra aver attecchito particolarmente fra le caste più umili: cattolici di mentalità piuttosto occidentalizzata, particolarmente presenti nel territorio di Goa e di Bombay. Queste comunità cristiane sono orgogliose della propria peculiarità culturale e religiosa e sembrano cercare proprio nella differenziazione dal contesto hindu dominante un sostegno alla propria identità. Pur essendo più recenti, le loro diocesi sono presenti su tutto il territorio indiano in numero maggiore (soprattutto in conseguenza di una discutibile politica di «latinizzazione» a discapito delle chiese autoctone operata fino al concilio Vaticano II), le grandi istituzioni e le gerarchie di questa chiesa sono più visibili e tendono a inglobare e omogeneizzare l’intera realtà ecclesiale indiana. Anche in campo teologico le loro idee godono di maggiore circolazione; in particolare, da tempo vi è un vivace dibattito circa il ruolo che la chiesa può svolgere in campo sociale al fianco degli oppressi (dalit theology, teologia della liberazione di matrice indiana) e in campo culturale ed economico, in un paese ancora fragile e arretrato ma destinato a diventare forse troppo in fretta una potenza mondiale.

Torniamo a occuparci ora di quella realtà ecclesiale così peculiare e poco nota di cui accennavo inizialmente, proprio per la fecondità delle sue premesse ai fini del dialogo interreligioso. Sia che appartengano alla tradizione siro-malabarica o a quella siro-malankarese, i cristiani del Kerala sono molto legati alla tradizione siriaca e alle sue forme liturgiche, senza pregiudizio della piena comunione con la chiesa cattolica romana. Si tratta di cristiani perfettamente integrati e operosamente partecipi nel contesto locale, che hanno sempre vissuto serenamente e con pari dignità fianco a fianco dei loro «vicini» hindu o musulmani, in un’armonica coesistenza che anche nel contesto dell’India contemporanea ha del «miracoloso» nella sua assoluta naturalezza: a dimostrare – una volta di più – che ciò che avvelena i rapporti interpersonali e interreligiosi sono semmai motivazioni politiche e di interesse, che nulla hanno a che vedere con il religioso in sé.

2. Guru venuti da Occidente

Proprio in questo contesto si sono inserite, per scelta, le esperienze pionieristiche di Jules Monchanin, Henri Le Saux e Bede Griffiths (fondatori e guru del primo ashram hindu-cristiano in India), e anche, se vogliamo in qualche modo a partire dalle radici familiari, l’originalissimo percorso spirituale e teologico di Raimundo Panikkar[3].

a.       J. Monchanin (1895-1957), nato in Borgogna da una famiglia borghese profondamente cattolica, avverte appena tredicenne la vocazione al sacerdozio, studia e si forma nel vivace ambiente intellettuale di Lione e inizia a interessarsi di filosofia e di orientalistica, dimostrando grandi doti intellettuali e apertura mentale. Nel 1922 è ordinato sacerdote, presta servizio in parrocchie abitate dai poveri della società industriale e coraggiosamente prende posizione in loro difesa. È amico di importanti teologi come H. de Lubac e s’interessa anche al vicino islam. In punto di morte per una grave malattia, fa voto, in caso di guarigione, di dedicarsi completamente alla salvezza dell’India. Nel 1939 è invitato in India, dove visita vari luoghi ricchi d’arte e studia l’inglese, il tamil e il sanscrito. Dopo alcuni anni difficili come parroco, nel 1947 la sua strada s’intreccia con quella di H. Le Saux, che condivide il suo sogno di fondare un vero ashram hindu-cristiano dedicato alla contemplazione della Trinità. Visitano insieme l’ashram del santo hindu Ramana Maharshi e, con il permesso del vescovo locale, avviano la loro fondazione monastica con due piccole capanne lungo il fiume sacro Kaveri. Monchanin assume il nome spirituale di Parama Arubi Anandam, ossia «Colui la cui beatitudine risiede nel Supremo senza forma», in riferimento alla sua devozione allo Spirito Santo. La sua aspirazione a «ripensare il cristianesimo in modo indiano» si scontra con varie difficoltà e delusioni che sembrano indurlo negli ultimissimi anni a un «ripensamento». Costretto a rientrare in Francia per essere operato, vi muore nel 1957.

