|  |  |   L'"indifferenza alla 
felicità" nel pensiero della Cina antica. Dialogo con François Jullien (Amina 
Crisma) 
 
	
		| Come ben sa il pubblico italiano che da sempre 
		accoglie con grande interesse i suoi saggi, nei quali un’acuminata 
		intelligenza critica si esprime nell’eleganza di una nitida prosa, 
		François Jullien è indubbiamente uno dei più brillanti e affascinanti 
		protagonisti nello scenario della riflessione e del dibattito sul 
		pensiero cinese – uno scenario che si è notevolmente ampliato, 
		approfondito e variegato nel corso negli ultimi anni, e che ha 
		conosciuto e conosce vivaci sviluppi su versanti molteplici e in 
		prospettive diverse. Esercizio della filologia e rinnovamento della 
		pratica ermeneutica si sono fertilmente intrecciati, in modalità quanto 
		mai varie, in tali recenti e significativi svolgimenti della sinologia, 
		che hanno ridisegnato da cima a fondo le mappe delle tradizioni di 
		pensiero del Paese di Mezzo e delle loro interpretazioni. Vi hanno 
		contribuito voci, linguaggi e sensibilità differenti, che hanno dato 
		luogo a una grande ricchezza e pluralità di esplorazioni: da un lato, si 
		sono avute opere importanti che hanno proceduto a ridefinire e ad 
		articolare il quadro d’insieme delle nostre conoscenze – da 
		Disputers of the Tao di A. C. Graham a Histoire de la pensée 
		chinoise di Anne Cheng [1]; dall’altro, si 
		sono offerte fresche e stimolanti riletture dei classici (si vedano, in 
		tal senso, le recentissime edizioni dei Dialoghi di Confucio a 
		cura di Tiziana Lippiello e del Laozi a cura di Attilio 
		Andreini, e i saggi sui grandi maestri della tradizione confuciana di 
		Maurizio Scarpari [2]); e ancora, si sono 
		sperimentate nuove strategie interpretative, nelle quali l’interazione 
		di filosofia e sinologia si è espressa in un ampio ventaglio di 
		diversificate declinazioni, svariando dalle riformulazioni creative di 
		un’ispirazione pragmatista di cui offrono esempi insigni le opere di 
		David L. Hall e Roger T. Ames [3] alle radicali 
		rimesse in discussione del tradizionale paradigma “orientalistico” che 
		connotano gli audaci e imponenti lavori di Heiner Roetz 
		[4], da inedite prospettive di comparativismo [5] 
		a ponderate riflessioni sulle nuove frontiere dischiuse da sensazionali 
		scoperte archeologiche che ci inducono oggi a rivisitare 
		problematicamente molte di quelle che finora ritenevamo delle certezze 
		acquisite [6]. E sullo sfondo di tali multiformi 
		sviluppi, vi è l’acuta consapevolezza che per la cultura dell’Occidente 
		sarà impossibile costruire un orizzonte di “universalismo contestuale” – 
		ossia una prospettiva tale da mantenere un’istanza di universalità che 
		peraltro si sottragga alla tentazione dell’uniformità, e tale da 
		garantire il gusto della pluralità senza nondimeno cedere a un 
		“relativismo assoluto” [7] – se essa sarà incapace 
		di adempiere all’esigenza, indubbiamente ardua, e peraltro ineludibile 
		negli scenari di un mondo globalizzato, di «rendere giustizia» (è di 
		Paul Ricoeur questa bella e pregnante formulazione) alle grandi 
		esperienze di pensiero della Cina [8], lasciandosi 
		finalmente alle spalle gli stereotipi inerti e i giochi di specchi 
		imperniati sulla dicotomia Occidente/Oriente.
 In tale dinamico, vasto e variegato panorama, il 
		lavoro di François Jullien si connota originalmente per la peculiarità 
		della sua proposta, all’incrocio fra filosofia e sinologia, che si è 
		sviluppata in una serie di raffinate variazioni su temi diversi – dalle 
		concezioni del mondo che sono argomento di Procès ou création 
		(1989) e di Figures de l’immanence (1993) alla dimensione 
		estetica esplorata in Eloge de la fadeur (1991) e in Le Nu 
		impossibile (2005), dall’indagine sulle nozioni di strategia svolta 
		nel Traité de l’efficacité (1996) all’interpretazione della 
		saggezza proposta in Un sage est sans idée (1998), dalla 
		riflessione sull’etica di Fonder la morale (1995) a quella sul 
		tempo di Eléments d’une philosophie du vivre (2001)
		[9].
