| Pagina IX INTRODUZIONE
 
 «Estetica del vuoto» è denominazione problematica. Per poter 
			cominciare ad entrare nel nodo di problemi che essa racchiude si 
			potrebbe in prima approssimazione tentare di identificare l'estetica 
			del vuoto con l'estetica orientale. Ma questo tentativo, più 
			che semplificare, complicherebbe ulteriormente la questione, perché 
			la stessa denominazione «estetica orientale» costituisce problema. 
			Infatti non si può parlare di estetica orientale per il 
			fatto, del tutto evidente, che «Oriente» designa una varietà di 
			regioni, culture, tradizioni assai diverse, che comprende le tre 
			grandi civiltà dell'Islam, dell'India e della Cina, ma anche quelle 
			meno ampie, benché non meno importanti, del Giappone, della Corea, 
			del Tibet, della Birmania e della Thailandia, ciascuna delle quali 
			possiede una propria lingua, proprie tradizioni artistiche, nonché 
			propri canoni estetici. Non solo: all'interno di ciascuna di queste 
			civiltà si sono sviluppate vicende culturali e tradizioni artistiche 
			tra loro assai diverse: basti ricordare a questo proposito l'immensa 
			varietà di produzioni artistiche e di scuole estetiche sorte e 
			sviluppatesi lungo la storia della sola civiltà indiana. Quando si 
			parla di «Oriente» si dovrebbe quindi sempre specificare di quale 
			«Oriente» si sta parlando e ci si sta occupando. Per quel che 
			riguarda il presente lavoro, si intende soffermare l'attenzione su 
			alcun aspetti e significati estetici presenti nella civiltà cinese e 
			in quella giapponese. Tuttavia questa che, relativamente 
			all'orizzonte denotato dal termine «Oriente» apparecome una 
			delimitazione, a sua volta rappresenta in realtà un orizzonte 
			talmente ampio da dover essere perlustrato da un'enorme schiera di 
			opere generali e di lavori monografici. Ciò che indica l'ulteriore, 
			necessaria, delimitazione della nostra ricerca è dato dagli aspetti 
			aspetti e dai significati estetici che, sorti nell'ambito del 
			taoismo classico, si sono in seguito mediati col buddhismo ed hanno 
			concentrato il loro sviluppo nella scuola del buddhismo chan 
			(in Cina) e zen (in Giappone).
 In secondo luogo non si può parlare, a rigor di termini, di 
			estetica orientale perché, almeno nell'ambito della civiltà cinese e 
			di quella giapponese, non si è mai avuta, come in Occidente, una 
			disciplina spesso dotata anche di pretese scientifiche - chiamata 
			«estetica». Solo di recente, in seguito a massicci processi di 
			occidentalizzazione, si è avuto qualche tentativo di lavori 
			definibili come contributi di «estetica» nel senso usato dalla 
			tradizione filosofica occidentale. In generale si tratta tuttavia di 
			riprese e di rielaborazioni di temi e problemi nati e cresciuti 
			all'interno di questa tradizione, con particolare riguardo alla 
			tradizione filosofica tedesca e con specifici riferimenti al 
			pensiero di Kant, di Husserl e di Heidegger.  Vi sono tuttavia ragioni più profonde per le quali l'estetica 
			come specifica disciplina filosofica non è sorta all'interno della 
			civiltà cinese e di quella giapponese. È da ricordare prima di tutto 
			e in generale che entrambe queste civiltà non hanno mai posto né 
			sviluppato quella differenza radicale tra teoria e pratica che ha 
			invece segnato - in negativo e in positivo - pressoché tutta la 
			cultura occidentale: per il pensiero cinese e, poi, per quello 
			giapponese, ogni idea è già un'azione, ed ogni azione possiede in 
			sé energia e valore spirituali.  Parlare dunque di estetica nel senso di «teoria» o di «scienza 