b.       H. Le Saux (1910-1973) nasce in Bretagna da famiglia numerosa e di grande fede, che incoraggia la sua precoce vocazione. Mentre studia in seminario, la madre rischia di morire di parto ed Henri fa voto di dedicarsi completamente alla vita religiosa, divenendo più tardi benedettino. Nel 1935 riceve l’ordinazione sacerdotale e dopo la guerra si dedica allo studio e alla preghiera. Matura la sua vocazione per l’India, dove sogna di trapiantare la tradizione monastico-contemplativa benedettina, oppure di vivere come un eremita solitario, secondo la più antica tradizione monastica sia cristiana, sia indiana. Nel 1948 raggiunge Monchanin in India e con lui nel 1950 fonda il Saccidananda Ashram di Shantivanam, prendendo il nome spirituale di Swami Abhishiktananda, ossia «Colui che trova la propria gioia nel Cristo, l’unto del Signore». Visita più volte, prima con Monchanin e poi anche da solo, l’ashram di Shri Ramana Maharshi e si precisa la sua vocazione a un ascetismo più radicale e alla vita eremitica. Nel 1956 Le Saux incontra Shri Jñanananda Giri, altro grande maestro spirituale che segnerà profondamente il suo cammino. Con il tempo si evidenzia una divergenza di opinioni e di vocazioni tra Le Saux e Monchanin, che porterà alla separazione delle loro strade. Nel 1968 Le Saux affida definitivamente Shantivanam nelle mani di B. Griffiths e si trasferisce al nord dell’India, dove si dedica alla vita eremitica e all’insegnamento ai discepoli, fino alla morte nel 1973.

c.       Alan Richard Griffiths, nato nel 1906 da famiglia anglicana, grande amante della natura e appassionato studente di letteratura romantica a Oxford, si converte al cattolicesimo e diventa monaco benedettino con il nome di Bede, svolgendo poi i ruoli di priore e maestro dei novizi. Studia a lungo le tradizioni filosofiche e religiose orientali e nutre il sogno di integrare la tradizione monastica cristiana con quella hindu. Nel 1955 finalmente riesce a trasferirsi in India e insieme a un confratello fonda un’abbazia benedettina vicino a Bangalore. Nel 1958 insieme a Francis Mahieu, fonda l’ashram di Kurisumala in Kerala, optando in modo sempre più radicale per il sannyasa e cercando di assimilare e integrare anche il cristianesimo locale di tradizione orientale. Nel 1968, su invito di Le Saux, Griffiths diventa superiore e maestro spirituale dell’ashram di Shantivanam, che viene affiliato all’ordine camaldolese e subordinato a quello di Kurisumala. Il suo nome da sannyasin in sanscrito, Swami Dayananda, significa «Colui che trova la propria gioia nella compassione». Sotto la sua guida questo centro «totalmente cristiano e totalmente indiano» ha suscitato e accolto numerose vocazioni religiose ma soprattutto migliaia di persone da tutto il mondo[4], animate da una più o meno consapevole ricerca spirituale, diventando sede di numerosi incontri interreligiosi e luogo di profonda pace e di mutuo arricchimento spirituale. Griffiths è scomparso nel 1993, ma molti discepoli cristiani e hindu ancora lo ricordano come il più noto e amato guru di Shantivanam.

Questi uomini furono molto diversi per carattere, formazione, inclinazioni, carisma, modalità di comunicazione e per diversi altri aspetti. Di tutti ho ampiamente trattato nel mio saggio La contemplazione, via privilegiata al dialogo cristiano-induista, frutto dello studio degli scritti di questi straordinari mistici del nostro tempo, delle testimonianze di coloro che li hanno conosciuti ed emulati e delle ricerche condotte in India per vagliarne l’eredità vivente[5]. Non si tratta, certamente, degli unici fautori del dialogo cristiano-hindu ma di protagonisti privilegiati, che ho cercato di studiare in un rapporto di continuità con i primissimi pionieri[6] ma anche in relazione con altre esperienze a loro contemporanee, al di fuori dell’ambito cattolico.

Il Saccidananda Ashram (Eremo della Trinità) lungo il fiume sacro Kaverì, a Shantivanam (letteralmente «La foresta della pace») in Tamil Nadu, fondato da J. Monchanin e da H. Le Saux nel 1950, è il primo ashram cristiano-indusita della storia. B. Griffith, dopo averlo ricevuto da Le Saux, lo trasformò in una piccola comunità monastica di rito cattolico-indiano[7]. Tutti e tre i guru di Shantivanam vissero secondo i dettami dell’ascetica hindu.