 Una molteplicità di letture è messa in gioco in un 
		discorso che esplicitamente rifiuta di circoscriversi in un ambito 
		specialistico e altrettanto esplicitamente rifugge dal dislocarsi su di 
		un piano divulgativo, per additare la prospettiva di un “uso filosofico 
		della Cina” i cui aspetti salienti, esplicitati in varie occasioni, sono 
		sinteticamente riformulati nelle pagine di Penser d’un dehors, 
		il denso volume nel quale Jullien, dialogando con Thierry Marchaisse, 
		traccia la propria autobiografia intellettuale e riassume gli 
		orientamenti fondamentali della propria ricerca.
 «La pensée chinoise nous découvre d’autres 
		cohérences; elle nous fait revenir, en amont, sur les partis pris de 
		notre Raison. Elle est donc plus à même, aujourd’hui, d’intriguer la 
		pensée et d’ébranler la philosophie» [10].
 È così un vasto orizzonte progettuale che Jullien 
		dischiude, nel quale il richiamo alla lezione di Marcel Granet – il 
		geniale autore di quel grande libro, divenuto ormai un classico, che è
		La pensée chinoise (1934) [11] – si salda 
		con il metodico ricorso allo strumento dell’“eterotopia” desunto da 
		Michel Foucault: si tratta di una prospettiva in cui «far incontrare ciò 
		che non si è mai incontrato»; in tal modo, il confronto con l’Altrove 
		che il pensiero cinese rappresenta rispetto alla ragione europea offre a 
		quest’ultima l’occasione di riflettere su di sé, di scoprire i 
		presupposti impliciti e i partiti presi del logos, di aprirsi 
		ad altre forme di intelligibilità possibili [12].
 Così, ad esempio, in Le détour et l’accès 
		(1995) [13] Jullien si incarica di mostrare quale 
		intima coerenza sottenda la predilezione dei letterati cinesi per 
		l’espressione allusiva e per l’approccio obliquo, che può apparire tanto 
		sorprendente rispetto alle modalità dirette ed esplicite di discorso che 
		ci sono familiari. Ed è, ancora, l’intima coerenza di un linguaggio che 
		agli occhi dell’Occidente risulta sconcertante e paradossale ciò che 
		Jullien si propone di mostrare in quello che è forse il più intenso e 
		suggestivo fra i suoi lavori, La Grande Image n’a pas de forme 
		(2003), dedicato alla pittura cinese di paesaggio e alla concezione del 
		mondo che vi si esprime [14]. Come nella lirica, 
		così nella pittura cinese, anziché assistere ad una definizione netta di 
		oggetti, dai contorni chiari e precisi, siamo messi di fronte ad una 
		sorta di «dissoluzione della presenza nell’assenza»: presenza e assenza, 
		termini per noi opposti, si rivelano correlati e coimplicati in modalità 
		di rappresentazione che privilegiano atmosfere indecise e imprecise, 
		vaghe e indeterminate. Per Jullien, è l’ideale assoluto della presenza 
		(la pienezza dell’Essere, Dio) ad informare le concezioni estetiche 
		proprie della tradizione occidentale non meno della filosofia nata in 
		Grecia, e a tale ideale si connette, e in essa ha radice, il pathos 
		dell’assenza. Né l’uno né l’altro, egli rileva, compaiono nelle 
		concezioni e nelle rappresentazioni del Paese di Mezzo, che «sono al di 
		là, o meglio al di qua, dell’estasi e del dramma». In esse, le cose 
		sembrano simultaneamente emergere ed immergersi, apparire e scomparire a 
		un tempo, e perfino quelle che noi diremmo le più solide, ferme, 
		massicce entità – le montagne – vi divengono fluttuanti visioni, il cui 
		profilo sfuma fra nebbie e nubi.
 È dunque un intreccio di presenza e assenza, 
		visibile e invisibile, manifesto e latente a costituire lo spazio della 
		pittura, in sintonia con il paradossale linguaggio del Laozi o
		Daodejing (“Classico della Via e della Virtù” o, come sarebbe 
		più appropriato tradurre, “Classico della Via e della sua Potenza”), dal 
		quale è tratto l’enunciato che dà il titolo al libro. Secondo il celebre 
		classico taoista, la Via (Dao) non è definibile se non in 
		modalità apofatiche; essa sfugge ad ogni denominazione, si sottrae ad 
		ogni determinazione, pur sottendendole tutte: è l’infinita processualità 
		che si dispiega nella dialettica di “non esserci” (wu) ed 
		“esserci” (you), di latente e manifesto. Il suo grembo 
		inesauribilmente fecondo è il vuoto – invisibile fondo di immanenza da 
		cui incessantemente promana la molteplicità visibile. La sua potenza 
		(“virtù”, de) sta nel “non agire” (wu wei), è sovrana 
		efficacia della spontaneità del divenire.