			del bello» non ha in questi orizzonti di pensiero alcun significato, 
			perché in essi non è ritenuta reale una situazione in cui vi sia, da 
			una parte, una bellezza da contemplare o da creare e, dall'altra, un 
			soggetto che la contempla o la crea. Anzi, per il pensiero cinese e 
			per quello giapponese, pragmatici e talvolta addirittura empirici, 
			mai comunque metafisici, «bellezza» in generale come idea non 
			esiste. Per essi possono esistere oggetti e situazioni, fatti o 
			eventi connotabili, ma mai definibili, come belli a seconda del 
			momento e delle circostanze: tuttavia anche questa denominazione 
			«belli», benché relativa, mantiene ancora qualcosa di astratto come 
			se un'unica categoria universale, quella di bellezza, fosse fatta 
			valere di volta in volta a seconda dei diversi contesti e delle 
			diverse occasioni. In realtà, per la cultura cinese e giapponese 
			«bello» può essere per esempio anche qualcosa di oscuro, di 
			malinconico e di indefinito - come nel caso dello yugen - senza che 
			per questo si possa concludere che la bellezza coincide con 
			l'oscurità, la malinconia e l'indefinito, e di conseguenza senza che 
			si possa passare a formulare un'estetica della malinconia o 
			dell'indefinito. Ciò significa in generale che, a differenza di 
			quanto è avvenuto lungo quasi tutta la storia del pensiero 
			occidentale, in Cina e in Giappone - almeno per quanto riguarda le 
			tradizioni qui considerate - non si è mai sentito il bisogno di 
			«sistemare» le esperienze in qualche teoria e, di riflesso, non si è 
			mai avvertita la necessità di sistemare in qualche teoria 
			estetica la pluralità delle esperienze estetiche. Questa 
			assenza di teoria non è stata affatto considerata come una 
			mancanza di teoria o come incapacità cronica di pensare in 
			termini astratti e in forma sistematica e metodica: al contrario, si 
			è sempre ritenuto che proprio i tentativi di elaborare teorie 
			finiscano per limitare le esperienze abbassandone la qualità e 
			diminuendone l'intensità. Per questo nello Zhuangzi è detto: 
			«quando regna la virtù perfetta [...] gli uomini si amano l'un 
			l'altro senza conoscere l'ideale dell'amore umanitario». Per questo 
			nella Raccolta della Roccia Blu, crestomazia delle scritture 
			zen, è detto: «Quando i sentimenti di giudizio della coscienza 
			intellettuale terminano, solo allora potete vedere fino in fondo. E 
			quando vedrete, allora, come nei tempi antichi, il cielo è cielo, la 
			terra è terra, le montagne sono montagne, i fiumi sono fiumi».  Non è qui il caso di indugiare a stabilire se abbia avuto ragione 
			Hegel a considerare il pensiero orientale una forma di pensiero 
			infantile, non ancora pienamente sviluppato, o se abbiano avuto 
			ragione molti pensatori cinesi e giapponesi a considerare la 
			passione per la teoria una malattia infantile che colpisce la vita 
			dello spirito spesso con esiti anche letali. Di fatto il pensiero 
			orientale, almeno per quanto riguarda quelle sue espressioni 
			sedimentate nei testi taoisti classici e nei testi prodotti dalla 
			tradizione del buddhismo chan e zen, mostra una radicata e 
			costante diffidenza nei confronti delle pretese avanzate 
			dall'impulso a fare teorie, e manifesta invece un'altrettanto 
			radicata e costante predilezione per tutti quei modi e tutte quelle 
			circostanze in grado di produrre un rapporto diretto con 
			l'esperienza, privo di mediazioni intellettuali e culturali. Il 
			rapporto con la realtà è quindi preferito al rapporto con i 