Questi nostri contemporanei non hanno condotto un dialogo interreligioso «a tavolino», ossia confrontandosi solo intellettualmente da occidentali e da teologi cattolici, con l’induismo. Di fatto, hanno condiviso con l’India, con la tradizione vivente dell’induismo, la propria vita, la propria ricerca spirituale, la propria sete di assoluto. Utilizzando un neologismo coniato da R. Panikkar, possiamo dire che con straordinario coraggio essi hanno condotto un autentico dialogo «intrareligioso», svuotandosi del proprio orgoglio e del proprio occidentale senso di superiorità e di autosufficienza, calandosi completamente in questa esperienza, facendo incontrare nel proprio animo due mondi, due culture, due religioni, due sensibilità spirituali e conquistando, più o meno faticosamente, l’equilibrio e la pace interiore di una fede che non poteva più rinnegare nessuna delle sue sorgenti. In questa speciale alchimia in cui si riconosce all’altra tradizione religiosa non solo rispetto e pari dignità, ma le si permette di diventare una parte irrinunciabile di sé e di modificare anche la propria autocomprensione in un processo di mutua fecondazione, ciascuno ha elaborato una propria sintesi delle due tradizioni e ha vissuto in modo diverso il proprio amore per l’India.

Per tutti il loro messaggio più forte rimane il richiamo all’interiorità, alla scoperta di un Dio nascosto nell’abisso dell’anima e che trascende infinitamente ogni idea e ogni nome. In particolare, essi hanno colto l’espressione più pura di questo messaggio nell’Advaita Vedanta, ossia in quella tradizione filosofica e spirituale indiana che, sviluppando le speculazioni delle Upanishad, concepisce la natura del divino come essenzialmente non-duale. Ma, oltre a riscoprire gli insegnamenti di Shankara e di altri grandi maestri del passato, essi hanno voluto anche incontrare e umilmente farsi discepoli dei loro eredi moderni, santi del XX sec. quali Ramana Maharshi[8], Shri Jñanananda Giri, Swamì Chidananada e molti altri rimasti anonimi al pubblico occidentale.

I nostri si sono sentiti profondamente in comunione con questa tradizione, intuendo da subito che un incontro profondo tra la mistica advaitica hindu e quella trinitaria cristiana avrebbe potuto essere particolarmente fecondo ai fini della loro stessa vita spirituale e del dialogo tra le due religioni. Emerge con chiarezza, dalle loro testimonianze, una comune intuizione e fondamentale convinzione: nella tradizione hindu è presente il «mistero cristico» e un incontro esistenziale tra le due fedi non solo è possibile, auspicabile, ma in un certo senso è «necessario» per un’autentica vita spirituale. Non per questo, però, hanno ignorato le altre componenti della tradizione hindu, come, ad esempio, il tantrismo, né altre religioni quali il buddhismo, il jainismo, il taoismo, l’islam, ecc…

Senza dimenticare le esigenze della ragione umana e senza isolarsi dal loro mondo e dal loro tempo, questi quattro mistici hanno individuato nella contemplazione la via privilegiata per un dialogo fra cristianesimo e induismo e – più in generale – per ogni incontro interreligioso che voglia essere autentico e profondo, poiché vissuto da persone totalmente fedeli alla propria tradizione d’origine e altrettanto aperte alle altre.

Esperienza mistica ed elaborazione teologica, silenzio interiore e dialogo, tormento e beatitudine si fondono nelle vicende personali di questi uomini che hanno voluto percorrere un sentiero non segnato, spinti dal desiderio di incontrare l’assoluto, anche oltre i limiti dell’appartenenza confessionale e della stessa razionalità. Tutti in questa scommessa si sono messi completamente in gioco: hanno rischiato la loro stessa credibilità di teologi e la rispettabilità di religiosi, la loro dignità secondo parametri europei e, infine, la loro stessa integrità psichica. Una strada ben difficile la loro, perché mai battuta prima da nessun altro; una strada conquistata a poco a poco e a prezzo di grandi sofferenze, ma sempre sorretti dalla fede in una verità che è aldilà di qualsiasi formulazione umana e soprattutto da una compassione universale, da un grande amore per l’umanità che alimenta l’autentica vita contemplativa.

Un cammino sicuramente rischioso, il loro, che non ha nulla a che vedere con il sincretismo, ma ugualmente non esente da incomprensioni e da critiche[9], di sicuro ancora troppo poco conosciuto in Occidente.