 È tale fondo/sfondo invisibile il “non-oggetto” 
		che la pittura cinese dipinge tramite il visibile, ed è per questo che i 
		suoi paesaggi (anche ove si tratti soltanto di qualche roccia e di 
		qualche stelo) non sono meramente una “veduta” parziale e limitata, ma 
		una rappresentazione che evoca la totalità intera, nel suo intimo 
		dinamismo e nel suo eterno fluire. Ed è tale presenza dell’invisibile 
		nel visibile, del vuoto nel pieno, a costituirne la peculiare 
		spiritualità – una spiritualità antitetica rispetto alla 
		«genealogia metafisica e religiosa dell’Occidente», e dirompente 
		rispetto allo «spiritualismo fossilizzato che, nell’alveo dell’ideologia 
		europea, ha irrigidito e reso sterile il concetto di spirituale, 
		sostanziandolo in modo dogmatico» [15].
 Si rende percepibile qui una vena polemica che 
		sottende e pervade l’intero cantiere del lavoro di Jullien, conferendovi 
		quella caratteristica verve, quel particolare sapore asprigno 
		(tutt’altro che fade) che stuzzica il palato dei suoi lettori. 
		Si può cogliervi un intento critico nei confronti dell’ontoteologia; ma, 
		più in generale, dichiarata finalità della sua opera è – per il tramite 
		del confronto con il pensiero cinese – «scuotere l’atavismo che governa 
		il pensiero dell’Occidente», rimettendo sistematicamente in causa luoghi 
		comuni, frontiere disciplinari, concetti invalsi, istituzioni e 
		legittimazioni, in una prospettiva che appare non dissimile dalle 
		strategie di “decostruzione dell’appartenenza” elaborate da Jacques 
		Derrida, e nella quale si può in certo qual senso cogliere la 
		rielaborazione creativa di un rivisitato illuminismo. «Poter scrivere 
		sul pensiero cinese come nel XVIII secolo» [16], 
		ossia coniugare il rigore dell’erudizione all’interesse e al piacere 
		della riflessione, costituisce d’altronde una dichiarata aspirazione di 
		Jullien, che si esprime nella peculiare cifra stilistica di una prosa 
		mirabilmente limpida, ironica e brillante.
 E peraltro, quest’opera così stimolante non manca 
		di suscitare, oltre che l’appassionato consenso di un pubblico vasto, 
		anche vivaci discussioni. Un attacco clamoroso, e assai aspro (e forse 
		con qualche eccesso di personalizzazione e di semplificazione) gli muove 
		Jean-François Billeter, in un pamphlet dall’inequivoco titolo Contre 
		François Jullien (Allia, Paris 2006) nel quale gli rivolge, in 
		sostanza, l’accusa di accreditare «le mythe de l’alterité de la Chine».
 Con la finezza e il garbo che lo 
		contraddistinguevano, aveva da parte sua espresso qualche perplessità su 
		taluni aspetti della proposta di Jullien, e qualche riserva su talune 
		implicazioni della possibilità di «penser chinois en français» Paul 
		Ricoeur [17]; e il rischio di ricondurre, in 
		fondo, il confronto con il pensiero cinese sui binari di una opposizione 
		dicotomica un po’ scontata fra Oriente e Occidente non sembra del tutto 
		estraneo alla prospettiva delineata dal filosofo e sinologo francese. Ad 
		esempio, ne Le sage est sans idée, il «vis-a-vis de la Chine et 
		de l’Occident» viene declinato sul versante di un’antitesi paradigmatica 
		tra Saggezza e Filosofia che finisce per costruire, per così dire, un
		éloge de la fadeur de la sagesse dal risultato alquanto 
		ambivalente, e un’immagine a ben vedere forse un po’ troppo stereotipata 
		del Saggio per antonomasia, ossia Confucio.