			concetti, o almeno con quei concetti che pretendono di sostituirsi 
			alla realtà. Questo tipo di rapporto, almeno per quanto riguarda la 
			civiltà giapponese, ci sembra sia stato efficacemente messo a fuoco 
			da uno dei maggiori esperti italiani di cultura giapponese:  La civiltà giapponese è un ricettacolo di mezzi toni e sfumature, 
			di spazi vuoti che non vanno subito colmati ma goduti come sono, di 
			un'infinità di arti che hanno come scopo non il prodotto estetico ma 
			l'atto che arricchisce il rapporto. Rapporto con le persone, 
			rapporto con la natura, rapporto con le cose.  In questa prospettiva, dunque, taoismo e buddhismo chan e 
			zen non possono essere assunti e fatti valere come teorie o dottrine 
			dalle quali vengano dedotte o alle quali vengano ricondotte 
			particolari forme di esperienza estetica. Per vedere il nesso che li 
			lega con alcune particulari forme di esperienza estetica è 
			necessario abbandonare i tradizionali sentieri tracciati dai 
			procedimenti di deduzione e induzione ed è necessario trovare la 
			strada che conduca al nucleo centrale del taoismo e del buddhismo 
			chan e zen, dal quale sorge e si irradia l'energia che genera e 
			sviluppa tali forme di esperienza estetica. Questo nucleo centrale è 
			dato dal vuoto. Non dal concetto di vuoto, ma dall' 
			esperienza del vuoto. Ciò significa che alla base delle attività 
			che accompagnano i processi formativi di alcune arti e che 
			interessano la fruizione estetica delle forme da esse prodotte, non 
			sta una teoria del vuoto, ma un'esperienza del vuoto: esperienza che 
			è ottenibile solo mediante la pratica di un particolare tipo di 
			meditazione.      | << 
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			>> |Pagina 5 I. IL VUOTO NEL TAOISMO
 
 I. LE FONTI DEL VUOTO
 
 Il più celebre e chiaro riferimento al vuoto che la tradizione 
			taoista ci ha insegnato è quello contenuto al capitolo XI del 
			Daodejing:
 Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo,
l'utilità della vettura dipende da ciò che non c'è.
Si ha un bel lavorare l'argilla per fare vasellame,
l'utilità del vasellame dipende da ciò che non c'è.
Si ha un bell'aprire porte e finestre per fare una casa,
l'utilità della casa dipende da ciò che non c'è.
Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c'è.
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			>> |Pagina 12 Il problema del vuoto è affrontato dal taoismo classico non solo in 
			termini di spazio, ma anche in termini di tempo: «Esaminando 
			i pieni e i vuoti di questo mondo, la misura degli esseri è 
			infinita; il loro tempo non ha termine; la loro condizione non ha 
			permanenza; il loro principio e la loro fine non hanno durata». Ciò 
			significa, evidentemente, che ogni cosa, sia essa un ente o un fatto 
			culturale, essendo intessuta ed imbevuta di tempo, si consuma. 
			Tuttavia la questione è più complessa di quanto questa prima ed 
			elementare spiegazione possa far pensare. Innanzitutto è da 
			ricordare che, come il vuoto spaziale non è pura assenza di spazio 
			né spazialità assoluta, così, nel caso della temporalità, il vuoto 
			temporale non è semplice assenza di tempo né temporalità assoluta, 
			cioè tempo indefinito e indeterminato. Il vuoto temporale, come 
			quello spaziale, ha una funzione dialettica: come lo spazio 
			vuoto si dà solo in rapporto allo spazio pieno e viceversa, così il 
			tempo vuoto, ossia quello che si potrebbe chiamare «tempo assente» - 
			il quale si determina come «già stato» (passato) e come «non ancora» 
			(futuro) - si dà solo in rapporto al tempo presente, e viceversa. 