3. Gli ashram hindu-cristiani: un segno nella chiesa

Queste loro intuizioni hanno ispirato – in India ma anche altrove – il movimento degli ashram hindu-cristiani[10], piccole comunità ecumeniche e interreligiose votate all’approfondimento della spiritualità cristiana in comunione con l’induismo e con tutte le confessioni e le fedi religiose, strutturate sul modello tradizionale hindu di eremitaggio in cui dei discepoli si raccolgono intorno a un guru, un maestro spirituale, e la giornata è scandita dai tempi della meditazione, della pratica dello yoga, dell’insegnamento del maestro, della celebrazione di riti cristiani e hindu[11], come, ad esempio, la messa e l’arati[12], la comunione e l’offerta di prasad[13], la professione monastica e la sannyasa diksha[14].

Pur con modalità diverse, continuano a nascere nuove realtà che si ispirano ai grandi del passato e a nuovi maestri. Attualmente, la sola federazione Ashram Aikya, che accoglie, riunisce e mette in relazione gran parte di queste fondazioni indipendenti di ispirazione cattolica e variamente legate a ordini religiosi cristiani e hindu, conta come membri attivi ben quarantatré ashram[15], oltre a un numero in continua crescita di «ricercatori indipendenti» – religiosi o laici di ogni nazionalità – che condividono in modo diverso un analogo percorso e trovano in questa associazione e nei suoi incontri un punto di riferimento fondamentale.

Il mese scorso ho avuto la possibilità di visitare il Sameeksha Ashram di Kalady in Kerala e di incontrare personalmente Sebastian Painadath[16], per ascoltare proprio da una delle voci attualmente più autorevoli del movimento quali siano la situazione presente e le prospettive future di questa realtà così peculiare e sfaccettata.

Dopo le incomprensioni e le censure degli inizi, dopo le polemiche dei decenni scorsi e a prescindere dalla maggiore o minore considerazione di cui i singoli ashram godono anche all’interno delle stesse famiglie religiose cui sono affiliati, ora il movimento degli ashram è, secondo lui, un «segno» nella chiesa, una realtà tangibile e significativa in continua evoluzione, che non teme il confronto, anche dialettico, con altre esperienze, nella consapevolezza che nella chiesa deve sempre esserci un pluralismo di idee e di carismi. Ma gli ashram hindu-cristiani, soprattutto, compiono ogni sforzo per sfuggire alla «trappola» dell’istituzionalizzazione e alla tentazione della ricerca di modelli ideali fissi e di sicurezze per il futuro, proprio per mantenersi aperti al vento dello Spirito che «soffia dove vuole»[17].

In questo senso ogni ashram è una realtà a sé e mai identica a se stessa: molti ashram degli inizi non esistono più o si sono trasformati, altri sopravvivono ma soffrono dell’assenza di un vero guru, di una guida carismatica all’altezza del fondatore, altri sono nati dall’esperienza dei precedenti con forme assolutamente nuove, come i family ashram in cui possono ritirarsi e percorrere insieme una via spirituale, marito e moglie che abbiamo ottemperato ai propri doveri familiari, secondo l’antica tradizione hindu del vanaprastha[18].

Certamente la loro opera non va misurata in termini numerici quantitativi. Lo stesso padre Painadath sottolinea che l’ashram è, per sua stessa natura, una realtà passeggera e tradizionalmente esiste solo in relazione alla presenza di un guru, un maestro autorevole, diversamente dalle istituzioni cristiane occidentali cui ci si preoccupa di assicurare continuità. L’esperienza degli ashram hindu-cristiani mi sembra vada letta proprio nella logica del seme o del lievito, per usare metafore evangeliche, e in questo senso sembra prefigurare quella che R. Panikkar definisce «cristiania», una sorta di nuova modalità dell’essere cristiani. A questo proposito è particolarmente interessante scoprire le analogie, pur fra mille differenze, con altre esperienze di dialogo profondo, esistenziale, condotte altrove e a contatto con altre religioni[19]. Queste voci non offrono solo stimolanti riflessioni e un modo diverso di pregare e mettersi in relazione con Dio, ma anche un modo nuovo di scoprire il sacro nel mondo, nella comunità umana tutta, nella natura, nella vita quotidiana.

S. Painadath mi ha confermato che da parte hindu vi è molto rispetto e apprezzamento per queste originali fondazioni cristiane che non mirano assolutamente al proselitismo, ma condividono con le tradizioni religiose locali la ricerca di Dio, la pratica della meditazione, della lettura e dello studio dei testi sacri, che accolgono e ascoltano tutti e spesso offrono un aiuto alla popolazione circostante non attraverso l’assistenzialismo, ma facendosi promotori anche di attività economiche e di progetti di sviluppo.