 La contrapposizione tra “conformismo della 
		saggezza” cinese e potenza emancipatrice della filosofia nata in Grecia, 
		tematizzata nelle pagine conclusive del libro, è un esito piuttosto 
		curioso per una decostruzione, poiché si tratta, in fondo, di ciò di cui 
		l’Occidente è stato da sempre convinto, almeno a far tempo dalle 
		hegeliane Lezioni sulla filosofia della storia
		[18]. E peraltro, la «difficoltà di uscire da 
		Hegel» che qui esplicitamente viene dichiarata costituisce un problema 
		quanto mai rilevante, e davvero non eludibile per una prospettiva 
		filosofica che si proponga seriamente la questione del confronto 
		interculturale, e la sua tematizzazione rappresenta dunque una quanto 
		mai opportuna sollecitazione problematica.
 Per quanto si possano muovere delle obiezioni ad 
		alcune delle sue tesi, sono comunque sempre delle assai intelligenti 
		provocazioni quelle che Jullien ci consegna, delle fertilissime 
		sollecitazioni a ripensare e a ripensarsi, che sono molto feconde anche 
		quando vi siano motivi per dissentirne, e forse anzi particolarmente in 
		tal caso.
 È nella consapevolezza di incontrare un 
		interlocutore siffatto che chiedo a François Jullien, a Portogruaro per 
		partecipare al convegno sull’antropogenesi promosso dal Dipartimento di 
		Filosofia dell’Università di Padova [19], di 
		accordarmi un colloquio sul tema della felicità di cui egli tratta nel 
		suo Nourrir sa vie à l’écart du bonheur (2005), volume del 
		quale è tempestivamente apparsa l’edizione italiana 
		[20]. Con l’amabilità che sempre lo contraddistingue, egli me lo 
		concede di buon grado, nonostante l’esiguità del tempo che lo separa dal 
		suo ritorno a Parigi. Ma prima di addentrarci nella tematica specifica 
		che forma l’oggetto della nostra conversazione, non posso impedirmi di 
		chiedergli la sua opinione sul già citato Contre François Jullien 
		di Billeter, che ha suscitato tanto clamore. Jullien si mostra sorpreso 
		per quella che gli sembra essere la virulenza e l’acrimonia di tale 
		attacco, ma esprime una sorta di ironica nonchalance per i 
		contenuti teoretici del libro, che egli definisce «filosoficamente 
		inconsistente» e nel quale semmai ravvisa il sintomo di un certo 
		trend, «oggi purtroppo presente nel clima intellettuale francese», 
		di una certa propensione a liquidare sbrigativamente le sollecitazioni 
		critiche di cui si è fatta interprete la generazione di Deleuze, di 
		Foucault, di Derrida, e nelle quali egli stesso si riconosce, 
		riconducendovi l’orizzonte progettuale e di senso del proprio lavoro 
		intellettuale. «Non avevo proprio alcuna intenzione di rispondere» – mi 
		dice – «ma alcuni amici mi sollecitano a farlo, e dunque credo che lo 
		farò». E rispetto all’accusa che gli viene mossa, di accreditare con la 
		sua opera il mito dell’alterità della Cina, egli si limita a una breve, 
		sintetica battuta: «L’Altrove, lo si riconosce; l’Alterità, la si 
		costruisce…».
 Il discorso si riconduce così al grande 
		Leitmotiv del lavoro di Jullien, il confronto con il Grande Altrove 
		che è la Cina, di cui egli continua ad esplorare le molteplici 
		implicazioni su versanti diversi, e che ha rappresentato lo sfondo anche 
		del suo intervento al convegno di Portogruaro. In questa giornata 
		dedicata ai “Grandi racconti delle religioni e delle culture sulle 
		origini”, si sono rievocate le diverse narrazioni dei monoteismi – 
		ebraismo, cristianesimo, islam – e i complessi miti indiani e africani; 
		il discorso di Jullien ha posto in rilievo come la tradizione cinese si 
		connoti peculiarmente proprio per la sua manifesta – e per noi 
		sconcertante – indifferenza al tema dell’origine, come egli 
		sottolinea sinteticamente anche nel nostro dialogo.
 «La Cina non si inquieta del problema 
		dell’inizio, dell’origine, dell’arché, e tale sua indifferenza 
		a questioni per noi centrali, da cui hanno preso le mosse non soltanto 
		le domande della nostra filosofia, ma anche le narrazioni e i miti 
		intorno all’origine, ci sconcerta profondamente. Il pensiero della vita 
		a partire dall’energia nella tradizione cinese configura invece il 
		continuum di una processualità che non ha inizio né fine, come ho 
		avuto modo di mostrare, ad esempio, fin da Processo o creazione.