			Inoltre: come il vuoto spaziale è «trascendentale» perché interno a 
			ciascuna cosa particolare ma anche perché funge da condizione di 
			possibilità per la dislocazione di ogni cosa particolare, 
			così pure il vuoto temporale, il tempo dell'«assenza», è 
			trascendentale sia nel senso che appartiene a ciascuna cosa 
			particolare, ma anche nel senso che è condizione di possibilità per 
			la durata di ogni cosa particolare.    | << 
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			>> |Pagina 19 «Egli pratica il Non-agire, e in questo caso non c'è nulla che non 
			sia ben governato»; pertanto se, in generale, il non-agire del Dao 
			ha conseguenze di carattere cosmologico perché fa sì che ogni cosa 
			spontaneamente si faccia, il particolare non-agire del saggio 
			ha conseguenze di carattere etico e politico, perché fa sì che ogni 
			agire spontaneamente si compia: «Perciò un Santo ha detto: 
			"Se io pratico il Non-agire, il popolo si trasforma da solo. Se io 
			amo la quiete, il popolo si rettifica da solo. Se io mi astengo 
			dall'attività, il popolo si arricchisce da solo. Se io sono senza 
			desideri, il popolo tornerà da solo alla semplicità"». Alla Via del 
			Cielo, al Dao universale la cui azione spontanea è «di non lottare e 
			nondimeno saper vincere», corrisponde la particolare via (dao)
			del saggio che «sostiene il corso naturale dei diecimila esseri 
			senza osare agire»; ma, per ottenere questo, è necessario che il 
			saggio faccia il vuoto dentro di sé: «Colui che si applica allo 
			studio aumenta ogni giorno. Colui che pratica la Via diminuisce ogni 
			giorno. Diminuendo sempre di più, si arriva al Non-agire. Non 
			agendo, non esiste niente che non si faccia». In definitiva ciò 
			significa: per praticare il Dao è necessario il non agire, ma per 
			praticare il non agire è necessario praticare il vuoto, far agire
			il vuoto.    | << 
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			>> |Pagina 37 2. IL VUOTO NEL BUDDHISMO
 
 I. IL VUOTO NEL «CANONE»
 
 La funzione del vuoto nel buddhismo zen e nelle arti che ad esso, 
			per via diretta o indiretta, si sono ispirate, è di primaria e 
			fondamentale importanza, ma per poterne evidenziare le 
			caratteristiche principali è necessario chiarire come e quanto il 
			problema del vuoto sia presente ed agisca ancor prima nel buddhismo 
			in generale. Il buddhismo, infatti, ben prima di coniugarsi, in 
			Cina, con il taoismo, e di generare il buddhismo chan, aveva 
			autonomamente sviluppato una serie di profonde riflessioni attorno 
			all'idea e all'esperienza del vuoto. Il buddhismo chan in 
			Cina e il suo equivalente zen in Giappone non faranno che 
			focalizzare e far risaltare ai massimi livelli, soprattutto nella 
			pratica e nelle arti, un aspetto già presente, e in modo rilevante, 
			nell'insegnamento originale del Buddha e nei testi da esso derivati. 
			Si potrebbe dire che la complessa serie di riflessioni che il 
			buddhismo ha prodotto attorno al problema del vuoto è tutta 
			condensata in questi brevi versi del Sutta Nipata:
 «Contempla il mondo come vacuità, o Mogharajan, sempre restando 
			ammemorante» - così disse il Beato. Avendo distrutte la teoria di se 
			stesso si giungerà a superare la morte; il dio della morte non vedrà 
			colui che in tal modo contempli il mondo.  È importante sottolineare in via preliminare che in questo passo, 
			oltre al riferimento alla contemplazione del mondo come vacuità, vi 
			sono anche altre due indicazioni che - come si vedrà più in 
			particolare - sono decisive per comprendere il ruolo del vuoto nel 
			buddhismo: da un lato, infatti, le parole «sempre restando 
			rammemorante» alludono a quello stato di attenzione e di 
			concentrazione che si ottiene nella pratica meditativa, e fissano in 
			tal modo quel punto rilevante, come si è visto, anche per il taoismo 