Ne è uno straordinario esempio, fra gli altri, il Kurisumala Ashram[20], immerso fra le lussureggianti piantagioni di tè del Kerala centrale, un monastero cistercense che ha «sposato» pienamente la tradizione monastica indiana, dove si possono vedere quotidianamente all’opera i monaci-sannyasin insieme a decine di lavoratori locali per gestire un grande e innovativo allevamento, un impianto di pastorizzazione del latte, estese piantagioni di frutta, spezie, tè e pascoli per gli animali, un impianto a biogas, un forno per il pane, un dispensario e altre attività che non solo rendono perfettamente autosufficiente per queste necessità il monastero (in cui vivono circa venti monaci e che ospita continuamente religiosi e laici in visita o in ritiro), ma offrono anche formazione professionale per chi lo desideri e un dignitoso sostentamento a oltre un centinaio di famiglie della zona. Padre Yeshudas Thelliyil, l’attuale abate, mostrandomi la piccola ma ricca biblioteca, ha sottolineato come in particolare in questo ashram di rito siro-malankarese, sia data una grande importanza allo studio delle Scritture e delle opere dei Padri del deserto, alla spiritualità orientale[21], alla meditazione, alla preghiera del cuore e alla tradizione dell’esicasmo. Quest’ultima è così ben si armonizza con quella upanishadica e dello yoga, da essere stata definita da alcuni una sorta di «yoga cristiano». Ma non si tratta assolutamente di un’eccezione: lo stesso Monchanin già ai tempi dei propri studi indologici in Francia aveva colto tali assonanze e individuato in questa tradizione del cristianesimo orientale un possibile punto di contatto e «ponte» con la spiritualità non cristiana orientale. Anche B. Griffiths, dopo una prima insoddisfacente esperienza di fondazione benedettina nei dintorni di Bangalore, aveva qui optato per l’adozione del rito siro e della tradizione della chiesa «autoctona», proprio perché più vicina alle fonti, all’origine del messaggio cristiano stesso e, quindi, più idonea a favorire l’incontro con la mistica hindu, a preparare quel «matrimonio tra Oriente e Occidente» che è sempre stato il suo ideale.

Oggi gli ashram hindu-cristiani sono spazi di accoglienza, ascolto e dialogo aperti a tutti, senza preclusioni o discriminazioni di religione, casta, status di vita o censo: una testimonianza importante ed efficace, specie in una società ancora così condizionata da pregiudizi. Ogni ashram intreccia relazioni e scambi in un atteggiamento di condivisione con gli ashram hindu, i loro guru e le comunità locali, anche con quelle di tradizione musulmana, pur se in misura minore. Mi sembra che proprio questa sia forse una delle nuove frontiere o sfide che dovranno affrontare lungo il loro cammino.

Ritornando a distanza di nove anni al Christa Prema Seva Ashram (CPS) di Pune, ormai diventato un semplice ostello, ho ritrovato la targa recante una frase che tanto mi aveva colpito all’inizio delle mie ricerche, che ho scelto quale incipit del mio saggio e che ancora ben descrive il feeling di questi gruppi:

Non ci sono strade o mappe già pronte, non esistono istruzioni per compiere il nostro viaggio. La meta e la via le scoprirà solo chi si mette in viaggio. E mettersi in cammino in obbedienza alla chiamata di Dio, rischiare senza sapere dove si verrà condotti, è la risposta che la fede e l’amore richiedono. I sentieri non sono stati tracciati per noi, poiché nessuno li ha ancora percorsi. E questo significa che non dobbiamo e non possiamo sprecare tempo ed energie agognando inutilmente che qualcuno ci guidi e ci salvi da tutti i rischi e i possibili errori.

 Sonia Calza

dottoressa in Lingue e letterature orientali, studiosa e pubblicista nell’ambito filosofico-religioso dell’India

Sommario

La storia dell’incontro tra il messaggio cristiano e l’India può vantare quasi 2000 anni di storia e nel sud del subcontinente è presente un’antica tradizione ancora molto vitale, che ha saputo accogliere e mediare le esperienze di dialogo profondo con l’induismo avviate da J. Monchanin, H. Le Saux, B. Griffiths, F. Mahieu e altri. Questi pionieri hanno vissuto sulla propria pelle incontrando, negli abissi del loro animo ovvero ai vertici dell’esperienza mistica, la ricchissima tradizione spirituale indiana. Pur rimanendo fedeli alla propria fede cristiana, si sono aperti a «sperimentare l’induismo come dall’interno», facendosi loro stessi monaci hindu e vivendo come cenobiti o eremiti secondo i dettami dell’ascetica tradizione del sannyasa hindu, una via di rinuncia totale che guida alla contemplazione dell’assoluto. Accomunati dall’intuizione di un nuovo modo di vivere l’incontro con l’altro, con una tradizione religiosa diversissima e apparentemente inconciliabile, di vivere il dialogo, il pluralismo… questi «pontefici» fra culture hanno lasciato un segno tanto nel cristianesimo, quanto nell’induismo, hanno ispirato e continuano a ispirare esperienze proficue di vario tipo, come quelle degli ashram hindu-cristiani.