 In questo atteggiamento convergono e 
		convengono testi diversi della tradizione della Cina antica. Prendiamo, 
		ad esempio i Dialoghi di Confucio: come è ben noto, vi è 
		nettamente dichiarata l’indifferenza a un’indagine sulla physis, 
		e il silenzio sulle origini, come ben sapete, caratterizza in modo assai 
		significativo anche i due grandi classici del taoismo che sono il 
		Zhuangzi e il Laozi: il problema dell’arché non vi 
		si pone. Ciò su cui si insiste, in entrambi, è la costanza di un 
		processo.
 Non è che il pensiero cinese non abbia mai 
		evocato o immaginato, ad esempio, l’ipotesi di un inizio. Come sapete, 
		in qualche misura lo evoca, ad esempio, quel noto passo del 
		Zhuangzi in cui si accenna alla questione dell’esistenza di un 
		possibile zhaowuzhe, ossia di un creatore. È un interrogativo 
		che si evoca, e che viene lasciato in sospeso [21].
 Dunque non è che il pensiero cinese fosse 
		incapace di porsi questioni siffatte; ne era in grado, e cionondimeno, 
		la cosa che ci interessa, dal punto di vista ermeneutico, è che ha 
		ritenuto tali questioni non interessanti. Per così dire, vi è 
		passato accanto, così come è passato accanto ad altri 
		grandi temi per noi centrali. È questa sua indifferenza quello 
		che della Cina mi interessa, e mi intriga; è in questa sua indifferenza 
		che possiamo percepire lo sconcertante Altrove che essa costituisce per 
		noi: un orizzonte di linguaggio e di pensiero che ci spiazza e ci 
		sconcerta, perché in esso non compaiono le grandi questioni che a noi 
		appare ovvio porre. Così questo ci induce a ripensare, a riflettere 
		criticamente e autocriticamente sulle idee e sui concetti che nel nostro 
		orizzonte, per dir così, vanno da sé…»
 Indubbiamente, su questo aspetto delle “cosmogonie 
		assenti” nelle tradizioni cinesi antiche, in base ai texti recepti, 
		mi sembra che non si possa che esser d’accordo con lei, e così pure per 
		quanto concerne la sollecitazione problematica che tale significativa 
		assenza consegna alla nostra riflessione: questo “silenzio sulle 
		origini” è certamente per noi pregno di interrogativi da esplorare. 
		Tuttavia, c’è non tanto un’obiezione, quanto un dato ulteriore che 
		vorrei porre alla sua attenzione, in proposito, così come l’ho posto 
		all’attenzione del pubblico dibattito nel corso del convegno. Come 
		certamente sa, attualmente nel panorama delle conoscenze del pensiero 
		antico ha fatto irruzione una gran quantità di materiali testuali finora 
		ignoti, di età pre-imperiale (mi riferisco, ad esempio, ai cosiddetti 
		“manoscritti di Guodian”). Si tratta sia di versioni finora ignote di 
		testi già noti (tra cui una versione parziale del Laozi che è 
		oggi la più antica in nostro possesso), sia di una grande abbondanza di 
		testi finora del tutto sconosciuti, e di cui si era finora persa ogni 
		traccia. Su queste scoperte sensazionali il lavoro esegetico è assai 
		difficile, ed è tuttora un work in progress; tuttavia credo non 
		sia improbabile prevedere che queste nuove scoperte avranno una portata 
		davvero dirompente, forse analoga a quella che ha avuto per gli studi 
		delle origini del cristianesimo la scoperta dei manoscritti di Qumran. 
		Mi sembra particolarmente importante, fra l’altro, segnalare che fra 
		questi inediti di straordinario interesse vi sono proprio dei testi 
		cosmogonici di cui finora nulla si sapeva, come lo stupendo trattato 
		intitolato tai yi sheng shui, ossia “il Grande Uno genera 
		l’acqua” [22]. Insomma, l’interesse cosmogonico, 
		in base a questi reperti, risulterebbe assai più presente nella Cina 
		antica di quanto finora non si potesse immaginare. Non pensa dunque che 
		queste scoperte potrebbero indurci, in un futuro non lontano, a 
		ridefinire completamente e radicalmente i nostri discorsi attuali 
		intorno alle caratteristiche generali del pensiero cinese dell’età 
		classica?
 «Non è che non mi interessino le nuove 
		scoperte di materiali testuali come quelli di Guodian. E peraltro, la 
		mia risposta alla sua obiezione è la seguente: le nuove scoperte non ci 
		esonerano certo dal misurarci con le tradizioni cinesi così come esse si 
		sono effettivamente costituite. I nuovi reperti ci possono, certo, 
		mostrare che altre vie del pensiero si potevano percorrere; e 
		cionondimeno, rimane in tutta la sua densità con cui ci dobbiamo 
		confrontare, la questione che sono state certe determinate vie, e non 
		altre, quelle che il pensiero ha preferito percorrere, e che ha 
		effettivamente percorso la Cina classica».