			- in base al quale la meditazione che produce il vuoto vale tanto e 
			forse più di ogni teoria sul o del vuoto; dall'altro, il passo mette 
			in rilievo che il cogliere il mondo come vacuità conduce al trionfo 
			sulla morte o, almeno al trionfo sulla paura della morte: con ciò il 
			buddhismo si presenta subito con una connotazione soteriologica più 
			esplicita e radicale di quella taoista.  Ai fini della nostra trattazione è ora di notevole importanza 
			esplicitare i principali significati che si condensano in quel 
			«contempla il mondo come vacuità». Tali significati vengono 
			indicati, in forma più estesa, da un altro testo buddhista, il 
			Majjhima Nikaya:  Ecco, o monaco, un saputo nobile discepolo, sensibile a ciò che è 
			nobile, sciente nella nobile dottrina, istruito nella nobile 
			dottrina, sensibile a ciò che è santo, sciente nella santa dottrina, 
			istruito nella santa dottrina, non considera la forma come se 
			stesso, né se stesso come forma, né la forma in se stesso, né se 
			stesso nella forma; non considera la sensazione come se stesso, né 
			se stesso come sensazione, né la sensazione in se stesso, né se 
			stesso nella sensazione; non considera la percezione come se stesso, 
			né se stesso come percezione, né la percezione in se stesso, né se 
			stesso nella percezione; non considera la concezione come se stesso, 
			né se stesso come concezione, né la concezione in se stesso, né se 
			stesso nella concezione; non considera la conscienza come se stesso, 
			né se stesso come conscienza, né la conscienza in se stesso, né se 
			stesso nella conscienza. Così dunque, o monaco, non sorge la 
			credenza nella personalità.  Ciò vuol dire, innanzitutto, che ogni forma materiale, così come 
			ogni sensazione, ogni percezione ed ogni altro contenuto della 
			coscienza, non ha natura propria: non si determina e non si 
			definisce in modo autonomo come se possedesse un'identità 
			ab-soluta, sciolta dal rapporto con ogni altro-da-sé. In altri 
			termini: nessun elemento, sia fisico che psichico, sussiste in 
			sé. Quest'idea della non-separatezza delle cose e dei fenomeni, 
			così come dei contenuti della coscienza, è nei testi canonici 
			buddhisti ribadita innumerevoli volte, ma trova la sua sistemazione 
			compiuta nella teoria della coproduzione condizionata o della 
			«originazione dipendente» (Pratityasamutpada, in sanscrito;
			Paticcasamuppada, in pali).      | << 
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			>> |Pagina 58 3. IL VUOTO NELLO ZEN
 Per ricordare l'importanza della pratica di meditazione nel 
			buddhismo zen basta far presente che lo stesso termine «zen» è 
			l'equivalente, in lingua giapponese, del termine cinese «chan», il 
			quale a sua volta equivale al termine sanscrito «dhyana» e al 
			corrispondente pali «jhana» i quali stanno per «meditazione». 
			Ovviamente il buddhismo zen che influì in modo intenso ed esteso 
			sulle arti ma anche sulla vita quotidiana del Giappone, non si 
			riduce per questo a sostenere che la pura e semplice pratica 
			meditativa sia sufficiente a far capire e a risolvere ogni problema, 
			ma certamente fa di essa la base e il cardine per produrre 
			l'equilibrio psicofisico necessario alla comprensione e alla 
			soluzione dei problemi. A differenza del buddhismo delle origini e 
			anche di quello proposto nella letteratura Prajñaparamita, il 
			buddhismo zen insiste molto di più sul fatto che lo spazio della 
			discussione speculativa va ridotto a favore di quello fornito 
			dall'esperienza immediata, incentrato e concentrato nella pratica 
			della meditazione. Sulla scia della tradizione prodotta dalle 
			osservazioni buddhiste sul vuoto e sulla vacuità, anche il buddhismo 
			zen propone un radicale «fare il vuoto» che tolga sostanzialità e 
			permanenza agli oggetti, all'io, ai pensieri e perfino al pensiero 
			del vuoto; tuttavia quelle del buddhismo zen, più che «osservazioni» 