Nota bibliografica

H. Le Saux Abhishiktananda Swami, Diario spirituale di un monaco cristiano-samnyasin hindu 1948-1973, a cura di R. Panikkar, Mondadori, Milano 2002.

B. Griffiths, Una nuova visione della realtà, Scienza occidentale, misticismo orientale e fede cristiana, Appunti di Viaggio, Roma 2005.

J. Monchanin, Mistica dell’India, mistero cristiano, a cura di C. Conio, Marietti, Genova 1992.

R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988.

S. Calza, La contemplazione, via privilegiata al dialogo cristiano-induista. Sulle orme di J. Monchanin, H. Le Saux, R. Panikkar e B. Griffiths, Paoline, Milano 2001.


 

[1] Cf. P. Pallath, Le chiese orientali dell’India, in «CredereOggi» 147 (3/2005) 95-110.

[2] Con riferimento alle diversità dei riti nell’ambito della chiesa cattolica, in India convivono comunità di rito latino, siro-orientale (malabarese) e siro-occidentale (malankarese).

[3] Nato nel 1918 da madre spagnola cattolica e padre hindu del Kerala, docente universitario di fama internazionale, scrittore incredibilmente prolifico e, al tempo stesso, amante del silenzio, studioso di competenze vastissime che abbracciano sia l’ambito scientifico, sia quello umanistico, secolare quanto religioso, conferenziere poliglotta e di grande carisma, sacerdote cattolico, officiante riti hindu, meditante buddhista, pensatore originale dalla terminologia ricercata e grande comunicatore: R. Panikkar è evidentemente una figura che sfugge a ogni definizione o facile esemplificazione. Sono molti i fili che lo legano all’esperienza degli altri autori, non solo le relazioni personali di stima e di profonda amicizia o la condivisione di alcune esperienze, ma soprattutto il comune intento di elaborare un nuovo paradigma interculturale e interreligioso attraverso il dialogo vissuto come dimensione fondamentale della propria esistenza.

[4] Specialmente giovani ma anche studiosi e scienziati, religiosi e laici. Tuttora è molto forte il legame fra Shantivanam e la comunità di Camaldoli, che negli ultimi anni ha dedicato interessanti convegni e incontri di spiritualità interreligiosa ispirati a questi «padri» e alla loro straordinaria testimonianza. Cf. AA.VV., Il passaggio all'altra riva, Edizioni Camaldoli, Camaldoli 2005, pp. 136.

[5] S. Calza, La contemplazione, via privilegiata al dialogo cristiano-induista. Sulle orme di J. Monchanin, H. Le Saux, R. Panikkar e B. Griffiths, Paoline, Milano 2001.

[6] Come, ad es., il gesuita Roberto de Nobili (1577-1656), il brahmino bengalese convertito Upadhyaya Brahmabandhav (1861-1907) e altri precursori incompresi.

[7] Lo stesso Griffiths ha più volte puntualizzato come, provenendo dall’esperienza di Kurisumala dov’è praticato il rito siro-malankarese, giunto all’ashram di Shantivanam, che fa parte di una diocesi di rito latino, avesse deciso di proseguire e approfondire quel percorso di sperimentazione liturgica qui avviato dagli stessi fondatori. Anch’egli, dunque, contribuì all’elaborazione del rito cattolico cosiddetto «indiano», fondamentalmente basato sul rito latino ma inclusivo di varie influenze sia delle tradizioni liturgiche sire, sia delle pratiche rituali indiane, come, ad es., la posizione seduta del celebrante, il suo indossare uno scialle sulle spalle al posto dei paramenti sacri, l’offerta di luci, incensi, fiori, frutti, i canti devozionali secondo lo stile dei bhajan e l’invocazione del nome di Dio come un sacro mantra (parola o formula per il rituale o per la meditazione). Lo stesso Griffiths sostenne che, al di là dell’istituzione della commissione liturgica a seguito dell’All India Seminar di Bangalore del 1969, che doveva definire appunto tale rito indiano, era necessario negli ashram approfondire questa ricerca fino a elaborare un’autentica preghiera eucaristica indiana. Anche il CPS Ashram di Pune, ai tempi della comunità ecumenica cattolico-anglicana di sr. Sara Grant e di sr. Vandana Mataji (le più note suore-sannyasini e stimate teologhe), ha contribuito notevolmente a questa sperimentazione liturgica, tanto che ancora nel 1997 ho potuto assistere a messe celebrate con questo rito e arricchite talvolta anche da canti e danze, secondo il modello dei kirtan (danze devozionali) hindu.