 Veniamo dunque alla questione della felicità. La 
		felicità non è forse un tema universalmente umano, e universalmente 
		condiviso, ovvio e naturale? Non è forse l’aspirazione di tutti gli 
		umani sotto il Cielo, in tutte le epoche e a tutte le latitudini?
 «In effetti, sono in molti a ritenere che la 
		felicità sia il minimo comun denominatore dell’umanità intera, 
		l’aspirazione alla cui realizzazione tutti gli umani, in tutte le 
		culture, senza eccezione, tenderebbero. Ma penso che la questione stia 
		in termini diversi, proprio in riferimento allo sfondo dell’Altrove che 
		si è fin qui evocato, e cerco di argomentarlo in Nutrire la vita, 
		senza aspirare alla felicità, in particolare nel IX capitolo
		[23]. Tento qui di riassumere la mia tesi in 
		proposito.
 In genere, si è disposti ad ammettere che la 
		questione della verità sia una figura peculiare nella vicenda dello 
		spirito; e analogamente, si è disposti ad ammettere che ciò che 
		chiamiamo ragione sia connesso con una vicenda di pensiero peculiarmente 
		europea. Ma quando si tratta della felicità, subito ci si obietta: ma 
		come? La felicità non è forse ciò che tutti, ma proprio tutti, senza 
		eccezione, vogliono? Certamente, ci sarà dissenso su ciò che costituisce 
		la felicità – sul suo contenuto….»
 Sì, l’idea di felicità di Aristotele, poniamo, non 
		coincide con quella di Emma Bovary…
 «Certamente, e dunque si ammette facilmente 
		che gli uomini non sono d’accordo, non si intendono sul contenuto della 
		felicità, e peraltro, questo nella convinzione comune non intacca il suo 
		statuto di idea regolativa: la felicità è per definizione il fine, lo 
		scopo a cui tutti – senza eccezione – tenderebbero.
 Ebbene, a me sembra che l’idea stessa di 
		felicità sia indissociabile da quella di “finalità”: ossia di un agire 
		orientato verso uno scopo. È quanto ci dice chiaramente l’Etica 
		Nicomachea, e in tale direzione – per quanto diversi siano i 
		contenuti, come ho detto, che si danno alla felicità – in tale direzione 
		– finalistica e teleologica – muove tutta la cultura europea, fino ai 
		romanzi con il loro pathos, fino a Freud e oltre. È la 
		dialettica del “tendere a”, del desiderio e dello scopo da raggiungere. 
		E c’è tutto il dramma della tensione – di una tensione tendenzialmente 
		infinita, e dello scacco che vi inerisce, e tutte le peripezie del 
		tormento e dell’estasi.
 A me pare che la Cina antica abbia disegnato 
		un diverso scenario. Certamente, la Cina ha conosciuto, a partire 
		dall’età arcaica, l’idea di una felicità o di una prosperità, di una 
		buona sorte, di un favore ascrivibile alle divinità, al cielo o agli 
		antenati, ma essa è di natura eminentemente materiale, e così negli 
		auguri per l’anno nuovo si formulano auspici di ricchezza e di prole, 
		“molto denaro, molti bambini”; in questo senso è una nozione prossima a 
		quella che inizialmente era l’eudaimonia per i greci, nel senso 
		di “buona sorte” concessa dagli dei. Ma sul versante greco il pensiero 
		della felicità evolve in una nozione che non ha più a che fare con la 
		prosperità conferita da potenze esterne per approfondirsi nell’anima,
		psyche, che diventa l’autentico supporto della sua esigenza. 
		Così si dice che “l’anima è la dimora della felicità”, e non si potrà 
		concepire per l’uomo che l’universalità di questo fine che è la 
		felicità, e da allora in poi neppure si potrà concepire che l’uomo non 
		possa non “tendere a”.
 Ma quest’idea non è universale, bensì è legata 
		a una sintassi particolare, come ci mostra la Cina antica, dove non vi è
		psyché e non vi è télos: senza “anima” e senza 
		“scopo”, l’idea della felicità non può elevarsi a termine ideale.
 La saggezza della Cina antica non è fatta 
		tanto di “felicità”, quanto piuttosto di una disponibilità che favorisce 
		la “viabilité”: proprio come quando dite correntemente “ça va”.