			e «riflessioni» sul vuoto, appaiono come testimonianze di 
			esperienze del vuoto, Ciò che è stato notato a proposito dei 
			Sutra da D.T. Suzuki - il più celebre tra i maggiori studiosi 
			contemporanei di buddhismo zen - vale a maggior ragione per i 
			discorsi dei maestri zen: «Quando i Sutra affermano che tutte 
			le cose sono vuote, non-nate e al di là della causalità, 
			l'affermazione non è il risultato di un ragionamento metafisico; è 
			un'esperienza buddhista estremamente penetrante». Ciò non significa 
			tuttavia che il buddhismo zen sia talmente ingenuo e «primitivo» da 
			ignorare i livelli della discussione teorica e i modi dei 
			ragionamenti dialettici; anzi, i testi che ci sono rimasti di questa 
			grande scuola del buddhismo mahayana dimostrano casomai una 
			conoscenza talmente profonda di questi livelli e di questi modi da 
			poterne proporre il superamento, mostrando i limiti di un 
			approccio esclusivamente teorico ai problemi. La consapevolezza di 
			tali limiti appare concentrata in questo famoso passo di Hui Hai, 
			grande maestro chan dell'VIII secolo d.C.:
 
 
 
 Su che cosa deve stabilirsi e dimorare la mente?  Deve stabilirsi sul non-dimorare e là dimorare.  Cos'è questo non-dimorare?  Significa non lasciare che la mente dimori su nessuna cosa di 
			nessun genere.  E cosa significa questo?  Dimorare su nulla significa che la mente non si fissa sul bene o 
			sul male, sull'essere o sul non-essere, sul dentro o sul fuori o da 
			qualche parte tra i due, sul vuoto o sul non-vuoto, sulla 
			concentrazione o sulla distrazione. Questo dimorare su nulla è lo 
			stato in cui essa deve dimorare; di coloro che lo raggiungono si 
			dice che hanno la mente che non dimora; in altre parole, hanno la 
			mente di Buddha.      | << 
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			>> |Pagina 77 1. IL VUOTO NEL CHANOYU
 
 Se è vero che «l'uso artistico del vuoto è osservabile in quasi 
			tutte le forme artistiche dell'Estremo oriente», vi è però un luogo 
			in cui il vuoto sembra concentrare e mettere in massima evidenza la 
			sua presenza e la sua funzione: questo luogo è il sukiya, la 
			stanza da tè. Il vuoto che in questo luogo si celebra, oltre che 
			fisico ed estetico, è morale e mentale. Esso si fa sentire già 
			mentre si attraversa il piccolo giardino antistante percorrendo un 
			sentiero di pietre in rilievo (roji) che porta alla piccola 
			costruzione in legno dove si svolge la cerimonia del tè: 
			innanzitutto la struttura del sentiero a «passi perduti» è quella 
			che più e meglio esalta la presenza del vuoto in quanto elimina la 
			contiguità tra le pietre ponendole a distanza variabile una 
			dall'altra; il passaggio su di esse risulta quindi simile a quello 
			sui sassi emergenti di un torrente dove è necessario porre 
			attenzione ai movimenti in rapporto alla presenza e all'azione del 
			vuoto: in secondo luogo l' asimmetria sia orizzontale - 
			prodotta dalla distanza variata delle pietre una dall'altra -, che 
			verticale - prodotta dai diversi livelli delle pietre -, costringe 
			il corpo a dimenticare ritmi e movimenti del camminare usuale e, con 
			ciò, modifica al tempo stesso i consueti modi di percepire spazio e 
			tempo. Il passaggio del roji è già un'esperienza di 
			purificazione e, quindi, un modo in cui il vuoto comincia a 
			manifestarsi; comincia, letteralmente, a «farsi sentire».
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			>> |Pagina 90 2. IL VUOTO NEL SUMIE
 
 Nel sukiya, sulla parete di fondo del tokonoma, è 
			quasi sempre appeso un kakemono o un makimono, ossia 
			un rotolo, verticale o orizzontale, di seta o di carta, sul quale è 
			tracciata una calligrafia o dipinta una pittura ad inchiostro. La 
			tecnica usata per la calligrafia o per il dipinto è quella del 
			sumie (cinese: shui-mo): inchiostro e acqua.