[8] Le Saux, letteralmente folgorato da questi incontri, ha affermato che per presentare agli indiani il mistero di Gesù Cristo secondo la fede di duemila anni di storia della chiesa, il monaco cristiano deve prima mostrare con la propria vita che questo marga (via, sentiero) conduce veramente all’esperienza dell’assoluto, che l’induismo conosce per altre vie. E ha invitato tutti i cristiani a constatare la santità di uomini come appunto Ramana, Gandhi, Vinoba Bhave e altri contemporanei, prima di emettere qualsivoglia giudizio sull’induismo.

[9] Anche se si tratta di un argomento molto complesso, vorrei qui accennare che i due fondatori di Shantivanam furono inizialmente molto criticati e in vari modi osteggiati da rappresentanti della chiesa locale, scandalizzati da alcune loro prese di posizione (ad es., contro la politica imperialista europea e in favore dell’indipendenza dell’India), consideravano discutibile e pericoloso il loro farsi discepoli di maestri hindu e, soprattutto, temevano fenomeni di emulazione da parte dei loro fedeli. Bisogna ricordare che in quegli anni l’induismo era ancora visto con grande sospetto, disistima e paura da parte delle gerarchie, allarmate peraltro dalla crescente attrazione esercitata da alcuni maestri hindu contemporanei (ad es., Aurobindo e Gandhi) sia sugli occidentali, sia sugli stessi cristiani indiani. Griffiths, amico e maestro anche di F. Capra, K. Wilber e altri autori della «nuova scienza», è stato da alcuni disprezzato come guru new age e accusato di aver troppo «allentato» la disciplina monastica all’ashram in questo suo sforzo di apertura e di accoglienza verso tutti. Questi autori, ma anche R. Panikkar e altri a loro vicini, sono stati accusati da alcuni teologi di eccessivo «universalismo», di aver perso di vista la centralità del mistero di Gesù Cristo per la fede cristiana e di aver voluto avvicinare a tutti i costi e in modo artificioso l’Advaita Vedanta e la speculazione trinitaria cristiana.

[10] Queste fondazioni rappresentano, forse, la loro eredità più visibile ma va ricordato anche il ruolo diretto o l’influenza indiretta esercitati da questi autori su altre realtà più lontane, come il Movimento mondiale per la meditazione cristiana, il Comitato intermonastico per il dialogo Oriente-Occidente (NABEWD), varie fondazioni, associazioni, comitati, riviste, gruppi di studio ecumenici, interreligiosi, per il dialogo, la preghiera e la meditazione, in tutto il mondo. Al di là delle apparenze, inoltre, non è da trascurare il loro ruolo nell’elaborazione di una teologia indiana autenticamente inculturata e sensibile alle istanze sociali, anche se la loro vocazione era essenzialmente contemplativa. Vorrei ricordare, infine, che anche sr. Nirmala Joshi – attuale superiora generale delle Missionarie della carità – fu inviata da M. Teresa di Calcutta negli anni ’70 proprio all’ashram di Shantivanam per un periodo di formazione sotto la guida di B. Griffiths.

[11] In realtà, molte di queste pratiche sono trasversali alle diverse religioni indiane e, dunque, ampiamente ultilizzate, seppure con qualche variante, in riti hindu, buddhisti, jaina, sikh, ecc.

[12] Pratica molto frequente nei riti hindu e indiani in generale come gesto di venerazione o a scopo propiziatorio, consiste in un’offerta di luce alla divinità o alla persona alla quale quel rito è dedicato (il guru, gli sposi durante il matrimonio, chiunque riceva un particolare sacramento). Si pratica sollevando, facendo ondeggiare o ruotare il senso orario un vassoio metallico contenente dei lumini a olio o con ghee (burro chiarificato), canfora, bastoncini di incenso, fiori e accompagnando tale gesto con canti di lode. L’effetto purificatore di tale gesto rituale si trasmette poi ai fedeli presenti che portano le mani a coppa rovesciata sulla fiamma e poi si toccano la fronte in silenzio e devota concentrazione, ricevendo così una benedizione. Negli ashram hindu-cristiani l’arati è praticata sia all’interno di momenti liturgici come la messa (davanti al celebrante, al Vangelo, all’eucarestia, ecc.), sia a sé in alcuni momenti particolari della giornata.