 Il tao (la via) non è concepito come 
		una via “che porta a” qualcosa (alla verità, alla felicità ecc.); gli 
		uomini vi sono immersi: come pesci nell’acqua.
 E così dunque, in assenza di tensione 
		teleologica, in assenza di tensione verso uno scopo, l’idea di felicità 
		non viene enfatizzata in alcun modo. La vita, sgombra di questa 
		tensione, di questa fissazione, di questa ossessione, procede a 
		regolarsi e a determinarsi da sé. La saggezza è assecondare i suoi 
		processi: “nutrire la vita” (yang sheng), senza irrigidirsi 
		nell’ossessiva direzione di uno scopo, e la serenità è questa fluida 
		adesione al vivere, limpida, sgombra da ogni elemento che intorbidi o 
		faccia ostruzione. Il vitale e il morale non vengono, 
		in tale concezione, contrapposti, poiché non vi è una costruzione di 
		fini rivolti verso un Fine ultimo. Il Saggio non corrisponde a una 
		logica della finalità, ma a una logica della conseguenza.
 Nel Zhuangzi se ne ha la chiarissima 
		illustrazione, laddove si dice: “Senza doversi macerare lo spirito, la 
		sua vita è elevata; senza dover trattare di morale, si perfeziona; senza 
		dover compiere grandi gesta, fa regnare l’ordine nel mondo; senza dover 
		vivere in riva ai fiumi o al mare, gode dell’ozio” 
		[24]. Il Saggio raccoglie tutte le possibilità, proprio perché non 
		tende verso alcuna; paradossalmente, egli ottiene tutto ciò a cui 
		non mira. Proprio perché egli è capace di distacco egli 
		consegue: poiché egli non ha di mira l’effetto, e non ricerca alcunché, 
		l’effetto scaturisce, l’effetto viene lasciato procedere».
 Vorrei poter ascoltare ancora a lungo François 
		Jullien, ma lo attende il suo aereo per Parigi; non c’è più tempo. À 
		la prochaine...
 Resta solo qualche attimo per congedarci, e per 
		accogliere la sua – bonariamente ironica – esortazione finale: “Soyez 
		sage!”
 E-mail:
 Amina Crisma
 
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		| 
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		|  |  
		| [1] A.C. GRAHAM, La ricerca del Tao. Il 
		dibattito filosofico nella Cina classica, Neri Pozza, Vicenza 1999 
		(ed. or. 1989); A. CHENG, Storia del pensiero cinese, Einaudi, 
		Torino 2000 (ed. or. 1997).
 [2] T. LIPPIELLO (a cura di), Confucio. 
		Dialoghi, Einaudi, Torino 2003; A. ANDREINI, Laozi. Genesi del 
		Daodejing, Einaudi, Torino 2004; M. SCARPARI, La concezione 
		della natura umana in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991; 
		ID., Xunzi e il problema del male, Cafoscarina, Venezia 1997; 
		ID., Studi sul Mengzi, Cafoscarina, Venezia 2002.
 [3]D.L. HALL – R.T. AMES, Thinking Through 
		Confucius, State University of New York Press, Albany 1987; ID.,
		The Democracy of the Dead. Dewey, Confucius, and the Hope for 
		Democracy in China, Open Court, Chicago and Lasalle (Illinois) 
		1999.
 [4] H. ROETZ, Mensch und Natur im Alten China, 
		Peter Lang, Frankfurt am Main 1984; ID., Confucian Ethics of the 
		Axial Age, State University of New York Press, Albany 1993. Per un 
		sintetico quadro della critica al paradigma “orientalistico” 
		tradizionalmente riferito alla Cina, cfr. A. CRISMA, Conflitto e 
		armonia nel pensiero cinese dell’età classica, Unipress, Padova 
		2004, pp. 3-24.
 [5] G.E.R. LLOYD, Ancient Worlds, Modern 
		Reflections. Philosophical Perspectives on Greek and Chinese Science and 
		Culture, Oxford University Press, 2004.