 Non si tratta di una mera decorazione o di una esibizione di 
			bellezza fine a se stessa, ma di un'ulteriore occasione di 
			meditazione sulla funzione del vuoto, in sintonia ed in armonia, 
			dunque, con le analoghe occasioni incontrate finora: il percorso del
			roji, il gioco dei chiari/scuri del sukiya, i suoni 
			del bollitore, i gesti del maestro, il contatto con la ciotola. Per 
			poter cogliere la funzione del vuoto attivata da una calligrafia o 
			da un dipinto non è sufficiente considerare l'evidente dialettica 
			tra lo scuro dei segni tracciati e lo sfondo chiaro e spoglio della 
			parete, ma è necessario «entrare» nel kakemono o nel 
			makimono, esaminarne da vicino e dall'interno i principali 
			procedimenti tecnici e i peculiari effetti estetici.  È innanzi tutto da ricordare che, contrariamente a quanto è 
			avvenuto in Occidente, in Cina e in Giappone scrittura e pittura 
			sono state da sempre due tecniche intrinsecamente connesse, dal 
			punto di vista tecnico ma anche da quello semantico. La scrittura 
			cinese uscì dalla fase dell'incisione già dal secolo XVI a.C., com'è 
			testimoniato dalla presenza di una specie di penna ad inchiostro 
			raffigurata sulla superficie di un bronzo del periodo Shang. È 
			tuttavia con l'introduzione dell'uso del pennello - prima con punta 
			di fibra (213 a.c.), poi con punta di setole animali (206 a.c.) - 
			che essa trova il suo strumento peculiare e si avvicina sempre di 
			più alla pittura, al punto che identici diventano non solo gli 
			strumenti (pennelli, inchiostri, carte e sete) ma anche lo spazio 
			fisico e i movimenti compositivi: è proprio tale avvicinamento, mai 
			tradito nei millenni da allora fino ad oggi, che costituisce il 
			decisivo passaggio dalla graphé alla kalligraphía. È 
			l'elemento pittorico e, in particolare, l'uso del pennello (pi
			o yu) che decide, una volta per sempre, il fatto che le 
			superfici sulle quali scrivere - siano esse ancora strisce di bambù 
			o, già dal 105 d.C., strisce di carta - non siano più da 
			«graffiare», ma da «sfiorare», da «accarezzare»: dal momento in cui, 
			per scrivere, si cominciò ad usare il pennello, ossia a dipingere
			i caratteri (e non a «scriverli»), la scrittura dovette 
			necessariamente diventare «bella scrittura», kalligraphía, o 
			non essere del tutto. Anche per questo, per questa esigenza di 
			bellezza, per questa necessità di perfezione, la scrittura cinese, 
			fino a tempi recenti, è stata per secoli appannaggio di una 
			ristretta élite di letterati: non fu solo il costo dell'inchiostro, 
			dei pennelli e della carta a produrre tale privilegio, ma 
			soprattutto la calma, la concentrazione, l'impegno continuo, quindi, 
			in definitiva, il tempo richiesto per scrivere. «Scrivere» si 
			identificò, molto più che in Occidente, con «scrivere-bene» con 
			«bella scrittura», per cui i requisiti per scrivere dovevano essere 
			assai simili, se non identici, a quelli per dipingere: non a caso in 
			cinese pittura e scrittura sono unite da uno stesso concetto 
			espresso dal termine xie; non a caso il radicale di 
			«pennello» - formato dalla stilizzazione di una mano che impugna un 
			pennello - è alla base del carattere che designa «libro» (shu);
			non a caso la più antica raccolta di libri che si conosceva 
			aveva nome «Foresta di pennelli». Non solo: a rimarcare la profonda 
			affinità tra calligrafia e pittura sta il fatto che assai spesso 
			nello spazio bianco di un dipinto sono tracciati i caratteri di un 
			testo. A questo proposito è stato acutamente osservato che testo e 
			dipinto sono entrambe pitture non solo per affinità formale, ma 
			perché identici sono: gli strumenti usati, lo spazio fisico e i 
			movimenti.    | 
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