[13] L’offerta di doni (generalmente cocco o altra frutta, dolci, misture di ingredienti pregiati come ghee, zucchero e frutta secca) che simboleggia le antiche pratiche di sacrificio. Questi doni sono offerti alla divinità e utilizzati per la puja (il culto vero e proprio) o spesso anche ridistribuiti ai fedeli dopo la consacrazione. Questa pratica rituale sta a simboleggiare l’offerta del proprio ego per diventare una cosa sola con la divinità e quasi nutrirsi di essa. Negli ashram hindu-cristiani oltre al pane e al vino, sono presentati durante il rito eucaristico anche altri «doni» che vengono benedetti dal celebrante e poi ridistribuiti e ricevuti con gratitudine dai partecipanti. In questo modo, fra l’altro, non si esclude dalla partecipazione coloro che non hanno mai ricevuto il sacramento dell’eucaristia.

[14] Consacrazione, iniziazione alla condizione di sannyasin, monaco che rinuncia a tutto nella vita: il proprio ego, le proprie idee anche religiose, i rituali, lo status di vita. Addirittura celebra il proprio funerale e vive da questo momento in poi completamente libero da ogni vincolo umano e totalmente teso alla ricerca dell’assoluto. Negli ashram hindu-cristiani questa consacrazione viene impartita dall’acharya stesso in aggiunta alla professione monastica, ma in alcuni casi particolari anche da un guru hindu rappresentante di un determinato lignaggio. Fu questo il caso, ad es., di Marc Chaduc, che ricevette così una doppia benedizione monastica insieme dal proprio maestro Swami Abhishiktananda (H. Le Saux) e da Swami Chidananda della Divine Life Society di Rishikesh.

[15] Questo dato fa riferimento al rapporto del dicembre 2004.

[16] Gesuita del Kerala, fondatore e acharya (superiore e guida spirituale) di questo incantevole centro di spiritualità e di dialogo interreligioso situato lungo le rive del fiume Periyar, vicinissimo al luogo natale di Shankara, il grande filosofo e mistico indiano dell’VIII sec. Sameekshra è spesso sede di ritiri, corsi o incontri, come anche del prossimo satsangh annuale dell’Ashram Aikya (28-31 ottobre 2005) che sarà preceduto da un «ritiro contemplativo basato sulle Upanishad» offerto dallo stesso Painadath, noto studioso di scritture sacre hindu, autore e docente universitario, che tiene regolarmente conferenze e corsi anche in Austria e Germania.

[17] S. Painadath (ed.), Solitude and Solidarity: Ashrams of Catholic Initiative, ISPCK, Delhi 2003, contiene una serie di testimonianze molto significative sulla realtà presente di queste comunità e di coloro che vi si riconoscono.

[18] Stadio che, secondo la tradizione hindu, segue quelli di brahmacharya (studentato/celibato) e di grihasta (vita familiare) e precede la rinuncia totale, l’abbandono di ogni legame con il mondo per dedicarsi esclusivamente al perseguimento della liberazione, che è l’essenza del sannyasa, considerato l’ultima ashrama o stadio della vita.

[19] Vorrei citare, solo a titolo di esempio, le riflessioni e le esperienze di Thomas Merton, Enomiya Lassalle; Johannes Kopp e, in Italia, l’esperienza delle comunità di Luciano Mazzocchi.

[20] Monastero cistercense fondato dal belga F. Mahieu (Francis Acharya 1912-2002) e dal benedettino B. Griffiths nel 1958, dopo un periodo di studio e di pratica presso vari ashram hindu e presso lo Shantivanam Ashram insieme ai fondatori. Griffiths lasciò Kurisumala per Shantivanam, come si è detto, nel 1968 con il sogno di realizzarvi un’inculturazione ancora più completa dell’ideale monastico nella tradizione hindu e di aprire l’ashram sempre di più a tutte le persone «in ricerca», anche al di là delle regole che normano la vita comunitaria in un monastero.

[21] Lo stesso fondatore F. Acharya, recentemente scomparso, ha tradotto dal siriaco l’opera in quattro volumi Prayer with the Harp of the Spirit e The Ladder of Divine Ascent e in malayalam (la lingua del Kerala) quel gioiello di spiritualità cristiana orientale che è la Filocalia.

 

Da: http://www.credereoggi.it/upload/2005/articolo149_121.asp

 

 

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