 [6] M. SCARPARI, ‘The Master said’...or Didn’t 
		He?, in A. RIGOPOULOS (a cura di), Guru. The Spiritual Master 
		in Eastern and Western Traditions: Authority and Charisma, 
		Cafoscarina, Venezia 2004, pp. 437-470; ID., Aspetti formali e 
		tecniche di recupero dei codici manoscritti cinesi antichi, in 
		“Litterae caelestes”, 1, 2005, pp. 105-130; ID., Tra manoscritti e 
		tradizione: la produzione del testo scritto nella Cina antica, in 
		G. BOCCALI e M. SCARPARI (a cura di), Scritture e codici nelle 
		culture dell’Asia: Giappone, Cina, Tibet, India. Prospettive di Studio, 
		Cafoscarina, Venezia 2006, pp. 183-202; A. ANDREINI, Nuove 
		prospettive di studio del pensiero cinese antico alla luce dei codici 
		manoscritti, in “Litterae caelestes”, 1, 2005, pp. 131-157; ID.,
		Il destino di un codice: guasti, diffrazioni e traversie nella 
		tradizione del Min zhi fumu, in G. BOCCALI - M. SCARPARI (a cura 
		di), Scritture e codici nelle culture dell’Asia, cit., pp. 
		203-232.
 [7] In tema di “universalismo contestuale”, cfr. 
		U. BECK, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della 
		società planetaria, Carocci, Roma 2001, pp. 100-110.
 [8] Cfr. P. RICOEUR, Finitudine e colpa, 
		Il Mulino, Bologna 1970, pp. 26-28.
 [9] F. JULLIEN, Processo o creazione, 
		Pratiche, Parma 1991; ID., Figure dell’immanenza, Laterza, Bari 
		2004; ID., Elogio dell’insapore, Raffaello Cortina, Milano 
		1999; ID., Il nudo impossibile, Sossella, Roma 2004; ID., 
		Trattato dell’efficacia, Einaudi, Torino 1998; ID., Il saggio è 
		senza idee, Einaudi, Torino 2002; ID., Fonder la morale, 
		Grasset, Paris 1995; ID., Il tempo. Elementi di una filosofia del 
		vivere, Sossella, Roma 2002.
 [10] F. JULLIEN – T. MARCHAISSE, Penser d’un 
		dehors (la Chine). Entretiens d’Extrême-Occident, Seuil, Paris 
		2000, p. 6.
 [11] M. GRANET, Il pensiero cinese, 
		Adelphi, Milano 1971.
 [12] F. JULLIEN – T. MARCHAISSE, Penser d’un 
		dehors, cit., pp. 9-25, 183-195, 365.
 [13] F. JULLIEN, Strategie del senso in Cina 
		e in Grecia, Meltemi, Roma 2004.
 [14] ID., La grande immagine non ha forma, 
		Angelo Colla, Vicenza 2004.
 [15] Ivi, p. 113.
 [16] ID., Processo o creazione, cit., 
		p. 9.
 [17] P. RICOEUR, Note sur Du temps. Éléments 
		d’une philosophie du vivre, in T. MARCHAISSE (a cura di), 
		Dépayser la pensée. Dialogues hètèrotopiques avec François Jullien sur 
		son usage philosophique de la Chine, Les Empêcheurs de penser en 
		ronde/Le Seuil, Paris 2003, pp. 211-223.
 [18] Cfr. A. CRISMA, Recensione a F. Jullien, 
		Il saggio è senza idee, in “Asiatica Venetiana”, 6/7, 2001/2002, 
		pp. 293-297.
 [19] Antropogenesi. Ricerche sull’origine e 
		lo sviluppo del fenomeno umano, primo seminario, “Dall’energia alla 
		vita”, Polo interuniversitario di Portogruaro, 19-21 ottobre 2006.
 [20] F. JULLIEN, Nutrire la vita. Senza 
		aspirare alla felicità, Raffaello Cortina, Milano 2006.
 [21] Riporto qui, nella traduzione di A. CHENG,
		Storia del pensiero cinese, vol. I, p. 130, il passo del 
		Zhuangzi, 14, a cui si fa riferimento in questo luogo: «Il Cielo 
		gira? La Terra è ferma? Il sole e la luna si disputano il loro posto? 
		Chi preside a tutto ciò? Chi lo coordina? Chi, senza far nulla, vi 
		conferisce impulso e moto?»
 [22] Cfr. A. ANDREINI, Nuove prospettive di 
		studio del pensiero cinese antico alla luce dei codici manoscritti, 
		in “Litterae caelestes”, 1, 2005, pp. 131-157; M. SCARPARI, Tra 
		manoscritti e tradizione: la produzione del testo nella Cina antica, 
		cit., pp. 183-202.
 [23] Cfr. F. JULLIEN, Nutrire la vita, 
		cit., pp. 113-134.
 [24] Ivi, p. 127.
 
 |    Da:
http://www.cosmopolisonline.it/20061108/crisma.html   
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